I territori della scultura di Novello Finotti

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I territori della scultura di Novello Finotti
I TERRITORI DELLA SCULTURA DI NOVELLO FINOTTI
“Arturo tu sei nato nel Veneto: che fregatura!”
Marino Marini
Anche Novello è nato nel Veneto, ma è tutt’altro che una “fregatura”, per riprendere la simpatica
interiezione di Marino Marini nei confronti di Arturo Martini, contenuta in uno dei suoi Pensieri
sull’arte1. Era chiaro che per Marino la patria della scultura del “silenzio” (e i nomi citati stanno ad
attestarlo) non poteva che essere la sua Toscana, di cui era innamorato a tal punto da giungere ad
abbeverarsi alla fonte dell’arte etrusca.
L’unica obiezione che andrebbe fatta al suo giudizio su Martini è l’aver sottaciuto che lo scultore
trevigiano dal 1937 ha lavorato a lungo proprio in Toscana2. Come del resto fa da anni anche
Novello Finotti3, il quale ha messo altri veli sulla natica ed ha colto altri aspetti della vita,
giungendo, da veneto, ad esprimere altri e nuovi silenzi, e creando “nella scultura italiana una certa
forma di poesia e un certo intellettualismo che prima non esisteva”.
Naturalmente la poesia e l’intellettualismo di Finotti sono diversi da quelli di Martini. La sua
poesia è diversamente evocativa come lo è anche il suo pensiero plastico. Ma la rottura con il
passato e la tradizione della sua produzione è altrettanto innovativa. In essa nel 1986 Licisco
Magagnato ha giustamente colto “il coraggio, anzi il piacere della provocazione; il gusto di mettersi
contro corrente, di andare per conto suo in cerca di strade nuove, o apparentemente fuori moda”.
Ecco, è proprio quell’“apparentemente fuori moda” che va considerato più approfonditamente.
Infatti il fare visionario e metamorfico che ha imposto Finotti quale uno dei più alti scultori della
sua generazione (e non solo italiana) appartiene a certi filoni della scultura contemporanea, ma non
ne segue le mode. Anzi, tutt’altro. Egli le avversa, le contraddice e, in perfetta sintonia col proprio
nome di battesimo, le rinnovella. Soprattutto quelle di declinazione neosurrealista, in cui
l’epigonismo ormai impera, con continue trovatine incongruenti, escogitate per épater il senso
comune di sconfortante banalità.
Novello non procede su queste strade. Tutte le sue opere sono autentici frutti di amalgami visivoconcettuali, o meglio sono condensati di realtà e sogno di una estrema libertà ideativa ed esecutiva,
che in occasione di una sua personale milanese, organizzatagli nel 1972 dal grande gallerista del
Surrealismo Alexandre Jolas hanno fatto parlare Matta di “mains libres” e di “mains qui rêvent”4.
E’ vero, le mani di Finotti sono libere e sognano, ma dietro ad esse a guidarle c’è una mente
altrettanto libera, cioè una testa che fa viaggiare in assoluta libertà l’immaginazione nei territori
della realtà e del sogno, dando luogo a inventivi condensati e connubi mai visti. Da qui scaturisce il
metamorfismo del nostro scultore, senza dubbio il più fantastico e fantasioso, in quanto sempre
pieno di sorprese, e nel contempo capace di registrare condensati di realtà visiva, realtà che egli sa
trasfigurare in impasti di emozioni e memorie autobiografiche che non di rado assumono valore
1
Essa era contenuta in un pensiero sulla situazione della scultura italiana, nel quale lo scultore pistoiese confessava che
due erano i “personaggi” che lo interessavano, cioè Medardo Rosso “e Arturo Martini che fu il primo che creò nella
scultura italiana una certa forma di poesia e un certo intellettualismo che prima non esisteva. Si faceva la natica per la
natica. Martini mise il velo sulla natica e cominciò a dire ‘c’è un senso di vita che passa, ci sono le stelle, ci sono i
cieli’. L’unica cosa che naturalmente, nelle discussioni fra me e Martini, dicevo sempre: ‘Arturo tu sei nato nel Veneto:
che fregatura!’. Era evidente un mondo letterario che veniva dalla tradizione della scultura italiana attraverso i giardini
veneti, ma che faceva contrasto con Giovanni Pisano, Tino da Camaino, Donatello e Michelangelo. Questo è il silenzio.
E là c’è la parola. Ma la vera scultura è il silenzio” (cfr. M. Marini, Pensieri sull’arte, a cura di Marina Marini, Edizione
Vanni Scheiwiller, Milano 1998). Il pensiero in questione è ora riportato in G. Guastalla, Marino Marini. Il segno la
forma l’idea, Guastalla Centro Arte, Edizioni Graphis Arte, Livorno 2008, p. 12.
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Presso lo studio Niccoli di Carrara.
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Per la precisione a Pietrasanta, centro di scultura internazionale non molto distante da Carrara.
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Sul catalogo di quella personale è riprodotta la breve nota manoscritta di Sebastian Matta, che riproduco
pediessequamente: “ pour Finotti, Dans notre monde de mais a vendre Voici des mains libres, des mains oiseaux, des
mains seins, des mains qui révent, de nos pauvres mains Aussi des oreilles libres, des nez en liberté, des corps a
corps. Matta”.
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archetipico e che perciò slittano dalla sfera personale a quella collettiva, com’è nella strabiliante
Donna tartaruga, dal cui carapace/dorso reclinato fuoriescono quattro femminei piedi, quasi a voler
significare, con un nuovo scatto (e stavo per scrivere scarto) simbolico, che l’eterno femminino vive
protetto all’interno di una corazza di un animale giunto fino a noi dalla preistoria.
Marino ha affermato che “la vera scultura è il silenzio”. Ebbene la Donna tartaruga, marmo bianco
di Carrara del 1983-84, e Donna tartaruga con scarabeo, sua sorella nera nata nel biennio
successivo, sono così icasticamente silenti da poter essere assunte come prototipi di “vera scultura”.
E non sono le sole opere silenti dell’ormai sterminata produzione finottiana, dove altri silenzi
vengono materializzati sia in bronzo, come il lungo plurimammellato corpo coricato su una
rudimentale barella dal titolo sintomatico Dopo il silenzio (1971), sia in bianco e nero, ovvero nel
bianco di Carrara e nero del Belgio, marmi prediletti da Novello, e tali sono, per citare ulteriori
“silenzi” bianchi, lo svettante Valentino (1977), la concava Annunciazione (1983-84), quella sorta
di pendant che è Clessidra (1989) e l’interminabile Colonna di Eva (1971-94), mentre diversi sono
pure i “silenzi” neri, tra cui spicca lo strabiliante marmo nero del Belgio Grande Cobra (1991),
figura di circa 2 metri col volto velato, vero e proprio contraltare del famoso Cristo velato,
realizzato nel 1753 da Giuseppe Sammartino per la Cappella San Severo di Napoli, e non solo per il
colore, ma anche per la posizione eretta dell’immagine finottiana, che la fa assimilare ad un risorto
avvolto nel sudario nel momento della riemersione dalle tenebre.
Il Grande Cobra è una delle ormai rare opere in marmo nero del Belgio di tali misure,5 come quella
straordinaria reinterpretazione della cassa rivenuta nella tomba di Tut-ench-Amun6 che è Anubi 1
(1988-89), scultura esposta per la prima volta nel 1989 proprio a Sommacampagna in cui sono
perfettamente combinate la staticità dell’animale alla dinamicità della curva formata dal dorso e
dalle gambe umane, dinamicità che si risolve appieno in quella trasposizione del mitico Cerbero
dell’Ade che è il tricefalo Anubi 2, realizzato dieci anni dopo7.
Finotti è maestro delle traslazioni morfologiche e nozionali, che certo hanno, come il sogno, la loro
sorgente nell’inconscio, con le cui pulsioni egli è in perfetta sintonia, sia con la sua mente che con
le sue “mains libres”, che sanno trasferire nelle forme plastiche ciò che quella ad esse suggerisce.
Come avviene nei sogni, egli sa cogliere le più riposte associazioni che non di rado si susseguono
senza continuità di soluzione, cosicché un dito può tramutarsi in becco d’uccello, il becco d’uccello
in ramo, il ramo in asparago. Finotti sogna ad occhi aperti dando forma a slittamenti morfologicoconcettuali in cui ogni cosa può assumere la funzione di un’altra. Pertanto qui un finocchio può
assumere la forma di un seno e contemporaneamente dotarsi di ali, là un seno può trasformarsi in
sorta di campanello ed un dito può suonarlo pigiando il capezzolo, altrove le gambe di una donna,
in quanto accavallate, possono divenire un collo equino con tanto di criniera, ma di pelliccia.
Per comprendere il linguaggio finottiano si deve tener ben presenti le leggi della similarità e della
contiguità, che stanno alla base della metafora e della metonimia, come ci ha insegnato Roman
Jakobson, il quale ha dimostrato che tali leggi sono i capisaldi della struttura del linguaggio umano,
e non solo di quello parlato. Tutto il discorso plastico di Finotti si sviluppa sulle direttrici della
similarità e della contiguità, anche quando le associazioni sembrano contraddittorie, per i continui
trapassi dalla metafora alla metonimia e viceversa per caricare di maggiori valenze simboliche le
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Infatti ormai non sono più reperibili grandi blocchi del prezioso marmo.
Si veda, al proposito, in C.W. Ceram, Civiltà sepolte, Einaudi, Torino 1968, l’illustrazione 19, relativa a tale cassa con
lo sciacallo in legno, immagine del dio egizio Anubi, accovacciato sul coperchio.
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Anubi 1 venne esposto nell’ambito della sezione Un indicativo panorama della nomenclatura internazionale della
rassegna Idiomi della scultura contemporanea 2, di cui fui io curatore, come la precedente omonima rassegna del 1984,
in un apposito spazio di Ca’ Zenobia. Le due rassegne erano filiazioni dell’iniziativa di Finotti, il quale nel 1978 aveva
ispirato e coordinato 70 scultori contemporanei, primissima mostra internazionale di scultura, tenuta nell’agostosettembre del 1978 nella sola Ca’ Zenobia. Infatti Idiomi della scultura contemporanea del 1984 coinvolse, oltre che
Ca’ Zenobia, anche Villa Fiocco, ambedue sedi pure dell’edizione del 1989, che tuttavia fu estesa a Verona (Loggia di
fra Giocondo e Palazzo Miniscalchi-Erizzo). Inutile dire che queste rassegne, purtroppo non proseguite, nonostante le
attese anche locali, avevano consacrato Sommacampagna centro internazionale di scultura.
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sue opere. Le metafore e le metonimie funzionano come “perle” della collana dei suoi ricordi,
intuizioni e associazioni, sia pulsionali che concettuali.
Proprio con le “perle” delle sue associazioni il nostro scultore di Sommacampagna ricompone la
rottura di quella collana dei ricordi di cui parla Giorgio de Chirico nel suo testo Sull’arte metafisica,
apparso nel 1919 su “Valori Plastici”8. Ma Finotti, che viene dopo la Metafisica e dopo il
Surrealismo, da essa preparato, e che non né metafisico né surrealista, attinge a tutt’altri modi di
approccio con la realtà, anzi a diverse modalità visive, intrise di visionarismo. Il filo della sua
collana dei ricordi non si spezza, bensì si trasforma in fil rouge che ricongiunge le sequenze
associative di ciò che Finotti vede con gli occhi fisici e con i retro-occhi, per così dire,
dell’immaginazione. Ed è per tale motivo che nei prodotti del suo metamorfismo si può sempre
sceverare ciò che è visto con gli occhi fisici e con gli occhi interiori. Infatti le sue evocazioni
plastiche sono sempre frutto di un sapiente quanto magistrale amalgama di quella sorta di bi-ottica,
di cui è dotato Finotti, il quale sa cogliere contemporaneamente il reale ed il sognato con un estroso,
quanto fluidamente mobilissimo metamorfismo di varianti e variazioni associative, non solo
consequenziali, come già accennato, ma anche contrarie, com’è in quei connubi in cui la carne si
coniuga con vegetali di qualche sottinteso fallico, e mi riferisco agli asparagi che coronano il torso
di Anatomico (1973-74) e che per assimilazione prendono il colore dell’incarnato, appunto affidato
al materiale che meglio simbolicamente lo rappresenta, cioè il marmo rosa del Portogallo.
Il marmo rosa del Portogallo è utilizzato anche in altri lavori. Per esempio in Omaggio a Sade, in
cui la parte bassa del gibboso corpo ermafrodito, sorretto da un’unica gamba piegata, è chiusa con
lacci, similmente al laccetto con bottoni incorporato nella schiena di Anatomico.
Ma le associazioni a contrasto sono realizzate anche in marmi bianchi di Carrara, come documenta
Prego non fatemi il solletico (1989-90), opera di una tematica familiare che s’incastra tra Un rituale
per la figlia del Kamikaze (1984) ed Una piccola dimora per i sogni di Federica (1990), il primo,
appartenente ad un motivo molto caro ad Arturo Martini, cioè quello della rappresentazione di una
protagonista sognante, il secondo, vera e propria esegetica costruzione dell’insolito giaciglio di
Prego non fatemi il solletico.
Il pendolo dell’immaginazione creativa di Novello oscilla dalla polarità familiare, come attestano le
opere testé citate, alla polarità autoreferenziale, nell’ambito della quale si autoritrae, in qualche caso
assommando le due polarità (I miei tre amori, 1971), e comunque mai solo (Io che mi sorrido con
altre presenze 1, 1973; Autoritratto con altre presenza, 1976), perché il suo io è pieno di presenze
fantasmatiche, che poi si concretizzano nelle sculture più allarmate ed allarmanti, tra cui sono i
marmi neri Marquina Dalla serie Barbari moderni 1 del 1975 e Mantide nera del 1977, il marmo
bianco di Carrara della zooantropomorfa Maschera del 1982 ed il già considerato Grande Cobra,
senza tralasciare i bronzi e plexiglas, per certi versi propedeutici a Dopo il silenzio, quali Nilo ed
Omaggio a Kafka del 1972.
L’omaggio all’autore di Metamorfosi era quasi obbligato per l’immaginazione di uno scultore come
Novello, come sottolineavo già nell’autunno del 1976, presentando la sua personale alla Galleria La
Margherita di Roma. In quell’occasione, dopo aver considerato il metamorfismo di Omaggio a
Sade, precisavo: “Finotti è alieno da ogni forma di sadismo erotico. La sua condizione psicologica è
semmai più consona al dramma kafkiano di Gregorio Samsa, come stanno a dimostrare le
entomologie del corporale che negli ultimi tempi hanno segnato la sua scultura con opere davvero
impressionanti per inventività innovativa, dove è apertamente dichiarato il rovello di Finotti che,
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Si vedano, al proposito, le pp. 15-18 del nr. 4-5 (aprile-maggio 1919) della rivista di Mario Broglio. In esso (a p. 16)
Giorgio de Chirico per spiegare la percezione metafisica della realtà scriveva: “Pigliamo un esempio: io entro in una
stanza, vedo un uomo seduto sopra una seggiola, dal soffitto vedo pendere una gabbia con dentro un canarino, sul muro
scorgo dei quadri, in una biblioteca dei libri, tutto ciò non mi colpisce poiché la collana dei ricordi che si allacciano l’un
l’altro mi spiega la logica di ciò che vedo; ma ammettiamo per un momento e per cause inspiegabili ed indipendenti
dalla mia volontà si spezzi il filo di tale collana, chissà come vedrei l’uomo seduto, la gabbia, i quadri, la biblioteca;
chissà allora quale stupore, quale terrore e forse anche quale dolcezza e quale consolazione proverei io mirando quella
scena. La scena però non sarebbe cambiata, sono io che la vedrei sott’un altro angolo. Eccoci all’aspetto metafisico
delle cose”.
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come Kafka, soffre dell’assurdità dell’esistere, di cui egli stesso avverte e vive in prima persona lo
spaesamento determinato dall’assoluta instabilità ontologica a tutti i livelli. E’ in ciò che va
ravvisata la radice prima del suo metamorfismo che s’accanisce sulla carne, su quella carne che
subisce ogni insolenza al fine di estendere ed esaltare la sua sensitività, ultima spes del desiderio di
abbattere il muro di quell’incomunicabilità psicologica che affligge l’uomo contemporaneo. Gli
inestricabili grovigli corporali, gli stravolgimenti somatici di Finotti sono il risultato di una ricerca
che a suo modo è disperata proprio nella prospettiva del recupero di una comunicabilità umana che
vede nelle sue residue risorse fisiche l’ultima spiaggia. E così il corpo si fa strumento, strumento
anche musicale, di comunicazione. In quest’ambito diviene chiaro, allora, come l’ideale di bellezza
di Finotti finisca con l’approvare quello bretoniano di bellezza convulsiva (‘La bellezza convulsiva
sarà erotico-velata, esplosiva-fissa, magico-circostanziale o non sarà’)”.
Questo sul piano delle evocazioni simboliche degli ibridismi ideativi, perché sul piano linguistico i
connubi e i condensati di aspetti ontologici contigui e/o differenti costituiscono uno slittamento
dalla fusione di iconico e aniconico delle opere degli anni Sessanta. Fusione da Magagnato
interpretata nel 1986 come un “fare i conti fino all’estremo con il dibattito centrale del nostro
tempo, quello tra realtà e astrazione, in un modo radicalmente critico rispetto alle teorie più
accreditate delle avanguardie”, proprio in quanto da Finotti realizzata con opere di diverso coagulo,
ma solo rispetto a quelle successive, quali il legno Paolo e Francesca del 1965, il coevo legno e
bronzo Senza titolo ed i bronzi Immagine dissepolta del 1965-66 e La macchina del tempo del 1966,
ambedue esposti assieme ad Altare pagano nel 1966 alla XXXIII Biennale di Venezia.
Col senno di poi nella pratica degli incastri dei singoli elementi di alcune di queste sculture,
soprattutto nella totemica Immagine dissepolta, si possono cogliere preannunci di future soluzioni,
da un lato quelle a colonna costruite (forse sulla scorta di suggestioni dovute alla scultura di
Brancusi) con l’iterazione modulare di un solo elemento somatico (Valentino, Adamo, Eva) e
dall’altro lato quelle a “intercambiabilità degli elementi compositivi attraverso il rimontaggio delle
stesse componenti”, per riprendere parole del 1986 di Margonari. Il pittore-critico mantovano
considera tale intercambiabilità “connaturata al principio fondamentale” della poetica di Novello,
poetica che, a mio parere, raggiunge uno degli apici più coinvolgenti in quella sorta di
lautréamontiano gran tavolo chirurgico in marmo bianco di Carrara, su cui sono disseminate varie
sculture di medesimo materiale, che è Omaggio a Shakespeare. Nella “strumentazione linguistica”
di questo lavoro, osservava Gian Lorenzo Mellini nella monografia del 1980, “ il critico militante
potrà scoprire tracce di dada, presenze di Kitsch, simulazione di un happening, fughe di
concettualismo, negazione dell’arte povera, eccessi di iperrealismo ed altri simili flatus vocis che è
come dire ventosità… Lo storico dell’arte potrebbe a sua volta notare sbirciate e frugamenti tra le
pieghe più riposte del passato, dalle tombe reali di Saint Denis a Géricault, da Brancusi a
Kandinsky. Senza perdere d’occhio nemmeno un istante la squisita sapienza fabbrile di
quell’incommensurabile civiltà contadina cui attingono le sue stesse origini domestiche. Ma anche
qui senza soverchia intenzione; più per oscuro legame di sangue che per ricordo scolastico o
turistico, o per snobismo. In tutti i casi codesti richiami escludono l’atteggiamento eclettico;
l’ispirazione formale di Finotti è per la sintesi, non per l’analisi e sembra escludere a priori
qualsiasi servilismo per le avanguardie altrettanto che per ogni Sehnsucht parnassiana”9.
Pietra miliare, anzi pietre miliari della produzione di Novello, Omaggio a Shakespeare con i suoi 22
elementi in marmo bianco di Carrara costituì nel 1984 il clou della sala a Finotti dedicata su mio
invito nella XLI Biennale di Venezia, clou coronato da altri 4 raffinatissimi lavori del 1984 di
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Cfr. G.L.Mellini, Novello Finotti. Sculture in marmo 1977-1980, Edizioni Bora, Bologna 1980, s.i.pp. Tali indicazioni
di Mellini non fanno che ricordarci che l’arte nasce dall’arte, come abbiamo già osservato a proposito di Anubi 1. Ma è
necessario che il riferimento all’arte sia attizzato dalla realtà, ovvero dal vissuto dell’artista, per non cadere nel banale
epigonismo. Ed ancora Anubi 1 conferma tale aspetto della creatività. Infatti l’animale scolpito da Finotti non è una
copia dello sciacallo posto sulla cassa riprodotta da Ceram, bensì è il “ritratto” in marmo nero del Belgio dello
splendido cirneco dell’Etna, cane della sua amica Anna Ziliotto, che appunto l’aveva battezzato Anubi per la
somiglianza delle sue fattezze con il dio egizio.
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medesimo materiale, quali Annunciazione, Donna tartaruga, Mantide bianca e Rituale per la figlia
del kamikaze. E, se in Rituale per la figlia del kamikaze Novello raggiungeva la massima
decantazione poetica del marmo bianco di Carrara, nello scavo del corpo in Annunciazione egli
riusciva a portare al più alto grado di rarefazione il marmo, che veniva attraversato dalla luce,
facendolo divenire trasparente. Ma l’abbacinamento visivo si compiva in maniera assoluta
nell’Omaggio a Shakespeare, che era congelato dall’”algido soffio di Thanatos”, come scrivevo
nella monografia pubblicata da Alexandre Iolas. A proposito di questo scenario, molto simile a
quello che avrebbe potuto lasciare il passaggio di un Angelo Vendicatore, con riferimento ad alcuni
aspetti dell’Omaggio a Sade, notavo allora: “In realtà, in Omaggio a Shakespeare l’orrore delle
tragedie shakespeariane si congiunge alle crudeltà erotiche di Sade con nuovi vertici espressivi di
silente violenza, perché, come dice Bataille, ‘la violenza è muta’. Le presenze di questa scena, dove
convitati di pietra hanno banchettato non certo intorno ad un tavolo, sono ‘cariche di silenzio e di
immobilità’, per dirla con Antonin Artaud, che qui mi viene in mente associativamente,
configurandosi Omaggio a Shakespeare come una vera e propria mise en scène plastica da teatro
della crudeltà. Di tale teatro l’opera condivide appieno l’aura fortemente psicologica, espressa
attraverso una fisicità quasi azzerata e ridotta ai minimi termini dall’assenza di vita, che minimizza
anche le presenze mostruose degli agglomerati somatici, ottenuti per condensazione. In linea con
Artaud, Finotti sembra ribadire in quest’opera che ‘la ‘crudeltà’ deve essere intesa in senso lato e
non nell’accezione fisica e rapace’ e che, perciò, ‘si può benissimo immaginare una crudeltà pura
senza strazio carnale’, dato che ‘crudeltà non è sinonimo di versamento di sangue, di carne
martoriata’. Infatti, come spiega Artaud: ‘La crudeltà è prima di tutto lucida, una sorta di rigido
controllo, di sottomissione alla necessità. Non si ha crudeltà senza coscienza, senza una sorta di
coscienza applicata’”. Quindi aggiungevo: “Sulla lucidità, il rigido controllo e la coscienza
applicata insite in Omaggio a Shakespeare credo sia del tutto superfluo soffermarmi, data la loro
evidenza”.
Si badi, Finotti è un maestro del trompe-l’esprit, ottenuto attraverso un coinvolgimento delle
pulsioni psichiche stimolate attraverso l’occhio. Si comprenderà, quindi, l’importanza che egli dà
alla luce ed ai suoi giochi sulle superfici ed agli effetti sui materiali, come già accennato per quanto
attiene ai corpi cavi di Annunciazione e Clessidra. E’ per tale motivo che egli tra i marmi predilige
sia quel contenitore di luce in sé che è il bianco di Carrara, sulle cui superfici la luce esterna si
esalta in un totale abbraccio che modella visivamente le forme e talvolta le attraversa, sia, per
motivi opposti, il nero del Belgio, che è assenza di luce e che respinge le luci esterne, creando
effetti misteriosi e non di rado inquietanti. Questi due materiali sono, per così dire, il giorno e la
notte della scultura.
Il giorno è sinonimo di luce solare. Ed anche se comunemente si afferma che la luce è bianca, in
verità esistono altri tipi di luce. Per quanto attiene alla scultura i “giorni” possono concretizzarsi con
altre gamme di luce. Per evocarle è sufficiente usare materiali atti a calamitarla, meglio se
contengono già insite virtualità di trasparenza. L’onice è uno di questi materiali geologici e per tale
proprietà, credo, ha attirato l’attenzione di uno scultore come Novello, che ha voluto utilizzarlo per
scandagliare nuove possibilità di trasparenze evocative di luce in una recentissima scultura che non
a caso ha battezzato Evocazione 1, titolo che fa prevedere ulteriori passi in tale direzione.
Per meglio intendere l’espressiva pregnanza della sintesi morfologica, pressoché speculare, di
questa bifrontale scultura in onice, è necessario ripercorrere l’intero tragitto produttivo di Finotti, in
cui un topos ricorrente è quello della doublure e delle sue collateralità. L’unione di due elementi,
vuoi identici, come ben esemplificano sia Anatomico che cammina del 1969, opera che vuole
rappresentare metaforicamente i due sensi del cammino dell’umanità, quello (sempre nel passato
proposto) dell’autoazzeramento e quello della rinascita10, sia In due del 1970, vuoi differenti e
contrapposti, tra cui i più significativi sono Anatomico, Valentino, Anubi 1, per non citare le coppie
di colonne Adamo ed Eva, la quale ultima nel 1984 ha avuto la variante Colonna di Eva, che ha
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L’opera viene qui per la prima volta esposta nella versione completa.
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introiettato il gioco del doppio nell’iterazione degli elementi con alternanze del recto e del verso
somatico, nonché le duplici versioni, in bianco e nero, di Donna tartaruga (1984) e Donna
tartaruga con scarabeo (1987) e di Clessidra (1989) e Clessidra 3 (2004), a cui vanno aggiunti
Cari avi, in marmo nero del Belgio (1987-88) ed in granito nero (2004), tralasciando la
duplicazione del marmo Non ci indurre e, nel 2004, del granito nero Finalmente insieme, in bronzo,
tecnica nella quale il suo estro metamorfico ha toccato vertici sorprendenti di inventività ideativa e
di sottigliezze simboliche, e penso, oltre ai già citati, a Trappola cena, 1969, a La luna presa, 1971,
a Cin cin e fichi, 1978, a Pugno, 1980, tutti bronzi di molteplici morfologie e relative variazioni
qui presenti11.
Il doppio, invece, appartiene anche all’unione di morbido e rigido, più volte ripetuto negli elementi
di cuscini trafitti da pali (Omaggio a Shakespeare) e nelle opere con lenzuola.
Evocazione 1 è un condensato di una semplificazione che ha le sue radici nella versione del marmo
nero Marquinia del 1978 I desideri della U, poi nel 1987-88 sviluppata in Cari avi e ripetuta nella
versione del 2004. L’onice, tuttavia, ha per collateralità il rispecchiamento dei volti evocati nel
granito nero del Belgio Dondolo del 2004, rispecchiamento che a sua volta ha come precedente i
due dettagliati volti del marmo bianco di Carrara Levitazione del 1991-97.
Sembrerebbe che Finotti si sia ormai incamminato sulla strada di una sintesi formale, in cui viene
riassorbita la ricchezza della sua imagerie metamorfica. Ma, si badi, non si tratta di un
impoverimento del suo linguaggio, bensì di un ulteriore traguardo della sua ottica, ormai tesa
all’assolutezza evocativa, in cui la memoria delle immagini si riduce a plastici affioramenti allusivi
e la dicotomia di realtà e sogno si condensa nella trasparente doublure dell’accoppiamento
autoriflessivo degli elementi di Evocazione 1, che è essenziale conseguenzialmente all’intera
produzione che l’ha preceduta. Evocazione 1 è la sintesi plastica raggiunta da Finotti, dopo la
produzione precedente, in cui la realtà era la tesi ed il sogno l’antitesi. Ovvero si propone come
nuova dimensione di un fare scultura che accoglie e filtra luce nel suo nuovo, morfologicamente
intendendo, corpo, la cui trasparenza evoca un antico desiderio dello scultore di Sommacampagna:
quello cioè di smaterializzare la materia senza intaccarne le forme.
Giorgio Di Genova
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Le opere in bronzo costituiscono nella produzione di Finotti, un vero e proprio universo con flora, anche incolta (Tra
gli sterpi, 1978), e fauna ed addirittura con strumenti musicali (Elemento musicale, 1971 e mobilia di arredamento
(Tavolo nido, 1983; Sedia per suonatore di armonium, 1984; Mobile vegetale, 1986), nonché popolato di familiari e di
esseri d’ibrida umanità (Non ci indurre, Donna tartaruga) e di strumenti agricoli (Dalla serie dei Barbari moderni,
1973). In esso la fantasia ideativa ed esecutiva di Novello procede a briglia sciolta in sottili metafore, metonimie e
simbologie erotiche (Cena a due, Incantatore di lumache, 1967; Afrodisiaco per un cieco, 1969 alle serie dei Racconti
erotici, 1970-73).
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