Desistenza ed insistenza alla fine della vita

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Desistenza ed insistenza alla fine della vita
Ornella PIAZZA
Gennaro SAVOIA
Desistenza ed insistenza alla fine della
vita: problematiche etiche in
rianimazione
Ornella Piazza, Cattedra di Anestesia e Rianimazione, Università di
Salerno, laurea in medicina e chirurgia nel 1993, specializzazione in
anestesia e rianimazione nel 1997. Ricercatore confermato in anestesia e
rianimazione (università di Napoli Federico II ) fino al 2011, professore
aggregato anestesia e rianimazione (università di Salerno) dal 2011 ad
oggi.
Gennaro Savoia, Terapia Intensiva Grandi Ustionati, DPT Anestesia e
Rianimazione AORN A. Cardarelli, Napoli, laurea in medicina e chirurgia
nel 1974, specializzazione in anestesia e rianimazione nel 1977
Ricercatore confermato in anestesia e rianimazione (università di Napoli
Federico II) fino al 1992, professore associato anestesia e rianimazione (
università di Palermo) 1992-1995 direttore UOSC anestesia e rianimazione
Ospedale Fatebenefratelli Napoli (1995-2000) e AORN Cardarelli Napoli
(2000-oggi) Già Coordinatore gruppi di studio Siaarti (dolore ed
emergenze) Presidente CPARC (Collegio Primari di Anestesia e
Rianimazione Campania, 2009-2013)
Ilustrazione: Paolo Aiello "Translation" (2012)
Il reparto di Rianimazione o Terapia Intensiva è un'area
di fondamentale interesse per qualsiasi ospedale, dove i pazienti
più gravi ricevono terapie di supporto vitale con le tecnologie
più avanzate. L’istituzione dei reparti di Rianimazione è un
fenomeno che possiamo ancora definire recente: la necessità di
raggruppare in specifiche aree dell’ospedale i pazienti più
instabili, ad esempio coloro che avevano subito interventi di
chirurgia maggiore, fu evidenziato dopo la Seconda Guerra
Mondiale, per diventare palese successivamente, in occasione
dell’epidemia di polio del 1947-48: i pazienti che potevano
beneficiarsi di ventilazione meccanica venivano curati più
facilmente se tali trattamenti venivano concentrati in un unico
luogo. La prima Rianimazione multidisciplinare fu quella
dell’ospedale di Baltimora (oggi John Hopkins Bayview), aperta
nel 1958, che garantiva la guardia medica 24 ore su 24 da parte
di medici specializzandi in Anestesia. In Italia sono attivi circa
400
centri
di
Rianimazione,
che
ricoverano
approssimativamente 150.000 pazienti/anno1.
I trattamenti che preservano la vita nonostante la gravità
delle patologie e la disfunzione di più organi sono molto costosi
e impegnativi anche sul versante delle risorse umane.
Nonostante il dispendio di tante energie, la Rianimazione è un
ambito in cui la morte è un evento frequente (circa il 20% dei
pazienti ricoverati muore in Rianimazione) e la gestione del
paziente alla fine della vita è un trattamento pressoché
routinario.
Con una media di un paziente deceduto ogni sei ricoveri,
il personale delle Terapie Intensive è costantemente costretto a
fronteggiare la morte e a decidere se e quando è opportuno non
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Bertolini G. et al. ICM 2010
intraprendere (withholding) o sospendere (withdrawing) i
trattamenti di supporto vitale, qualora questi si rivelino futili.
Il personale della Rianimazione, medici ed infermieri,
viene addestrato all’uso di tecniche protesiche extracorporee che
sostituiscono funzioni vitali quali la respirazione; in Terapia
Intensiva si fa ricorso continuamente all’utilizzo di ventilatori
meccanici, sistemi di circolazione extracorporea, apparecchi di
dialisi, farmaci che sostengono l’attività contrattile del cuore. La
morte si può posporre fino a un limite che era inimmaginabile
alcuni decenni fa ma questo approccio, sostenuto dalla
tecnologia e animato da una volontà di combattere la malattia
fino all’estremo sforzo, non è sempre coronato da successo, in
quanto può accadere che piuttosto che garantire la vita si
prolunghi il morire del paziente.
Nel percorso formativo delle Università Pubbliche
Italiane non è obbligatorio lo studio dei temi della bioetica, né
tanto meno questo è indispensabile per il conseguimento del
Diploma di Specializzazione in Anestesiologia e Rianimazione,
background indispensabile per lavorare in una Rianimazione che
si occupi di pazienti adulti. In altri Paesi, ad esempio negli Stati
Uniti, i medici intensivisti hanno specializzazioni anche diverse
dall’anestesiologia, come chirurgia, pneumologia, medicina
interna o pediatria.
Al fine di descrivere al meglio le difficoltà nello stabilire
dei principi condivisibili che guidino le scelte di fine vita in
rianimazione, è qui opportuno aggiungere che il linguaggio della
medicina critica è squisitamente tecnico: gli specializzandi
apprendono durante i 5 anni di scuola di specializzazione un
modo di vedere alternativo della funzionalità degli organi
introducendo la possibilità di assistere, sostituire, vicariare le
funzioni vitali del paziente con tecnologie sempre più efficienti
in un contesto istituzionale straordinariamente totalizzante. I
turni di lavoro in Rianimazione sono generalmente di 12 ore; i
medici in formazione e i loro formatori vivono per molte ore a
stretto contatto in un sistema che si costituisce come un mondo a
sé di esperienze, pieno di oggetti che non fanno assolutamente
parte della vita quotidiana.
Tale condizione “innaturale”, la disponibilità di
tecnologie avanzate che prolungano la vita e il contemporaneo e
frequente contatto con la morte, rendono molto difficile la
condivisione- basata su una discussione aperta e consapevoledelle decisioni di fine vita con specialisti di altre discipline ma
sicuramente la maggiore difficoltà incontrata dai medici
rianimatori è l’impossibilità (legata alla patologia causa del
ricovero) di comunicare con il paziente, assecondando le sue
libere scelte sulla terapia da intraprendere.
Il 95% dei pazienti che muore in Rianimazione non è in
grado di esprimere le sue volontà in relazione alle cure invasive2
ed apparentemente solo l’1% dei pazienti in Europa fornisce
delle disposizioni relative alle cure che è disposto a sostenere
qualora fosse impossibilitato ad esprimere il proprio consenso
informato3. In Italia le dichiarazioni anticipate di trattamento, il
cosiddetto testamento biologico (living will), non è una pratica
diffusa né costituisce un imperativo per il medico che cura un
paziente non in grado di esprimere il suo consenso o la sua
volontà.
Il medico deve pertanto cercare di indovinare la volontà
del paziente per applicare quelle scelte che egli/ella avrebbe
condiviso se fosse stato in grado di esprimere la sua volontà.
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Cohen S et Al. ICM2005
Studio ETHICUS, Spring et Al ICM 2008
Per interpretare la volontà del paziente i medici possono
rivolgersi alla famiglia dell’ammalato. Il modello decisionale
condiviso dalle principali società scientifiche di terapia intensiva
è quello delle decisioni condivise4. Questo tipo di approccio
richiede la capacità di condividere le informazioni mediche con
la famiglia (e dunque elevate capacità di comunicazione),
aiutando a comprendere le conseguenze delle varie scelte e ad
interpretare la volontà dell’ammalato. In Italia i parenti non
esercitano il diritto legale di decidere in luogo dell’ammalato ma
sono considerati testimoni della volontà del paziente. Uno studio
recente5 ha rilevato che la famiglia era stata coinvolta ed
approvava le scelte sulle terapie nel 44% dei casi di pazienti che
successivamente andavano incontro a decesso in Rianimazione.
Parimenti, le difficoltà a progettare e condurre studi clinici
controllati in Rianimazione si confrontano con la validità e /o
l’impossibilità ad ottenere un valido consenso informato da
parte dei pazienti ; è evidente che da questo punto di vista le
terapie rianimatorie salvavita paradossalmente non sono validate
EBM (evidence based medicine, medicina basata sulle evidenze)
e che quasi sempre vengono offerte al paziente, se cosciente, o
praticate sul paziente incosciente alla stessa stregua di “chance
terapeutica“ in grado di tenere in vita il paziente e /o di garantire
la “ restituzio ad integrum” in una limitata, ma comunque
significativa percentuale di casi (10-15% dopo arresto cardiaco
testimoniato e 30% dopo grave trauma cranico).
Tratteggiato molto sommariamente il contesto della
Rianimazione e la povertà di risorse giuridiche e culturali per
sostenere le decisioni del medico, in particolare per quei pazienti
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“Shared decisions” Crit Care Med. 2004 Aug;32(8):1781-4. Challenges in end-oflife care in the ICU: statement of the 5th International Consensus Conference in
Critical Care: Brussels, Belgium, April 2003: executive summary
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Bertolini G et Al 2010
che hanno una prognosi infausta, possiamo elencare i tre
maggiori problemi che il rianimatore affronta nella assistenza al
paziente morente in rianimazione: la sospensione/ mancato
inizio delle cure futili, la terapia palliativa, l'eutanasia.
Le decisioni più complesse riguardano la sospensione o
la mancata attuazione di terapie ritenute futili.
Per terapia futile si intende qualsiasi trattamento che
rallenta piuttosto che interrompere il processo patologico che
porta alla morte e che non ha possibilità di successo terapeutico.
Una terapia futile non andrebbe affatto intrapresa, tuttavia
spesso si verifica la situazione opposta per la quale a pazienti
terminali vengono praticati trattamenti intensivi ed invasivi.
Questa situazione è dovuta alla impossibilità di definire la
prognosi in condizioni di emergenza, come quelle in cui il
rianimatore viene chiamato ad operare, senza conoscere
approfonditamente anamnesi e storia clinica del paziente.
Riconsiderando i risultati terapeutici ed applicando gli score
prognostici6 i clinici possono in un secondo momento formulare
un più sereno giudizio prognostico, sebbene non esista alcun
sistema di valutazione della prognosi esatto ed infallibile.
Per paziente terminale verrà inteso non solo il malato
affetto da patologie per le quali non esistono cure efficaci (ad
esempio cancro in fase metastatica avanzata) ma anche quei
pazienti che inizialmente affetti da una patologia acuta (trauma
cranico ad esempio) o dalla riacutizzazione di un processo
cronico (come l'evenienza di ARDS in paziente bronchitico
cronico), hanno sviluppato una condizione di insufficienza
multiorganica per la quale il trattamento medico prolunga
inutilmente l'agonia senza risolvere la causa della malattia.
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Sistemi a punteggio per classificare la gravità della malattia e la possibilità di
sopravvivenza, ad esempio SOFA score, SAPs score
Una volta formulato il giudizio prognostico, anche in
relazione ai risultati ottenuti nei primi giorni di terapia intensiva,
i clinici possono comunicare le loro impressioni alla famiglia.
Un giudizio complessivo dovrebbe essere formulato da un team
multidisciplinare, coinvolgendo nella formulazione e nella
comunicazione anche il personale infermieristico. Il giudizio del
medico viene influenzato non solo dalla possibilità di successo
di un trattamento ma anche dalla qualità di vita attesa qualora le
cure avessero il risultato sperato. La condivisione della
valutazione prognostica quoad vitam et valetudinem con
specialisti di altre discipline è frequentemente ostacolata da
barriere comportamentali e culturali già citate e purtroppo
spesso la decisione di sospendere le terapie (withdrawal) una
volta che queste si sono rivelate inappropriate è frequentemente
unilaterale, esercitata da un solo medico dello staff7 e
meramente comunicata alla famiglia.
La sospensione di terapie di sostegno vitale è seguita
dalla morte del paziente entro poche ore, ad esempio nel caso
della sospensione della ventilazione meccanica o di giorni, come
nel caso della sospensione della dialisi nei pazienti anurici. Il
62% dei decessi avvenuti in rianimazione è preceduto da una
sospensione delle terapie8.
A questo proposito può essere chiarificante citare la
penosa vicenda di Eluana Englaro, in stato vegetativo da 16 anni
in seguito ad un incidente stradale e sottoposta a pratiche di
nutrizione artificiale (ma non ventilazione meccanica) rifiutate
dal suo tutore legale, il padre della ragazza, che interpretava la
volontà della figlia come contraria al proseguimento di tali cure.
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Cohen S ICM 2005
Bertolini G. ICM 2010
Ai sensi dell' articolo 32 della Costituzione Italiana:
«Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento
sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in
nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona
umana" e dopo una lunga battaglia legale con decreto del 9
luglio 2008, la Corte d'Appello Civile di Milano ha autorizzato il
padre Beppino Englaro, in qualità di tutore, ad interrompere il
trattamento di idratazione ed alimentazione forzata che
manteneva in vita la figlia Eluana per «mancanza della benché
minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della
coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno».
A seguito di questa decisione in Italia si è scatenata una
querelle giuridica sulla possibilità di sospendere l'idratazione e
la nutrizione ai pazienti non in grado di esprimere la loro
volontà.
Circa il dibattito su idratazione ed alimentazione, ossia se
vadano considerate come terapie salvavita , supporti
irrinunciabili e non negoziabili o come terapie da impostare
individualmente secondo linee guida internazionali e quindi
sottoposte a consenso informato , tutti i pareri espressi dalle
società scientifiche coinvolte sono concordi sulla seconda
ipotesi .
Tuttavia, tanto si spinse la polemica che Il 16 dicembre
2008 il ministro della Salute Maurizio Sacconi emanò un atto
d'indirizzo che vieta alle strutture sanitarie pubbliche e quelle
private convenzionate col Servizio Sanitario Nazionale
l'interruzione dell'idratazione e dell'alimentazione forzate con la
minaccia di escludere queste strutture dallo stesso.
Non volendo scendere le merito giuridico e volendosi
limitare ad un parere tecnico, una linea di condotta prudente ed
eticamente accettabile e condivisibile è quella di privilegiare la
via enterale fin quando praticabile e di sottoporre a giudizio
critico il percorso idratazione-alimentazione9 se è necessario
ricorrere a vie invasive.
Eluana Englaro cesso di vivere circa 5 giorni dopo la
sospensione dell'idratazione.
L'interruzione di una terapia già intrapresa e la
successiva morte del paziente a distanza di poche ore o
addirittura minuti è un evento sicuramente stressante, più della
decisone di non intraprendere affatto un sostegno vitale
(witholding) ma il primo è sicuramente un comportamento più
frequente. La decisone di non intraprendere terapie invasive è
più spesso effettuata quando c'è materialmente il tempo di
riflettere sull'opportunità della cura e sulla sua adeguatezza (ad
esempio il "do not resuscitate order" per i malati di tumore, al
termine della vita).
Sebbene per molti bioeticisti non ci sia una differenza
apprezzabile tra withholding and withdrawal10, differenze di
credo religioso possono influenzare le scelte del medico: ad
esempio per gli Ebrei ortodossi è accettabile non intraprendere
una cura ma la sospensione di un trattamento continuo (come la
ventilazione meccanica) è proibita perchè è un atto che riduce la
durata della vita.
Seguendo le norme di buona pratica clinica, le decisioni
di witholding/withdrawing, dovrebbero essere condivise con la
famiglia e i colleghi coinvolti nella cura e dovrebbero essere
esplicite, registrate nella cartella clinica. Al paziente terminale
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Programma terapeutico pluridisciplinare e multiprofessionale di lunga durata ,
consenso informato se si impiega una via invasiva come peg o impianto venoso
centrale
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Servillo G et Al [email protected] 2011
va assicurato il conforto della terapia palliativa, con adeguati
protocolli di sedazione ed analgesia.
Questo aspetto della cura del paziente terminale apre ad
altre problematiche etiche relative alla terapia palliativa:
l'utilizzo di analgesici riduce la capacità respiratoria e può
precipitare l'evento terminale. La già citata consensus
conference delle società scientifiche di terapia intensiva
specificamente incoraggia l'uso di analgesici per alleviare le
sofferenze del morente, considerando la riduzione della durata
della vita (o meglio dell'agonia) come un effetto secondario e
non voluto dunque non una pratica di eutanasia11
Infine l'eutanasia: i pazienti ricoverati in rianimazione
coinvolti potrebbero essere coscienti o non coscienti,
consenzienti o non consenzienti, affetti da malattie terminali o
no; nel caso dei pazienti non coscienti ed affetti da malattie
devastanti ed intrattabili, la sospensione delle cure di supporto
vitale e la assistenza palliativa con farmaci analgesici vengono
talora considerati equivalenti ad un atteggiamento eutanasico. Il
suicidio assistito e l'eutanasia sono pratiche vietate in Italia dove
la maggior parte dei cittadini aderisce alla religione Cattolica
che esplicitamente condanna sia l'eutanasia sia la sospensione
delle cure12.
Un aspetto del tutto particolare riguarda l’area pediatrica,
nella quale si confrontano numerose e diverse problematiche: il
concetto di incapacità giuridica del minore nel processo
decisionale, affidato di norma ai genitori od al legittimo tutore;
il concetto di minore emancipato, che pur di età inferiore a 14
anni è in grado di compartecipare al processo diagnostico11
Crit Care Med. 2004 Aug;32(8):1781-4. Challenges in end-of-life care in the ICU:
statement of the 5th International Consensus Conference in Critical Care
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Bock M et Al ICM 2007, Riccio M Translational Medicine@unisa 2011
terapeutico; l’obbligo morale di garantire in età pediatrica la
presenza fisica dei genitori in rianimazione e la loro
compartecipazione alle manovre rianimatorie (circulation 2010);
il rischio cogente di accanimento terapeutico nelle malattie
genetiche e neuromuscolari, nelle quali si confrontano 2 percorsi
distinti da discutere con paziente, genitori e tutore (solo cure
palliative con ventilazione non-invasiva o tracheotomia con
collegamento a ventilazione meccanica e/o peg per
alimentazione enterale di lunga durata).
Senza poter essere esaustivi ci sentiamo di concludere
ribadendo il concetto che la cura dei pazienti alla fine della vita
è estremamente complessa: la varietà dei casi clinici, non
standardizzabili, la natura delle varie cure palliative applicabili, i
diversi approcci culturali e giuridici creano non pochi ostacoli
nella progresso della
ricerca di principi universalmente
condivisibili. Vogliamo sottolineare l’importanza di applicare il
patrimonio delle cure palliative ai pazienti ricoverati in
Rianimazione, allo scopo di garantire ai pazienti morenti, che
non hanno risposto positivamente alla “chance rianimatoria” non
l’abbandono terapeutico ma l’avvio alle cure palliative (“from
cure to care”) che superano ogni ostacolo giuridico tra
insistenza e desistenza o tra eutanasia passiva ed attiva .