Per guanciale, erba - Giancarlo Niccolai

Transcript

Per guanciale, erba - Giancarlo Niccolai
Per guanciale, erba
Natsume Souseki
Traduzione di Giancarlo Niccolai
© 2015 di Giancarlo Niccolai. Tutti i diritti riservati.
http://www.niccolai.cc
ISBN: 978-1-326-24521-4
Titolo originale Kusamakura di Natsume Souseki
pubblicamente disponibile presso il sito del progetto Aozora Bunko
http://www.aozora.gr.jp
Ringraziamenti
Un sentito ringraziamento al Prof. Corrado Molteni che mi ha
insegnato le basi della lingua Giapponese e l’amore per la cultura
orientale.
Grazie a Kiyoshi Kohara, per aver sopportato tutte le mie
domande indiscrete sul vero significato delle frasi più oscure e
delle parole più terribili mai scritte nella lingua Giapponse.
Federico Ciriminna merita infine un grande ringraziamento per il
prezioso lavoro di correzione, senza il quale, il libro che tenete fra
le mani sarebbe molto peggiore.
Indice
Introduzione...................................................................................I
Capitolo 1.......................................................................................1
Capitolo 2.....................................................................................15
Capitolo 3.....................................................................................29
Capitolo 4.....................................................................................45
Capitolo 5.....................................................................................59
Capitolo 6.....................................................................................73
Capitolo 7.....................................................................................87
Capitolo 8.....................................................................................97
Capitolo 9....................................................................................109
Capitolo 10..................................................................................119
Capitolo 11...................................................................................131
Capitolo 12..................................................................................145
Capitolo 13..................................................................................161
Esegesi........................................................................................171
1..................................................................................................................173
2..................................................................................................................176
3..................................................................................................................178
4..................................................................................................................185
5..................................................................................................................186
6..................................................................................................................189
7..................................................................................................................195
8..................................................................................................................198
9..................................................................................................................200
10................................................................................................................203
11................................................................................................................206
12................................................................................................................210
13................................................................................................................215
Note di Traduzione....................................................................223
1..................................................................................................................225
2..................................................................................................................230
3..................................................................................................................235
4..................................................................................................................242
5..................................................................................................................248
6..................................................................................................................260
7..................................................................................................................270
8..................................................................................................................276
9..................................................................................................................279
10................................................................................................................285
11................................................................................................................293
12................................................................................................................299
13................................................................................................................310
Introduzione
Il Kusamakura è un romanzo breve, scritto di getto, in due
settimane, nel settembre del 1906. Natsume Souseki, all’epoca
trentanovenne, era già un autore apprezzato, pur avendo
pubblicato principalmente solo critiche letterarie e il best seller “Io
sono un gatto” (titolo originale: wagahai neko de aru).
“Souseki” è un nome d’arte, che costituisce la lettura giapponese
di un idiomatico cinese, “pietra nella corrente”, che significa
“ostinato”. Il giovane Kinnosuke, questo il suo vero nome, si era
laureato presso l’università Imperiale di Tokio nel 1884.
Dopo aver insegnato come docente in varie scuole medie e
superiori del Giappone, fu inviato a studiare in Inghilterra per tre
anni come “primo scolaro inviato all’estero”, su ordine del
Governo Imperiale, dal 1900 al 1903. Al suo ritorno, fu
nominato docente di letteratura inglese, inizialmente alla Prima
Scuola Superiore di Tokyo, e poi all’Università Imperiale.
Souseki non fu soltanto un notevole scrittore: il suo interesse
per la letteratura era contemporaneamente artistico e scientifico.
Edgard Allan Poe volle spiegare quanta tecnica egli impiegasse
nello scrivere i suoi racconti, illustrando la genesi di una delle sue
poesie di maggior successo, “Il Corvo”, nel suo saggio “La
filosofia della Composizione”. Souseki doveva avere una visione
della letteratura analoga, non scevra di costruzioni simili a
teoremi matematici. Ma nonostante questo, per Souseki la
letteratura non è fine a sé stessa; come tutte le arti, ha uno scopo
preciso: elevare lo spirito umano al di sopra della sua natura
fisica, al di là del possibile e del quotidiano. In questo, tecnica e
teoria giocano un ruolo importante, ma pur sempre secondario.
I
Sono la base, la struttura, forse anche i ferri del mestiere. Ma
come della musica di Bach, tecnicissima, non è la tecnica che ci
rapisce, anzi, come nella sua musica la tecnica si raffina tanto da
diventare invisibile, per lasciare spazio all’arte che può muovere
l’anima, così sono i testi di Souseki. Tecnicamente tanto perfetti
da farci dimenticare di quanto lo siano. Una tecnica impiegata
con naturalezza e senza il segno di un minimo sforzo: per questo,
diventa un’impercettibile sottotraccia alla potenza dell’arte che
trasmettono.
Souseki volle scrivere quest’opera per illustrare ai suoi colleghi e
ai suoi studenti le teorie che egli stesso aveva contribuito a
fondare. Come protagonista, sceglie un pittore, che rimarrà senza
nome per tutto il romanzo, e racconta la storia in prima persona.
Il pittore è un giovane trentenne, che decide di intraprendere un
viaggio, al fine di raffinare l’arte che, a Tokyo, non riesce a
perfezionare. Perché un pittore?
Souseki avrebbe tranquillamente potuto scegliere uno scrittore
come protagonista. Del resto, lo vedremo scrivere e ragionare di
letteratura, più spesso di quanto non dipinga, o non ragioni di
pittura. Ma la scelta di usare un pittore come esempio di artista,
fornisce all’autore la possibilità di attingere a molte metafore,
paralleli, e immagini da rendere in lettere. Non solo: la struttura
del testo è estremamente visuale, oserei dire cinematografica. La
narrazione degli eventi, ben distinta dalla narrazione dei pensieri
del protagonista, si presta bene a essere resa in sceneggiatura.
Questa visualità nella narrazione è una delle innovazioni che
Souseki introduce nella letteratura giapponese. Fino ad allora, le
opere teatrali e quelle letterarie erano state fondamentalmente
separate, ma Souseki aveva studiato Shakespeare, il cui testo
letterario, già completo in sé e fruibile “sulla carta”, era pensato
per essere rappresentato in scena senza ulteriori adattamenti.
Ecco quindi che lo stratagemma del protagonista pittore
permette all’autore ulteriori spunti per creare un ponte fra la
letteratura e le arti visuali, in maniera esplicita quanto naturale.
Souseki non si accontenta di raccontare che, per lui, la letteratura
II
deve dipingere un’immagine vivida nella mente del lettore: lo
vuole anche mostrare, in un gioco di livelli letterari che è ripetuto
e ripreso molte volte.
In alcune delle sue riflessioni, vedremo persino lo scrittore
stesso rivelarsi al lettore, attraverso l’equivalente letterario del
“guardare in camera”, taboo cinematografico nei primi film in
bianco e nero, che soltanto Oliver Hardy romperà, sul finire degli
anni ’30. Guardando in camera, Hardy esce dal paradigma del
grande schermo, che voleva gli spettatori come separati dalla
scena, quasi stesero spiando ciò che accade nella narrazione, e li
chiama a se’, li invita a essere partecipi della commedia, che per
lui è una tragedia, che si sta svolgendo in quel momento. Come
se dicesse “guardate cosa mi tocca fare”, e cercasse la simpatia e
la comprensione del pubblico. Così, rompe la sospensione di
credulità che permette al pubblico di immedesimarsi nella
finzione, ma allo stesso tempo, rompendola, la rende ancora più
salda, portando quella finzione nella realtà attuale dello
spettatore, coinvolgendolo all’interno di un gioco di significati
più ampio.
Questo è quello che vediamo fare a Souseki in quest’opera,
quando, senza dirlo esplicitamente, trasmette chiaramente che i
pensieri stesi sulla carta non sono del pittore senza nome, ma
dello scrittore che siede dietro al tavolo. Souseki rompe la quarta
dimensione del testo, e invita il lettore a entrare nel romanzo;
non lo dà per scontato, ma anzi, dialoga con lui, ne esige la
partecipazione, lo tiene sempre con sé, quasi fosse una figura
trasparente che cammina a fianco del protagonista pittore.
Quindi, quest’opera si presenta come l’applicazione ideale della
tecnica narrativa verista, cinematografica, traducibile in
sceneggiatura, che ricrea scene e immagini nella mente del lettore,
come fosse uno schermo su cui l’autore proietta le stesse
immagini che egli vede. E, vedremo, lo fa ponendosi in contrasto
esplicito con il paradigma letterario allora dominante in
Giappone, il movimento dell’Ukiyo, il “Mondo Fluttuante”.
III
Ma, il romanzo non è solo un esercizio di stile. Quasi fosse una
dimostrazione matematica, la tecnica narrativa descritta
esplicitamente trova anche un’applicazione pratica nella
narrazione della storia. È la storia di un giovane uomo che crede
di aver già imparato tutto della vita, e per questo, vuole trovare
qualcosa di superiore, un ideale, un’estèsi che esca dal quotidiano,
e trascenda verso la purificazione dell’anima, anzi, espressione
stessa di un’anima pura, un cristallo immutevole e trasparente,
attraverso il quale la luce della vita possa assumere tutta la sua
bellezza, e il suo significato.
L’ideale che il giovane artista cerca non è soltanto
irraggiungibile; è anche inutile, anzi, vuoto. Sulla sua strada, il
giovane uomo incontra una donna, che sebbene sua coetanea, ha
vissuto molto più di lui. Una donna che, proprio perché non è in
cerca ideali per cui vivere, è andata oltre il concetto stesso di
ideale, e proprio per questo, vive la vita più bella che si possa
vivere: la vita vera.
Secondo alcuni suoi biografi, sembra che, negli anni successivi,
Souseki si fosse espresso in modo critico verso il Kusamakura.
Alcuni1 interpretano le lettere che aveva inviato in risposta a suoi
amici e colleghi, che chiedevano quale fosse il senso dell’opera,
come una parziale ritrattazione dei temi lì espressi. Nella risposta
a una lettera di Miekichi Suzuki, Souseki scrive che “anche se una
vita ascetica e distaccata è desiderabile, la vita dovrebbe essere vissuta
intensamente”. Tuttavia, in questo non vedo affatto una critica o
un’inversione dei valori trasmessi da quest’opera. A mio giudizio,
si tratta esattamente di quanto appare chiaro, oggi, leggendo
questo romanzo. Quello che leggo in quelle risposte non è una
disaffezione per il Kusamakura, bensì un rammarico per il fatto
che un messaggio tanto chiaro, così chiaro che, forse, solo un
trattato filosofico avrebbe potuto enunciarlo in modo più
1
IV
Ad esempio, questa è la posizione espressa da Kin’ya Suruta, in “Kusamakura, a
Journey” in “The Journal of the Association of Teachers of Japanese, Vol. 22,
No. 2 (Nov., 1988)”
esplicito, non fosse stato ricevuto da quei lettori a cui era
principalmente rivolto.
Premessa alla traduzione
La cultura giapponese, per molto tempo chiusa,
autoreferenziale, austera, almeno in apparenza, esercita da
sempre un fascino innegabile sugli occidentali. Tanto più forte è
il fascino quanto profondo è il mistero che la circonda.
Ma negli ultimi trenta, quarant’anni, l’apertura commerciale del
Giappone al resto del mondo ha causato anche un flusso
costantemente crescente di interscambio culturale, che ha reso
alcuni aspetti della cultura giapponese accessibili a un vasto
pubblico mondiale.
Soppesando da un lato il mito della cultura giapponese e,
dall’altro, fenomeni culturali di massa come gli anime e i manga,
l’osservatore casuale potrebbe essere indotto a pensare che questi
ultimi siano semplicemente un prodotto di consumo, una sorta di
neo-cultura creata artificialmente per essere massificata ed
esportata. La “vera” cultura giapponese – può pensare detto
osservatore casuale – deve essere ben altra, fatta di seriose e
voluminose opere letterarie e profonde rivelazioni spirituali.
In realtà, avvicinandosi alla cultura giapponese e cercando di
risalire alla fonte di quella ironia, alle volte grottesca, alle volte
grossolana, ma mai biecamente banale, ci si perde nella notte dei
tempi. Guardando con occhio allenato “I sette samurai”, un film
drammatico di Akira Kurosawa, si vedono gli attori impersonare
molti interludi comici, la cui struttura si ritrova appunto nel
linguaggio dei manga e degli anime. Un esempio per tutti, nella
scena in cui viene arruolato Heiachi, un samurai per sua stessa
ammissione non troppo capace con la spada, egli sta spaccando
la legna con un’ascia, in cambio di un po’ di denaro. Mentre sta
vibrando un colpo, gli viene chiesto: “Che ne diresti, invece, di
spaccare la testa a una quarantina di briganti?” e questa domanda
V
lo sbilancia a tal punto da farlo cadere rovinosamente e
platealmente. Si tratta di una gestualità che affonda le radici nelle
forme teatrali tradizionali del Giappone, e che ha una sua
controparte nel disegno, che vede in Hokusai, grande illustratore
della prima metà dell’800, il capostipite dei disegnatori
Giapponesi moderni. Famoso per opere come la raccolta delle
“Trentasei vedute del Monte Fuji”, tra cui la celeberrima “Onda
presso la costa di Kanagawa”, icona simbolo del Giappone stesso
in tutto il mondo, fu un grande maestro nell’arte della caricatura
satirica. Nel suo “Il paese dei topi” vediamo dei topolini
antropomorfi dannarsi a svolgere le faccende quotidiane e i
mestieri comuni all’epoca. La stessa forma poetica emblematica
del Giappone, l’Haiku, era in origine una forma satirica;
etimologicamente, infatti, il significato della parola “Haiku” è
“versi satirici”. Anticamente, l’Haiku era una sorta di freddura in
metrica; solo dopo divenne una forma di poesia dedicata
principalmente alla contemplazione della natura, attraverso
l’intercessione dei monaci Zen. E a proposito della religiosità,
nemmeno questa è immune dall’influsso dell’onnipresente ironia
giapponese. Basti pensare che i Koan, ossia i piccoli dilemmi e
aneddoti tesi ad aprire la mente dei novizi nel Buddismo Zen, e
che hanno in questo contesto la stessa valenza dei Sutra del
Buddismo tibetano, hanno spesso carattere ironico. E parlando
di radici religiose e antropologiche, persino i miti sulla creazione
del mondo, trascritti nel Kojiki (“Cronache delle cose antiche”)
attorno all’anno 600 ma di origine molto più antica, non sono
esenti da una sottile ironia che spunta, evidente, in diversi episodi
fondamentali.
Il falso mito della serietà austera della cultura Giapponese ha
spesso colpito anche i traduttori. A loro discolpa dobbiamo dire
che i Giapponesi stessi si sono spesso cullati in questo mito.
Persino un traduttore scrupoloso, che avesse studiato
approfonditamente i testi originali fino al punto di trasferirsi in
Giappone per essere più vicino alle fonti primarie, e assorbirne la
cultura e la quotidianità, avrebbe potuto trovarsi in difficoltà nel
VI
cogliere questi aspetti. Timidi per natura, i Giapponesi avrebbero
difficilmente reso partecipe lo straniero delle loro “facezie”
quotidiane, e “arrotondare gli spigoli” delle ironie più grossolane
o taglienti dei testi da tradurre sarebbe stata una fortissima
tentazione per chi avesse dovuto assistere il traduttore
occidentale nel suo compito2. Quindi, privato del vissuto
esperienziale a cui i testi fanno costante riferimento, dal
momento che, in sua presenza, i Giapponesi si sarebbero
comportati tendenzialmente in modo diverso dall’usuale, e senza
la possibilità di accedere in maniera non filtrata al significato
sottostante, persino il traduttore più scrupoloso si sarebbe
trovato di fronte a difficoltà difficilmente sormontabili. Peggio, si
sarebbe trovato di fronte a un testo che avrebbe potuto ritenere
di aver tradotto correttamente, senza capire quale fosse il
contenuto metalinguistico che lo scrittore locale poteva
trasmettere ai suoi contemporanei, e che non era stato colto nella
traduzione; senza quindi apprezzare l’entità della perdita. Anzi,
senza nemmeno rendersi conto dell’esistenza di tale perdita.
Oggi, l’immensa mole di materiale audiovisivo e scritto riversato
dai Giapponesi su Internet permette allo studioso
un’approfondita analisi dei substrati culturali che veicolano la
trasmissione dei valori meta-comunicativi, dei modi di dire, delle
espressioni dialettali, dei tic, delle gestualità che i Giapponesi
usano nelle loro interrelazioni quotidiane. È un po’ come poter
guardare il Giappone dal buco della serratura, senza quei filtri
culturali a cui sarebbe sottoposto, ancora oggi, lo studioso
straniero in visita. Ma la disponibilità di materiale di studio non si
ferma qui; su Internet, sono disponibili dizionari
onnicomprensivi, liste di termini dialettali (spesso locali a una
singola municipalità), forum di discussione sull’origine di modi di
2
Di questo, sono direttamente testimone. Mi è sempre stato impossibile ottenere
una descrizione “franca” dei passaggi che contengono elementi di parlato
comune, o addirittura volgare, da parte dei miei corrispondenti in Giappone, a
meno di insistere ripetutamente e a lungo sul fatto che certe parole non potevano
essere intese come “gentili” in nessuna accezione possibile.
VII
dire e sul significato e l’etimologia di espressioni che oggi
risultano oscure persino ai Giapponesi stessi. E ancora, i poemi
antichi in lingua Giapponese e Cinese citati da autori come
Souseki sono ora facilmente reperibili in lingua originale, con
pochi click. Solo pochi anni or sono, accedere a questa mole di
dati, di inestimabile valore per un traduttore, sarebbe potuto
costare tempo e risorse ben al di là delle possibilità di qualsiasi
studioso.
A questo fattore oggettivo va aggiunto che, causa la lontananza
delle rispettive aree commerciali, per lungo tempo le fonti
primarie attraverso le quali gli studiosi italiani hanno potuto
apprezzare la cultura orientale sono state fonti in lingua inglese.
In passato, nell’area culturale di lingua inglese si preferiva
adattare i testi tradotti alla cultura di destinazione; oggi, invece, si
preferisce un approccio più diretto, che permetta di apprezzare
esattamente quelle differenze culturali che, precedentemente, si
preferiva edulcorare, al fine di ridurre i possibili contrasti fra la
cultura originale e quella di destinazione.
In più, va detto che il passaggio attraverso l’Inglese priva la
traduzione della possibilità di conservare alcune strutture
linguistiche: ad esempio, il grado di formalità della frase espresso
con componenti del verbo, la possibilità di riordinare i
complementi in ordine d’importanza, la possibilità di spostare il
verbo in posizione esterna, e altro ancora.
Struttura
Questo testo è diviso in tre parti.
Nella prima, si trova la traduzione dei tredici capitoli del testo
originale del Kusamakura.
La seconda parte è costituita dall’esegesi dell’opera, capitolo per
capitolo, che ha lo scopo di permettere al lettore di comprendere
il romanzo nel suo contesto storico e culturale. Oltre a questo,
vengono anche introdotte alcune note biografiche sull’autore, che
VIII
permettono di individuare i paralleli che Souseki disegna fra il
protagonista immaginario e sé stesso.
Nella terza parte, sempre per ogni capitolo, viene illustrato nel
dettaglio il processo di traduzione, e quali scelte siano state
operate nel rendere alcuni concetti e riferimenti culturali
giapponesi nell’equivalente italiano. In questa parte si trovano
anche le poesie in Giapponese e Cinese che punteggiano
quest’opera, nella loro forma originale. Nel testo, infatti, ho
scelto di cercare di rendere le poesie in una metrica che potesse
rendere lo stesso ritmo e la stessa forza emotiva che arrivano
all’orecchio dei lettori giapponesi; inevitabilmente, è stato
necessario fare qualche piccola concessione alla metrica a scapito
della stretta aderenza alla lettera delle poesie originali. Per non
privare il lettore italiano della possibilità di comprendere appieno
il significato originale, ho scelto di riportare in questa sezione le
poesie non tradotte, accanto a una traduzione letterale, parola per
parola, che permetta al lettore di comprendere il contenuto
letterale delle poesie. Inoltre, chi avesse anche solo
un’infarinatura di Giapponese e/o Cinese, potrà apprezzare le
poesie nella loro forma originale, avendo l’ausilio di una
traduzione letterale che serva come dizionario alle parole in
lingua straniera.
Il lettore può leggere questo testo come meglio preferisce: può
leggere ogni sezione in sequenza, o leggere l’esegesi e le note di
traduzione dopo aver letto il capitolo di riferimento, o
semplicemente leggere il testo tradotto tralasciando il resto. Nei
paragrafi della seconda e terza sezione, sono stato molto attento
a non rivelare informazioni che si scoprono nei capitoli successivi
dell’opera; quindi, se lo si desidera, è possibile approfondire il
significato dei capitoli appena letti facendo riferimento all’esegesi,
e quindi alle note di traduzione, per una comprensione ancora
più profonda. Ma allo stesso tempo, nessuna informazione
fondamentale è demandata alle due sezioni accessorie; quello che
è necessario alla comprensione del testo, e non può essere
inserito nel corpo della traduzione, è riportato nelle note a piè di
IX
pagina. Quindi, le due sezioni accessorie costituiscono solo di un
approfondimento che sarà gradito ai lettori, o eventualmente ai
filologi, che volessero comprendere il significato profondo
dell’opera.
Note stilistiche e linguistiche
Per quanto riguarda l’aspetto tecnico della traduzione, ho scelto
di trascrivere i nomi giapponesi con il sistema Kunrei, perché più
fedele alla fonetica Giapponse e più semplice da usare sui
moderni computer. Il lettore italiano può leggere i nomi così
come li vede scritti, facendo attenzione ai gruppi sh e ch che
vanno letti come in “sciatore” e “cialtrone”, e al gruppo ou che si
legge come una o lunga3.
Nella traduzione ho cercato di rispettare sia lo spirito che la
lettera del testo originale. La struttura linguistica del Giapponese
è piuttosto diversa da quella delle lingue occidentali, ma l’Italiano
è abbastanza flessibile da essere spesso in grado di trasmettere gli
stessi concetti, e alle volte, con lo stesso ordine con il quale
vengono presentati nell’originale. In alcuni casi, nei brani che
suonavano più poetici in originale, è stato anche possibile
spostare il verbo in fondo alle frasi, così come accade in
Giapponese. Soprattutto, ho cercato di riprodurre il ritmo e la
sequenza di pensieri e di concetti intessute nelle frasi.
Un aspetto molto delicato della traduzione riguarda la gestione
delle ripetizioni. Il Giapponese fa un uso “strutturale” delle
ripetizioni, che non sono per nulla percepite come ineleganti,
tanto che all’uso dei pronomi si preferisce spesso ripetere
direttamente il nome. Tuttavia, nel linguaggio poetico e nell’alta
prosa, anche il Giapponese tende a evitare le ripetizioni, non
tanto per gusto estetico, quanto per ragioni di economia: la
3
X
Ad esempio, “Souseki” si trova spesso trascritto come Sōseki, che è la grafia
usata nel sistema Hepburn.
poetica Giapponese non poggia (in genere) sul suono o sulla
metrica degli accenti del componimento, bensì sulla mera
sequenza dei concetti, al più intrecciati attraverso “figure
retoriche” di contenuto, di sostanza e non di forma. In questo
contesto, la ripetizione di una parola toglie spazio alla
presentazione dei contenuti, ed è quindi evitata.
A Souseki non mancano certo le capacità di gestire con eleganza
le ripetizioni; si ha la sensazione che, dove ne rimangono, queste
non abbiano il compito strutturale che la grammatica giapponese
assegna loro, ma siano propriamente inserite per motivi di ritmo
e di insistenza. Per questo, ho cercato di mantenere le ripetizioni
con lo stesso ordine e la stessa frequenza del testo originale.
Altro aspetto importante della differenza fra la prosa
Giapponese e quella Italiana è la costanza del tempo. In Italiano,
mantenere invariato il tempo al quale viene narrata una storia è
una regola ferrea, mentre in Giapponese, si usa spessissimo il
presente-nel-passato. È una tecnica usata anche in Italiano,
quando si vuole rendere un brano colloquiale. Ad esempio,
“Stamattina sono andato in posta per spedire una lettera, e chi
t’incontro? Mio fratello!”
Dove possibile e consistente ho cercato di mantenere i cambi di
tempo; sebbene la narrazione sia principalmente al passato (si
tratta di un racconto di ciò che è successo), il protagonista passa
spesso al presente, quasi come se stesse raccontando al lettore ciò
che gli era capitato rivivendolo nella narrazione. Ne risulta una
narrazione in prima persona e spesso al presente, che ha un
sapore piuttosto moderno.
Ho cercato di rendere i passaggi dai toni poetici al parlare
comune, quando non volgare, e dal registro formale al
colloquiale, ogni qual volta era possibile. Come in Italiano, in
Giapponese una conversazione che parte formale e finisce
colloquiale, magari con passaggi bruschi e temporanei, indica
degli ammiccamenti, delle “strizzatine d’occhio” verbali che
XI
fanno parte del livello metalinguistico, estremamente importante
per trasmettere il contenuto di una conversazione.
Un’ultima nota riguarda il titolo che ho scelto per la traduzione.
Una perdita nel passaggio attraverso l’Inglese della traduzione
indiretta dal Giapponese all’Italiano, forse poco rilevante, ma
sintomatica, è la differenza fra i nomi composti e i genitivi. Nelle
lingue che fanno un forte uso di preposizioni e particelle, come il
Giapponese e l’Italiano, l’accostamento diretto di un nome a un
altro ha un significato differente che non nelle lingue prive di
particelle, o dove queste sono meno importanti, come l’Inglese e
il Cinese. In Inglese, l’accostamento di nomi forma un genitivo
proprio, un complemento di specificazione “compresso”. Parole
come “riverside” (fiume + lato = riva), “daydream” (giorno +
sogno = illusione) ecc. sono semplicemente gruppi nominali che
generano un nuovo gruppo nominale. In Italiano, parole formate
in questo modo hanno spesso un valore verbale: ad esempio
“bordocampo” ha in sé un senso di stazionamento, di posizione,
di attività: non si indica con la parola “bordocampo” il bordo del
campo, ma si indica un’attività svolta in quella posizione (stare a
bordocampo, arrivare a bordocampo...). Il Giapponese forma il
genitivo e il complemento di specificazione principalmente
attraverso la particella “no”, che corrisponde grosso modo al
nostro “di”; una parola composta come 草 枕 – kusamakura, il
titolo originale di quest’opera, ha più un significato verbale che
non nominale. “Kusa” significa erba, e “makura” significa
guanciale, ma la loro fusione non significa semplicemente
“guanciale d’erba”. Assume un senso di attività, o di
stazionarietà, così come altre parole giapponesi formate allo
stesso modo. La parola kusamakura richiama l’atto stesso di
fermarsi in un luogo, guardarsi intorno, decidere che non c’è
altro posto dove si possa andare prima del calare del sole, e lì, su
due piedi, sdraiarsi e avere, per guanciale, erba.
XII
Per guanciale, erba
1
Mentre risalivo la strada di montagna, pensavo così.
Lavorando d’intelletto, è tutto uno spigolo. Facendoti
trasportare dai sentimenti, vieni trascinato via. Sforzandoti di
essere coerente, ti senti soffocare. Qualsiasi cosa tu faccia, stare al
mondo è difficile.
Quando la difficoltà si fa più forte, ti vien voglia di rintanarti in
qualche posto tranquillo. Quando ti rendi conto che ovunque tu
vada è sempre difficile stare al mondo, nasce la poesia e riesci a
dipingere.
Anche se le cose fatte dagli uomini nel loro mondo non sono
divine, non sono nemmeno demoniache. In fondo, essi sono
persone simili ai nostri dirimpettai, che a tratti brillano pure. È
proprio perché è difficile stare in un mondo costruito da persone
comuni che non c’è terra dove andare. Se ci fosse, bisognerebbe
andare in una terra senza gente. Ma chissà, stare al mondo in una
terra senza gente, magari, sarebbe ancor più difficile.
Se, non potendo andare altrove, ci è difficile stare al mondo, le
cose che ci risultano più intricate, per quanto possiamo,
dobbiamo scioglierle, e in quel poco di vita che ci è dato, per quel
poco che riusciamo, dobbiamo renderci lo stare al mondo
piacevole. È qui che quelli che si definiscono “poeti” trovano
ispirazione, è da qui che quelli che si definiscono “pittori”
ricevono la loro missione. Gli artisti di ogni arte, rasserenando il
mondo, saziano il cuore degli uomini, pur consacrandolo alla
ragione.
1
Sfilando dal mondo in cui è difficile stare gli affanni con cui è
difficile convivere, ciò che ritrae da vicino un mondo piacevole è
la poesia, e la pittura. E c’è anche la musica, e la scultura. A
essere precisi, non c’è bisogno di ritrarlo. Piuttosto, osservandolo
da vicino, la poesia nasce, e la musica pulsa. Pur senza lasciar
cadere i concetti sulla carta, la mia anima può vibrare del suono
del kyousou1. Pur senza un sedere di fronte al cavalletto a stendere
la tempera, lo splendore dei cinque colori 2 si forma vivido nella
mia mente. Se, osservando in ogni aspetto il mondo in cui
viviamo, riusciamo ad avvicinare questa empia e vile vita terrena
alla pura bellezza ritratta dalla macchina fotografica posata a
fianco dello spirito, questo basta. Per questa ragione, un poeta
muto che non ha mai scritto neanche un verso, o un pittore
daltonico che non ha mai dipinto neanche un sekken3, considerato
il loro punto di vista su ogni esistenza, considerato che sanno
liberarsi da ogni vano desiderio, considerato che vanno e
vengono da ogni mondo puro, o piuttosto, considerato che sono
in grado di plasmare il creato, considerato che spazzano via ogni
convenzione egoistica, più di un giovane danaroso, più di un
principe, più di ogni persona a cui questo vile mondo possa aver
accordato i suoi favori, essi sono felici.
Dopo essere stato al mondo per vent’anni, compresi ciò che
valeva la pena d’essere vissuto davvero. A venticinque, capii che
luce e oscurità sono due facce della stessa medaglia, e che là dove
più batte il sole c’è sicuramente ombra. Oggi che ho trent’anni la
penso così: nei momenti di gioia profonda v’è tristezza ancor più
profonda, e quando aumentano le gioie così fanno i dolori. Il
mondo non starebbe in piedi a sistemarlo. Il denaro è
1
Antico strumento a percussione in giada e oro, simile a uno xilofono, che
rivestiva nella musica cinese il ruolo che le campane tubolari hanno nella musica
occidentale.
2
Si riferisce ai cinque colori di base conosciuti nella pittura cinese: giallo, verde,
rosso, bianco e nero.
3
È un quadrato di seta di circa sessanta centimetri di lato che veniva usato come
base nella pittura in stile cinese.
2
importante, ma se esageri con le cose troppo importanti, anche
quando dovresti dormire, di notte, te ne preoccupi. L’amore è
bello, ma più sei felicemente amato, più rimpiangi il tempo in cui
ancora non lo eri. Un ministro ha sulle spalle milioni di persone.
Sulla sua schiena grava il peso dell’intero creato. È spiacevole
non mangiare bene. Se mangi poco, non ti basta. Se mangi
troppo, poi stai male...
Il mio pensiero si era trascinato fino a qui, quando il mio piede
destro si posò su una pietra sconnessa. Per mantenere
l’equilibrio, “ahia!”, buttai avanti il piede sinistro, ma mentre
stavo per compensare l’errore, andai a sbattere il fianco su un
pietrone ben squadrato, alto proprio un metro. La scatola dei
colori che avevo in spalla penzolò sotto l’ascella, ma
fortunatamente non le successe nulla.
Rialzatomi, guardando avanti, vedo che alla sinistra della strada
torreggia una collinetta simile a un secchio rovesciato. Non
capisco se siano cedri o cipressi, ma nel verde cupo che la ricopre
dalla base alla cima, il rosso tenue di un ciliegio di montagna si
staglia vivido, e oltre, la foschia è densa al punto di rendere i
contorni indistinguibili. In direzione della strada, un colle brullo;
si sfila dal gruppo e lotta per farsi vedere. Il fianco calvo, come
levato via dall’ascia di un gigante, sprofonda ripido, fino alla base
della valle. Quel che si vede sulla cima, che è? Sarà un pino
rosso? Si vede chiaramente persino il cielo fra i rami. Vedo la
strada procedere per un paio di miglia al massimo, ma su in alto
pare esserci come un telo rosso che sbatte; salendo, dovrei finire
là, credo. La strada è terribilmente sconnessa.
La terra, mettendoci molto impegno, la si può anche
addomesticare, ma nella terra ci sono grandi pietre. Pur
appiattendo la terra, le pietre non si appiattiscono. E anche
sbriciolando le pietre, con i massi non c’è niente da fare.
Ergendosi sulla terra plasmata, non hanno nessuna intenzione di
fare del paesaggio strada per noi. Se non mi danno retta, e non
mi fanno passare su di loro, li dovrò aggirare. Non sono un gran
camminatore, nemmeno dove non ci sono massi. Circondato da
3
alture, sprofondato al centro di esse, come inguainato nel vertice
di un triangolo, usare un termine come “passare fra le cime”
sarebbe criticabile. Più che dire che sto percorrendo una strada,
sarebbe adeguato dire che sto guadando il fondo di un fiume.
Comunque, era fin dall’inizio un viaggio senza fretta, e richiede
un tortuoso ondeggiare.
D’improvviso, da sotto i piedi salta fuori il canto di un’allodola.
Guardo giù nella valle, ma proprio non si capisce da dove il
pianto arrivi. Solo la voce si ode chiaramente. Veemente e
irritata, piange ininterrottamente. In quell’aria smossa giusto dalle
pulci per chissà quante miglia, in ogni direzione, mi risulta
insopportabile. Il suono del pianto di quell’uccello non cede
nemmeno un istante. La tranquillità del giorno di primavera
dovrebbe affievolire quel pianto, fiaccarlo, e comunque non può
nutrirlo, o almeno ho questa sensazione. Sale su ovunque, sale su
per sempre. È fuori dubbio che l’allodola morirà fra le nuvole.
Magari, quando sarà finalmente giunta al termine della sua salita,
fra le nubi che scorrono via, mentre galleggia con esse, la sua
forma svanirà, e solo la sua voce rimarrà in cielo.
Girando rasente a uno spuntone di roccia, che a esser fiacchi si
finirebbe per cadere gambe all’aria, taglio coraggiosamente a
destra ed ecco che, guardando in basso, di fianco, i na-no-hana4
occupano l’intera vista. Mi dissi che l’allodola doveva essere
caduta là. No, pensai, forse è da quel prato giallo oro che si è
levata in volo. Poi pensai che l’allodola che era caduta doveva
aver incrociato per caso quella che si librava. E infine pensai che
anche mentre cadevano, mentre si libravano e mentre si
incrociavano per caso, avrebbero continuato a cantare con tutte
le loro forze5.
4
Piccoli, delicati fiori gialli dall’infiorescenza molto compatta; formano prati di un
giallo splendente punteggiati del verde dei loro steli, di una bellezza mozzafiato.
Sono generalmente conosciuti come “fiori di rapa”, ma questa particolare
fioritura è presente solo nelle varietà cinesi e giapponesi.
5
Cita liberamente Mukai Kyorai, poeta e scrittore di haiku vissuto fra il 1651 e il
1704, e in particolare un suo verso: “Senza posa, il pianto delle allodole e il loro
4
In primavera si è sonnacchiosi. I gatti si dimenticano di
prendere i topi, e gli uomini si dimenticano dei loro debiti. Alle
volte, dimenticandosi di dove sia la loro anima, perdono persino
la propria vera natura. Ma basta sbirciare appena i Na-no-hana da
lontano per risvegliarsi. Quando si ode il canto dell’allodola, ecco
che si certifica la presenza dell’anima. Fra le espressioni
dell’anima che emergono alla voce, non ve ne sono altre di così
intense. Ah, questa è gioia! Queste emozioni, il provare questa
gioia è poesia. Mi sovviene la poesia di Shelley sulle allodole 6;
provo a ripeterla ma ne ricordo solo due o tre versi. Fra quei due
o tre versi, alcuni fanno così:
We look before and after
And pine for what is not:
Our sincerest laughter
With some pain is fraught;
Our sweetest songs are those that tell of saddest thought.
“Guardiamo avanti, guardiamo indietro, desiderando ciò che
non è. Là dov’è la nostra risata più viscerale, deve esserci dolore.
Le canzoni di estrema bellezza sono colme di pensieri di estrema
tristezza.”
Eh già; per quanto i poeti possano essere felici, non possono
esserlo quanto l’allodola, che con foga, con tutta se stessa,
dimentica di tutto eccetto che dell’attimo, canta la propria gioia.
Nella poesia occidentale, e anche in quella cinese, è noto l’abuso
del termine “migliaia di lacrime di dolore”. Se per un poeta ci
vogliono migliaia di lacrime, un principiante dovrebbe stare a
posto con un bicchiere. Cioè, un poeta è più pessimista di una
persona normale, e magari ha i nervi almeno due volte più
incrociarsi.”
6
Percy Bysshe Shelley (1792-1822), poeta inglese della stessa corrente di Byron.
Souseki lo lesse avidamente durante il suo soggiorno in Inghilterra, e lo cita
spesso. La poesia alla quale si riferisce è “To a Skylark”.
5
delicati di un tizio qualunque. Deve avere delle gioie pazzesche,
ma pure un sacco di profonde tristezze. Beh, se è così,
bisognerebbe pensarci due volte prima di fare il poeta.
Per un po’, il sentiero si fa piatto, a destra boschi misti, e a
sinistra si continuano a vedere i Na-no-hana. Ogni tanto, calpesto
un dente di leone. Le loro foglie seghettate proteggono in ogni
direzione la gialla gemma al centro. Con l’attenzione rapita dai
Na-no-hana, dopo averne calpestati un po’, dispiacendomene, mi
volto a guardare. La loro gemma gialla è assisa fra le foglie
seghettate, come prima. È cosa da poco. Riprendo il filo del mio
pensiero.
Magari, la tristezza fa parte dell’essere poeta, ma nel
sentimento che si prova ascoltando quell’allodola non v’è il
benché minimo dolore. Guardando i Na-no-hana, solo gioia danza
nel petto. E pure con i dente di leone è lo stesso, e i ciliegi – i
ciliegi! a un certo punto ho smesso di vederne. Quando ci si
addentra nelle montagne, venendo a contatto con paesaggi
naturali, tutto ciò che si vede e tutto ciò che si ode è interessante.
Il solo fatto che sia interessante impedisce che si sviluppi un
diverso tipo di dolore. Se v’è dolore, è solo quando i piedi si
affaticano, o quando non si può mangiare nulla di buono.
Ma mi chiedo, perché non v’è dolore? È semplicemente perché,
questo paesaggio, lo vedo come un dipinto in un quadro, lo leggo
come una poesia in un rotolo. Al di là del considerarlo un
disegno o una poesia, esso non smuove altri interessi, come
reclamarne un appezzamento e coltivarlo, o aprirvi una ferrovia
su cui lucrare. Deve essere semplicemente perché, questo
paesaggio – proprio questo paesaggio che non può darmi il pane
quotidiano, che non può pagarmi lo stipendio – è per me un
paesaggio che rallegra il cuore, e perciò non lo accompagno ad
affanni né a preoccupazioni. Sta in questo la sacralità che
riconosco alla forza della natura. Ciò che, in un attimo, eleva le
nostre emozioni alla purezza, e ci conduce a uno stato di sublime
ispirazione poetica è la natura.
6
La passione sarà pure intrigante, la tenerezza per i figli sarà pure
bella, l’amore per la propria terra sarà pure splendido. Solo che,
quando poi queste cose toccano a noi, veniamo avviluppati dal
turbine dell’interesse personale, e anche di fronte alle cose belle, e
anche al cospetto di quelle splendide, gli occhi si appannano. Si è
dubbiosi e non si capisce più se in esse vi sia poesia.
Per capirlo bisogna porsi nei panni di un terzo, purché esso
abbia la facoltà di capire. Quando si è nei panni di un terzo, le
recite sono interessanti. Anche i romanzi sono divertenti. Le
persone che trovano interessante vedere una recita, e le persone
che trovano divertente leggere i romanzi, posano i propri
interessi su uno scaffale. Solo per il tempo in cui guardano o
leggono, sono poeti.
Tuttavia, le normali recite e i normali romanzi non sono
dispensati dalle passioni. Ci si soffre, ci si arrabbia, ci si agita, ci si
piange. Chi vi assiste, si immedesima e soffre, si arrabbia, si agita
e piange. Si potrebbe evidenziare che il loro pregio sta nel non
coinvolgere gli egoismi personali, ma è proprio perché non li
coinvolgono che le altre passioni sono inutilmente più attive del
normale. E questo non mi piace.
Soffrire, arrabbiarsi, agitarsi e piangere sono cose che fanno
parte dello stare al mondo. Anche io ci sono passato attraverso
per trent’anni, e ora non ne posso più. Se, oltre a non poterne
più, dovessi subire gli stessi attacchi pure dalle recite e dai
romanzi, sarebbe un guaio. La poesia che desidero non è quella
che incoraggia le passioni mondane. È quella che, anche per
poco, mi fa sentire distaccato dalle voglie meschine di questo
lordo mondo. Per quanto siano capolavori, non vi sono recite
che sappiano allontanarsi dalle passioni, e i romanzi che si
astengono da giudizi morali sono ben pochi. Il non poter uscire
dal mondo in alcun modo è la loro caratteristica. In particolare,
quando si tratta di poesia occidentale, traendo essa le sue radici
proprio dall’esperienza sulla condizione umana, nemmeno i così
detti “cantici” più puri sanno come trascendere questo limite.
Che sia compassione, o amore, o giustizia, o libertà, usano a
7
profusione cose che si trovano in svendita nel mondo fluttuante7.
Per quanto poetiche possano divenire, sono cose che, correndo
sulla faccia della terra, non ci permettono di dimenticare
nemmeno una fattura da un centesimo. È chiaro come Shelley
abbia sospirato udendo le allodole.
Menomale che nella poesia orientale c’è qualcosa in grado di
trascendere8.
Colgo un ciclamino dalla siepe del levante
Osservo poi sereno a sud il solo monte
Basta questo, ed ecco che ne esce uno scenario dimentico delle
brucianti sofferenze del mondo. Non c’è la ragazza della porta
accanto che sbircia da dietro la siepe, né un amico partito in
missione per la montagna a sud. Ci porta nello stato d’animo
sereno e trascendente di chi ha lasciato scorrere via il sudore
versato dietro agli affanni dei propri interessi.
Siedo solo nel buio fra i bambù
Suono l’arpa e ancora canto a lungo
Là nel bosco, che dell’uomo non sa più
Vien la luna, splendor cui mi congiungo 9
In soli venti caratteri, edifica dolcemente un creato a parte. E la
virtù di questo creato non è la virtù de “Il Cuculo” o de “Il Demone
Dorato”10. È una virtù simile all’oblio di quando, sfiniti da navi,
treni, diritti, doveri, morale e educazione, si cade addormentati.
7
È un riferimento esplicito al movimento letterario e artistico dell’ukiyo, che
significa appunto “mondo fluttuante”.
8
Si tratta di un brano di una poesia di Yuangming (365-427), “Venti sorsi di vino”.
9
È una poesia di Wang Wei (699-759), “Il palazzo di bambù”
10
Opere “morali” famose ai tempi di Souseki. “Il Cuculo” è un romanzo di
Tokutomi Roka (1868-1927), e “il Demone Dorato” è un romanzo a puntate
pubblicato sull’Asahi Shinbun, di Kouyou Osaki (1868-1903).
8
Se, nel ventesimo secolo, abbiamo bisogno di dormire, allora,
nel ventesimo secolo, questa poesia di evasione dal mondo è
essenziale.
Purtroppo, oggi mi sa che sia chi fa poesia che tutti quelli che la
leggono, influenzati dall’uomo occidentale, non metterebbero
mano a una barchetta giusto per risalire il fiume e vedere da dove
arrivano i fiori di pesco portati dalla corrente11.
Non ho studiato poesia nello specifico, e non ho la benché
minima intenzione di allargare il pubblico a conoscenza di Wang
Wei o Yuanming mettendomi a spiegarli. Solo, personalmente li
trovo più interessanti che non la recitazione o la danza. Mi
gratificano di più essi che non un “Faust”, o un “Amleto”. Ed è
proprio per questo che mi ritrovo tutto solo con la mia scatola
dei colori e il mio treppiedi in spalla, a camminare mogio mogio
su questo primaverile sentiero di montagna. Le atmosfere di
Wang Wei e Yuanming assorbono direttamente la natura e, anche
se per poco, desidero fluttuare in un luogo inemotivo. È un mio
trastullo.
Naturalmente, non sono che una particella di umanità, per cui,
per quanto lo desideri, non posso rimanere inemotivo a lungo.
Wang Wei non se ne stava certo tutto il tempo a rimirare la
montagna a sud, e non credo che Yuanming fosse tipo da
dormire nel bosco di bambù, che tanto adorava, senza una
zanzariera. Mi sa che quel crisantemo sia finito fra le mani di una
fioraia, e i germogli di bambù siano stati venduti in una
mesticheria. E pure io sono così. Per quanto le allodole e i Na-nohana possano piacermi, l’inemotività non mi attrae abbastanza da
farmi andare a vivere accampato su una montagna. Anche in
posti come questo si incontrano persone. Un samaritano con una
visiera di velo plissettato, una ragazza con una fusciacca rossa...
11
Si riferisce a un poema dell’autore cinese Tao Quiang, “Cronache della sorgente
dei peschi”, dove un pescatore risale la corrente per vedere da dove arrivassero i
fiori di pesco che galleggiavano sul fiume, trovando un paradiso terrestre di pace
e armonia.
9
alle volte, si incontrano persino cavalli col muso più lungo dei
loro padroni. Pur circondato da miliardi di cipressi, pur
inspirando ed espirando l’aria centinaia di miglia al largo sul
mare, questa puzza di uomo non va mai del tutto via. Mah, sarà
per questo che la mia meta per stanotte è l’onsen di Nagoi12.
Il punto è che le cose cambiano a seconda di come le si guarda.
Per dirla con le parole che Leonardo da Vinci rivolse al suo
discepolo, “ascolta il suono di quella campana! La campana è
una, ma non così il suo suono. Ogni uomo, o ogni donna, lo
troverebbe diverso, a seconda del proprio punto di vista13.” e io
sono partito in questo viaggio per avere un po’ di inemotività,
quindi, se mi metto nell’idea di guardare la gente così, sarà certo
meglio di quando vivevo stretto in un buco qualsiasi di un vicolo
anonimo del mondo fluttuante. Bene; se proprio non posso
separarmi dalle passioni, posso almeno entrare nello stato
d’animo leggero di quando si assiste a una recita del Noh. Ci
sono passioni anche nel Noh. Pure nel Shichikiochi, o nel
Sumidagawa14, mica si può essere certi che non si finirà col
piangere! Ma quella roba è per tre parti arte e per sette mestiere.
Se ci piace il Noh non è perché esso è capace di riflettere le
passioni così come esse davvero sono. È per la tecnica di
prendere quelle passioni così come sono e le rivestirle di chissà
quanti strati di kimono, per farle agire docilmente, così come non
potrebbero mai fare nel mondo reale.
Chissà come dev’essere guardare per un po’ quel che mi
accadrà in questo viaggio, e le persone che incontrerò, come
fossero la trama, i movimenti degli attori di una recita del Noh.
Non sarà come gettar via completamente i sentimenti, ma visto
12
Gli onsen sono le sorgenti termali che abbondano in Giappone, e sulle quali
vengono costruiti da sempre alberghi più o meno lussuosi. Nagoi è un luogo di
fantasia.
13
È una scena tratta da “Leonardo da Vinci” di Dimitri Merejkovski.
14
Sono i nomi di due famose opere del teatro tradizionale Giapponese detto
“Noh”.
10
che è un viaggio intrapreso per raggiungere uno stato poetico,
allenandomi all’inemotività, voglio provare a esercitare la massima
parsimonia possibile. E certo, non c’è dubbio che avrà natura
ben diversa dalla montagna a sud o dalla siepe di bambù, e non la
potrò nemmeno paragonare alle allodole o ai Na-no-hana, ma
voglio provare a osservare la gente dal punto di vista che più si
possa avvicinare a questo. Un tizio di nome Bashou 15 riuscì a
poetare persino sull’eleganza del pisciare di un cavallo accanto al
suo giaciglio! E anche io, gli esseri umani che incontrerò d’ora in
avanti – che siano villici, mercanti, impiegati di campagna, nonni,
nonne – proverò ad assumere l’ipotesi che siano tutte figure in
risalto sul dipinto di un panorama. Beh, essi avranno pose assai
più articolate che non la gente su un dipinto. Ma facendo come
un qualsiasi scrittore di romanzi, che fruga fra quelle pose
articolate, e si addentra nei meccanismi psicologici, ed esamina le
tragedie umane, si cadrebbe nella volgarità. Che si muovano pure,
non m’importa! Anche se vedessimo la gente muoversi su un
dipinto, essa non potrebbe infastidirci. Anche muovendosi sulla
superficie del dipinto, le figure umane non potrebbero certo
venir fuori. Perché, se dovessero saltar fuori dalla superficie,
volendo pensare che si muovano ritualmente come una geisha,
sentirsele sbattere addosso, o discutere con noi delle loro
faccende, sarebbe una seccatura.
Ma per quanto possa essere una seccatura, bisogna vedere tutto
questo come pura estèsi. Osservandole distaccatamente, da
lontano e dall’alto, farò sì che con le persone che incontrerò
d’ora in poi non si accenda la scintilla di un’inutile sentimento
reciproco. Facendo così, per quanto gli altri si muovano,
semplicemente, non avranno alcuna ragione per finire addosso a
questa specie di sacco di patate, insomma, sarà come starsene in
piedi davanti a un dipinto a guardare le figure umane che si
agitano e si muovono in qua e là sulla sua superficie. Dicendolo
15
Matsuo Bashou (1644-1694), famoso per i suoi haiku (componimenti ermetici in
17 sillabe) a sfondo satirico.
11
con altre parole, dato che non mi lascerò distrarre dalle loro
faccende, sforzandomi al massimo, potrò ammirare il loro moto
dal punto di vista artistico. Senza altri pensieri, potrò dedicarmi a
giudicare se sia bello o meno.
Avevo appena preso questa decisione che il tempo si fece
incerto. Mi viene da pensare che la nube sulla mia testa sia
troppo indefinita, ma all’improvviso si scarica, e da ogni parte, da
quello che si può ritenere essere un mare di nubi, la pioggia
primaverile, frusciante, mi cade addosso. Passando attraverso i
na-no-hana, va rapidamente da cima a cima, ma la pioggia cade in
fili talmente fitti da potersi scambiare per nebbia, e non si capisce
a quale distanza sia arrivata. A volte soffia il vento, e spazzando
via una nuvola dall’alto, mostra il fianco grigio scuro dei monti
sulla destra. Pare che, separato dalla vallata, un altro flutto corra
sulla cima opposta. In questo canestro di pioggia fitta, cose che
parrebbero pini, di tanto in tanto, si fanno vedere. Come penso
di vederne uno, subito si nasconde. È la pioggia che si muove, o
sono gli alberi, o i sogni... è una sensazione piuttosto strana.
La strada si allarga inaspettatamente, e prosegue in piano, e
quindi il solo camminare non mi spezza più le ossa, e dato che
non ho pensato a portarmi dietro un mantello per la pioggia, mi
affretto. Mentre dal cappello cadevano fitte gocce pesanti di
pioggia, da una quindicina di metri più avanti arrivò il suono di
una campanella, e dall’oscurità emerse un carretto.
«Ehi, qui in giro, non c’è un posto dove riposare?»
«Se prosegue giusto un miglio, trova una sala da tè. Certo che ti
sei proprio bagnato, eh?»
Stavo per dire «ancora un miglio?», ma come mi voltai, vidi la
forma del carretto, ormai, simile a un’ombra cinese, avvolta dalla
pioggia, e poi, nel tempo di un sospiro, sparì.
Le gocce che prima parevano sottili come crusca si fanno via
via più grosse e lunghe, e ora vengono attorcigliate dal vento, a
formare stringhe ininterrotte che mi entrano negli occhi. L’acqua
che ha infradiciato il mio cappotto ed è arrivata a bagnare la mia
12
biancheria intima si scalda col calore del mio corpo, tanto da
sembrarmi tiepida. È una brutta sensazione, e quindi chino il
cappello e procedo deciso.
In uno sconfinato mondo grigio-scuro, fra chissà quanti fili
d’argento che corrono obliqui, nient’altro che un uomo che,
bagnato, cammina... se potessi pensare a me come a un altro in
questa situazione, potrei farne poesia, o recitarlo in versi.
Quando si riesce a obliare la propria fisicità, e per la prima volta
si vede sé stessi come figure di un disegno, si può davvero
comprendere lo scenario e la splendida armonia della natura.
Però, dispiacendomi della pioggia, nell’attimo in cui mi accorgo
dei piedi che, correndo, si stancano, non sono più un uomo in
una poesia, né sono più un uomo in un disegno. Non sono altro
che quel moccioso di città di sempre. Non ammiro più la
magnificenza delle nuvole. Il mio cuore non fluttua più in
simpatia per i petali caduti e il canto degli uccelli. E non mi
interessa neanche di sapere quanto posso sembrare bello mentre,
sbattuto come un arbusto, cammino da solo, sulla montagna in
primavera. All’inizio, mi sono messo a camminare inclinando il
cappello. Poi ho continuato a camminare semplicemente
guardando i piedi muoversi. Alla fine mi sono stretto nelle spalle
ed ho camminato spaurito. La pioggia che fa ondeggiare le cime
degli alberi a perdita d’occhio preme ancor più su di me,
viaggiatore solitario.
Beh, adesso mi pare che con l’inemotività stiamo un po’
esagerando…
13
2
«Oi!» ho provato a chiamare, senza risposta.
Sbirciando dalla tettoia, un unto pannello scorrevole si para
innanzi. Oltre, non si vede nulla. Cinque o sei paia di sandali di
paglia, appesi tristemente al soffitto, penzolano svogliati,
ondeggiando piano piano. Sotto, una scatola di dolcetti
confezionati, ne rimangono giusto tre, e accanto, cinque monete
da un centesimo, vecchie di cent’anni, sparpagliate a casaccio.
«Oi!» provo a chiamare di nuovo. Su un mortaio appoggiato in
un angolo dell’anticamera1, due grassi polli, sorpresi, spalancano
gli occhi. «Kukuku, kukuku» rumoreggiano. Sulla parte del forno
oltre la soglia che, bagnata dalla pioggia appena caduta, ha
cambiato colore, c’è una tazza nera, ma non si capisce se sia di
ceramica o d’argento. Per fortuna, il fuoco è acceso.
Siccome non rispondeva nessuno, sono entrato sfacciatamente e
ho buttato il sedere su una panca. I polli, svolazzando, scendono
giù dal mortaio. Adesso, si sono posati sul pavimento. Se il
pannello non fosse stato chiuso, può darsi che avrebbero pensato
di infilarsi all’interno. Il gallo dice a gran voce «Kokekkokko», e la
gallina dice con voce fine «Kekekkokko». Si direbbe proprio che
mi abbiano preso per una volpe, o per un cane. Sulla panca
poggia tranquillo un braciere da un paio di litri, con dentro una
1
L’anticamera delle case tradizionali giapponesi occupa tutta la lunghezza della
stanza retrostante, è profonda circa due terzi, e ha il pavimento a livello del
terreno esterno, mentre quello del resto della casa poggia sulle travi di legno
portanti, ed è sopraelevato di una trentina di centimetri.
15
spira d’incenso che, incurante del volgere dei giorni, brucia
estremamente pigra. La pioggia, progressivamente, smette.
Dopo un po’ si sentono dei passi provenire dall’interno, e il
pannello si apre cigolando. Da dietro, esce una semplice
nonnetta2.
Sapevo che prima o poi qualcuno sarebbe venuto fuori. Il fuoco
nel forno è acceso. Ci sono delle monete buttate lì, sulla scatola
dei dolcetti. L’incenso brucia incurante. Doveva esserci per forza
qualcuno. Solo che, vedere qualcuno che non soffre a lasciare
incustoditi i propri averi fa un po’ strano, a uno di città. E anche
acculacchiarsi su una panca senza permesso, e aspettare chissà
quanto, sono cose che non quadrano bene col ventesimo secolo.
Essere inemotivi da queste parti sarà uno spasso! E in più, la faccia
della nonnetta che è saltata fuori mi piace.
Due o tre anni prima avevo assistito al Takasago, al teatro degli
Houshou3. Lo trovai uno splendido tableau vivant. Un vecchio
muoveva cinque o sei passi sull’hashigakari4, con una scopa in
spalla, poi si voltava lentamente fino a incontrare lo sguardo di
una vecchia. Ho il volto di quella donna anziana ancora davanti
agli occhi. Dal mio posto, avevo il volto della vecchia dritto
davanti a me, e così, quando mi dissi «quant’è bella», la sua
espressione rimase marchiata a fuoco nella macchina fotografica
del mio cuore. Il volto della nonna della sala da tè le assomigliava
tanto da sembrare una fotografia in carne e ossa.
«Nonna, ho preso un po’ in prestito la panca!»
«Oh, bene... non l’avevo sentita...»
2
Fra Giapponesi è normale indicare persone sconosciute con nomi di gradi di
parentela corrispondenti alla loro età, seguite dal suffisso di cortesia “san”. Così,
una ragazza è una “signora sorella”, una donna di mezza età è una “signora zia” o
“signora moglie” e un’anziana è una “signora nonna”.
3
Si tratta di una scuola di attori Noh che Souseki apprezzava in modo particolare;
il brano che cita è un classico del teatro Noh.
4
Passaggio tra le quinte e il palcoscenico, che resta in vista degli spettatori.
16
«Certo che ne è venuta giù un sacco, eh?»
«Questo tempaccio deve averla messa nei guai, ha fatto bene a
sedersi qui... Ooooh, ma ti sei bagnato un sacco. ’Spetta lì, che
rintuzzo il fuoco e ti faccio asciugare.»
«Basta che lo alzi appena un po’ e mi asciugherò in men che
non si dica. Grazie, che a star qui fermo m’è venuto un freddo...»
«Sì sì, te lo rintuzzo subito. Dai, prendi una tazza di tè.» dice
alzandosi, e fa scendere i polli sibilando loro dietro «sciò, sciò!»
«Kokokoko», marito e moglie corrono via, saltando su dal
pavimento color tè bruciato, correndo attraverso la scatola di
dolcetti, svolazzano fino alla strada maestra. E il gallo ha mollato
una merda proprio mentre passava sulla scatola dei dolci.
«Su, prendi» dice la vecchia, offrendomi una tazza su un vassoio
tirato fuori da chissà dove. Sotto al tè di colore nero bruciato, tre
fiori di pesco stilizzati sono incisi con un singolo tratto.
«Un dolcetto...» dice, e ora mi porge delle treccine al sesamo, e i
bastoncini di farina di riso calpestati dal gallo. Li ho scrutati bene
per accertarmi che non ci fosse rimasta attaccata della merda, ma
quella è stata lasciata nella scatola.
Stringendosi il tasuki5 dietro al kimono smanicato, la nonna si
china di fronte al forno. Prendo dalla sacca il mio blocco da
disegno e, mentre schizzo il profilo della nonna, attacco a
chiacchierare.
«Che pace che c’è qui, vero?»
«Sì, è un villaggio di montagna, come può vedere...»
«E magari ci cantano pure gli usignoli.»
«Sì, cantano più o meno tutti i giorni. Da queste parti cantano
anche in estate.»
5
Specie di fascia che viene fatta passare sotto le ascelle, dietro la schiena e fra le
spalle per tenere fermi gli abiti indossati e impedire che si sporchino o intralcino
durante i lavori manuali.
17
«Mi piacerebbe sentirli. Tanto più che fino a ora non li ho sentiti
affatto.»
«Purtroppo, oggi... la pioggia di prima li ha fatti scappare chissà
dove.»
A tratti, il forno cantava “pachi pachi”, e una fiamma agitata dal
vento sbuffava, soffiando alta un paio di palmi.
«Via, vieni più in qui. Deve far freddo...» dice. Guardando il
bordo del tetto, il fumo azzurrino, sbattendo e infrangendosi, per
un fugace attimo si attorciglia attorno alle tegole.
«Ah, che bella sensazione; mi ha fatto rinascere!»
«Anche la pioggia ha smesso per bene. Va là, è spuntata pure la
rocca del Tengu6.»
Nel cielo di primavera, vittorioso sulle resilienti nubi di quella
tempesta di montagna soffiata via precipitosamente, che
quell’angolo di vallata aveva appena attraversato con violenza,
ora rasserenato senza la minima indecisione, quella forma, come
una colonna imperfetta, che torreggia nella direzione additata
dall’anziana, dev’essere la rocca del Tengu.
Io ho osservato dapprima il picco, poi ho osservato il volto della
nonna, e quindi li ho guardati in parte entrambi, confrontandoli.
Come disegnatore, i volti di donna anziana che esistono nella
mia testa sono quella maschera del Takasago e quello della strega
di montagna dipinta da Rosetsu7. Quando vidi il suo dipinto, mi
dissi che quella era un eccezionale stereotipo di vecchia donna.
Pensai che sarebbe dovuta essere posta fra le foglie d’autunno,
magari sotto una fredda luna. Ma in seguito, quando ebbi modo
di assistere a quella rappresentazione fuori programma della
6
Folletto dal volto rosso, col naso lunghissimo, nere ali e zampe di corvo e
maligno per natura. È anche una “maschera” molto tipica della cultura popolare
giapponese.
7
Nagasawa Rosetsu (1755-1799), un pittore del medio periodo di Edo, allievo di
Ookyo Maruyama. La «Strega di montagna» è un noto dipinto conservato nel
tempio dei Itsukushima.
18
scuola Houshou8, mi sorpresi a chiedere a me stesso "Eh già...
allora, anche una donna anziana può avere un’espressione tanto
gentile...". La maschere usate in quell’occasione dovevano essere
state scolpite dalla mano di un vero maestro. Purtroppo non mi
sovviene il nome dell’autore, ma ogni volta che appariva
un’anziana, era paffuta, tranquilla e amorevole. Sarebbero state
adeguate sia che lo scenario fosse stato un drappo d’oro, o il
vento di primavera, o un albero di ciliegio. Rispetto alla Roccia
del Tengu, quella nonna in una veste smanicata che sporgeva i
fianchi, tendeva la mano e indicava un luogo lontano, come
spettacolo offerto dalla strada di montagna, mi sembrava assai
più caratteristico. Ho sollevato il blocco da disegno, ma dopo un
momento che potremmo dire breve, la nonna ha rotto la sua
posa.
Ci rimango con un palmo di naso, e stendendo il blocco davanti
al fuoco per farlo asciugare,
«Nonna, certo che sei in forma, eh?» chiedo.
«Sì! Grazie al cielo sono ancora in gamba; riesco a cucire, a filare
la canapa e a macinare la farina per i dolcetti.»
Mi sarebbe piaciuto vedere quella signora lavorare alla macina.
Ma non potendo inoltrare una tale richiesta,
«Da qui a Nagoi ci sono meno di un paio di miglia, giusto?»
provai invece a chiedere.
«Sì; sono quasi tre chilometri. Il signore9 si ferma alla stazione
termale?»
8
Nel Noh è tradizione inserire una o due rappresentazioni speciali (solo in
primavera, o in primavera e autunno) fra le rappresentazioni programmate di
mese in mese. Il Takasago a cui l’autore fa riferimento era stato rappresentato in
quell’occasione.
9
Da questo momento, la signora passa a un tono leggermente più formale; in
realtà usa una forma di cortesia intermedia femminile, usata principalmente dai
negozianti con gli avventori, che non mostra affatto distacco, ma piuttosto
rispetto.
19
«Se non è troppo affollato, avrei intenzione di soggiornarvi un
po’... se il posto mi piace.»
«Ma no, da quando è iniziata la guerra non è passato nessuno. È
praticamente come se fosse chiuso.»
«Che strano. Ma... allora mica mi ci fanno stare!»
«Ma no, basta che chieda e la faranno stare quanto vuole.»
«C’è solo un ostello, vero?»
«Sì, chieda del signor Shihoda e le sapranno subito dire. È il più
ricco del villaggio, e lo stabilimento sembra quasi una villa di
campagna.»
«Ah, e quindi stanno a posto anche se non hanno clienti...»
«È la prima volta che il signore passa da queste parti?»
«No, tanto tempo fa c’ero già stato.»
La conversazione si ferma per un po’. Ho riaperto il blocco e
attaccato tranquillamente a schizzare i polli di prima; in fondo
alle orecchie ora assuefatte al silenzio ho udito il jaran jaran di un
campanaccio da cavallo.
Mentre il ritmo di quel suono si fa strada nella mia testa, si
formano sensazioni mutevoli. Ho come l’impressione di dormire,
e che il fruscìo di un pestello sulla macina cada fin nei miei sogni.
Smetto di schizzare i polli, e su un bordo della stessa pagina
scrivo
Vento di vere e
squilla d’un cavallo che
giunge ad Izen10
10
20
È un Haiku, componimento ermetico in 5-7-5 sillabe, che deve inoltre sottostare
ad alcune regole formali. Souseki si riferisce a Izen Hirose (?-1711), uno scrittore
di haiku, allievo di Bashou, che si dice avesse deciso di girare il Giappone negli
ultimi anni della sua vita in cerca dell’Illuminazione.
Da quando sto salendo sulla montagna, ne ho incontrati cinque
o sei. E questi cinque o sei che ho incontrato erano tutti bardati e
portavano una campanella. Non parevano proprio cavalli di oggi.
Presto, un canto da carrettiere lungo il sentiero di montagna del
giorno di primavera che volge al tramonto, rompe il sogno. Vi è
serenità in fondo alla tristezza di quella melodia, e non posso che
pensare che sia una voce da incidere su un quadro.
Canta il carriere
e passa Suzuka11 con
pioggia di vere
mi metto a scrivere, stavolta su un un fianco, ma appena scritti,
a rileggerli mi accorgo che non sono versi miei12.
«Toh, è arrivato qualcun altro» dice la nonna, in parte a se
stessa.
È l’unica mulattiera, quindi tutti quelli che vanno e tornano
passano qui davanti. Anche per gli altri cinque o sei cavalli, col
loro jaran jaran, la nonna avrà detto, di pancia, «toh, è arrivato
qualcun altro», per ognuno che risale e per ognuno che discende
la montagna. Assieme a questo sentiero solitario, attraversando le
primavere antiche e presenti, in questo villaggio che nessuno ci
verrebbe a meno di amar tanto i fiori, la nonna chissà da quanti
anni conta allo sfinimento questi jaran jaran, tanto che la sua testa
s’è fatta bianca.
Canti da strada
e bianca chioma, passan
le primavere.
11
Famosa città del Giappone, il cui nome contiene la parola «Suzu» (campana).
Evidentemente, il pensiero corre alla città perché assonante alla campana del
cavallo.
12
Un amico di Souseki, Masaoka Shiki (1867-1902) scrisse infatti “Canta il carriere /
sopra Suzuka; con lui / pioggia di vere”
21
ho buttato giù sulla pagina successiva, ma mentre osservavo la
punta della matita pensavo: «queste parole non finiscono di dire
quel che sento, mi pare un testo su cui si può lavorare ancora un
po’...» Mentre cercavo in qualche modo di metterci «bianca
chioma», «passare», mantenendo il tema dei «canti da strada», e di
infilare da qualche parte «primavere», e provavo a trovare una
conclusione, tutto in diciassette sillabe...
«Ehilà, salve!» il carrettiere in persona si è fermato davanti al
negozio e ha chiamato a gran voce.
«Ma va, Gen-san13! Scendi ancora giù al castello?»
«Se hai bisogno di qualcosa, chiedi pure!»
«Beh, allora, se passi per Kaji, fatti dare una tavoletta del tempio
Kaigan per mia figlia.»
«Va bene, te la compro. Una sola? Certo che Oaki si è proprio
sistemata bene; sarà felice. Vero, zia?»
«Grazie al cielo, in tempi come questi non c’è da lamentarsi.
Mah, potremmo dire che sia stata fortunata.»
«Ma dai, che v’è andata proprio bene. Pensa alla quella signora
di Nagoi!»
«Ah, un vero peccato, eh? Pensare che era così bella. Va meglio,
in questo periodo?»
«Macché, sta sempre così.»
«Che guaio...» dice la nonna tirando un gran sospiro.
«Già, che guaio...» dice Gen-san accarezzando il muso del
cavallo.
Sui rami dei ciliegi di montagna, floridi di foglie e fiori, la
pioggia caduta dalle profondità del cielo ancora indugia
amorevolmente; ma ecco che il vento, che soffia un momento, le
13
22
“-san” è un suffisso generico per i nomi di persona; lo riportiamo qui perché dal
seguito si intuisce che fa parte integrante del soprannome usato da questa signora
per rivolgersi a questo personaggio, Genbei.
porta via il sostegno, e ormai impaziente, essa abbandona il
fugace riparo, e cade rifluendo. Sorpreso, il cavallo agita la lunga
criniera in basso e in alto.
«Ma porcaccia!» lo sgrida la grossa voce di Gen-san, che assieme
al jaran jaran, rompe la mia contemplazione.
La nonna dice: «Gen-san, io ho ancora il vestito del giorno che
andò in sposa davanti agli occhi. Col kimono dipinto, le larghe
maniche, l’alta shimada14, su quel cavallo...»
«Ah già, non era una barca. Era un cavallo. Si fermò proprio
qui, vero zia?»
«Sì, il suo cavallo si fermò proprio sotto a quel ciliegio. Dopo
tutta la fatica fatta, l’acconciatura si era un po’ sciupata.»
Apro il mio blocco. Farò di questo spettacolo disegno, ne farò
poesia. Nel mio cuore fluttua l’immagine della sposa, e
immaginandomi il suo volto a quel tempo,
Il dì dei fiori
varcava la timida
sposa a cavallo
scrivo d’impulso. Stranamente, l’abito, i capelli, il cavallo e il
ciliegio erano come davanti ai miei occhi, ma solo il volto della
sposa, per quanto mi sono sforzato, non sono riuscito a
figurarmelo. Mentre provavo a metterci quel volto, o quest’altro,
mi è apparsa all’improvviso l’immagine dell’Ofelia di Millais 15, e il
suo viso si è incastonato perfettamente sotto all’alta shimada. «No,
14
Acconciatura femminile estremamente elaborata che si usa per le occasioni
importanti, soprattutto per i matrimoni. È una variante della tipica acconciatura
delle geisha.
15
Sir John Everett Millais (1829-1896), famoso ritrattista inglese, fondatore della
corrente dei preraffaeliti. Il dipinto a cui si riferisce Souseki ha per soggetto la
morte di Ofelia, personaggio femminile dell’Amleto, e la ritrae supina, mentre
affiora dall’acqua, con le palme rivolte in alto e l’ampia veste vittoriana che le
aleggia intorno, agitata dai fluttui.
23
così non va!» mi dico, e distruggo quell’immagine così
faticosamente costruita. Ho ripulito all’istante la veste, i capelli, il
cavallo e il ciliegio che avevo usato come sfondo mentale, ma la
figura di Ofelia, coi palmi supplicanti che spuntavano dall’acqua
che la trascinava via, è rimasta, flebile, in fondo al mio animo,
così come non si spazza via il fumo con una scopa di saggina.
Questo lascia in me un po’ di preoccupazione, come una cometa
che agita la coda nel vuoto.
«Beh, allora, con permesso...» si accomiata Gen-san.
«Passa di qui quando torni. Temo che la strada sia messa male.»
«Già, mi spezzerò un po’ le ossa» risponde Gen-san mettendosi
in cammino. Anche il cavallo di Gen-san si mette in cammino.
Dietro a un jaran jaran.
«Quel tipo è di Naoki?»
«Sì, si chiama Genbei, e viene da Naoki16.»
«È lo stesso tizio che ha accompagnato la sposa sul cavallo,
attraverso il passo?»
«Quando la signorina Shihoda andò in sposa giù in città, Genbei
la aiutò a salire sul cavallo bardato per la cerimonia, e tenne
personalmente le redini. Quanto passa veloce il tempo... sono già
cinque anni da allora!»
Ci sono persone felici di prendersela con il bianco della testa
che vedono riflessa allo specchio. Con le dita che iniziano a
incurvarsi, colei che che era stata condotta più vicina ai santi dal
flusso lucente dello scorrere del tempo era la nonna, piuttosto. Io
risposi così:
16
24
Per i Giapponesi, è usanza comune abbreviare i nomi di coloro a cui si è in
confidenza con una sola sillaba, seguita dal suffisso di cortesia adeguato; quindi la
signora della sala da tè chiamava Genbei con l’appellativo amichevole di Gensan. È molto probabile che non esista nessun rapporto di parentela reale fra
questa signora e Genbei; egli la chiama “zia” perché è più vicino all’età della
padrona del negozio rispetto al protagonista.
«Deve essere stata davvero stupenda. Sarebbe stato bello
vederla.»
«Hahaha, ma la può vedere ancora adesso. Se si ferma alla
stazione termale, sono certa che verrà a presentarsi.»
«Eh? È ancora al villaggio? Beh, sarebbe bello poterla vedere
quell’abito dipinto dalle maniche ampie, con i capelli legati in un
alta shimada...»
«Se glielo chiede sarà lieta di mostrarglielo. Lo indosserà per lei.»
See, figuriamoci, mi dissi, ma l’espressione della nonna era
incredibilmente seria. Beh, se non mi succedesse qualcosa del
genere in questo viaggio di inemotività, che gusto ci sarebbe? La
nonna continua.
«La signora e la fanciulla di Nagara si somigliano molto.»
«In volto?»
«No. Per la loro storia.»
«Eh? E chi sarebbe questa fanciulla di Nagara?»
«Tanto tempo fa, in questo villaggio c’era la Fanciulla di Nagara,
la bellissima figlia di un ricco possidente.»
«Ma va?»
«Ecco, questa fanciulla provava un profondo sentimento per
due uomini allo stesso tempo.»
«Capisco...»
«A volte si diceva che avrebbe scelto Sasada, alle volte si sentiva
più attratta da Sasabe17, e per quanto si struggesse non riusciva a
dedicare il suo cuore a solo uno di essi. Così, alla fine, recitando
questa poesia:
17
Nomi tratti dalla ristampa del 1906 del Manyoushuu, la raccolta di poemi più
antica del Giappone, nella sezione 8, “Fanciulla del Lungo Ramo posato Al
Sole”. Dalla stessa sezione è tratta la successiva poesia “Verrà l’autunno”.
25
Verrà l’autunno
sull’erba la rugiada
s’è posata, ma
dovrà svanire; così
mi vedo, e mi struggo18
Si gettò in un profondo rio, e vi morì.»
Non avrei mai nemmeno lontanamente immaginato che,
venendo in questo villaggio di montagna, una nonna così, con
eleganti, antiche parole, mi avrebbe raccontato questa antica
storia.
«Scendendo meno di un chilometro da qui, sul bordo della
strada c’è una colonnina funeraria. Vada a dare un’occhiata alla
tomba della fanciulla di Nagara!»
In cuor mio avevo già preso la decisione di andare
assolutamente a visitarla.
«Anche la signora di Nagoi ha avuto la disgrazia di essere amata
da due uomini. Uno lo incontrò che stava partendo per studiare a
Kyoto, l’altro era il più ricco del borgo a valle.»
«Ah, e la signora chi scelse?»
«Lei desiderava ardentemente quello che era andato a Kyoto, ma
per tutta una serie di motivi i suoi genitori la costrinsero a
prendersi l’uomo di qui.»
«Menomale che non ha deciso di sistemare la cosa gettandosi in
un profondo rio...»
«A ogni modo, magari anche solo per la sua bellezza, il suo
sposo deve averla trattata con ogni riguardo, ma siccome era
stata costretta contro la sua volontà, le cose non andavano mai
bene fra di loro, e i parenti erano molto preoccupati. E poi, in
18
26
Si tratta di un Tanka, componimento poetico principe in cinque versi di 5-7-5-7-7
sillabe, che riveste l’importanza che ha il sonetto nella poesia italiana.
seguito a questa guerra, la banca dove era impiegato il marito
fallì. Da allora, la signora è tornata a Nagoi. La gente dice che la
signora sia stata insensibile, crudele, e quant’altro le dicono
dietro! Ha sempre avuto un animo estremamente gentile, ma in
questo periodo il suo umore è andato peggiorando, e ogni volta
che passa, Genbei mi dice che c’è di che preoccuparsi.»
Se vado avanti ad ascoltare questa storia, il mio piano andrà in
frantumi. Ho come l’impressione di essere sul punto di diventare
un saggio eremita di montagna, ed ecco che qualcuno viene a
scocciarmi gridando: «ridammi il mio mantello di piume»! Questo
tortuoso cammino che ho intrapreso, e che finalmente mi sono
prefigurato, e che ho percorso fino a qui, se mi lascio coinvolgere
dalle faccende terrene, l’essere uscito di casa senza una meta
precisa sarà stato vano. Se presto attenzione ai pettegolezzi oltre
a un certo limite, la puzza di mondo fluttuante si insinuerà da tutti i
pori, e il mio corpo sarà così pieno di lordume da esserne
appesantito.
«Nonna, c’è una sola strada per Nagoi, giusto?» chiedo, e
gettando una moneta d’argento sulla panca, mi alzo.
«Se scende dal punto dove si trova la colonnina funeraria di
Nagara e passa per la tomba sono circa settecento metri. La
strada è peggiore, ma magari lei che è giovane preferisce la
scorciatoia. — Forse questa è per il tè? — Faccia attenzione!»
27
3
Che strana, ieri sera.
Quando ero giunto all’ostello erano le otto di sera, e non ho
capito com’era la casa, né da che parte stesse il giardino, anzi,
avevo proprio perso l’orientamento. Sembrava tutto diverso
dall’ultima volta che c’ero stato.
Dopo aver desinato, aver fatto un bagno, essere tornato in
camera e aver bevuto un tè, viene ’sta donnina che mi dice: «Via,
stendiamo il futon1?»
Quel che mi ha fatto strano è stato che ad accogliermi all’arrivo,
a prepararmi la cena, a guidarmi alla vasca, a stendermi il letto,
insomma, a occuparsi un po’ di tutto era sempre e solo questa
donnina. E in più, quasi senza aprir bocca. E non aveva per nulla
l’aria di una campagnola. Stretta in una fusciacca rossa priva di
malizia, portandosi dietro una vecchia lanterna di carta, mentre
mi faceva girare per dei posti tipo corridoi e scale, con la
fusciacca e la lanterna sempre uguali, nei corridoi e per le scale
sempre uguali, che parevano non giungere in nessun luogo,
scendendo chissà quante volte, quando finalmente mi aveva
portato alla vasca, avevo avuto come la sensazione di trovarmi a
passare per un dipinto.
1
Si riferisce alle tipiche stuoie, e relative coperte, che i Giapponesi usano per
dormire in terra. Nell’originale, Souseki esprime una certa sorpresa per il tono
informale e diretto usato dalla donna, decisamente inusuale nei confronti di un
ospite, e ancora di più nei confronti di un cliente.
29
L’inserviente mi aveva detto: «Dato che in questo periodo non
abbiamo clienti, le camere non sono in ordine; dovrai
accontentarti di una stanza nella parte padronale». Dopo aver
preparato il letto, aveva buttato lì un «buon riposo» abbastanza
umano e se n’era andata; quando i suoi passi si erano allontanati
lungo i corridoi di cui sopra, svanendo progressivamente verso i
piani inferiori, il fatto di non percepire la presenza di nessuno mi
aveva preoccupato.
Da che sono nato, ho vissuto un’esperienza simile solo un’altra
volta. Mi capitò di attraversare il Boushuu, passando oltre
Tateyama, camminando lungo la spiaggia da Kazusa a Choushi 2.
In quell’occasione, una sera presi alloggio in un posto di quelle
parti. Mi sa di aver dimenticato sia il nome del posto che della
locanda. E comunque, non sono nemmeno certo che fosse
davvero una locanda. Era una casa dal tetto alto e grande, gestita
solo da due donne. Quando avevo chiesto se potevo prendere
alloggio lì, la più anziana mi aveva risposto «sì», e la più giovane
mi aveva detto «prego, da questa parte», guidandomi all’interno, e
io l’avevo seguita per chissà quante vaste sale, finché, arrivati a
quella più interna, mi aveva guidato al secondo piano. Salendo
una terza rampa di scale, appena entrato in una stanza subito
sotto il tetto, un fascio di bambù, appoggiato sbilenco dalle assi
del soffitto smosso dal vento notturno, mi aveva sfiorato la testa
da dietro le spalle, allarmandomi. Le travi stavano marcendo.
Commentai «mi sa che l’anno prossimo, questi supporti di
bambù finiranno per bucare persino il pavimento», e la giovane
donna, senza replicare, se ne uscì ridacchiando.
Quella notte, i detti bambù fecero filtrare l’umidità fin nel mio
letto, e non potei dormire. Aprendo i pannelli, lasciando correre
lo sguardo oltre il giardino, c’era un campo erboso rischiarato
dalla luna che, senza steccati né muri, scendeva formando una
collinetta. Oltre la collinetta erbosa si apriva immediatamente
2
30
Regione costiera sull’Oceano Pacifico a est di Tokyo; oggi, si trova subito a
sudest dell’aeroporto internazionale di Narita.
l’oceano, che, “dododon, dododon”, con grandi onde veniva a
disturbare il mondo degli uomini. Non riuscendo a prender
sonno finché albeggiò, attendendo paziente sotto a una
zanzariera dall’aria sospetta, mi parve come di essere finito in un
racconto dell’orrore.
Da allora ho viaggiato molto, ma una sensazione del genere,
prima di venire qui all’ostello di Nagoi, non l’avevo mai più
provata.
Mentre dormo supino, casualmente apro gli occhi e vedo che
nella stanzetta è appeso un disegno in una cornice vermiglia.
Pur nel sonno, posso leggere chiaramente i caratteri:
L’ombra dei bambù
spazza i gradini
senza smuovere la polvere3
Si vede anche il sigillo di un certo Daitetsu 4. Io non sono un
tipo che si lascia influenzare dalle mode, ma amo la calligrafia di
Oshou Kousen della scuola Oubaku 5. Trovo interessanti anche
quelle di Ingen, di Sokuhi e di Mokuan, ma i caratteri di Kousen
sono i più marcati, e sono dotati di una naturale eleganza. Ora,
guardando questo eptasillabo, giudicando come la mano è
guidata dal pennello, non posso non pensare che si tratti di
Kousen. Però, la firma è di questo Daisetsu, dev’essere qualcun
altro. Magari, nella scuola Oubaku c’era pure un monaco
chiamato Daisetsu. Però, dal colore, la carta sembrerebbe
eccessivamente nuova. Devo pensare che sia un lavoro recente.
3
Nell’originale sono versi in Cinese, tradotti dall’autore in Giapponese.
4
I pittori e i poeti orientali usavano firmare le loro opere con un timbro,
generalmente in un inchiostro rosso chiaro, o a volte impresso nella cera lacca.
5
È una delle tre maggiori sette del buddismo Zen del Giappone, introdotta dalla
Cina dai monaci che Souseki cita di seguito attorno al 1661. Per la cronaca, si
tratta di Shouton Kousen (1633-1695), Ryouki Ingen (1594-1673), Niyoichi
Sokuhi (1616-1671) e Shoutou Mokuan (1611-1684).
31
Mi giro su un fianco. Gli occhi si fermano sul dipinto di una gru
di Jakuchuu6 appeso in una nicchia. Essendo del mestiere, appena
entrato nella stanza mi ero reso subito conto che si trattava di un
lavoro pregevole. Di dipinti di Jakuchuu, generalmente in colori
tenui, ve ne sono tanti, ma questa gru è tracciata con un unica
pennellata imperturbabile al giudizio altrui; sull’unica zampa,
poggia un corpo ovale, come senza peso, ricco di personalità,
colmo di grazia leggiadra fino alla punta del lungo becco.
Accanto alla nicchia c’è un armadietto, del tutto ordinario. Non
so cosa ci sia dentro.
Scivolo in un sonno profondo. In un sogno.
La Fanciulla di Nagara, indossando un kimono dalle maniche
ampie, cavalcando un puledro, supera il passo; all’improvviso,
l’uomo chiamato Sasada e l’uomo chiamato Sasabe saltano fuori,
e la tirano ognuno dalla sua parte. La donna diventa
improvvisamente Ofelia, e salendo su d’un ramo di salice
piangente, mentre viene trascinata via dalla corrente del fiume,
con voce bellissima, canta una canzone. Mi dico che la voglio
salvare e tendendo un palo, corro dietro ai flutti. La donna, per
nulla addolorata, mentre ride, mentre canta, senza conoscere la
propria meta, viene trascinata in basso. Io, col palo in spalla, la
chiamo: «Ehi, ehi!»
E lì mi svegliai. Ero sudato sotto le ascelle. Stranamente, mi
dissi «ma che sogno elegante e volgare assieme». In passato, un
certo Daie7, maestro Zen della scuola Sou, disse che dopo aver
raggiunto l’illuminazione non v’era più cosa che non procedesse
secondo la sua volontà, ma pare che si fosse lamentato a lungo
del fatto che solo i sogni lo disturbassero ancora con immagini
6
Illustratore vissuto tra il 1716 e il 1800. I suoi soggetti preferiti furono le scene di
caccia e gli animali; mescolando elementi tipici del disegno cinese a uno stile
personale, innovò l’illustrazione della fine del periodo Edo.
7
Daie Chikotsu (1089-1163); maestro Zen proveniente dal sud della Cina. È
famoso per aver scritto un libro in sei rotoli chiamato “Shoubou Genzou” (Leggi
morali da tenere a mente).
32
terrene; eh, già, è proprio così. Chi fa dell’arte la propria vita,
rimane disturbato se non sogna qualcosa di almeno un po’ bello.
Pensando che di questa roba non posso farne né disegno né
poesia, sto per ributtarmi a dormire, ma all’improvviso la luna
che colpisce i pannelli proietta di sbieco l’ombra di un paio di
rami. È una limpidissima notte di primavera.
Magari è un’impressione, ma mi sembra che qualcuno, a bassa
voce, stia intonando un canto. Chiedendomi se sia la canzone del
sogno che si è infiltrata in questo mondo, oppure se non sia
piuttosto una canzone di questo mondo, catturata nel
dormiveglia, a raggiungere il lontano regno dei sogni, presto bene
orecchio. Sì, c’è proprio qualcuno che canta. È una voce sottile,
estremamente bassa, ma senza dubbio c’è qualcuno che ha deciso
di non dormire in questa notte di primavera, canta senza sosta,
come un effimero raggio argenteo. Quel che è strano è che, beh,
quando sento le parole che accompagnano la melodia – che non
mi stanno cantando all’orecchio, e che quindi non posso
comprendere – è una cosa che non dovrei poter udire, e invece la
odo. Verrà l’autunno... sull’erba la rugiada s’è posata, ma dovrà svanire;
così mi vedo, e mi struggo; mi sembra la canzone della Fanciulla di
Nagara, ripetuta ancora e ancora.
All’inizio mi sembrava vicina alle travi del tetto, ma poco a poco
si assottiglia e si fa lontana. Le cose che terminano all’improvviso
causano una sensazione brusca, ma il dispiacere è lieve. Colui che
ascolta chi canta intensamente, capisco, prova a sua volta
emozioni intense. Assieme a questo, per così dire, ininterrotto,
naturale affievolirsi, sapendo che è destinato a svanire
all’improvviso, anche io mi contraggo, mi sfaldo, e l’incertezza
del mio cuore incerto si fa incerta. È come un malato che sta
quasi, quasi per morire, o una fiamma che sta quasi, quasi per
spegnersi – ora smette? ora smette? – mi assillo il cuore dentro a
questa canzone, che desidera attrarre a se ogni dispiacere che c’è
nel mondo di questa notte di primavera.
Finora ho resistito sdraiato sul pavimento ma, attratto
dall’allontanarsi della voce, via via più conscio che essa mi sta
33
seducendo, inizio a desiderare d’inseguirla. Quando si fa sottile
che più sottile non si può, e sono ormai tutt’orecchi, sento
bruciante il desiderio di volarle dietro. In preda alla frenesia,
pensando che devo accontentare i miei timpani, prima di un
attimo, in un solo movimento sguscio fuori dal futon e, fuori di
me, spalanco i pannelli. All’improvviso, la luce della luna mi
bagna sotto le ginocchia. L’ombra degli alberi cade ondeggiando
anche sul mio giaciglio.
Non ci avevo fatto caso quando avevo aperto i pannelli. Quella
voce... lasciando correre l’orecchio, e provando a indovinare da
dove venisse – stava proprio di fronte. Fosse stato un fiore,
sarebbe potuto sembrare il fusto di un’aroina, di schiena, che
sosteneva distaccatamente la luce della luna, un’eterea silhouette.
Mi viene persino da chiedermi se possa davvero essere così, che
prima che la mente riesca a realizzarlo appieno, la cosa nera,
calpestando l’ombra dei fiori, fugge sulla destra. L’angolo del
muro della stanza in cui mi trovo, muovendosi agilmente, occulta
presto l’alta figura di donna.
Con la leggera veste datami per la notte, rimasi fisso per un po’,
ma alla fine tornai in me, e mi resi conto che la sera di primavera
del villaggio di montagna era fredda. Mi venne da pensare che era
meglio rinfilarmi nel buco di futon dal quale ero sgusciato.
Doveva certo essere un qualche genere di spettro 8. E se non
fosse stato uno spettro, allora una persona, e in quel caso, una
donna. O forse, poteva essere la Signora di qui. Certo che, se
fosse stata la Signora, farsi un giro in piena notte nel giardino
aperto sulla montagna sarebbe quanto meno inappropriato. A
ogni modo, non riesco a dormire bene. Sento persino lo
scricchiolante parlare dell’orologio che ho messo sotto il cuscino.
Fino a oggi, non avevo mai fatto caso al rumore dell’orologio da
tasca, ma giusto stanotte è come se mi obbligasse, «dai, pensa,
8
34
Souseki usa il termine 妖 – ayakashi – che è un nome generico per tutte le
creature sovrannaturali di “livello” inferiore ai kami: include i concetti di spettro,
mostro, folletto, ninfa, demone (oni), ecc.
pensa!», è come se mi avvisasse, «non dormire, non dormire»!
Che affronto!
Guardando alle cose spaventose semplicemente nella loro forma
spaventosa, se ne fa poesia. E anche le cose impressionanti,
separandoci da noi stessi, se le si pensa semplicemente come cose
impressionanti, se ne fa disegno. Il fatto che l’amore perduto sia
un tema classico dell’arte sta proprio in questo. Dimenticando il
dolore dell’amore perduto, quel che v’è di dolce, quel che v’è di
compassionevole, quel che v’è di struggente, o andando un poco
oltre, proprio quel dolore che sgorga dal perdere un amore,
considerandoli semplicemente da un punto di vista oggettivo,
dato che sono facilmente evocabili, sono una buona materia
prima per la letteratura. Nel produrre amori perduti che non
hanno riscontro nel mondo reale, nel disperarsi fortemente per
essi, v’è letizia consolatoria. Una persona comune direbbe che è
follia, che è finzione. Solo che il piacere di delineare i contorni
della nostra sfortuna, mentre portiamo avanti le nostre vite
quotidiane, o piuttosto incidere la propria non-esistenza
nell’acqua di montagna, raccolta nel vaso che chiamiamo
“universo”, dal punto di vista di chi riesce a raggiungere una
condizione artistica, dobbiamo dirli uguali. Riguardo a questo
punto, i chissà quanti artisti che ci sono al mondo (e non saprei
dire neanche quante persone comuni), in quanto artisti, delle
persone comuni sono più folli, più falsi. Nel nostro
pellegrinaggio quotidiano, da mattina a sera, ci lamentiamo del
fatto che soffriamo, soffriamo ma, quando predichiamo agli altri
di vivere allegramente, questa sofferenza non la diamo
minimamente a vedere. È stato divertente, è stato piacevole –
mentiamo, e persino i dispiaceri del passato, in particolare, li
trattiamo come farfalle. Questo, non per ingannare noi stessi o
mentire al prossimo. È solo che, mentre siamo in viaggio,
abbiamo sentimenti da persone comuni, ma quando li rivisitiamo
assumiamo un atteggiamento da poeta, e così sorgono queste
contraddizioni. Quelli che lo fanno apposta, smussando da
35
questo mondo quadrato l’angolo chiamato “senso comune”, e
abitano nei tre angoli rimasti, possiamo anche chiamarli artisti.
Per questa ragione, che si tratti di cose naturali o di faccende
d’uomini, superando la difficoltà nell’avvicinarsi a tanta volgarità,
l’artista conosce innumerevoli gioielli, insuperabili tesori. In
gergo, questo è detto “abbellire”. In realtà non è affatto un
“abbellire”. Lo splendore variegato, in se’, ha sempre fatto parte
dei fenomeni naturali. È solo che... per il fatto che l’abbaglio del
riverbero ci vela gli occhi, per il fatto che è difficile separarsi dalla
mondanità che ci tiene legati, per il fatto che ci struggiamo
continuamente, pressati dalla gloria e dalla vergogna, non
capiamo la bellezza di un treno finché non lo vediamo dipinto da
Turner9, e non conosciamo la bellezza di un fantasma finché non
è disegnato da Oukyou10.
Anche la silhouette che ho appena visto, chiunque la vedesse,
chiunque ne sentisse parlare, la troverebbe vestita di estrema
poesia. Un onsen d’un villaggio solitario... l’ombra dei fiori nella
sera primaverile... il flebile canto sotto la luna... le forme soffuse
della notte... Sono tutti temi graditi agli artisti. Ma questi temi
graditi agli artisti, sbattuti in faccia così, nudi e crudi, con me a
fare da spettatore involontario, sono uno sgradevole pungolo.
M’ero finalmente trovato una vena di ragionevolezza nell’estèsi,
ed ecco che la desiderata eleganza è stata calpestata dal cattivo
gusto. Se le cose stanno così, è inutile sostenere l’inemotività. Se
non mi applico un po’ di più, non avrò i requisiti per dire in giro
che sono un pittore, o un poeta. Ho sentito dire che il pittore
italiano Salvator Rosa11, volendo ardentemente compiere ricerche
9
Si riferisce a “Rain, Steam and Speed”, 1844, di Joseph Mallord William Turner
(1775-1851). Pare che Souseki fosse rimasto particolarmente colpito da i suoi
dipinti durante la sua permanenza nel Regno Unito.
10
Oukyou Maruyama (1733-1795). Disegnatore del periodo Edo famoso per aver
introdotto uno stile pittorico occidentale. Il “Fantasma” (yuurei) è conservato
presso il Museo del Tesoro Nazionale di Kyoto, ma l’attribuzione a Oukyou non
è certa.
11
Salvator Rosa (1615-1673).
36
sulla figura del ladro, si unì a un gruppo di briganti. Pure io, che
ho deciso all’improvviso di andarmene da casa infilando nella
sacca il blocco da disegno, se non fossi preparato a qualcosa del
genere, sarebbe imbarazzante.
Quando, in momenti come questo, ti chiedi se riuscirai a tornare
su un terreno fermo per un poeta, i tuoi sentimenti, così come
sono, basta posarli di fronte a te, allontanarsi di un passo e dar
loro forma, lasciando spazio abbastanza da esaminarli come
fossimo estranei. I poeti hanno il compito di dissezionare il
proprio cadavere per pubblicarne i risultati al mondo. Esistono
diversi espedienti a questo scopo, ma, fa quelli più pratici, cercare
di sistemare qualsiasi cosa succeda appena possibile in diciassette
sillabe12 è il migliore. Poiché i diciassette-sillabe sono la forma di
poesia più pratica, vengono facili pure quando ci si lava la faccia,
o quando si va in bagno, o quando si viaggia in treno. Dire che i
diciassette-sillabe vengono facili è un po’ come dire che diventare
poeta è semplice, ma siccome diventare poeta è una specie di
illuminazione, non c’è bisogno di scandalizzarsi se dico che sono
pratici. Per quanto possano essere pratici, essendo atti creativi,
penso che meritino profondo rispetto. Beh, quando mi girano le
scatole, ci studio un po’ su. Di quel che me le ha fatte girare, ne
faccio subito un diciassette-sillabe. Facendone un diciassettesillabe, il mio giramento diventa come fosse di un altro. Farsele
girare, fare un haiku, in genere non funziona all’istante. Verso un
po’ di lacrime. Di queste lacrime ne faccio un diciassette-sillabe.
Come lo faccio, divento felice. E quando sistemo le lacrime in un
diciassette-sillabe, le lacrime di dolore si separano da me, e
divento soltanto quel me stesso che prova gioia per essere un
uomo ancora capace di piangere.
Dato che faccio così di norma, questo è il mio proposito.
Dicendomi che, anche stanotte, proverò a realizzare questo mio
unico proposito, nel mio giaciglio, detto incidente lo rendo in
12
Si riferisce sia alla forma degli haiku, strutturati in tre versi da 5, 7 e 5 sillabe, che
al loro “soprannome”.
37
versi. Se ci riuscissi, senza scrivere mi distrarrei, e siccome si
tratta di un allenamento scrupoloso, poso detto blocco da
disegno aperto accanto al cuscino.
“Nebbia d’aronie / agita e mulina / la folle ombra” attacco a scrivere
di botto, e rileggendolo non mi sembra un gran ché, però non è
nemmeno malaccio. E poi faccio “ombra di fiori / forse ombra di
donna / chissà se sogno?”, ma ci sono troppe ripetizioni 13. Beh, ma
chi se ne frega, tanto voglio solo calmarmi e distrarmi. E quindi,
“Di nobildonna / assume le sembianze / la vaga luna”, ma che cavolo,
sembrava un Kyouku14, e mi pare strano che sia uscito da me. Mi
dico che sembra proprio che stia funzionando e la cosa mi piace,
quindi attacco a scrivere i versi così come escono.
Stelle di vere
scese a mezzanotte
come un manto.
Capelli intrisi
e lavati di nebbia
e primavera.
Primavera e
stanotte, un canto che
assume forma.
Che sia la notte
che l’anima d’aronia
se n’esce fuori?
13
Nell’originale, l’autore si lamenta del fatto che usa troppe “parole stagionali”.
Negli haiku, la regola è quella di avere esattamente una parola riferita alle stagioni.
14
Haiku a sfondo comico o satirico.
38
A tratti odo
canti sotto la luna
di primavera.
Incède lenta
l’ombra di primavera
oh, quant’è sola!
e avanti così a poetare, pian piano, a un certo punto mi viene
sonno.
Direi che ero in estasi, ma mi chiedo se sia il termine
appropriato da usare in questi casi. Quando si è profondamente
addormentati, nessuno può avere coscienza di sé. Durante la
veglia, è per chiunque impossibile dimenticarsi del mondo
esterno. Fra ambo i reami giace un bordo immaginario simile a
un filo. Troppo simile a foschia per essere veglia, v’è ancora
troppo dello spirito cosciente per essere giudicato sonno. Si dice
che sia quello stato in cui le cose di tutti i giorni e quelle dell’altro
mondo, come poggiate sul fondo di una bottiglia, stringendo il
pennello del poeta, quasi per scherzo, le si rimescolano. Il sogno
ora vivido offusca i colori della natura, e anche l’universo così
com’è, e ci spinge verso il regno delle nebbie. Prendendo in
prestito la malìa del Demone del Sonno, mentre si levigano gli
spigoli della realtà nuda e cruda, nel creato ora un po’ più scevro
d’angoli, di nostro, si lascia andare la vena giust’appena ottusa. È
come fumo che aleggia, e prende il volo pur senza volerlo; questo
è l’aspetto dell’anima che lascia il suo involucro. Pur volendo
fuggire, esitante, e pur esitante, in fuga, alla fine l’individualità
detta anima, che fatica a distinguersi dall’indefinito, per non
disciogliere la propria entità nell’invisibile indistinto, si avviluppa
al corpo fisico, rivestendolo, adorandolo.
Mentre passeggiavo attorno al bordo del sonno, la parete
scorrevole si aprì sibilando. Un’ombra di donna apparve come il
soffio d’un miraggio. Non mi stupisco. Non mi spavento. La
39
ammiro, semplicemente sereno. Ma la parola “ammiro” è un filo
troppo forte. Il miraggio di donna filtra dietro le palpebre chiuse,
e giunge senza che io la possa rifiutare. L’apparizione entra quatta
quatta nella stanza. Come stesse attraversando la polla delle ninfe,
il miraggio non fa rumore mentre passa sul pavimento. Vedo il
mondo attraverso le palpebre chiuse, quindi non ne ho la
certezza, ma è una donna dall’incarnato chiaro, capelli folti e
collo slanciato. Pare una di quelle foto sfumate che vanno di
moda adesso.
Il miraggio si ferma davanti all’armadio. Apre l’armadio. Il
braccio pallido si insinua nell’oscurità. Richiude l’armadio.
L’ombra del miraggio riattraversa placida la polla del pavimento.
Il pannello dell’ingresso si richiude. Il mio sonno si fa via via più
denso. Quando si muore, e non si è ancora rinati come mucca o
cavallo, forse si sta così.
Non so quanto sono rimasto sospeso fra uomo e cavallo.
Quando m’è giunta all’orecchio la risata squillante d’una donna,
mi sono svegliato. Provando a guardare, il velo della notte è
squarciato via, e da un’orizzonte all’altro, nel creato v’è luce
ovunque. Vedendo il radioso giorno primaverile che proietta
l’ombra scura della griglia di bambù dalla finestra rotonda, mi sa
che al mondo non rimane più nessun posto dove le cose strane
possano nascondersi. I misteri devono essere tornati verso la
diecimila miliardesima terra, attraversando il fiume Sanzu 15.
Con ancora addosso la veste leggera per la notte, scendo ai
bagni e mi immergo, lasciando galleggiare la faccia senza pensare
a nulla per cinque minuti. Non mi va né di lavarmi né di uscire.
Ma perché la prima notte mi sono sentito così? È strano quanto
il mondo possa cambiare tanto fra il giorno e la notte.
15
40
Secondo la religione buddista, al di là del fiume Sanzu, oltre diecimila miliardi di
terre, giace il Nirvana della pace eterna.
Siccome mi secca pure d’asciugarmi, vedo di farmi forza e mi
alzo; ancora bagnato, apro la porta della sala dall’interno, ed ecco
una nuova sorpresa.
«’Giorno. Ti hanno fatto dormire bene?»
Queste parole mi giunsero praticamente nello stesso instante in
cui aprii la porta. La donna mi aveva salutato mentre non avevo
nemmeno idea che potesse esserci qualcuno, quindi non avevo
nessuna risposta pronta, e senza aspettarla,
«Dai, vestiti.»
disse girandomi intorno e appoggiandomi un morbido kimono
sulla schiena.
Finalmente mi uscì un «grazie per questo...» mentre mi voltavo
verso la donna, e nello stesso istante lei indietreggiò di due o tre
passi.
Da sempre, gli scrittori si misurano sulla loro capacità di
tratteggiare i protagonisti. Se mettessimo assieme tutte le
descrizioni di bellezze femminili scritte in tutti i luoghi e tempi,
potrebbe venirne fuori un compendio più pesante dei Canoni
Buddisti. Se dovessi ridurre questa mole agli aggettivi adatti a
descrivere questa donna a tre passi da me, appena girata, che
guarda di sottecchi lo stupore e costernazione che mi ha
provocato, chissà quanti ne rimarrebbero. Comunque, nei
trent’anni che ho raggiunto, da quando sono nato, non ho mai
conosciuto una simile espressione. Secondo il giudizio degli
esteti, l’ideale a cui tendevano le sculture dell’antica Grecia è
riassumibile nelle parole “solenne compostezza”. Penso che
“solenne compostezza” indichi quella forza vitale negli uomini
che ancora non è movimento, ma può diventarlo. Quel che
diverrebbe se mai si mettesse in moto, calmi cieli o tuoni e lampi,
è lì, nel riverbero sottile che lo sguardo non può cogliere
appieno, il denso incanto che ci giunge dopo tante ere. Ogni
maestosità e possenza sulla faccia della terra giace nascosta in
questa permeante potenzialità. Se si muovessero, si
manifesterebbero. Se si manifestassero, sicuramente vi sarebbe
41
quella che arriverebbe prima, seconda, terza... Che siano prima,
seconda o terza non v’è certo differenza nella loro potenzialità,
ma nel tempo stesso in cui esse si fanno prima, seconda e terza,
ogni minima imperfezione è esposta senza più alcun riserbo, e
non è più possibile tornare alla loro completa essenza originale. È
per questa ragione che ciò che chiamiamo movimento è sempre
volgare. L’unico difetto dei due Re Deva di Unkei 16 o dei Manga
di Hokusai17 sta proprio nella parola “moto”. Moto o quiete.
Questo è il grande dilemma che domina le vite di noi pittori. E
anche la forma e la sostanza della bellezza in ogni epoca,
generalmente, in ultima analisi è possibile assegnarla a una di
queste due grandi categorie.
Il punto è che, l’espressione di questa donna, sono in difficoltà
nel giudicare se stia nell’una o nell’altra. La bocca, a fissarla con
un carattere, “quiete”. Gli occhi dischiusi a metà si muovono
senza posa. Il volto rotondo, ovale, florido tanto da acquietare
nell’attrarre lo sguardo, ma la fronte stretta, priva di stile, con
l’attaccatura dei capelli a triangolo 18, dall’aria un po’ popolare. E
inoltre, le sopracciglia premendo da ambo i lati, come se fra di
esse fossero cadute chissà quante gocce di menta, si stringono
vibrando. Il naso, non frivolamente affilato, ma nemmeno
16
Scultore vissuto a cavallo del 1200; la data di nascita è sconosciuta. Morì nel
1224. Le sue sculture sono caratterizzate da una notevole vivacità, e ricordano da
vicino le sculture occidentali per la completezza dei dettagli. Sono però molto
più... dinamiche. L’autore qui si riferisce all’opera più famosa di Unkei, Niou “I
due Re”, i Deva Guardiani che, secondo la religione buddista, sono a guardia del
cancello del nirvana.
17
Hokusai Katsushika (1760-1849). Maestro nelle stampe, Hokusai si allontanò dal
movimento dell’Ukiyo-e (disegni del mondo fluttuante) assumendo uno stile sempre
più personale e via via più carico d’ironia, e scevro della tristezza decadente che
caratterizzava le opere artistiche dei suoi contemporanei. Il suo stile, rapido e
immediato, prese il nome di Manga (“disegno compulsivo”), anche se il termine
fu coniato da altri autori suoi contemporanei, per descrivere sequenze di disegni
(per la prima volta nel 1798).
18
L’autore usa l’espressione “fronte alla Fuji”, che indica una fronte dove
l’attaccatura dei capelli scende centrale, formando una punta che sembra la
sagoma del monte Fuji rovesciata.
42
scioccamente tondo. Dovrebbe venirne fuori un bel disegno. Nel
complesso, ogni elemento, ognuno con una sua diversa
peculiarità, giunge alla rinfusa ai miei occhi, e non è poi strano
che sia in difficoltà.
Una landa che doveva essere in origine serena, di cui un angolo,
sconvolto da un disastro, ne ha provocato un movimento
involontario, e che resasi conto del movimento compiuto, lavora
per tornare alla sua forma originale, ma avendo perso il punto
d’equilibrio continua a cercarlo, muovendosi meccanicamente
contro la propria volontà, ancora oggi, che pur se muoversi è
inutile, star così è peggio – ecco, se esistesse questa situazione,
sarebbe perfetta per descrivere l’aspetto e l’animo di questa
donna.
Eppure, dietro al lieve disdegno, si intravede in qualche modo la
volontà di tornare a credere nel prossimo. Alla base di quell’aria
canzonatoria si cela una personalità profondamente sensibile.
Sotto a quella forza che, lasciando fare ai sensi, potrebbe fare
strage di centinaia di ragazzi senza colpo ferire, ribolle inconscio
un placido sentimento. La sua è un’espressione senza posa. È un
corpo nel quale consapevolezza e dubbio litigano, pur
convivendo sotto lo stesso tetto. La mancanza di unità di
sentimento sul volto di questa donna è la prova che non v’è unità
nemmeno nel suo cuore, e se non v’è unità nel suo cuore,
dev’essere perché il mondo di questa donna è senza unità. È un
volto che, pur oppresso dalla sfortuna, intende vincerla. È senza
dubbio una donna sfortunata.
Mentre ripetevo «grazie» feci un breve inchino.
«Hohohoho, ti abbiamo sistemato la stanza. Vai a vedere. Mi
farò viva...» non finì nemmeno di dire che, ancheggiando appena,
già correva noncurante giù per il corridoio. Porta i capelli
43
acconciati a ginkgo19. Si intravede il collo candido sotto la coda. Il
fiocco del kimono pare come rivestito di satin nero.
19
44
L’autore usa il termine ichou-gaeshi, una tipica acconciatura giapponese che prende
il nome dalle foglie della pianta del ginkgo (in Giapponese ichou), e che permette
di formare con i capelli un morbido e ampio chignon o una specie di fiocco (con
i capelli stessi a fare da nastro).
4
Torno mogio mogio nella mia stanza; eh già, l’hanno proprio
sistemata a puntino. Sono un po’ curioso, così, giusto per
precauzione, provo ad aprire l’armadietto. In basso si vede una
piccola cassettiera. Dall’alto pende per metà una fascia ricamata
alla Yuuzen1, e quindi intuisco che qualcuno deve aver tirato fuori
in fretta e furia qualche sorta di vestiario. La parte superiore della
fascia si infila fra le vesti, e mi nasconde l’altra estremità. In un
angolo, sono stipati un po’ di libri. Più in alto sono allineati
l’Orategama del Venerabile Hakuin2 e un volume dell’Ise
Monogatari3. Quel che avevo intravisto la notte prima, forse, era
realtà, pensai.
Mi siedo svogliatamente sulla stuoia del futon, e sul tavolino
cinese c’è il solito blocco da disegno, ma è significativamente
aperto, con su la matita posata di sbieco. Chiedendomi, i versi
scritti di getto nel dormiveglia, al mattino, chissà che aspetto
hanno, prendo il blocco in mano.
Sotto a “Nebbia d’aronie / agita e mulina / la folle ombra”, qualcuno
ha scritto “Nebbia d’aroine / agita e mulina / un corvo all’alba”. È
1
Tipica decorazione fantasia Giapponese, molto sgargiante e variegata, in voga alla
fine del periodo Edo.
2
Ekaku Hakuin, alto prelato Zen vissuto dal 1685 al 1768, nel bel mezzo
dell’epoca di Edo. Viaggiò in diversi paesi predicando registrando gli avvenimenti
storici. Orategama significa La distruzione dell’amor proprio ed è la raccolta, in tre
volumi, del pensiero del monaco, stampato nel 1751.
3
È un poema in metrica dell’epoca Heian, risalente al IX secolo. Persino
nell’antichissimo Genji Monogatari, quest’opera è citata come antica.
45
scritto a matita, e dal corpo dei caratteri non si capisce bene, ma
sono troppo squadrati per essere femminili e troppo morbidi per
essere maschili. «Ma che...» mi sorprendo ancora. Guardando il
prossimo, sotto a “Ombra di fiori / forse ombra di donna / chissà se
sogno?” c’è scritto “L’ombra dei fiori / con l’ombra d’una donna / si
fonde assieme”. Sotto a “Di nobildonna / assume le sembianze / la vaga
luna” c’è “Di principessa / assume le sembianze / la vaga luna”. Voleva
imitarmi? O forse intendeva correggermi? O aggiungere un tocco
d’eleganza? O burlarsi... burlarsi di me!?! Involontariamente,
piego la testa da un lato.
Mi ha detto «Mi farò viva...», vorrà dire che si farà vedere verso
l’ora di pranzo. E quando si farà vedere, cercherò di capirci
qualcosa. Mi chiedo che ore sono, e guardando l’orologio vedo
che sono già passate le undici. Ho fatto una bella dormita. È
meglio che aspetti il pranzo per non rovinarmi l’appetito.
Aprendo il pannello sulla destra, mi chiedo da che parte siano
accadute le cose della notte scorsa e osservo. Per quanto riguarda
il mio giudizio sulle aronie, beh, le aronie ci sono, ma il giardino è
più piccolo di quanto pensassi. Cinque o sei lastre di pietra
affondano in un morbido muschio, che dev’essere gustosamente
piacevole calpestare a piedi nudi. Sulla sinistra, sul pendio che
prosegue verso la montagna, i pini rossi si ergono di sbieco dalla
roccia, puntando in alto, sopra al giardino. Dietro le aronie c’è un
piccolo cespuglièto, al cui interno un boschetto di grandi bambù
che, sotto al sole di primavera, mostra il proprio rigoglioso
verdeggiare. A destra il tetto ostruisce la vista, ma a giudicare
dalla topografia, è certo che scenda digradando dolcemente verso
le vasche termali. Esaurita la montagna, essa si fa collina, e
esaurita la collina, a circa trecento metri essa si fa pianura, e
quando la pianura si esaurisce, sprofonda nel mare, e
proseguendo oltre, per dieci chilometri, riemerge maestosa a
formare il perimetro di quattro chilometri dell’isola di Maya.
Questa è la topografia di Nagoi. La stazione termale si abbarbica
il più possibile alle pendici della collina, ed essendo una singola
costruzione che racchiude per metà il giardino delimitato dalla
46
montagna, la parte anteriore ha due piani, ma dietro diventa un
edificio a un piano. Lasciando pendere le gambe, attaccandosi
alle travi del tetto, i talloni toccherebbero il muschio. Appunto,
tutto quel saliscendi assurdo per le scalinate di ieri sera avrebbe
dovuto farmi capire che era una casa fatta in modo particolare.
Ora apro la finestra sul lato sinistro. In un avvallamento
naturale su di una pietra larga appena tre metri, l’acqua di
primavera, ivi raccolta chissà quando, inumidisce placidamente
l’ombra dei ciliegi di montagna. Due o tre fusti di bambù
adornano un angolo della pietra, e oltre, c’è una siepe che pare
d’edera cinese, e al di fuori, di tanto in tanto s’ode qualche voce
per il sentiero che risale dalla spiaggia alla collina. Oltre il
cammino, lungo la china che digrada dolcemente verso sud
crescono dei mandarini, e all’estremità della vallata, di nuovo, c’è
un boschetto di bambù che brilla biancheggiando. Era la prima
volta che mi rendevo conto che le foglie di bambù, da lontano,
brillassero biancheggiando. Sopra al boschetto, sulla montagna
ricca pini, fra i rossi tronchi pare di vedere cinque o sei scalini di
una gradinata in pietra. Probabilmente ci dev’essere un tempio.
Aprendo il pannello dell’ingresso e lasciandosi alle spalle il tetto,
un corrimano gira tutt’attorno, e oltre il giardino, da una
posizione dalla quale si dovrebbe vedere il mare, si erge il
secondo piano della sala principale. Mi incuriosisce il fatto che
anche la stanza dove risiedo, a giudicare dal corrimano, debba
essere alla stessa altezza del secondo piano di quell’edificio. Le
vasche sono sotto terra, il luogo dove risiedo è quindi al di sopra
di esse di circa tre piani.
La casa è già piuttosto grande, ma le camere di fronte, e quelle
che seguono il profilo del corrimano sulla destra, senza cucine né
salotti, parrebbero tutte camere per i clienti, dato che sono tutte
appiccicate. Di clienti, all’infuori di me non dev’essercene
nessuno. La camere chiuse hanno le scuri sprangate pure in pieno
giorno, a parte alcune che parrebbero restare aperte anche di
notte. Comunque, non si capisce se le porte siano chiuse a chiave
47
o meno. In questo viaggio inemotivo, è un solido luogo che pare
sfidarmi.
L’orologio è ormai vicino alle dodici, ma qui non tira aria di
pappa. La mia pancia vuota si è fatta sentire, tanto che a un certo
punto ho pensato di essere come in quella poesia, l’uomo che non si
vede sulla montagna spoglia4; il che, a voler essere frugali, non
sarebbe male. Non mi va di disegnare, e la sola idea di mettermi a
scrivere qualche haiku, con la concentrazione che ci vuole, mi
annoia. E se leggessi? Ma non mi va nemmeno di slegare quei
due o tre libri che mi son portato dietro, attaccati al cavalletto. In
questo giorno più che tiepido di primavera, bollire la schiena sul
pavimento del porticato, sonnecchiando assieme alle ombre dei
fiori, è la somma gioia del creato. Pensare sarebbe un’eresia.
Muoversi, un rischio. Potendo, eviterei anche di far passare l’aria
dal naso. Una pianta radicata nel pavimento, così mi piacerebbe
provare a passare un paio di settimane.
Presto, s’odono passi giù per il corridoio salire i gradini dal
basso. Sentendoli avvicinare, si direbbero essere in due. Quando
mi pare si fermino davanti alla stanza, uno, senza parlare, se ne
torna da dov’è venuto. S’apre il pannello e penso che sia la
persona di stamane, e invece è proprio quell’inserviente di ieri
sera. Speravo in qualcosa di meglio.
«Scusi l’attesa» dice posando il vassoio. E senza nemmeno una
scusa per la colazione. Su un letto di verdure c’è del pesce fritto,
e sollevando il coperchio della tazza, sotto foglie di felce, una
zuppa in cui sono immersi scampi di color rosa pallido.
Pensando “ma che bel colore!”, osservo l’interno della tazza.
«Non ti piace?», chiede l’inserviente.
«Sì sì, me lo pappo subito.» dissi, ma papparmelo lì per lì mi
pareva un peccato. Ho letto da qualche parte che Turner, mentre
4
48
Si riferisce a una poesia del già citato Wang Wei, “Il recinto dei cervi”, che inizia
pressappoco con questi versi. La poesia è riportata nelle note di traduzione.
era seduto durante una cena, osservando le verdure che aveva nel
piatto, avesse detto a un tizio che aveva accanto, «Che colore
fresco! Questo è il colore che uso io!», ma mi piacerebbe far
vedere a Turner il colore di questi scampi fra le felci. Che fra i
cibi occidentali, di cose con un bel colore non ce n’è manco una.
E se ce n’è, son giusto l’insalata e la carota. Per i valori nutritivi
non saprei, ma dal punto di vista di un pittore, è una cucina
terribilmente sottosviluppata. Ad andar lì, il menù giapponese,
tipo le zuppe, o gli stuzzichini, o il pesce a fettine, deve sembrare
proprio bello. Avere davanti un vassoio di portata, pur senza
affondarci nemmeno una bacchetta, è un tale nutrimento per gli
occhi, che merita da solo un salto a una sala da tè.
«In casa c’è un’altra donna, giusto?» buttai lì la domanda mentre
sollevavo la tazza.
«Già.»
«E chi è?»
«La padrona di qui.»
«Non c’è una signora un po’ più grandicella?»
«È venuta a mancare l’anno scorso.»
«E lei non aveva un marito?»
«Si che c’è l’aveva. La signora è sua figlia.»
«Quella donna giovane?»
«Già.»
«Ci sono altri clienti?»
«Non ce ne sono.»
«Sono il solo?»
«Già.»
«E che fa la giovane padrona, tutto il giorno?»
«Ricama...»
«E poi?»
49
«Suona lo shami5.»
Ah, non me l’aspettavo. È interessante, e continuo:
«E dopo?» provai a chiedere.
«Va al tempio.» dice l’inserviente.
Questo me l’aspettavo ancor meno. Il tempio e lo shamisen, che
strano.
«Va a pregare al tempio?»
«No, va a trovare il monaco.»
«È il monaco che le insegna lo shamisen?»
«No.»
«E allora che ci va a fare?»
«Va a trovare il signor Daitetsu.»
Ah, ecco, questo Daitetzu deve essere per forza il tizio che ha
fatto quel dipinto. A giudicare da quei versi, si direbbe un
semplice monaco. L’orategama nella credenza dev’essere proprio
un oggetto appartenente alla signora.
«In questa stanza ci vive abitualmente qualcuno, giusto?»
«Normalmente, c’è la Signora.»
«E quindi, ieri sera, stava qui finché non sono arrivato io,
giusto?»
«Sì»
«Me ne dispiaccio... Beh, che ci va a fare da Daitetsu?»
«Non lo so.»
«E che altro fa?»
«Nulla.»
«Ma a parte quello, farà pur qualcos’altro!»
5
50
Specie di incrocio fra chitarra e banjo, a tre corde, meglio noto come shamisen.
«A parte quello... un sacco di cose...»
«Un sacco di cose... del tipo?»
«Non lo so.»
La conversazione si interrompe così. A un certo punto, finisco il
pranzo. Venuto il momento di ritirare il carrello, la cameriera,
aprendo il pannello d’ingresso, interponendosi alla vegetazione
del giardino centrale, appoggiandosi alla ringhiera del secondo
piano appena fuori dalla stanza, sostenendo la guancia col palmo
da dietro la sua chioma a ginkgo 6, come un Budda Misericordioso
appena illuminato, posò lo sguardo in basso. Al contrario della
donna di stamane, ha una una posa estremamente tranquilla. Che
guardi in basso, dato che il movimento dei suoi occhi vaga
altrove, chissà, devo averlo intuito da un qualche evidente
cambio di postura. La gente di un tempo usava dire “negli uomini,
nulla è più vero delle pupille”; infatti, non ci sono palle, le persone
non hanno nessun arnese più vitale degli occhi. Da sotto la
ringhiera a croce cinese su cui si è poggiata l’inserviente, due
farfalle, sfiorandosi a tratti, si librano. In quell’attimo, spalancai il
pannello della mia camera. A quel suono, la donna spostò
repentinamente lo sguardo dalle farfalle verso di me. Il suo
sguardo attraversava l’aria come una freccia avvelenata, andando
a cadere senza convenevoli fra le mie sopracciglia. Nel tempo di
pensare “Ah!”, la cameriera, in tutta fretta, serrò il pannello. E
dopo, la primavera si fa estremamente tranquilla.
Mi risdraiai a sonnecchiare. Quel che mi fluttuava indolente nel
cuore …
Sadder than is the moon’s lost light,
Lost ere the kindling of dawn,
To travellers journeying on,
6
Ricordiamo; è la tipica acconciatura femminile che forma una specie di ampio
fiocco assieme a uno chignon, che ricordano una di foglia di ginkgo in voga
all’epoca, conosciuta col nome di Ichougaeshi; la stessa indossata dalla Signora.
51
The shutting of thy fair face from my sight7.
… erano questi versi. Forse, se mi fossi innamorato di quella
chioma a ginkgo, e prim’ancora che potessi pensare che sarei
anche morto per essa, mi avesse congedato con quello sguardo
così come ha fatto, mentre, affascinato e gioioso, avessi provato
tanto dispiacere, avrei certamente composto una poesia con dei
versi con quel significato. E poi …
Might I look on thee in death
with bliss I would yield my breath8.
… magari avrei persino aggiunto un paio di versi come questi.
Fortunatamente, avendo superato i confini di quel che viene
chiamato normalmente “passione” o “amore”, anche volendo
provare simili dolori, non potrei. Solo, la poesia di quel che è
avvenuto in quell’istante mi sembra ben visibile in questi cinque
o sei versi. Anche se la relazione fra me e la chioma a ginkgo non
ha nulla di amorevole, sovrapporre al nostro rapporto
momentaneo questa forma di poesia è divertente. O piuttosto, è
piacevole stirare il senso di questi versi sopra alle nostre figure.
Fra di noi, un sottile filo di karma, parte delle circostanze
espresse nella poesia, fattosi realtà, si è avvolto. Anche se è un
filo di karma, se è così sottile non fa male. E poi, non è un filo
normale. È un filo di arcobaleno che si staglia in cielo, un filo di
foschia che aleggia sui campi, un filo di ragnatela che brilla di
rugiada. Sarebbe facile romperlo ma è così bello da guardare. E
7
“Più triste della luce della luna / perduta ora nel brillìo dell’alba / per i viaggiatori che si
avventurano oltre / è l’esilio del tuo bel volto dalla mia vista”. Sono versi tratti dal
romanzo di George Meredith, "La sbarbatura di Shagpat" (The shaving of Shagpat:
an Arabian Entrateinment, 1856). Nel romanzo, è l’attacco di una canzone cantata
da un guerriero nel deserto, con cui, pur sapendo di avere le ore contate,
corteggia e seduce una damigella che gli si concede.
8
Potessi guardarti mentre muoio / con gioia renderei il respiro. Segue i precedenti versi
nella stessa opera di George Meredith.
52
se, per caso, mentre lo guardo, questo filo si facesse spesso come
la corda di un pozzo?
Non c’è questo pericolo. Io sono un pittore. E lei non è quel
genere di donna.
All’improvviso, si aprì il pannello. Guardando l’ingresso dal mio
dormiveglia, la donna del destino dall’acconciatura a ginko stava
in piedi sulla soglia, come uno stelo di porcellana cinese piantato
dritto in un vaso.
«Ti sei riaddormentato? Stanotte devo averti recato disturbo. Ti
ho infastidito più di una volta... hohohoho.» ride. In queste
occasioni, mostrarsi timidi, o ritrosi, addirittura vergognosi, non
sarebbe affatto strano. È il caso di dire che mi ha lasciato al palo.
«Grazie per stamane» ringrazio nuovamente. A pensarci è la
terza volta che ringrazio. e ogni volta non ho fatto altro che
ripetere gli stessi tre caratteri di “grazie” 9...
La donna mi supera rapidamente, per sedersi accanto al mio
cuscino.
«Beh, allora dormi. Possiamo chiacchierare anche se ti
addormenti», dice con voce impostata. E come no, penso, e mi giro
sulla pancia, sostenendomi il mento con ambo le mani e
poggiando i gomiti a mo’ di colonne sul pavimento.
«Ho pensato che ti stessi annoiando, e sono venuta a servirti del
tè.»
«Grazie» m’è uscito un altro “grazie”. Guardando il piatto dei
biscotti, c’è dell’ottima marmellata di fagioli dolci. Fra tutti i
dolci, la gelatina di fagioli10 è di gran lunga la mia preferita. Non
9
Il “grazie” a cui si riferisce è il semplice arigatou. Sebbene si scriva quasi
universalmente in hiragana (caratteri fonetici), è ancora conosciuta la grafia
originaria in tre caratteri, 有難う
10
Il termine originale è youkan; tipico dolce da tè giapponese, dal colore variabile
dal blu scurissimo fino al rosa chiaro e al verde intenso, compatto ma traslucido.
53
che abbia una gran voglia di mangiare, ma quella disposizione
così fluida, sottile, e poi quell’aspetto traslucente con cui riceve i
raggi di luce, sembra proprio un’opera d’arte. In particolare, la
parte in cui si stempera sull’azzurrino, come nella giada o
nell’alabastro, mentre guardo la sua pellicina, mi fa star bene. E
soprattutto, questi dolcetti dalle sfumature azzurre posati su un
piatto di porcellana decorata d’azzurro, ammiccano come nati
giust’adesso dalla porcellana stessa, ‘sì che mi vien da stendere
una mano per accarezzarli. Fra i dolci occidentali, non ce n’è
nessuno che mi doni questo piacere. La crema ha un colore un
po’ morbido, ma troppo opprimente. La gelatina sembra una
gemma, al primo sguardo, ma trema in modo così tremolante, e
non ha un gusto intenso come la gelatina di fagioli. E che con
zucchero e latte si possa tirar su qualcosa di eccelso è un’idea
quantomai balzana.
«Sì, sono proprio un bel lavoro.»
«Genbei li ha appena portati. E così ho pensato di offrirteli.»
È ovvio che Genbei si è fermato giù al castello per la notte.
Senza rispondere, osservo i dolcetti. Non m’importa chi e dove li
abbia comprati. Basta e avanza che siano belli, tanto che io possa
apprezzarli.
«La forma di questa porcellana è terribilmente bella. E anche il
colore: non sfigura affatto sotto ai dolcetti.»
«Huhu» ride la donna. Agli angoli della bocca freme un impulso
di sufficienza. Chissà se sta pensando che le mie parole celino
dell’ironia. E per essere stizziti, i presupposti ci sono tutti. È quel
genere di cosa che agli uomini privi di spirito, quando vogliono
celiare a ogni costo, capita spesso di dire.
«È cinese?»
«Cosa?» risponde lei, come se la porcellana non si riflettesse nei
suoi occhi.
«Eppure parrebbe cinese...» dico sollevando il piatto per
guardarne il fondo.
54
«Se ti piacciono queste cose, te ne posso mostrare altre.»
«Sì, per favore.»
«A papà piacciono le anticaglie, e abbiamo molti oggetti di
questo tipo. Magari potrei parlargliene e farti invitare a prendere
un tè insieme.»
Sentendo parlare di tè rimasi un po’ interdetto. Al mondo non
c’è gente dai modi più boriosi dei cultori della cerimonia del tè.
Quelli che imbrigliano artificiosamente l’ampio mondo della
poesia in spazi angusti, estremamente pomposi, estremamente
pignoli, estremamente puntigliosi, inutilmente proni mentre
bevono sontuosamente della schiuma, sono conosciuti col nome
di “cultori del tè”. Se fra tali arzigogolate regole v’è dell’eleganza,
allora il reggimento di Azabu11 ha eleganza da vendere. I tipi da
“fianco-destr” e “avanti-marsc” devono essere tutti grandi
maestri della cerimonia del tè. Mercanti e cittadini, sono gente
quasi del tutto priva di educazione al gusto, che essendo
pressoché incapace di riconoscere lo stile, fagocitando
meccanicamente le regole di Rikyuu 12, si dicono che quello sì che
era un grande stile, cultori di un arte che si fa beffe di chi lo stile
lo conosce davvero.
«Quando mi dice tè, intende quel tè che si accompagna a una
cerimonia formale13?»
11
Il terzo reggimento della prima divisione di fanteria, la cui caserma era sita in
Azabu, un quartiere di Tokyo. Souseki usa questa iperbole non tanto perché il
reggimento di Azabu avesse fama di essere particolarmente rude o severo, ma
perché il quartiere di Azabu prende il nome da un tessuto grezzo, simile alla
raffia, usato per stracci, coperture e pesanti tendaggi.
12
Sen no Rikyuu, 1522-1591. È considerato il “maestro completo” della cerimonia
del tè giapponese. Fu costretto al suicidio dopo aver offeso il famoso dignitario
Toyotomi no Hideyoshi.
13
Il protagonista passa improvvisamente al tono formale (qui espressa con il “lei”).
È una chiara nota di nervosismo che non passa inosservata al lettore giapponese.
Dopo la risposta della signora, anche questa un po’ risentita, si torna
immediatamente al tono informale di prima.
55
«No, nessuna cerimonia o cose del genere. È un tè che, se lei
non dovesse gradire, può anche rifiutare.»
«Se è così, allora posso accettare subito!»
«Hohohoho. Papà adora mostrare i suoi arnesi, quindi...»
«Dovrò lodarlo per forza?»
«È un po’ in là con gli anni, per cui, se lo lodi, ne sarà felice!»
«Oh, allora vedrò di lodarlo almeno un po’.»
«E invece devi lodarmelo tantissimo!»
«Hahahaha, a volte non parli affatto come una persona di
campagna!»
«Perché? Esistono delle persone “di campagna”?»
«Sì, anzi, le persone di campagna sono le migliori.»
«Beh, allora sono un’autorità in questo campo...»
«Però, penso che tu sia stata anche a Tokyo.»
«Sì, ci sono stata, e anche a Kyoto. Siccome sono una
vagabonda, sono stata qua e là.»
«Fra stare qui o in città, cosa preferisci?»
«Ma è la stessa cosa!»
«Tornare in un posto tranquillo come questo dev’essere
piacevole.»
«Piacevole, o spiacevole, lo stare al mondo assume il sentimento
che si prova. Se ci viene in odio il Paese delle Pulci, trasferirsi nel
Paese delle Mosche non aiuta affatto.»
«Se si andasse in un Paese senza pulci ne mosche, sarebbe
meglio...»
«Se esiste un tale Paese, tiralo fuori e fammelo vedere! Su, dai,
fammelo vedere!» dice la donna facendosi più vicina.
56
«Se questo è il Vostro desiderio, Ve lo mostrerò 14» dico e
prendo il solito blocco da disegno, ci metto una donna a cavallo,
mentre guarda un ciliegio di montagna – ovviamente è uno
schizzo al volo, non è ancora un disegno completo.
Semplicemente, butto giù i sentimenti come mi vengono,
«Su, entri qui. Non ci sono pulci né mosche.» e glielo infilo
davanti al naso. Che sia sorpresa, o che l’abbia imbarazzata, dalla
sua posa non si capisce, ma non credo di averla fatta soffrire, e
mentre esamina un po’ il panorama,
«Beh, è un mondo stretto, ha solo una dimensione. Ti piacciono
questi posti? Proprio come un granchio, eh?» e così dicendo, lo
scostò. E io:
«Wahahahaha» rido. Vicino alle tegole, un usignolo che aveva
iniziato a cantare, spezzando d’improvviso la sua voce, cambia
ramo, allontanandosi. Entrambi cessiamo apposta il nostro
dialogo, tendendo per un po’ l’orecchio, ma la gola dal doloroso
canto non si apre facilmente.
«Ieri devi aver incontrato Genbei sulla montagna15.»
«Sì»
«E hai fatto visita al monumento funerario della Fanciulla di
Nagara?»
«Sì»
«Verrà l’autunno, sull’erba la rugiada s’è posata, ma dovrà svanire; così
mi vedo, e mi struggo.» senza spiegarsi, la donna, di seguito e
ignorando la metrica dei versi, semplicemente, cantò la poesia.
Non so perché.
«Questa poesia, l’ho udita alla sala da tè!»
14
Qui il cambio di livello di formalità è assunto in senso scherzoso, dopo che il
chiwa della signora si fa più caldo, diretto e perentorio.
15
Il chiwa della Signora si scioglie qui in un tono più caldo diretto.
57
«Te l’ha insegnata la nonna? Era in servizio qui da noi, quando
non avevo ancora sposato... » attaccò a dire, per poi guardarmi in
faccia; ma io feci finta di non sapere.
«Ero giovane, ma quando veniva le raccontavo la storia di
Nagara. La poesia era l’unica cosa che non ricordava bene,
ascoltandola chissà quante volte, in qualche modo ha finito per
impararla a memoria.»
«Mi ero chiesto come potesse conoscere versi tanto difficili. –
Comunque, è una poesia molto triste, vero?»
«Triste, dici? Io non la definirei così. Innanzi tutto, gettarsi nel
profondo rio, non è piuttosto una seccatura?»
«Eh già, è proprio una seccatura, vero? Al suo posto, tu che
avresti fatto?»
«Che avrei fatto? Ma non è ovvio? Mi sarei tenuta sia Sasada che
Sasabe come amanti!»
«Entrambi?»
«Sì»
«Forte!»
«Non è forte, è ovvio!»
«Capisco, in questo modo sistemi la cosa anche senza volartene
nel Paese delle Pulci, o nel Paese delle Mosche.»
«Si può anche vivere senza pensare come granchi...»
Hooo, hokekyooo, l’usignolo che avevamo quasi scordato, forse
dopo aver recuperato il suo vigore, all’improvviso sollevò
spensierato il suo canto. Una volta ripresosi, si vede che il canto
esce naturale. Incurvando il corpo, agitando il fondo della gola
compressa, semplicemente spalancando il piccolo becco, Hooo,
hokekyooo. Hoooooo, hokekyoooooo, insistente, cinguetta.
«Quella è la vera poesia.» la donna mi insegnò.
58
5
«Scusi dotto’, ma che per caso è de Tokyo1?»
«Si capisce così facile?»
«Se se capisce? Dalla prima occhiata, dalla prima parola!»
«E sai anche di che parte?»
«Embé, Tokyo è grossa ’na cifra. De sicuro, nun è de li quartieri
vecchi. Forse de Yamanote. E de preciso, Koujimachi, forse? No?
Allora, Koishikawa? E se nun è de llì, sarà de Ushigome, o de
Yotsuya.»
«Beh, sono circa di quelle parti. Certo che la conosci bene, eh?»
«Come vede, so’ anch’io un bimbo de Edo2.»
«In effetti, mi sembravi uno verace.»
«Ehehehehe. Fino all’osso, grazie, anche se ora so’n po’
sgangherato.»
«E com’è che sei finito in un posto di campagna come questo?»
«A dotto’, ha detto bbene. Ce so’ proprio finito. Me so’
rovinato, me so’ magnato pure li muri.»
«Avevi un negozio di barbiere da qualche parte?»
1
Il personaggio qui introdotto parla in dialetto di Tokyo, che ho reso col
Romanesco.
2
L’espressione nell’originale è 江戸っ子 – Edokko – che significa “bambino di
Edo”, che è il nome antico della città di Tokyo. A “Edo” (porta della baia), venne
assegnato il nome di Tokyo (capitale occidentale) nella seconda metà dell’ottocento.
59
«Nun c’avevo un negozio, ce lavoravo. Eh? N’dove? A
Matsunaga, nel rione de Kanda. Pe’ forza nun la conosce dotto’, è
un rione lurido, piccolo come la fronte der gatto mio. Là c’èr
ponte de Ryuukan. Eh? Nun conosce manco quello? E dire ch’er
ponte der Ryuukan è famoso.»
«Ehi, ti spiace mettere un altro po’ di sapone, mi fai troppo
male.»
«Te faccio male? Io so’n professionista, ecco, si nun te faccio er
contropelo, così, si nun te scavo li peli da li buchi uno a uno, io
nun so’ contento! Che li barbieri d’oggi, a dotto’, mica te radono,
te accarezzano. Cerca de sta’ bbono ancora ’n po’.»
«E’ già da un bel po’ che sto buono. Per favore, vedi di
mettermi un po’ di lozione o di sapone.»
Dalla carne in fiamme delle mie guance, svogliatamente, il
titolare lasciò la presa, per tirar giù da una mensola un sapone
rosso, ormai liso, e come ebbe ritenuto di averlo immerso
abbastanza nell’acqua, senza troppe cerimonie mi ci accarezzò,
per così dire, il viso. Non mi è capitato molto spesso di essere
spalmato direttamente col sapone. E poi, l’idea dei giorni passati
da quell’acqua posata lì, non mi riempie di entusiasmo.
Ma il colmo è che, dato che qui si lavora coi capelli, come
cliente, è mio diritto essere messo di fronte a uno specchio.
Tuttavia, è già da un bel po’ che sto pensando di rinunciare a
questo diritto. Gli utensili detti specchi sono piatti, e non ve n’è
uno che non abbia il dovere di riflettere docilmente il volto delle
persone. Appendere uno specchio che non abbia questa
caratteristica e forzare chi gli sta di fronte a riflettervisi... è come
la malignità che si potrebbe contestare ad chi ci costringa a
posare di fronte a un pessimo fotografo che rovina l’aspetto dei
suoi soggetti. Potrebbe essere anche una penitenza per allenare il
rifiuto alla vanità, ma mostrare a chiunque un volto peggiore del
suo e dirgli “questo sei tu” va riconosciuto come un affronto. E
questo specchio screanzato che, con spirito di sopportazione,
sono costretto a fronteggiare, mi sta evidentemente insultando.
60
Se mi giro a destra, la faccia diventa tutta naso. Se mi sporgo a
sinistra, la bocca si apre fin sotto le orecchie. Se guardo in alto
sembro un rospo spiaccicato visto di fronte, e se mi chino
appena mi spunta una testa come un bimbo di Fukurokuju 3.
Mentre uno deve resistere a questo vile specchio, è pure costretto
a vedersela con tutti questi mostri. E anche a soprassedere sulla
mancanza di artisticità del mio volto riflesso, sarà per la sua
fattura, o per le sfumature, o per le crepe sulla superficie
riflettente, o per come la luce che lo attraversa restituisce le
immagini, ma questo strumento ha la capacità di esaltare la
bruttezza. Certo, anche essendo capaci di ignorare le angherie di
un qualunque villano, chiunque, se dovesse svolgere la propria
attività quotidiana al cospetto di tale villano, finirebbe col
risentirne.
E inoltre, questo barbiere non è un chiunque qualsiasi.
Sbirciandolo da fuori, vedendolo seduto a gambe incrociate,
mentre fumava da un lungo beccuccio e soffiava il fumo su una
bandierina dell’alleanza anglo-nipponica, mi era parso che avesse
un’aria annoiata, e una volta dentro mi sono sorpreso di avergli
affidato la mia gola. Ha iniziato a maneggiarla senza ritegno,
tanto che mi è venuto da chiedermi se, mentre si viene sbarbati,
la gestione della propria gola passi di diritto al barbiere, o
piuttosto non ne rimanga una pur minima parte anche a me. Dal
momento che il mio collo è ancora ben piantato sulle mie spalle,
non posso permettere che la cosa vada avanti a lungo.
Appena levato il suo rasoio, aveva perso ogni cognizione delle
regole civili. Quando passava sulle guance, si levava un sonoro
fruscìo. Dalle parti delle basette mi pulsavano le vene. Quando la
sua baionetta aveva aperto le danze, nei pressi del mento s’era
levato un tetro gori gori, come il rumore di stille di ghiaccio
3
Uno dei sette dei della fortuna, appartenenti alla mitologia cinese, rappresentato
come un vecchio saggio piccoletto dalla fronte altissima, dalla quale, si narra,
nascevano bambini molto fortunati.
61
calpestate. E dire che si vanta di avere la mano migliore di tutto il
Giappone.
E per finire, è pure ubriaco. Quando dice “a dotto’ooh”, fa una
strana puzza. A tratti mi soffia uno strano gas lungo il setto
nasale. Se, in questo stato, dovesse sbagliare, non ho idea di dove
potrebbe volargli il rasoio. Se persino il suo padrone non ne ha
una cognizione precisa, non posso certo averla io, che gli ho solo
prestato la faccia. Mi ero messo l’anima in pace e gli avevo
ceduto la faccia con l’intenzione di non lamentarmi per qualche
taglietto, ma all’improvviso ho cambiato idea, che qui finisce che
mi apre la trachea.
«Der sapone... se ce lo metto, nun se taja bbene, viene mejo
senza, ma dotto’, li peli so’ li tua, fa’ m’po’ come te pare.» così
dicendo il padrone sollevò il sapone nudo, e così nudo com’era
lo gettò verso la mensola, ma il sapone si ribellò all’ordine del
padrone e cadde rotolando per terra.
«Dotto’, nun me pare d’averla visto in giro, com’è? E’ qui da
poco?»
«Già, da un paio di giorni...»
«Ah sì? E’ndo’ sta?»
«Ma dagli Shihoda!»
«Ah, è ospite lì. Ce credo. Mo joo dico, che pure io so’ venuto
qui grazie a quer vecchio riccone. – Eggià; quanno er vecchio
stava a Tokyo, io stavo da que’e parti – eppoi sa com’è, è un’omo
de core; m’ha dato ’na mano. L’anno scorso jè morta la moglie, e
mo’ nun fa artro che rigirarsse li gingilli – tutta bella robba, ma de
quella che nun ce fai niente. Che jo detto, se lli vendi, armeno te
fai n’ po de sòrdi...»
«Beh, c’ha pure una bella figlola, no?»
«Occhio.»
«A che?»
«A che? – Te l’avranno già detto, ma quella è ’na divorziata.»
62
«Ma va?»
«Eh già, ha fatto ’n ber disastro. E dire che se ne sarebbe potuta
anna’ de qua. Ma quanno la banca è fallita, lei ’nun poteva fa’ più
’a bella vita, e allora se n’è scappata; che ingrata! Fintanto che c’è
er vecchio je va bbene, ma se je dovesse capità quarcosa, quello
che ha fatto je torna tutto.»
«Mah, sarà...»
«E sarà sì! Che cor fratello maggiore4 so’ come cane e gatto.»
«Ha pure un fratello?»
«Eh sì; sta nella villa sulla collina. Vacce a’ ffa du’ passi, che c’è
’na bella vista.»
«Ehi, non è che mi metteresti dell’altro sapone? Che mi stai
facendo male di nuovo.»
«Certo che c’hai ’na barba che fa male ’na cifra. È che ll’hai
lasciata cresce troppo. Con ’na barba come ’a tua, dotto’, bisogna
tajialla massimo ogni tre giorni. Che se te fa male er rasoio mio,
allora figuramose co’ n’antro!»
«D’ora in poi farò così. Anzi, meglio farla ogni giorno.»
«Te voi fermà così tanto? Damme retta, lascia perde. Che nun
c’hai nulla da guadagnacce. Te vai a ficcà nei guai, manco
t’immagini che tte po’ capita’.»
«Come mai?»
«Dottò, pari ’n tipo che piace alle donne, ce l’hai scritto ’n
fronte.»
«E quindi?»
«E quindi, dottò? La gente der paese dice che quella là è tutta
matta...»
«Mi sa che questa cosa non è proprio vera.»
4
L’originale è leggermente diverso, anche se trasmette le stesse informazioni. Si
veda al riguardo la descrizione nelle note di traduzione.
63
«Guarda che c’ho delle prove de prima mano, statte ’n guardia.
Che è pericoloso.»
«Io non ho nulla da temere, ma... di che prove si tratta?»
«E’ una storia strana, sai? Mah, mettete comodo e famose un
tiro de tabacco, che mo’ ta’a racconto. O te lavo la testa?»
«La testa, lasciamola stare.»
«Te potrei fa’ giusto un massaggio antiforfora...»
Il titolare, senza tanti complimenti, allineò le sue dieci unghie
ricolme di lordume sulla mia scatola cranica, e sordo a ogni
rifiuto, diede il via a un violento moto longitudinale. Queste
unghie che spingono via la radice d’ogni singolo capello,
infuriano come il rastrello d’un gigante che, fra desolate lande,
corresse alla velocità d’un uragano. Non ho idea di quante
centinaia di migliaia di capelli io abbia in testa, ma non v’era
capello la cui radice non fosse estirpata, e oltre ad arare a
maggese le aree sgombre, a rivoltarne le zolle fin giù ai vermi,
avendo ancora l’impeto di dissodare il resto, il titolare
imperversava sulla mia testa con tanta veemenza da
traumatizzarmi il cranio, e finanche la materia grigia.
«Che te ne pare, nun è ’na pacchia?»
«Hai un tatto... fuori dal comune...»
«Eh? Eggià, quanno faccio così, tutti se sentono ringalluziti...»
«Mi stai a svitare la testa!»
«Ma che sei così moscio pe’ davero? Ma sei proprio spompo.
Sarà ’a primavera, che se ’un sei ’n forma te fiacca subbito... –
vabbeh – dai, su, viette a fa’ ’na fumatina. – Certo che stare da
solo dagli Shihoda dev’esse noioso. Passa de qqua, che se famo
du’ chiacchere. Che pe’ n’ bimbo de Tokyo, ce vole n’antro
bimbo de Tokio, che sennò nun ce se trova. Che? La signora è
già passata a salutatte? Ce ’o sapevo, è una senza ritegno, te vai a
ficca’ nei guai.»
64
«La signora... mi stavi accennando qualcosa quando, per levarmi
la forfora, quasi mi sviti il collo, giusto?»
«Eggià, son’ po’ rintronato, e manco poco, e ogni tanto me
perdo er filo der discorso... Dunque, te stavo a di’ che quer
bonzo s’è preso ’na sbandata...»
«Quel bonzo... quale bonzo?»
«Er cellario5 der tempio Kankai, e ’nsomma... »
«Guarda che cellario o abate, non avevi tirato fuori nessun
bonzo.»
«Eggià, sto a coree e nun te fo’ capì. Insomma, era ’n tipo rude,
e che me sa che raccattava pure bbene, ma sa com’è, s’era messo
in testa che ce doveva provà e le scrisse ’na lettera. – Oh, spetta.
Forse era ’na serenata. Naa, ’na lettera. Sì, me sa che era ’na
lettera. E poi, be, le cose se so’ intorcinate ’n po... Ah, sì, ecco,
appunto. Poi c’è rimasta sorpresa.»
«Ma chi si è sorpreso?»
«Embeh, la donna.»
«Ah, la donna si è sorpresa nel ricevere la lettera, giusto?»
«Se fosse ’na donna che se sorprende pe’ na’ lettera, sarebbe già
’na cosa bbona, ma nun s’è mica sorpresa pe’ quello.»
«E allora cos’è che l’ha sorpresa?»
«La serenata, me sa.»
«Non avevi detto che non era una serenata?»
«Eggià, giusto. Me so’ sbagliato. Aveva ricevuto una lettera.»
«E allora, la donna ha ricevuto questa lettera ed è rimasta
sorpresa.»
5
Il termine originale è 納所 – nassho; è un monaco che si occupa della contabilità
e/o del magazzino, ed è considerata una carica di basso livello nella gerarchia
ufficiale.
65
«Macché, era l’uomo.»
«L’uomo, intendi il bonzo?»
«Sì, er bonzo.»
«E perché il bonzo avrebbe dovuto essere sorpreso?»
«Perché? Embeh, mentre teneva er servizio ar tempio coll’abate,
questa se n’è entrata all’improvviso e... uhuhuh. Dev’esse tutta
matta.»
«E che è successo?»
«“Se ti piaccio tanto, qui davanti al Budda, dormiamo assieme!”,
disse, e se buttò coll’unghie sulla testa de Taian.»
«Ma nooo!»
«C’ha perso la faccia, Taian. Mandare una lettera a una fori de
testa che l’ha svergognato in quel modo, sùbito, quella sera stessa
s’è rintanato da quarche parte e poi è morto.»
«Morto!?!»
«Beh, me sa che è morto. Mica poteva vive così.»
«Ma non si può dire!»
«Eggià, che se quella è matta, non è che si uno more la cosa se
sistema, e allora magari è ancora vivo.»
«È una storia piuttosto… buffa.»
«Beh, buffa o no, tutti al villaggio se so’ fatti du’ belle risate. Che
tanto, quella là è matta fino all’osso e nun je ne po’ frega’ de
meno. – Macché, dotto’, manco uno dritto come te la po’
raddrizza’, che quella è fatta così, te pijia ’n giro e te mette ne’
pasticci.»
«Mi sa che dovrò stare un po’ attento. Hahahahaha.»
Dalla tiepida spiaggia, una brezza primaverile dal sentore
salmastro giunge a sbuffi, agitando, sonnacchiosa, la tendina
all’ingresso, che si frappone alla vista. Piegando il corpo per
passar sotto di essa, la figura d’una rondine, esitante, cade sullo
66
specchio. Nella casa di fronte, un nonno, appena sui sessanta, si
incurva in silenzio sotto il tetto spiovente, a rivoltar conchiglie.
Tintinnante, la lama del suo temperino ne estrae il frutto rosso e
l’occulta nel canestro di bambù. I gusci, rilucendo brillanti,
attraversano un metro d’aria increspata. Ciò che va a formare
quella collinetta di gusci di conchiglie, chissà se son ostriche,
vongole, o cozzaloni. Scivolando, molti finiscon sul fondo d’un
ruscello sabbioso, via dalla superficie del mondo fluttuante, sepolte
giù verso regioni oscure. E dopo che son sepolte, ecco che,
subito, nuove conchiglie s’affrettano là, sotto ai salici 6. Il nonno,
senza il tempo di pensare al destino delle conchiglie,
semplicemente, le getta attraverso il riverbero. Se immagino il
suo canestro senza quel fondo che deve avere, questo suo giorno
di primavera mi pare un infinito tesoro di quiete.
Il ruscello sabbioso, scorrendo sotto un ponticello di neanche
dieci metri, verso la spiaggia, spilla l’acqua di primavera. Laggiù
dove l’acqua di primavera s’incontra col mare di primavera,
ampie reti stese ad asciugare, tutte diverse, e dev’essere
sgusciando fra le loro maglie che la brezza che soffia verso il
villaggio continua a portare un tepore che sa di pesce, mi dico.
Fra di esse, quel che si vede, simile a un paziente andirivieni
capace di sciogliere le lame più ostinate, è il colore del mare.
Questo panorama non si armonizza affatto col titolare. Se nella
mia mente dovesse rimanere l’impressione del carattere rude di
questo padrone a lottare da ogni lato con lo scenario, stare in
piedi fra le due parti mi darebbe la sensazione di essere come un
tappo tondo per un buco quadrato. Fortunatamente, il titolare
non è un combattente valoroso abbastanza. Per quanto faccia il
bimbo de edo, per quanto brandisca il suo vernacolo, è
incommensurabile all’immagine della completa serenità di questa
terra. Celiando col suo turpiloquio viscerale, per quanto si
impegni ad infrangere quest’armonia, diviene un rapido atomo
6
L’espressione richiama il luogo comune 柳の下の同様 – yanagi no shita no douyou
(come stare sotto ai salici), che indica una posizione particolarmente fortunata.
67
che, nel bagliore del sole primaverile, fluttua. I conflitti sono
fenomeni che emergono spontanei quando vengono disposte
forze, pesi, intenzioni o necessità impossibili da conciliare, e per
di più di simil grado, fra cose ovvero persone che si fronteggiano
per la prima volta. Quando le dimensioni che separano gli enti
sono incommensurabilmente vaste, questi contrasti si smorzano,
anzi, magari le azioni scomposte finiscono col rientrare nell’alveo
della forza maggiore. Come braccio del Grande agisce il Sapiente,
come giuntura del Sapiente agisce l’Incolto, e a divenire viscere
d’Incolto mira l’azione del bestiame. Adesso il titolare, nello
scenario del paesaggio di questa smarginata primavera, sta
recitando un ruolo grottesco. Egli, che dovrebbe infrangere la
sensazione di tranquilla primavera, invece, questa sensazione di
tranquilla primavera la esalta meticolosamente. Io, inconsapevole,
a un lieve umore più prossimo a questo cielo, con leggiadro celio
m’avvicinai. Quest’assai buffo buffone è, al pacioso giorno di
primavera, d’un ben più armonioso colore.
E siccome mi stavo proprio dicendo che questo padrone poteva
essere un uomo adatto a diventare quadro, o poesia, invece che
andarmene di filata, piantai lì il culo a cazzeggiare del più e del
meno. A un certo punto, da sotto le tendine all’ingresso 7, sguscia
la testolina di un bonzo.
«La mi scusi, che ch’ha tempo per una scorciatina 8?» dice
entrando.
Con quel un kimono di cotone grezzo stretto da una cordicella
dello stesso materiale, su cui era appoggiato un panno rado come
una zanzariera, pareva proprio un allegrissimo bonzetto.
7
Il termine originale noren – sono quelle tipiche tende, per lo più di stoffa pesante
e scura, che pendono all’ingresso dei negozi tradizionali giapponesi durante
l’orario di esercizio e arrivano a coprire al massimo la metà del busto dei
visitatori.
8
Il personaggio parla con uno spiccato accento del Giappone occidentale (Kyoto,
Oosaka, Hiroshima). Qui è reso con il Toscano.
68
«Ryounen-san. Come te butta, che te ne stai sempre a penzolatte
’n giro e a spappa’; nun te sgrida er priore?»
«Naaa, m’ha lodato.»
«Ma come, t’aveva dato ’n ambasciata e te te sei messo a pesca’,
e t’ha pure detto: “bravo, hai fatto bbene”!?»
«A’voglia, m’ha proprio detto: “Se Ryounen, che incarna la
giovinezza, ben si svaga, non possiamo che affermare che ciò è
cosa buona e giusta.”»
«De solito, te saresti preso ’na coppinata ’n testa. Che ch’ai la
testa così bitorzoluta che proprio nun te se po’ rapa’. E armeno
oggi, famme ’sta grazia, vedi d’annatte a sistema’ er craino e de
torna’ n’antra vorta.»
«Se vo’ a sistemarmi il cranio, poi ’un vale mia più la pena
d’affidallo a un barbiere punto bravo.»
«Hahahaha, la testa ce l’hai tutta ’n bozzo, ma la bocca te
scoppia de salute.»
«Piuttosto, direi che la su’ mano l’è ritardata, ma col saké la va
proprio forte.»
«Brutto fio de ’na mignotta, io c’avrei la mano ritardata!?»
«E ’un l’ho mia detto io. Ll’ha detto il priore. Ovvìa, ’un
s’arrabbi ‘osì. Che le fa male, alla su’ età!»
«Guarda che nun fai ride pe’ gnente. Vero dottò?»
«Ah no?»
«’Sti bonzi stanno tutti a vive ’ncima a ’na scalinata de pietra,
tutti spensierati, pe’ forza che poi je viene la lingua affilata! Pure
sto bonzetto s’è fatto bello schietto – Ops... china la testa – ma
me senti? T’ho detto de china’ la testa! – se non me dai retta va a
fini’ che te tajio, ma pe’ davero, te faccio uscì ’r sangue!»
«Ahio, mi fa male! O che l’è grullo?»
«Se nun te riesce de sopporta’ ’n paio de coppini, me chiedo
come fai a diventa’ bonzo.»
69
«Se l’è per ‘odesto, guardi che bonzo lo son di già!»
«Si, ma nun sei ancora n’omo! – Approposito, onorevole
bonzetto, quer Taian, com’è che è morto?»
«Ma Taian-san ’un l’è mia morto!»
«Nun’è morto? Strano! Eppure doveva da morì.»
«Taian-san, dopo quella volta, ha trovato la vo’azione e ll’è
andato presso il tempio di Taibai, nel Rikusen 9, e s’è dato anima e
‘orpo alla meditazione. E pare riuscirà a ottenere la saggezza. L’è
proprio una bella ’osa!»
«Ma che te stai a ddi’? Persino per un bonzo, scapparsene de
notte nun po’ esse ’na bella cosa. E anche tu, devi sta ’n guardia.
E comunque, è ’na gran casinara quella là, – e ’ntendo quella
matta patentata che a quanto pare... va spesso dar priore?»
«’Un ho mai sentito parlare di donne matte patentate.»
«Ma sei proprio duro, razza di macina-miso 10... ’nsomma, ce va
o non ce va?»
«Di matte ’un ne vengon punte, ma viene la signorina Shihoda.»
«Il priore pò prega’ quanto je pare, che quella nun c’è verso de
guarilla. Mi sa che l’ex-marito ja fatto ’na fattura.»
«Quella figliola l’è una gran signora. L’anziano maestro la loda
spesso.»
«Ce credo, quanno sali quelle scale di pietra, vedi tutto ar
contrario. Er priore pò di’ quello che vole, ma un matto resta un
matto. – E con questo sei a posto. E mo’ sbrigate e vedi de nun
fatte sgridà dar priore.»
9
Il Rikusen è una regione storica che corrisponde grossomodo alla parte
settentrionale della prefettura di Fukushima, nell’estremo nord dell’isola
principale del Giappone, in pratica agli antipodi rispetto al luogo immaginario di
Nagoi.
10
Il miso è una pasta di fagioli di soia molto comune nella dieta giapponese.
Essendo uno dei compiti più umili fra quelli assegnati nei templi, il termine
macina-miso viene usato per indicare i monaci di basso rango (e basse capacità).
70
«No, me ne andrò ancora un po’ a divertirmi per farmi lodare.»
«Fai ’n po’ come te pare, moccioso ’npertinente.»
«Pendulocefalo mollis.»
«Pendu-che?!»
Ma la fresca testa già s’è defilata sotto la tendina, e insieme, il
vento di primavera la soffia via.
71
6
Mi volgo al desco della sera. Porte e pannelli son tutti spalancati.
Già la gente dell’albergo non abbonda, e poi questa dimora è
assai ampia. La stanza che occupo, dal confine dell’agir gentile di
quella gente che non abbonda, da chissà quante svolte di corridoi
è sì partita, che non un suon di cose, del filo del pensiero, si pone
a intralcio. Oggi, è oltremodo silenzioso. Il padrone, la Signora, le
inservienti e i camerieri, lasciandomi qui, se ne saranno scappati
da qualche parte, mi vien da pensare. E scappati non in un luogo
qualsiasi, ma nel Reame delle Foschie, o forse delle Nuvole. O
forse là, dove le nuvole con l’acqua naturalmente si sfiorano, su
d’un mare sì pigro da prender fino il timone, che il cor non
s’accorge di quando inizia la deriva, e giunge dove la bianca vela,
dalle nubi e dall’acqua mal si distingue, e poi oltre, là, fin dove la
vela stessa, dell’esser distinta dalle nubi più dell’acqua, si
compiange – se fuggiti sono, sarà in siffatto estremo luogo,
credo. O se così non è, d’improvviso nella primavera svaniti e
persi, coi lor primigeni elementi ormai mutati nell’etere
dell’immensità del Creato, che anche a rivolgersi al microscopio,
non una infima traccia vi resterebbe impressa. O magari,
mutandosi in allodole, dopo aver cantato e poi taciuto il giallo dei
na-no-hana, saran volati via là, dove il profondo scarlatto del
tramonto, ondeggiante, s’attarda. E chissà, forse in moscini, che
alla fine del duro lavoro di rendere ancor più lunghi i lunghi
giorni, ancora anelanti la dolce rugiada che sui pistilli s’addensa,
sotto le camelie distesi, quel mondo, fragrantemente dormono.
Beh, insomma, è un sacco tranquillo.
73
Vuota è questa casa che la vuota brezza primaverile attraversa,
ma tanto, non l’attraversa col compito di incontrare le persone.
Né si offenderebbe se le fosse impedito. Spontanea viene,
spontanea va, è l’estrema giustizia dell’alito dell’Universo. E qui,
mentre appoggio il mento nel palmo, se anche la mia anima fosse
vuota come la stanza in cui albergo, la brezza primaverile, senza
bisogno di invito, non esiterebbe ad attraversarla.
È anche perché ci rendiamo conto che quel che su cui
camminiamo è la terra che può succedere di temere che si
squarci. È anche perché ci rendiamo conto che quel che ci
sovrasta è il cielo che può succedere di tremare nel terrore
d’essere morsi dalla saetta. Senza lotta, fra gli uomini non può
emergere il migliore, questo impone il mondo fluttuante, e così è
impossibile sfuggire ai dolori di questa valle di lacrime. Vivendo
in un universo multipolare, la nostra natura, che ci obbliga a
scommettere sui nostri successi, è nemica del vero amore. Le
ricchezze innanzi agli occhi sono polvere. Il nome a cui ci
aggrappiamo e l’onore di cui ci impossessiamo, mostrati dalle
scaltre api che dolcemente li stillano, paion miele ormai scevro
d’ogni aculeo. Ma il così detto “piacere”, quando lo si avvicina, è
colmo d’ogni sorta di dolore. Solo i poeti, e coloro che sanno
diventare artisti, mordendo questo mondo intricato all’estremo,
conoscono la purezza intima. Mangiando foschia, bevendo
rugiada, mescendo il purpureo, dialogando sul violaceo, arrivati
alla morte non se ne dolgono. La loro gioia non è giungere alle
cose. È plasmarsi sino a divenire quelle cose. E quando finiscono
col divenire quelle cose, anche a estendersi senza ritegno su tutta
la terra, non trovano più confini in cui doversi definire.
Scegliendo di disfarsi di ogni zavorra, attraverso il loro copricapo
da viandante ormai sbrindellato, filtra impetuoso il vento puro.
Se compiono questa vana impresa, con sommo terrore dei villani
che inseguono il guadagno, non è perché desiderino essere
apprezzati. È solo che sono spinti a testimoniare la Buona
Novella che seduce gli uomini, la cui esistenza è limitata. A dirla
tutta, il reame della poesia, il mondo della pittura, sono alla
74
portata di chiunque, nessuno escluso. Ma venuto il momento in
cui si incurvano le dita nel conto delle trascorse stagioni, e si alza
il lamento all’incanutirsi della propria testa, riconsiderando
l’esistenza, si ispeziona l’ondeggiare dei propri lavori uno a uno, e
finalmente la luce filtrerà, pur tenue, foss’anche attraverso un
corpo corrotto, così, dimentichi del sé, si potrà reclamare il
piacere del plauso. E chi dirà di non poterlo fare, è un uomo la
cui esistenza non è degna d’essere vissuta.
Eppure, non si può dire che appiattirsi a un disegno, divenire
qualcosa di definito sia ciò che interessa al poeta. Alle volte,
mutarsi in petalo, a volte mutarsi in coppie di farfalle, alle volte,
come Wordsworth1, mutarsi in stuoli di ninfe, e se alle volte è
dietro al temporale che il cuore sboccia rigoglioso, altre volte il
cuore è rapito dallo scenario sconosciuto che lo avvolge, e altre
volte ancora il cuore è sì rapito, ma senza saper dire da cosa.
Qualcuno forse dirà d’aver sfiorato il fulgido Spirito del Creato.
Qualcuno forse dirà d’aver udito un’arpa senza corde suonare in
fondo all’anima. Altri, vagando nelle sconfinate lande
dell’intelletto, difficili da sondare, e da spiegare, magari
plasmeranno il loro errare in queste terre indistinte. Costoro
possono dire qualsiasi cosa, è loro diritto. Per me, è proprio
come se, all’improvviso, la scrivania d’ebano si impossessasse dei
miei sensi.
Io non penso a nulla di definito. E neppure vedo qualcosa di
preciso. Sul palcoscenico della mia consapevolezza, ciò che si
muove non indossa abiti sgargianti, quindi non posso dire che mi
plasmo in una forma certa. Eppur mi muovo. Non mi muovo nel
mondo, non mi muovo fuori dal mondo. È solo che mi muovo,
in qualche modo. Non mi muovo come un fiore, non mi muovo
come un uccello, non mi muovo nemmeno come proprio degli
uomini, mi muovo come in trance.
1
Le opere di Willian Wordsworth, poeta inglese dell’età vittoriana, sono ricche di
suggestioni neoclassiche e di richiami ai temi della natura personificata nelle
divinità e semidivinità greche.
75
Se proprio devo sforzarmi di spiegare, è come se il mio cuore si
muovesse assieme alla primavera, oserei dire. Sono tutti i colori
della primavera, i venti della primavera, le cose della primavera, le
voci della primavera, afferrati, condensanti, distillati in un elisir di
lunga vita, poi stemperato nello Spirito di Hōrai 2 e fatto
evaporare al sole della Sorgente dei Peschi3, che penetrando
all’improvviso nei pori, satura il cuore, inconsapevole, oserei dire.
Nell’ordinario plasmarsi vi è un che di compulsivo. È anche per
questa compulsione che è piacevole. Ma il mio plasmarmi, non
avendo ben chiaro ciò in cui mi plasmo, non porta con se la
minima compulsione. Siccome non è compulsivo, vi è un
delicato, indefinibile piacere. Non come l’onda che, accarezzata
dal vento, si spande fino al cielo più elevato, è cosa ben diversa
da una superficiale, grossolana passione come questa. È piuttosto
come l’invisibile, immenso fondale degli oceani azzurri che si
muovono fra continente e continente, e che sa dare loro forma e
consistenza. Solo che io non ho tutta questa forza. Però, quando
torno laggiù, vi trovo beatitudine. La manifestazione di questa
grandiosa capacità, l’idea che un giorno possa esaurirsi, mi
addolora. Nel mio stato normale, non riesco a convivere con una
simile preoccupazione. Ma nella condizione attuale, che il cuore è
più flebile del solito, non solo posso separarmi dalla tristezza
dell’idea che l’impeto di questa capacità possa scemare, ma posso
anche liberarmi dei miseri limiti del cuore che, normalmente, si
cura del possibile e dell’impossibile. L’essere flebile è, in un certo
senso pur difficile da spiegare, non dover temere di essere troppo
forti. “Quiete” o “serenità”, nei versi dei poeti, devono essere le
parole che più vividamente descrivono questa regione.
2
蓬莱 – Hōrai – è un’isola leggendaria, in qualche modo paragonabile alla nostra
Avalon, nominata in una leggenda cinese taoista. Su quest’isola, sperduta da
qualche parte nei mari orientali, c’è un altissima montagna su cui vivono dei saggi
immortali. Lo Spirito, qui inteso come liquido e come elemento spirituale allo
stesso tempo ( 霊 液 – reieki – spirito fluido), è una bevanda mistica di cui si
nutrono questi saggi per mantenersi eternamente giovani.
3
Altra leggenda taoista, già intravista nel primo capitolo.
76
Chissà come dev’essere provare a disegnare questo confine, mi
chiesi. Certo, è ovvio che è qualcosa che non si può ritrarre in un
disegno ordinario. Quel che volgarmente si chiama “disegno”
non è nient’altro che la trasposizione sulla tela dei soggetti così
come sono, oppure filtrati attraverso il senso estetico. Si pensa
che basti che i fiori sembrino fiori, l’acqua rifletta come acqua, le
persone assumano l’aria di persone, e sia finita lì. Ma se eccelli, e
segui le tue impressioni, le tue ispirazioni così come vengono,
goccia a goccia, sulla tela stendi la tua vitalità. Certe particolari
ispirazioni, che cogli passando per caso dietro all’unità del tutto,
sono molto importanti per gli artisti di questo tipo, e quindi, se
gli oggetti delle tue osservazioni non sgorgano con chiarezza
dalla punta del pennello, non chiami un disegno “opera”. Queste
e quelle cose, che vedi in questo o quel modo, che senti in questo
o quest’altro modo, il modo stesso di vedere e sentire, se non li
esprimi in un lavoro che, pur sbirciando nella casa dei tuoi
predecessori, non si lascia manipolare dalle leggende del passato,
ma anzi, che è molto più giusto, molto più bello, allora non lo
riconosci come un lavoro tuo.
Fra questi due tipi di artigiani vi saranno certo differenze più o
meno evidenti, ma nel fatto che entrambi pongono mano ai loro
lavori spinti da un impulso reso evidente dal mondo esterno,
sono del tutto identici. Ma detto questo, il soggetto che voglio
dipingere non è così evidente. Incitando la percezione a cercare
l’insospettato, là dove non ha limiti, trovare forme, colori,
sfumature e spessore dei tratti si fa arduo. Le mie sensazioni non
giungono da fuori, ammesso che giungano, e si poggiano ai bordi
del mio campo visivo, senza comporre uno scenario preciso, e
non potrei alzare un dito per indicare a chi che sia che, ecco,
quella è la fonte. Vi sono cose che sono semplicemente puro
sentimento. Questo sentimento, che aspetto potrebbe assumere
su un disegno? – no, dare in prestito concretezza a questo
sentimento, per quanto possibile, ed essere capaci di modellarlo
in un aspetto che sia un punto d’incontro con l’Uomo, questo è il
problema.
77
Nei disegni normali, con quelle cose che non richiedono
sentimento, si può fare. In secondi disegni, se si mettono insieme
cose e sentimenti, si può fare. Siccome, giunti ai terzi disegni, vi
trovano luogo solo i sentimenti, bisogna assolutamente scegliere
sentimenti che siano soggetti superbi. Tuttavia, questi soggetti
non vengono facili. E anche quando vengono facili, non è facile
finirli. E anche finendoli, vi sono volte che vengono differenti
dalle esperienze del mondo naturale. Visti dalle sospettose
persone comuni, non sono persi per disegni. E anche colui che li
ha disegnati, non si cura di replicare un dettaglio del mondo
naturale, solo che, se di quei sentimenti che gli aggradano in quel
momento riesce a trasmetterne una parte, se un po’ di quella
forza vitale passa in un umore pur difficile da percepire, allora, in
questo grande successo, esso si allieta. Non so se in passato vi
siano stati disegnatori che abbiano avuto successo in questa
ardua impresa. Nominando chi ha intinto il dito in questo stile,
fino a un certo punto, ci sono i bambù di Wen Yuke 4. Ci sono i
paesaggi montani di Unkoku5 e dei suoi discepoli. A scendere, ci
sono i panorami della bottega di Taiga6. Ci sono i ritratti di
Buson7. Venendo ai pittori occidentali, hanno il pallino dei
dettagli concreti, e quelli che non adorano il fascino della
frugalità sono la maggior parte, quindi coloro che possono
4
Wen Yuke (1018-1079), artista cinese famoso per i disegni a inchiostro diluito, in
particolare di bambù e di paesaggi montuosi.
5
Tōgan Unkoku (1547-1618).
6
Ike-no-Taiga (1723-1776), illustratore e scrittore proveniente dal sud del
Giappone, imparò a coniugare lo stile della sua regione con l’arte del Giappone
settentrionale, creando uno stile unico.
7
Yosa Buson (1716-1783), poeta e pittore della metà del periodo Edo. Il suo stile
che fonde disegno e poesia sarà di ispirazione per Hokusai e fornirà i primi
modelli per il genere manga, ossia, la rappresentazione di più scene successive in
spazi liberi su uno stesso foglio, accompagnate da un testo o da una poesia che
racconta la scena o ciò che dice il personaggio rappresentato. Soprattutto negli
schizzi di ayakashi (creature fantastiche della cultura popolare, che in occidente
potremmo definire “mostri”) la somiglianza con i manga moderni è già evidente.
78
cogliere il valore artistico di questo genere trascendente di
acquerelli a inchiostro non devono essere più che pochi.
Purtroppo, rispetto all’eleganza dei lavori di gente come
Sesshuu8 o Buson, la mia abilità è semplicemente troppo misera.
Dal punto di vista dell’uso del pennello, non posso nemmeno
aspirare a paragonarmi a simili nomi, e mi basta pensare di
provare a disegnare così e già mi sento un po’ confuso. E basta
essere confuso, ed ecco che non riesco a più a trasmettere i
sentimenti nemmeno su un singolo foglio. Ho anche tolto la
mano dalla guancia e incrociato le braccia sul tavolo, ma proprio
non vuole venire fuori. Trovare colore, forma e ritmo tali che il
cuore dica “ah ecco dov’erano!”, e si riconosca all’istante in essi,
così devo disegnare. Come dopo aver cercato un figlio che ci era
stato tolto alla nascita, chiedendo in giro per tutte le sessanta
regioni9, senza toglierselo dalla testa per un istante, né durante la
veglia e nemmeno durante il sonno, ecco che un giorno,
trovandolo per caso a un incrocio, quel “toh, era qui!” che ci
attraverserebbe più rapido di un lampo, così devo disegnare.
Questo è il difficile. Se solo riuscissi a tirar fuori quest’umore,
non m’importerebbe cosa potrebbe dirne la gente. Non me ne
avrei nemmeno se mi schernissero dicendo che quello non è un
disegno. Se la distribuzione dei colori, fosse anche sgraziata,
rappresentasse una parte di questo sentimento, se la curvatura
delle linee incarnasse una porzione di questo spirito, se la
disposizione dei corpi trasmettesse almeno un po’ di
quest’atmosfera, qualsiasi fossero le forme che apparissero,
fossero anche mucche o cavalli, o persino sia mucche che cavalli,
qualunque cosa, non mi dispiacerebbe. Non mi dispiacerebbe,
ma non mi viene. Ho sforzato entrambi gli occhi sul blocco
poggiato sul tavolo fino a farceli cadere dentro, ma non c’è niente
da fare.
8
Sesshū (1420-1506) – illustratore
9
Appellativo cinese che indicava l’antico Giappone.
79
Ho posato la matita e penso. Voler disegnare un interesse così
astratto è già un errore di per se’. Le persone non sono poi così
diverse fra di loro, e fra tanta gente ci sarà di sicuro qualcuno che
sia stato sfiorato dalle stesse ispirazioni, e che queste ispirazioni,
in qualche modo, abbia provato a renderle in una forma eterna,
immutevole. Ma se ci ha provato, come avrà fatto?
All’improvviso mi apparvero davanti agli occhi i due caratteri di
“musica”10. Eh già, la musica è la voce della natura, nata dalla
pressione del tempo e del bisogno. La musica è qualcosa da
ascoltare, da apprendere, mi resi conto per la prima volta ma,
sfortunatamente, su questo le mie conoscenze sono praticamente
nulle.
E forse, dopo ci dovrebbe essere la poesia, così provo ad
addentrarmi nel terzo territorio. Mi pare di ricordare che un tipo
di nome Lessing11 sostenesse più o meno che la poesia ha la
caratteristica di presentare i fatti nell’ordine temporale in cui
accadono, e questo la disgiunge in modo fondamentale dal
disegno, e a vedere così la poesia, pare che non possa essermi
d’aiuto nel trattare quel limite che tanto mi preme esprimere ora.
In quella condizione psicologica in cui provo felicità, forse, esiste
il tempo, ma privo del contenuto di eventi che, costeggiandone il
flusso, si sviluppano in successione. Non è per l’andare di uno,
l’arrivo di due, lo svanire di due e con esso la nascita di tre, che
sono gioioso. Se sono gioioso è perché questi elementi emergono
improvvisi e compresenti. Quando, finalmente, questo emergere
compresente, ecco, riesco a tradurlo in parole comuni, ormai non
è più necessario dipanare questo materiale in ordine
assolutamente cronologico. In effetti, in un disegno li potrei
disporre similmente nello spazio figurativo. Solo, quando si riesce
davvero ad afferrare ogni passione in poesia, tanto da sciogliere
10
音楽 – ongaku – musica, formata dai caratteri 音 – on – suono e 楽 – gaku –
gioia, letizia.
11
Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781). Filosofo illuminista tedesco.
80
d’un tratto il problema di dar forma a queste sconfinate e
inconosciute essenze, allora la poesia, fuggendo la definizione di
Lessing, ha successo. Forse, se la poesia potesse evocare un certo
mood12, questo mood, pur subendo i limiti del tempo, non
necessiterebbe dell’appoggio del susseguirsi ordinato dei fatti, e
l’essenziale in ciò che sarebbe semplice da esporre negli spazi di
un disegno, potrebbe anche essere reso in parole, penso.
Ma ora basta con le speculazioni. E poi, ho dimenticato quasi
del tutto “Laoconte13” o come si chiama, e ci sta che mi
confonda. E comunque, m’è passata la voglia di disegnare,
vediamo di far su una poesia, mi dico, e posando la matita sul
blocco degli schizzi, lo fisso dondolandomi, avanti e indietro.
Per un po’ la punta stette sul posto, sebbene desiderassi muoverla
più di ogni altra cosa, ma non bastava questo a muoverla,
nemmeno di un pelo. È come quando ti salta in mente il nome di
un amico, e sebbene tu abbia l’impressione che stia per uscirti
dalla gola, non lo fa. Quando decidi di rinunciare, il nome che
non riuscivi a ricordare, alla fine, rimane sigillato in fondo alle tue
viscere.
Quando si prepara la gelatina, all’inizio, procedendo con
gradualità, sulle bacchette non si sente nessuna risposta. Se si
persiste, a un certo punto si addensa, e la mano che impasta si fa
un po’ più pesante. Se non ci si cura di questo e si va avanti a
girare le bacchette senza posa, diviene presto impossibile
continuare. Alla fine, la gelatina nella pentola si attacca
spontaneamente alla punta delle bacchette, pur fosse riluttante.
Poetare è proprio così.
12
Parola che significa grosso modo “umore”, in Inglese nell’originale.
13
“Del Laoconte – dei limiti della pittura e della poesia” è il saggio di Lessing a cui
fa riferimento Souseki, da cui estrae la citazione, che precisamente è la seguente:
“Si definiscono corpi gli oggetti accostabili l’uno all’altro, come è anche per le
loro parti. Perciò i corpi sono gli oggetti specifici della pittura in quanto hanno
proprietà visibili. Quelle che si chiamano azioni si susseguono invece una dopo
l’altra nel tempo. Le azioni sono gli oggetti specifici della poesia.”
81
Trovando la forza per muovere la matita inerte dopo più o
meno una mezz’oretta,
La giovinezza è per due, tre mesi
Il disìo segue l’aura tanto
I fior silvi al prato non fan manto
Nell’empia sala l’arpa più non sento
La farfalla or si muove a stento
D’incenso il fumo s’avvolge lento
mi vengono questi sei versi. A rileggerli, son tutti versi che
potrebbero essere resi in disegno. E allora, tanto valeva fare un
disegno fin da subito, mi dico. Chissà perché, ma mi è venuto più
facile poetare che disegnare, mi dico. E se sono riuscito fin qui, il
resto dovrebbe venirmi senza troppo affanno. Però, adesso
vorrei provare a comporre delle sensazioni non disegnabili. Forse
così, o cosà, dopo essermi spremuto ben bene, all’improvviso:
Siedo solo, e non levo lamento
Or v’è luce a un palmo dal cuore
L’affanno delle genti a’ lor beghe
Come si fa a quelle dimenticare?
Scacciar per un giorno ogni rumore
ecco cent’anni d’affanni svanire
e di già così lontano son giunto
delle nubi la landa senza ore
m’è uscito. Provando a rileggere tutto da capo, ha un che di
interessante, ma, a ogni modo, se deve riflettere lo stato d’animo
in cui mi trovo, è arido e insufficiente. Ma la cosa mi prende, e
proprio mentre mi dico di provare a scriverne un altro,
stringendo la matita, guardando distrattamente verso l’ingresso,
82
fra i pannelli aperti per non più di non più di un metro, effimera,
è appena passata un’ombra graziosa. Ma va!?
Quando avevo voltato gli occhi e guardato verso l’ingresso,
avevo giusto fatto in tempo a scorgere un qualcosa di grazioso
già mezzo nascosto dai pannelli spalancati. Insomma, quella
figura doveva essere in moto già prima che io la vedessi, e in un
batter d’occhio, doveva essere già passata. Mollo la poesia e
sorveglio l’ingresso.
Prima che passasse un minuto, l’ombra apparve dall’altra parte,
venendo al contrario. Indossando un furisode14, la leggiadra donna,
senza far rumore, camminava con aria solitaria sulla balconata
opposta, al primo piano15. Lasciando cadere dimenticata la
matita, trattenni forte il fiato che il naso aveva iniziato a inspirare.
Nell’aria lattiginosa che, da un momento all’altro, dal cielo può
far cadere quel tramonto preannunciato eppure improvviso, che
si posa sulla ringhiera oltre cui, aggraziata va, aggraziata viene,
quell’ombra in furisode, da cui per dieci metri mi separa il giardino,
nell’atmosfera pesante, la sua solitudine, ora mostra, e ora
nasconde.
La donna, naturalmente, non parla. Né il suo sguardo mi sfiora.
Nemmeno il suono dello strascico che trascina sulla soglia giunge
alle mie orecchie, così silenziosa cammina. Dai fianchi in giù ha
un colore sgargiante, ma il disegno dello strascico, da lontano
non riesco a capirlo. Vedo solo che, dove la parte semplice e
quella lavorata si incontrano, il disegno sfuma, come a ricordare il
bordo fra giorno e notte. La donna, naturalmente, sul bordo fra
giorno e notte cammina.
14
Kimono in seta dalle larghe maniche.
15
Nel secondo capitolo, l’autore spiega che le camere sono disposte attorno a un
giardino centrale: l’edificio principale è alto due piani, ma il pian terreno è
ribassato, mentre il primo piano e le camere degli ospiti si trovano al livello del
giardino interno.
83
Vestendo questo lungo furisode, quante volte vorrà andare e
venire per questo lungo corridoio, io non lo so. Da quanto si
comporta così stranamente, per quanto ha intenzione di
continuare questa strana passeggiata, io non lo so. Quale sia il
suo motivo, naturalmente, io non lo so. Naturalmente non lo so,
ma la quella forma così tanto elegante, così tanto serena, così
tanto ripetitiva nel suo andare e venire, quando appare davanti
all’ingresso per poi svanire, e svanisce per poi apparire, ciò che
provo è singolare. Se fosse un gesto per esprimere, che so, il
rimpianto per la primavera che va a morire, sarebbe troppo
superficiale. E se fosse un gesto per esprimere, che so, qualcosa
di superficiale, sarebbe troppo ricercato.
Sei colore di primavera che va a oscurarsi, meraviglioso, e ogni
tanto si stinge nel miraggio, e mi sveglia, con quel broccato d’oro.
Il vividissimo ordito ora va, ora viene nel blu di notte avvolto, e
tu, silente, irraggiungibile, mia adorata, che poco a poco svanisci.
Sei stella di primavera che va a brillare, vicina all’aurora, là nel
profondo indaco del cielo in cui, volgendoti, cadi.
Quando il portale del Grande Mistero16 le si spalancò innanzi, e
l’immagine vivida veniva risucchiata dal Sigillo del Crepuscolo 17,
mi sentii così. Velo dorato alle spalle, luce argentea di fronte,
questo spicchio di sera di primavera riccamente, sfrontatamente
si oscura, e quell’abbigliamento che è così adatto, non inviso al
paesaggio, il suo sfumare fra i Colori del Mondo 18 senza dar
segno di lotta, è in un certo senso qualcosa di sovrannaturale.
Nell’ombra nera che incombe stilla a stilla, la donna che si
intravede, solennemente, senza affanno, senza teme, con lo
16
Il termine usato è 太玄 – taigen – lett. “Grande Mistero”. È l’espressione di
origine Taoista per definire lo stato del dell’equilibrio dell’Universo.
17
Il termine è 幽冥 の府 – yuumei no fu – lett. “Sigillo del Crepuscolo”, e si
riferisce all’aldilà.
18
La parola usata è 色相世界 – shikisou sekai – “il mondo colorato”, che nella
religione buddista indica il mondo fenomenico, la realtà percepita dai sensi.
84
stesso passo, pare reclamare lo steso luogo. Se non conosce la
tragedia che sta per abbattersi su di lei, è l’estremo dell’innocenza.
E se la conosce, il fatto che non ci pensi è spaventoso. Allora la
sua vera residenza sarebbe un luogo oscuro, e lei, un breve
miraggio già vòlto a tornare alla sua eterea forma originale,
venuto qui per fluttuare un po’ tra l’essenza e l’assenza. Sul
furisode indossato dalla donna, là dove l’ordito si sfila, l’inchiostro
nero, che s’insinua senza sforzo, ricorda la di lei vera natura.
Ebbi quest’altro pensiero. Se una splendida persona, presa in
uno splendido sonno, senza nemmeno l’opportunità di svegliarsi,
ancora incosciente, dovesse rendere il respiro a questo mondo,
noi che la vegliamo per proteggerla dalla malattia, quanto ne
soffriremmo! Se dovesse morire dopo aver aggiunto sofferenze
alle sofferenze, la stessa persona ormai priva d’una ragion
d’essere, e coloro che le restano affettuosi a fianco, forse si
arrenderebbero all’idea che la morte sia la cosa più
compassionevole. Ma nel fatto che una bimba serenamente
addormentata debba morire, c’è qualcosa di profondamente
sbagliato. Venire condotti all’aldilà nel sonno, ancora impreparati
alla morte, è come porre fine a una vita con uno spregevole
inganno. Se proprio dovessi morire, vorrei che mi fosse dato di il
tempo di meditare sull’ineluttabilità, di accettarlo, di recitare il
Nenbutsu19. Se, ancora impreparati ad accettare la condizione
della morte, eppur di fronte alla sua realtà, nel momento in cui si
fa evidente, si potesse ottenere una voce capace di risuonare con
quella del Budda Amida, con quella voce, «ehi! ehi!», così
vorremmo chiamare a noi chi già poggia un piede nell’altro
mondo. Per chi si trovasse a passare dal sonno momentaneo a
quello eterno senza rendersene conto, l’essere richiamato indietro
sarebbe forse come venir dolorosamente intrappolato nella rete
degli affanni da cui si era appena liberato. Forse penserebbe: “e
dai, è la cosa più compassionevole, non chiamarmi, lasciami
dormire in pace”. E ciò nonostante, ci viene voglia di
19
Preghiera buddista che recita l’abbandono dell’Io all’immensità del tutto.
85
richiamarlo. La prossima volta che la donna passerà davanti
all’ingresso, la chiamerò, e la salverò dall’oscurità incombente,
pensai. Eppure, come in sogno, mentre la forma sfila eterea nel
metro fra i pannelli, chissà come, la bocca s’ammuta. «Ma
stavolta...» mi faccio cuore, e nel mentre, eterea, passa illesa.
Nell’istante in cui mi chiedo «ma perché non riesco dire nulla», la
donna passa ancora. Con l’aria di colei che non pone la benché
minima attenzione a quella persona che, qui, tanto si strugge, a
quella persona che, per lei, tanto freme, passa. Con l’aria di colei
che, fin dall’inizio, non vuol far caso a fastidi, o seccature, o a
me, passa. «Stavolta... stavolta...» mi dico, ma trattenuti a stento
dagli strati di nubi, i fili della preannunciata pioggia, suadenti,
scendono, sigillando nel fruscìo la forma della donna.
86
7
Che freddo... tiro giù l’asciugamano e scendo verso la vasca.
Butto il kimono verso il tre tatami1 e, gradino a gradino, ne
scendo quattro ed esco verso una sala da bagno da otto tatami. A
dimostrare che da queste parti non sono a corto di pietra, il
pavimento è lastricato di granito, e al centro, scavata per quasi un
metro, è sistemata una vasca tipo quelle dei negozi di tōfu2. E
anche la vasca stessa, come mi aspettavo, è lastricata in pietra.
Oltre ad avere il nome di “sorgente minerale” deve averne anche
diverse caratteristiche, ma il colore è cristallino, ed entrarvi è
piacevole. Ogni tanto provo a metterla in bocca, ma non ha
nessun particolare sapore, o odore. Pare che abbia capacità
curative, ma non ho provato a chiedere, quindi non so su quali
malattie funzioni. E comunque, non ho nessuna particolare
malattia, quindi, al di là del suo uso più evidente, non mi viene in
1
I Giapponesi misurano le stanze in “tatami”, ossia pannelli usati fin dall’antichità
come copertura del pavimento, che hanno una dimensione rettangolare standard
di circa un metro per due; il lato lungo è esattamente il doppio di quello corto.
Una stanza da tre tatami è formata accostando due tatami in verticale a uno,
appoggiato per il lato lungo, in orizzontale; una da otto tatami è formata da due
tatami al centro appoggiati sul lato lungo in orizzontale, due affiancati in verticale
e poi due tatami sopra e due sotto, a formare un quadrato di quattro metri per
quattro.
2
È un a pasta vegetale ottenuta dalla fermentazione dei semi di soia, che nella
cucina giapponese sostituisce il formaggio. All’epoca della stesura del romanzo, le
vasche per la fermentazione erano per lo più incavate nel terreno.
87
mente nessun ulteriore vantaggio. Mi basta entrarci e mi
sovvengono i versi di Hakurakuten3:
della sorgente
quell’acqua levigata
scioglie lo sporco
Mi basta sentire la parola “sorgente” che, ogni volta,
m’immergo in quel piacevole sentimento che appare fra questi
versi. E quando non mi viene questo sentimento, allora, mi dico,
è una sorgente che non vale nulla. A parte queste considerazioni,
a una sorgente non chiedo quasi nient’altro.
Mi butto dentro, immergendomi fino al petto. Non so da dove
spunti l’acqua, ma la vasca pare sempre ben colma fino all’orlo.
La pietra di primavera si bagna senza mai asciugarsi, tepidamente,
e i piedi che vi si posano, il cuor docilmente ne gioisce. Nella
pioggia che cade, graffiando la notte, v’è vividezza soffusa
appena per smaltare la primavera, ma le gocce dei tronchi, via via
più costanti, battono d’un battere che mi giunge all’orecchio. È
uno scenario di sbuffi di vapore che s’alzano ininterrotti a
seppellire tutto fra il pavimento e il soffitto, e se trovassero uno
spazio fra le sottigliezze degli anfratti, per nulla riluttanti,
correrebbero ad infilarvisi.
La nebbia d’autunno, fredda, l’aleggiante foschia, serena, i fumi
dei focolari degli uomini che si levano alla sera, azzurri, rendono
le loro flebili forme all’immensità del cielo. Hanno ognuno una
propria malinconia, ma la nube sorta dalle sorgenti calde nelle
notti di primavera, abbracciando morbida la pelle di chi vi si
bagna, mi fa sospettare d’essere ancora uomo in un mondo
3
Si tratta in realtà di 白居易 Bai Juyi (772-846), poeta cinese dell’epoca Tang, più
noto col suo appellativo di 乐 天 Letian, “paradiso”. È più conosciuto in
Giappone con il nome di Haku Rakuten, che è appunto la traduzione in
Giapponese di Bai (bianco) e Letian (paradiso). Il suo stile elegante e fluido fu
ispirazione di molti poeti giapponesi del periodo Hei’an (792-1175).
88
antico. Non è tanto densa da privare gli occhi del riflesso d’ogni
cosa, ma lo è abbastanza che mi scopro, senza provarne dolore,
un semplice mortale, e quindi non è nemmeno poi così sottile. E
a piegarne un velo, a piegarne due veli, a piegare chissà quanti
veli fino a finirli, non s’affaccia nulla che ne venga fuori, così,
solo in ogni verso, sono immerso in questo caldo arcobaleno. Si
sente dire “fumi dell’alcol”, ma non ho mai sentito un modo di
dire tipo “ubriacarsi di fumo”. E se vi fosse, certo non userei
“nebbia”, e “foschia” sarebbe un po’ stiracchiata. Solo questo
nembo, perfetto a corona dei due caratteri di “notte di
primavera4”, mi accorgo, sarebbe finalmente adeguato.
Sdraiandomi supino col bordo della vasca a sostenermi la testa,
provai, per quanto mi fosse possibile, a lasciar galleggiare il mio
corpo leggero nell’acqua cristallina, senza opporre resistenza.
Dolcemente, dolcemente, l’anima fluttua come una medusa. Se
potessi stare al mondo in questo modo, che bello sarebbe. Aprire
il sigillo della dualità, e rimuovere il perno che tiene chiuse le
porte dell’attaccamento. Anzi, vorrei proprio, nell’acqua tiepida,
in acqua tiepida trasformarmi. A un essere che vive
semplicemente fluttuando, il dolore non serve. In un essere che,
fluttuando, vedesse anche la sua anima trascinata via, vi sarebbe
persino più riconoscenza di quella che provano i Cristiani. A
pensarci su, in fondo fu quella l’eleganza di Dozaemon 5. In quella
poesia di Swinburne6 di cui mi sfugge il nome, mi pare fosse
descritta la gioia di una donna che era andata a vivere sul fondo
dell’acqua. Per me, sofferente per questa piatta esistenza,
4
I caratteri sono 春宵 – shunshou – appunto “notte di primavera”.
5
Narusegawa Dozaemon, famoso lottatore di sumo del 18mo secolo. Lo scrittore
dell’epoca Santou Kyouden, nel suo “miracoli recenti, tomo 1”, ci riporta
l’origine di questo modo di dire: “Il modo di dire, diffuso a Edo, che consiste
nell’indicare gli affogati col nome di Dozaemon deriva dal fatto che fu ritrovato il
corpo di un affogato che s’era gonfiato tanto da sembrare Narusegawa.”
6
Algernon Charles Swinburne (1837-1909), poeta, scrittore e critico letterario
inglese, premio nobel per la letteratura nel 1907 e nel 1909. Le sue tematiche
ruotavano attorno alla libertà e alla gioia raggiunta attraverso la liberazione dalle
convenzioni del tempo.
89
nell’Ofelia di Millais, a considerarla sotto questa luce, v’è un
grande fascino. Fino a ora mi sono sempre chiesto perché avesse
scelto un soggetto così infelice, ma a pensarci bene è un gran bel
quadro. Galleggiando sull’acqua, ovvero sprofondando
nell’acqua, o ancora a volte sprofondando e a volte galleggiando,
quella forma che, priva di dolore, viene semplicemente trascinata
via è proprio bella. E poi, quegli steli che si alzano sulla riva, il
colore del viso che scorre assieme al colore dell’acqua, e si
confonde col colore dell’abito, una volta composti in placida
armonia, fanno proprio un bel quadro. Certo che l’espressione di
quella persona che scivola via, così pacifica, è come una
metafora, che so, di una qualche leggenda. Un’espressione
spasmodica avrebbe sferzato i nervi, e invece sul suo volto
sereno, per niente erotico, non si riflette alcuna passione. Che
volto potrei dipingere per riuscirci io? L’Ofelia di Millais può
essere un successo, ma dubito che la sua disposizione emotiva
fosse come la mia. Millais è Millais, e io sono io, e quindi voglio
provare a dipingere qualcosa di significativo per me, l’eleganza
del mio Dozaemon. Però, farmi saltare in mente un volto così
non è facile come dirlo.
Galleggiando nell’acqua tiepida, provo a scrivere il mio
Dozaemon.
Dovesse cader la pioggia, ti bagneresti.
Dovesse scendere il gelo, ti fredderesti.
A star giù sotto la terra, t’incupiresti.
A galleggiar, dell’onde insopra,
ad affondar, dell’onde insotto,
foss’acqua delle vere, dolore non avresti.
dico, e mentre la rigiro lenta in bocca a bassa voce, sento il
suono di uno shamisen venire da chissà dove. È triste a dirsi per
un artista quale sono, ma il fatto è che trovo l’abilità in questo
strumento oltremodo strana, abbassare un secondo, alzare un
terzo, non capisco come si possa così posare quel riverbero che
90
rimane nell’orecchio. Tuttavia, in questa tranquilla notte di
primavera che finanche la pioggia attrae l’intento, nella vasca del
villaggio di montagna, mentre persino l’anima galleggia in questa
rugiada di primavera, udire innocente uno shami da lontano m’è
gran gioia. Da lontano, quel che canta, quel che suona, va da sé
che non lo capisco. E in questo c’è qualcosa che m’attrae. A
giudicare dalla serenità che infonde la melodia, parrebbe una
canzone popolare dei tempi dell’antica capitale.
Quand’ero bambino, abitavo dirimpetto a una taverna chiamata
“le diecimila stanze7”, dove c’era una ragazza chiamata Okura8.
Questa Okura, ogni tranquillo pomeriggio di primavera, non
mancava mai di rivisitare i canti classici. Quando attaccava, io
uscivo in giardino. A parte d’un orticello coltivato a tè, tre pini
erano allineati a est del salotto. Questi pini dall’ampio fusto largo
oltre trenta centimetri, stranamente, erano la prima cosa che
avesse destato in me il gusto del bello. Nel mio cuor di bambino,
vedere quei pini mi faceva stare bene. Sotto ai pini, una lanterna
da giardino di ferro brunito, su di una pietra rossa di cui non so il
nome, ogni volta che la vedevo era assisa come un nonno
ostinato. Io adoravo osservare questa lanterna. Attorno a quella
lanterna, scavavo a fondo a prendere il muschio, quell’erba di
primavera dal nome ignoto, col volto ancora inconscio del vento 9
del mondo fluttuante, e solo, ne assaporavo il profumo, e solo, ne
gioivo. Seduto lì, osservare quell’erba che spuntava appena fra le
gambe, fisso, era il mio vizio di quel tempo. Sotto a quei tre pini,
fissare quella lanterna, assaporare la fragranza di quell’erba, e poi
7
Nella mitologia orientale, gli dei abitano in dimore celesti di questa dimensione.
L’accostamento di un concetto così sacro alla taverna, luogo assai mondano se
non profano, è piuttosto ironico.
8
Scritto 御 倉 – letteralmente “onorevole granaio”, dove quel “granaio” è
etimologicamente usato come metafora di un luogo di abbondanza, e se riferito a
una donna, suonava all’epoca come la nostra locuzione “grazie femminili”.
9
“Vento” è qui usato sia in senso fisico, che nel suo valore idiomatico di “moda”,
“stile”.
91
ascoltare il canto lontano di Okura, in quei giorni era quella la
mia lezione quotidiana.
Okura, ormai, avrà già passato il tempo dei nastri rossi 10, e
mostrerà a chi entra un volto da brava casalinga. Magari va anche
d’accordo col marito. Magari le rondini, tornate di anno in anno,
col becco pieno di fango, si danno da fare 11. Rondini e puzza di
saké, per quanto provi, nella mia fantasia, non riesco proprio a
separarli.
Magari i tre pini stanno ancora benone. La lanterna ormai si sarà
rotta di sicuro. L’erba di primavera, quel tipo che si acquattava
allora, chissà se se lo ricorderà ancora. Dopo tanto tempo, non
può certo riconoscere uno con cui neanche aveva scambiato una
parola. Dei “sonagli sulla veste da viaggio 12” di Okura, e della
voce dei giorni, e del mondo, e di me, non si può dire che ne
abbia memoria.
Quando quel panorama che il suono dello shamisen aveva steso
davanti ai miei occhi, quel nostalgico passato in cui avevo vissuto
vent’anni prima, innocente, inconsapevole moccioso, era svanito,
all’improvviso si aprì la porta della sala da bagno.
Pensando “toh, arriva qualcuno”, lasciai il corpo a galleggiare,
riversando nell’ingresso solo lo sguardo. Dato che avevo la testa
appoggiata all’estremità del bordo della vasca più lontana
dall’ingresso, e i gradini che scendevano alla sala erano distanti
una decina di metri, gli occhi penetravano l’inclinazione delle
scale. Eppure, sulle mie pupille ora sollevate il più possibile,
ancora nulla si rifletteva. Per un po’, s’ode solo il suono delle
10
Le giovani spose fresche di matrimonio usavano intrecciare le loro pettinature
con nastri rossi.
11
Come in Italia, in Giappone le rondini sono considerate beneauguranti e avere
un nido di rondine sotto al tetto è considerato una benedizione, ma col termine
“rondine” si indica anche un giovane maschio che si fa mantenere da una donna
attempata. In questo senso va sicuramente interpretata la frase che segue.
12
Uno dei canti classici a cui Souseki fa riferimento (長唄 – nagauta – canto lungo).
92
gocce condensate sulle travi. Lo shamisen ha già smesso da non so
quanto.
Finalmente, sulla scala qualcosa è apparso. Dato che a illuminare
questa grande stanza c’è solo una lanterna portatile, anche a
scostare l’aria densa che si frappone, distinguere i dettagli sarebbe
difficile. E ancor di più col vapore che preme, levandosi in
pioggia spessa, nella sala da bagno di stasera, ove ogni via di fuga
è preclusa, determinare chi vi si trovi è oltremodo arduo. Scende
un gradino, si appoggia al secondo, presto, senza dar tempo
all’ombra di stagliarsi, che sia uomo o donna non accenna
nemmeno un saluto.
La cosa nera si mosse d’un passo in giù. Come se la pietra che
calpesta fosse morbida quanto il velluto, a far ritmo del suono dei
passi, si direbbe che non si muove affatto. Ma il profilo un po’
fluttua. Essendo un disegnatore, ho un senso sottile per le
strutture dei corpi. Senza sapere altro, quando raggiunse il primo
gradino, mi resi conto di trovarmi in questa sala da bagno
assieme a una donna.
Mi avrà notato, o forse no, pensavo fluttuando, e nel mentre
l’ombra di donna, nella sua interezza, apparve di fronte a me. Fra
i vividi fumenti in moto, una morbida incarnazione d’un raggio di
luce, là, un fondo d’un tepido rosa, i fluenti capelli neri fatti
ondeggiare in una nube, il busto ostentato al massimo, si ergeva
snella la forma di donna, e quando la vidi, i sentimenti di cortesia,
buone maniere, pudore, abbandonarono ogni angolo della mente,
e in libertà non pensai altro che: “ne verrà un buon disegno”.
Lasciando da parte le sculture dell’antica Grecia, osservando
quanto i pittori francesi contemporanei abbiano come unica loro
risorsa il nudo, la bellezza della carne fin troppo esposta, si coglie
facilmente il segno lasciato dalla voglia di dipingere tutto fino
all’estremo, il ché mi dava un senso sottile di mancanza di
dignità, ma che fino a ora non mi aveva infastidito. Solo, pur
giudicando quell’immediatezza in qualche modo inferiore, il
perché fosse inferiore, per qualche ragione, mi sfuggiva, e oggi
93
avevo raggiunto la risposta che mi struggivo di cercare. Se lo si
copre con la carne, ciò che c’è di davvero bello viene nascosto.
Se, la carne, non la si nasconde, diviene sciatta. Nel nudo
contemporaneo non v’è alcuna finezza, se non quella di non
nascondere questo sciattume. Nelle forme derubate delle loro
vesti, nel riprenderle così come sono, si ha l’impressione che
siano incomplete, che cerchino di insinuarsi nel mondo
agghindate dalle vesti. Desidererebbero mettersi un abito, ma
dimentiche della più normale delle condizioni umane, tentano
con la loro nudità di liberarsi delle imposizioni. Quel che già
dovrebbe essere bastante, si sforzano di farlo bastantissimo, o
bastantissimo tanto, e così all’infinito, che si ha la forte
sensazione che dicano: “hai visto quanto sono nudo”?! E
quando questa tecnica arriva al culmine è quando tenta di
involgarire lo spettatore. Ci sono esempi di cose affascinanti, e
ancor più belle, che quando si è volgarmente precipitosi, più
erano affascinanti, più, quel fascino, lo perdono. È per questo
che si dice che il troppo stroppia.
L’abbandono e l’innocenza indicano maestria. La maestria, per
quel che riguarda la pittura, la poesia, o anche la letteratura, è un
prerequisito indispensabile. La peggiore mancanza degli artisti di
oggi, della così detta corrente contemporanea, è cerare di
superare, scimmiottandoli, i grandi artisti del passato,
attaccandosi spasmodicamente a dettagli insignificanti. I nudi ne
sono un buon esempio. In città, si trovano le così dette “geisha”.
Vendendo sensualità, fanno dell’attrarre le persone un
commercio. E quando si rivolgono ai clienti, più che
preoccuparsi di come la loro immagine si rifletta nelle loro
pupille, si curano che questo non appaia dalla loro espressione.
Sfogliando i cataloghi delle esposizioni, anno dopo anno,
sembrano sempre più bellezze nude che assomigliano a delle
geisha. Nemmeno per un secondo dimentiche del loro corpo
esposto, col prudore di ogni muscolo, lavorano per mostrare la
propria totale nudità all’osservatore.
94
Ora, la bellezza che ho d’innanzi, nemmeno di una di queste
immondizie che coprono gli occhi si veste. Se dicessi che ha
gettato via i panni che avvinghiano la gente comune, fra la gente,
subito, ricadrebbe. Come forma divina invocata e scesa dalle
nuvole, che mai si sia vestita, né abbia ondeggiato una manica,
così è la sua naturalezza.
I vapori che inondano la stanza, e la seppelliscono ancor più in
là, sullo sfondo, ribolliscono senza posa. La fiaccola della notte di
primavera si sbriciola allargandosi nella semitrasparenza, un
mondo iridescente che vibra impercettibilmente nella stanza, e
copre i capelli scuri, forse neri, attorno a una forma candida che,
dal fondo delle nuvole, poco a poco, viene ondeggiando. Orsù,
osserviamo quel profilo.
La nuca rotonda poggerà leggera, stretta da ambo i lati, sulla linea
che cadrà verso le spalle rilassate, si piegherà rotondamente, e
fluirà dividendosi fra le punta delle cinque dita. Sotto i due seni
che ondeggiano turgidi, mostrerò la pelle ben tesa che torna
morbida più in basso. L’impeto si stempererà volgendosi dietro, e
là dove si esaurisce, per salvaguardare l’equilibrio delle carni che
si partono, sporgerà un po’ in avanti. Le anche lo riceveranno
sostenendolo, e là dove il lungo fluire poggerà sui i talloni, i piedi
posati sul piano comporranno ogni discordia, e le caviglie ne
saranno il sereno compimento. A questo mondo non c’è armonia
così complessa, né armonia così completa. Così naturale, così
morbido, così arrendevole, così privo di dolore, un profilo così è
introvabile.
Sebbene questa forma sia esposta come un nudo qualsiasi, non
trafigge i miei occhi. Come un memento d’una specie di spirito
che incanta ogni cosa, non fa altro che suggerire una completa,
intima bellezza. Gli spazi punteggiati su uno schizzo ad
acquaforte sono agghindati di vuoto, calore, vaghezza che,
artisticamente e impunemente, vogliono sembrarci un drago, e
non i tratti d’un pennello. Se è vero che a essere minuziosi, a
disegnare sei a sei le trentasei scaglie di un drago lo si fa buffo,
invece le carni nude nude, osservate pure pure, riverberano di
95
una presenza divina. Quando il profilo si posò sui miei occhi, mi
apparve come Kouga della Luna 13, quando, fuggita dalla Capitale
dei katsura14, inseguendo l’arcobaleno, per un po’ si trasformò in
farfalla.
Il profilo viene ondeggiando bianco. Nell’istante in cui penso che
se muovesse un altro passo, la mia agognata Kouga, apparendo,
cadrebbe nel mondo volgare, le punte dei capelli, fendendo
l’acqua come la coda di un mostro-tartaruga 15, fluttuanti come
steli, sensuali, mi lambirono. Squarciando i fumi vorticanti, la
forma bianca vola su per i gradini. “Hohohoho”, ride affilata la
voce di donna, rimbombando nel corridoio, mentre si allontana
dalla sala da bagno sempre più silente. Bevendo e tossendo,
scatto in piedi nella vasca. Le onde, sorprese, mi battono sul
petto. Il suono dell’acqua che sborda, piange “saa, saa16”.
13
E’ una leggenda cinese che ha per protagonista Kouga, una sapiente che viveva
in un mondo incantato sulla Luna, e che dopo aver rubato la pozione dell’eterna
giovinezza, era fuggita sulla Terra, divenendo l’incarnazione dello Spirito della
Luna.
14
I katsura sono un albero ornamentale tipico del Giappone (Cercidiphyllum Japonica),
che secondo la leggenda ornavano la capitale del Regno della Luna.
15
Il termine originale è 霊亀 – reiki - “spirito tartaruga”.
16
È un’onomatopea dal significato particolare, che indica stupore e derisione.
96
8
Finisco col farmi offrire quel tè. Oltre a me, è ospite un
monaco, il priore del tempio Kankai, che si chiama Daitetsu. E
un laico, un giovane sui venticinque. La stanza del vecchio è in
fondo a un vicolo cieco, ci arrivo tenendo la destra sul mio
corridoio e poi girando a sinistra. Sarà circa un sei tatami. Siccome
al centro c’è un grande tavolo di sandalo rosso, è più stretta di
quanto si direbbe. Quando faccio per sedermi, mi accorgo che, al
posto dei cuscini, è steso un tappeto. Va da sé che è cinese.
Disposto a esagono, l’ordito mostra strane case e strani peschi. Il
bordo è decorato in quadricromia, con un motivo di tazze da tè
di un colore azzurro ferreo. Che in Cina lo usino per sedervisi è
dubbio, e vederlo impiegato al posto dei cuscini è buffo. È più
come un tendaggio indiano, o un arazzo persiano, ma così come
c’è del buono nel concedersi qualche libertà, c’è del gusto
nell’aver cambiato l’uso di questo tappeto. Non solo il tappeto,
tutte le suppellettili sono cinesi. Non ne viene altra impressione
se non quella di una civiltà spaventosamente lungimirante. Le
guardo e resto imbambolato nell’ammirazione. In Giappone
creiamo prodotti d’arte come fossimo borsaioli. In occidente si
concentrano sui dettagli, e inoltre inseguono invano le passioni
terrene. Assorto in questi pensieri, mi siedo. Il giovane si è
infilato al mio fianco e ha monopolizzato il centro del tappeto.
Il priore si è seduto su una pelle di tigre. La coda mi passa di
fianco alle cosce, e la testa è stesa sotto al sedere del vecchio. Il
vecchio, con i capelli che, a parte qualcuno, hanno lasciato la
testa come per trasferirsi presso una bianca barba, che cresce
97
rigogliosa dalle guance e dalla gola, allinea gentilmente sul tavolo
le tazze accanto alla teiera.
«Siccome è tanto che non ricevo ospiti, ho pensato di offrirti del
tè...» dice rivolto al bonzo,
«Ti ringrazio per l’occasione. Ho oziato troppo, e stavo appunto
pensando di venire a farti visita» gli risponde. Il monaco è vicino
ai sessanta, col volto tanto tondo da sembrare un Budda
scarabocchiato in corsivo. Sembra avere una particolare
familiarità col vecchio.
«E questa persona, è forse un cliente?»
Il vecchio, mentre annuiva, versò due, tre gocce di siero di
giada1 dal colore verde-ambrato, da una boccetta di ceramica
rossa, sul fondo delle tazze. Una fragranza pura mi assalì
impercettibilmente il naso.
«Ti sentirai solo, qui in campagna» il priore si rivolge
direttamente a me.
«Embhé...» rispondo evasivo. Dire che mi sento solo sarebbe un
inganno. Dire che non mi sento solo richiederebbe troppe
spiegazioni.
«Ma va, priore. Questo signore è venuto per dipingere, sarà ben
preso!»
«Ah, è così, allora va bene. Forse è della Scuola Meridionale?»
«No» rispondo stavolta. Anche se gli dicessi che disegno
all’occidentale, questo priore non potrebbe capire.
«No, è della scuola occidentale, quella là...» il vecchio,
prendendo l’iniziativa, mi interrompe.
«Hahaha, la scuola occidentale? Allora disegnerà come
Kyuuichi... l’ho visto per la prima volta di recente, ma mi è
sembrato disegnasse piuttosto bene.»
1
98
È un termine generico che indica un distillato alcolico di altissima qualità, a
prescindere da quale tipo di alcolico si tratti.
«Ma no, sono negato!» apre finalmente bocca il giovane.
«Ehi, hai fatto vedere qualcosa al priore?» chiede il vecchio al
giovane. Sia dai termini che dal tono che usa, si direbbe che sono
parenti.
«Macché, non gli ho fatto vedere nulla, è che il priore mi ha
beccato mentre facevo un disegno dal vivo, al Lago dello
Specchio.»
«Ah sì, eh? … vabbeh, ho versato il tè, beviamocelo» dice il
vecchio posandoci le tazze davanti. Di tè ce n’è si e no tre o
quattro gocce, ma le tazze sono fin troppo grandi. Sono del
colore dei muri freschi, con segni vermigli intensi e gialli sbiaditi
a tracciare un disegno, o un intreccio, o forse la maschera di un
demone, comunque qualcosa di non ben definito.
«È un Mokubei2» spiegò semplicemente il vecchio.
«Oh, è interessante» lo lodai con altrettanta semplicità.
«Ci sono un sacco di imitazioni di Mokubei – dai un’occhiata al
fondo. C’è la sua firma» dice.
Sollevandola, la volgo verso i pannelli e la guardo. L’ombra dei
sostegni dei pannelli si proietta calda. Provando a sbirciare
storcendo il collo, riesco a vedere il carattere “moku” in piccolo.
Al di là della buona fattura del timbro, non mi sembra così
importante, ma capisco che è qualcosa a cui i collezionisti fanno
molto caso. Pienamente dolce, col giusto tepore, è una densa
rugiada che lasciar cadere, goccia a goccia, sulla punta della lingua
è un piacere raffinato per intenditori. Le persone comuni
credono che il tè sia una bevanda, ma questo è un errore.
Caricata con veemenza sulla punta della lingua, questa cosa ‘sì
pura, non è un liquido da spargere ai quattro venti, per poi farlo
cadere giù in gola. È solo il profumo, definizione stessa di
fragranza, che si trasmette dall’esofago allo stomaco. Passarlo sui
2
Mokubei Aoki, 1767-1833. Un famoso artigiano di Kyoto, specializzato nella
produzione di tazze da tè, ha lasciato anche diversi dipinti e stampe ornamentali.
99
denti è spregevole. L’acqua è fin troppo leggera. Non conosce la
pesantezza del Gyokuro3, che mai si direbbe fatto con semplice
acqua, duro al punto da stancare il pomo d’Adamo. È una
bevanda perfetta. E se mi si dice che non fa dormire, che non si
dorma! Io ve lo consiglio lo stesso.
Il vecchio, a un certo punto, ha tirato fuori un piatto di
pasticcini. In gran quantità, sottilissimi, regolarissimi, penso ci sia
da stupirsi della maestria del navigato artigiano. A vederli in
controluce, l’ombra del sole di primavera li attraversa, e pur
attraversandoli, pare che, incapace di fuggire, perda la strada.
«Siccome avete lodato le mie porcellane, oggi ho pensato di
mostrarle, e le ho tirate fuori.»
«Quali porcellane? – Aaah, la biscottiera, eh? Quella garba anche
a me. A proposito, senti un po’, non è che fai i disegni
all’occidentale anche sui fusuma? Se lo fai, avrei un favore da
chiederti...»
Beh, per disegnare, lo disegno anche, ma non ho idea se sia di
gradimento di questo monaco. Se devo patire tanto per poi
sentirmi dire, scusa, ma un disegno all’occidentale proprio non fa
al caso mio, non ne vale la pena.
«Mi sa che sui fusuma non starebbero bene.»
«Non starebbero bene, eh? Eh già, se sono come quelli di
Kyuuichi-san, mi sa che sono un po’ troppo vivaci.»
«Ma io sono negato. Quelli erano delle sciocchezzuole» dice con
foga il giovane, vergognandosi con modestia.
«Quel lago del qualcosa, dove si trova?» chiedo al giovane
uomo, giusto per sapere.
«Dalle parti della valle appena dietro al tempio Kankai, è un
posto appartato. – Mi trovavo un po’ di tempo libero da scuola,
3
100
Tipo di tè particolarmente intenso e apprezzato.
me ne avevano parlato e, giusto perché mi annoiavo, sono andato
a vedere un po’ com’era.»
«E il tempio Kankai...»
«Il tempio Kankai è il posto dove sto io. È un bel posto, c’è una
bella vista sul mare... beh passa a trovarmi mentre sei qui. Ma
va... da qui sarà giusto un paio di chilometri. Dalla fine di quel
corridoio già si vedono i gradini!»
«E quando potrei passare a disturbarla?»
«Ah beh, quando vuoi. Anche la signorina di qui, viene sempre.
– A proposito della signorina, oggi Nami-san non s’è fatta vedere
– è successo qualcosa, padrone?»
«Boh, sarà uscita. Kyuuichi, non è passata dalle tue parti?»
«No, non l’ho vista.»
«Magari è andata ancora a passeggiare da sola, hahahaha. Namisan ha buone gambe! L’altro giorno, mentre andavo per un
impegno a Tonami, dalle parti del ponte di Sugatami, faccio in
tempo a pensare: – oh, certo che le somiglia – e mi accorgo che
era proprio Nami-san! S’era tirata su il kimono, e aveva infilato
gli zouri4 e come mi avvicino – Abate, che ci fate qui, quatto
quatto? Hahahaha, m’ha sorpreso! E quando ho provato a
chiederle, e tu dove vai, conciata così? Lei mi ha detto, a cogliere
del prezzemolo, e mi ha infilato un mazzetto di prezzemolo tutto
infangato nella manica. Hahahahaha...»
«Scusa...» dice il vecchio con un sorriso amaro, ma alzandosi
all’improvviso fa «a dire il vero, volevo mostrarvi questo» e la
conversazione torna sugli oggetti.
Il vecchio tira giù da una mensola vermiglia, tutto esitante, un
vecchio sacco di seta damascata, qualcosa dall’aria pesante.
«Abate, ti è mai capitato di vedere qualcosa del genere?»
4
Sandali in paglia, per niente femminili né eleganti, tipicamente usati dai contadini
e dai viandanti perché più comodi per i lunghi viaggi.
101
«E che sarà mai?»
«È una suzuri5.»
«Oh... e che genere di suzuri è?»
«Dicono che fosse un oggetto caro a San’you6...»
«No... non ne avevo mai visto una così!»
«E la scatola è firmata da Shunsui7...»
«Oh, questo è interessante. Dove dove?»
Il vecchio, rispettosamente, apre il sacchetto damascato, e tira
fuori una pietra quadrata di colore brunito, mostrandocela
appena di sbieco.
«Che bel colore! È di Tankei8?»
«Sì, una Tankei con nove occhi di kuyoku9!»
«Occhi di che?!?» fa l’Abate, e ci mette una gran enfasi.
«E questa scatola è di Shunsui» dice il vecchio, e ci mostra un
coperchio sottile e allungato nel sacchetto. Sopra, c’è un poema
breve, vergato con la calligrafia di Shunsui.
«Ah, vedo. Shunsui scriveva proprio bene. Scriveva bene, ma,
dicono che Kyouhei10 fosse più bravo...»
«Mah, forse era più bravo...»
5
Pietre levigate usate come calamaio per stemperare e raccogliere l’inchiostro di
china usato dai Cinesi, dai Coreani e dai Giapponesi per scrivere e dipingere.
6
San’you Rai (1781-1832), letterato e poeta giapponese.
7
Shunsui Rai (1741-1816), letterato giapponese, padre di San’you.
8
Località della Cina in cui si estrae il materiale più pregiato per produrre le pietrecalamaio.
9
Uccello simile al passero o allo storno diffuso in Asia; ha gli occhi evidenziati da
un cerchio di pelle rossa, simile alla pernice. Si noti che una delle letture del
numero nove è “Ku”, che forma un assonanza con il nome dell’uccello, quindi le
pietre più pregiate sono quelle con nove occhi di Kuyoku.
10
Kyouhei Rei (1756-1834). Poeta e studioso Giapponese, figlio di Shunsui, fratello
maggiore di San’you.
102
«Pare che San’you fosse il peggiore di tutti. Il suo talento era
tutto rivolto a cose mondane, per niente interessanti.»
«Hahaha, sapevo che non San’you non ti piace, Abate, e per
questo, oggi ho tolto il suo dipinto e ne ho messo un altro.»
«Già» fa l’abate, girandosi indietro. Sulla mensola, col ripiano
tirato a lustro come uno specchio, in un vecchio vaso d’ottone
lustrato d’ogni ruggine, vive un ramo di magnolia alto tre palmi.
Su di un antico broccato ancora rilucente, c’è un grande
Bussorai11, in una grande cornice. Non è in seta, e siccome deve
aver visto qualche stagione, maestria dei caratteri a parte, il colore
sul bordo della carta mostra un bel ritmo. E anche il broccato,
non che fosse stato intessuto in modo ammirevole, ma il colore
sbiadito, i fili dorati ossidati, le parti più grossolane assopite,
quelle più rifinite esaltate, che, penso, com’è adesso sta proprio
bene. Il muro sabbiato color tè scuro, i perni di avorio bianco
che spuntano da ambo i lati, la magnolia che si protende
galleggiando al suo fianco, e in ogni dettaglio, la mensola dà un
senso di gran pace, anzi, di malinconia.
«Sarà un Sorai...?», dice l’Abate, col collo ancora girato.
«Anche Sorai, forse non le piace, ma io lo trovo migliore di
San’you.»
«Ah beh, Sorai è decisamente migliore. Anche se durante il
Kyouho12 avevano un pessimo gusto, c’è qualche bell’oggetto.»
«Se ci fosse stato solo Koutaku 13, si sarebbe potuto dire che i
talenti Giapponesi erano ben miseri rispetto ai Cinesi, ma con
Sorai... giusto, Abate?»
11
Sorai Ogyuu (1666-1728). Calligrafo e letterato del medio periodo Edo. Qui
l’autore usa il suo pseudonimo/firma per indicare una sua opera (come noi
potremmo dire “appeso alla parete aveva un Monet”).
12
Periodo del medio Edo che va dal 1716 al 1736.
13
Koutaku Sei-i (1658-1735). Letterato, calligrafo e scrittore del medio Edo.
103
«Non so. Non vado tanto orgoglioso di quei caratteri,
wahahahaha!»
«A proposito, Abate, da chi hai imparato?»
«Io? Beh, i bonzi Zen non leggono libri, e manco li copiano...»
«Eppure, da qualcuno avrai pure imparato!»
«Da giovane, ho praticato un po’ lo stile kousen. Tutto qui. Però,
quando me lo chiede qualcuno, scrivo. Wahahahaha. Fammi
vedere quella Tankei un momento.» chiede l’abate.
Lentamente, la suzuri esce dal sacchetto di seta damascata, e tutti
gli sguardi dei convitati si posano su di essa. Lo spessore è circa
cinque centimetri, abbastanza ordinario. Anche la dimensione del
serbatoio, dodici per diciotto centimetri, si può dire normale. Il
coperchio è un ramo di pino lasciato al naturale, le scaglie sulla
corteccia ben rifinite, coperto da lacca trasparente, su cui sono
incisi due caratteri che non riesco a leggere.
«Questo coperchio...» dice il vecchio. «Questo coperchio non è
un semplice coperchio, come potete vedere, è certamente un
ramo di un pino...»
Gli occhi del vecchio si voltano verso di me. Ma a me, che sono
un pittore, sfuggiva cosa ci fosse di tanto meraviglioso in un
coperchio fatto con un ramo di pino, e così dissi:
«Un coperchio di pino mi sembra un po’ banale...»
Il vecchio, senza ribattere, sollevandolo fra le mani
«Se fosse solo il ramo di un pino sarebbe banale, ma ecco qua.
Quando San’you si fermò ad Hiroshima, coltivò personalmente
questo pino nel suo giardino, e fu San’you stesso a tagliare questo
ramo!»
Mentre pensavo, ah, certo, allora questo San’you era proprio un
uomo banale, buttai lì senza fare complimenti:
«Beh, se l’ha fatto lui stesso è anche peggio. Almeno questo
smalto, ritengo sarebbe stato meglio fosse stato meno
luccicante!»
104
«Wahahaha. Eh già, questo coperchio ha tutta l’aria di essere
una roba da poco.» concluse l’abate, unendosi al mio giudizio.
Il giovane, un po’ dispiaciuto, guarda il volto del vecchio. Il
vecchio, un po’ contrariato, tolse rispettosamente il coperchio.
Sotto di esso, finalmente, compare la suzuri.
Se c’è qualcosa di notevole che debba saltare all’occhio in questa
suzuri, è la mano dell’artigiano che appare dall’intaglio della
superficie. Nel mezzo, un’incisione tonda come un orologio da
taschino, alta proprio quanto i bordi, a foggia di una schiena di
ragno. Seguendole con lo sguardo, le otto zampe si stendono in
ogni direzione dal centro, e in punta a ognuna si trova un occhio
di kuyoku. L’ultimo occhio sembra come una goccia di colore
giallo, stesa a stingere la schiena del ragno. La parte rimasta fra
schiena, zampe e bordi è incavata di circa tre centimetri. Il posto
dove si raccoglie l’inchiostro non può essere il fondo di questo
scolo. A versarci anche un bicchiere d’acqua, non basterebbe a
riempirlo. E a pensarci, la schiena del ragno è simile a un
cucchiaino da una goccia, e qualsiasi quantità utile di inchiostro
sborderebbe. Se fosse così, sarebbe una suzuri solo di nome, ma
in realtà non sarebbe nient’altro che un oggetto ornamentale.
Il vecchio parla quasi come se stesse per sbavare.
«Osservate questa grana, e questi occhi.»
Già, è un colore che più lo guardo, più mi piace. Mi fa pensare
che, se provassi ad alitare sulla superficie dalla patina appena
visibile, ne nascerebbero subito aggraziate nuvole. Ma quel che è
più notevole è il colore degli occhi. Ma più del colore stesso, è il
fatto che là dove gli occhi e lo sfondo si incontrano,
progressivamente, il colore cambia e cambia ancora al punto tale
che non si saprebbe dire dove inizi la pupilla. E passando alla
forma, sono come fagioli rossi, visibili in trasparenza, appena
sotto la superficie di un dolcetto di gelatina. Le suzuri con uno o
due di questi occhi sono già considerate molto preziose. Ma
addirittura nove, la rendono un oggetto praticamente unico. E
poi, questi nove sono posizionati in modo ordinato, equidistanti,
105
tanto da far pensare che sia una creazione dell’uomo, dato che la
natura non può produrre una cosa tanto perfetta.
«Ecco, è proprio ottima. E non solo è una gioia guardarla.
Sfiorala, così, è un piacere» dico, passando la suzuri al giovane
accanto a me.
«Kyuuichi, tu ne capisci?» prova a chiedere il vecchio, ridendo.
E Kyuuichi-kun, un po’ depresso:
«Non ne capisco niente.» buttò lì, come volesse prenderne le
distanze, ma posò la suzuri che non capiva di fronte a se’, e la
osservò con l’aria di chi pensa sia uno spreco, per poi sollevarla e
restituirmela. Io, rispettosamente, l’accarezzai tutta ancora una
volta, e la passai piano, un po’ controvoglia, al monaco Zen. Il
monaco Zen la osserva tenendola lontana sul palmo della mano,
e con l’aria di chi non si stancherebbe mai di farlo, strofina il
dorso del ragno con la manica del suo Kimono di cotone grezzo,
ammirando la lucentezza che ne ricava.
«Padrone, questo colore è proprio bello. L’hai mai usata?»
«No, non le uso quasi mai, e questa è come quando l’ho
comprata.»
«Eh già. Questa roba dev’essere rara persino in Cina, padrone.»
«Esatto.»
«Ne vorrei una anche io. Beh, potrei chiederlo a Kyuuichi. Che
ne dici, me ne compreresti una?»
«Hehehehe, mi sa che morirò prima di trovare una suzuri.»
«Già, non è il caso di perdere tempo per una suzuri. A proposito,
quando parti?»
«Partirò fra due o tre giorni.»
«Padrone, accompagnalo fino a Yoshida.»
«Normalmente, alla mia eta, lo saluterei da qui, ma dato che può
darsi che non ci si riveda più, pensavo di accompagnarlo.»
«Non c’è bisogno che il nonno mi accompagni.»
106
Il giovane deve essere il nipote del vecchio. Già, mi sembrava si
assomigliassero un po’...
«Ma va, lascia che ti accompagni. Col battello non c’è problema.
Giusto padrone?»
«Sì, attraversare i monti sarebbe difficile, ma in nave, anche se si
allunga un po’...»
Stavolta, il giovane non rifiuta. Tace e basta.
«Parte per la Cina?» provai a chiedere.
«Già.»
Le tre lettere di “già” mi sembravano un po’ poco, ma non c’era
bisogno di scavare oltre, quindi mi astenni. Guadando i pannelli
vedo che l’ombra della magnolia è un po’ cambiata.
«Dai, che ti prende? Questa guerra... ha firmato come
volontario, e alla fine l’hanno chiamato.»
Il vecchio, al suo posto, mi raccontò del destino di questo
giovane, inviato a giorni al fronte, verso le distese della
Manciuria. Credere che nel tempo sognante di questo villaggio in
primavera, a piangere siano gli uccelli, a cadere siano i fiori, a
scorrere siano gli onsen, è un errore. Il mondo reale, scavalcando
le montagne, scavalcando i mari, giunge fino ai villaggi in cui si
erano nascosti i discendenti dei Taira 14. Potrebbe giungere il
tempo in cui questo giovane verserà una delle decine di migliaia
14
Il clan Taira è protagonista di una delle pagine più cupe della storia del
Giappone. Scontratosi col clan Minamoto per la contesa del potere perso dalla
corte imperiale alla fine dell’epoca Kamakura, nella seconda metà del 1300, ne
esce perdente. Per la prima volta in Giappone, i Minamoto mettono in pratica
quello che oggi andrebbe sotto il nome di pulizia etnica, sterminando
sistematicamente tutti i membri del clan avverso, e coloro che avevano dato loro
appoggio. Una pratica che sarebbe poi stata ripetuta molte volte durante le guerre
civili che si aprono con questo scontro, e che sarebbero terminate solo con
l’avvento dei Tokugawa nel 1615. L’epopea dei Taira è narrata nel classico della
letteratura giapponese, l’Heike monogatari, dove si immaginano i superstiti
scampati allo sterminio vivere in comunità segrete, sulle montagne del sud del
Giappone.
107
di parti di sangue che tingeranno le brughiere sterminate
dell’estremo nord. La punta della lunga spada che già pende dal
fianco di questo giovane, potrebbe prendere un fiato fattosi
fumo. Eppure, questo giovane siede accanto a un pittore, che
non ha altro merito nella vita se non quello di sognare. Gli siede
tanto vicino che, a tendere l’orecchio, potrei sentire il palpito del
suo cuore. In questo palpito, forse, già risuona la rugiada che
avvolge le lande lontane centinaia di leghe. Il destino,
all’improvviso, ha unito questi due sotto un tetto, senza null’altro
dire.
108
9
«È interessante?» mi chiede la donna. Io, tornato nella stanza,
mi ero messo a leggere qualcosa tirato giù dal mio treppiede.
«Entri. Non mi disturba.»
La donna, senza nemmeno far finta di fare complimenti, entra
baldanzosa. Dal semplice bordo del kimono, il bel colore del suo
collo, prepotentemente, spunta fuori. Quando la donna si è
seduta davanti a me, il contrasto fra il kimono e il suo collo è la
prima cosa che mi è saltata all’occhio.
«È un libro occidentale? Dev’esserci scritta roba difficile, eh?»
«Ma va’.»
«Beh, e allora che c’è scritto?»
«Dunque... a dire il vero, anche io non ci sto capendo molto.»
«Hohohoho. E allora come fa a essere interessante?»
«Non è che debba esserlo. L’ho solo appoggiato sul tavolino,
così, e ho iniziato a leggere piacevolmente lì dove s’è aperto.»
«E così è divertente?»
«È proprio così che è divertente.»
«Perché»
«Uhm... perché... un romanzo è più divertente se si legge così.»
«È un modo assai strano.»
«Sì, è un po’ strano.»
«Insomma, che c’è di male a leggerlo dall’inizio?»
109
«Beh, se si comincia a leggerlo dall’inizio, va a finire che bisogna
leggerlo fino in fondo.»
«Mi sembra una ragione peculiare. Non è bello leggerli fino in
fondo?»
«Ovviamente, non è che sia brutto. Se voglio seguire la trama,
anche io faccio così.»
«E se non segui la trama, che c’è da seguire? C’è altro da leggere,
oltre alla trama?»
«Le piacciono i romanzi?»
«A me?» si fermò la donna, e poi «Dunque...» rispose senza fare
chiarezza. Pare che non le piacciano più di tanto.
«I romanzi, li leggo, così, ogni tanto...» dice, ma nelle sue pupille
è come se non riconoscesse nemmeno l’esistenza dei romanzi.
«Beh allora, leggerli dall’inizio, o leggerli fino alla fine, o leggerli
piacevolmente in qualche parte che si trova piacevole, non sono
tutti modi buoni? Non c’è bisogno di vederlo strano come lo
vuole vedere lei.»
«Beh, allora siamo diversi.»
«In cosa?» chiedo, trovandomi sulle pupille della donna. Pensai
che mi stesse mettendo sotto esame, ma gli occhi della donna
restano assolutamente immobili.
«Hohohoho, non lo capisci?»
«Eppure, da giovane deve avere letto molto» decido di
rinunciare a un approccio diretto, e provo ad aggirarla.
«Ma guarda che io penso di essere ancora giovane.
Miseramente» il falco ha spiccato il volo. Devo stare attento a
non abbassare la guardia.
«Se arriva a parlare così davanti a un uomo, vuol dire che
qualche anno l’ha passato» finalmente la catturo.
110
«Se parli così, anche tu, non hai forse qualche anno sulle spalle?
E alla tua età, trovi ancora divertente leggere di amori, cuori
infranti e spuntare di brufoli?»
«Oh sì, è divertente e lo sarà finché campo.»
«Appunto. E mi sa che è per questo che sei un artista, vero?»
«Mi sa che è proprio così. È proprio perché sono un artista che
non ho bisogno di leggere i romanzi dall’inizio alla fine. Però,
qualsiasi parte legga, mi piacciono. E anche parlare con lei mi
piace. Tanto da desiderare di chiacchierare così tutti i giorni,
finché soggiornerò qui. E non mi dispiacerebbe nemmeno
innamorarmi di lei. Sarebbe interessante. Però, per quanto potrei
innamorarmi di lei, non ci sarebbe bisogno di sposarci. Avere
bisogno di sposarsi è come aver bisogno di leggere un romanzo
dall’inizio alla fine.»
«E così, essere artisti significa innamorarsi in modo nonemotivo, eh?»
«Non è non-emotivo. È innamorarsi in modo inemotivo. È
perché leggo i romanzi in modo inemotivo che non m’importa
della trama. Così, un po’ come leggere i fondi del caffè, è proprio
aprire un libro a caso e cominciare a leggere quel che esce che è
divertente.»
«Ah beh, capisco, è divertente! Allora, parlami un po’ di quel
che stai leggendo adesso. Mi piacerebbe sapere quel che c’è di
divertente.»
«Non si può parlarne. Tipo, anche un dipinto, provare a
spiegarlo non rende nemmeno un po’, giusto?»
«Hohohoho, allora leggimelo.»
«In Inglese?»
«Ma no, in Giapponese!»
«Uh, leggere l’Inglese in Giapponese è difficile...»
«Eddai, fallo inemotivamente.»
111
Mi dissi che poteva esserci qualcosa di intrigante nel farlo, così
accontentai i desideri della donna e mi misi a leggere il libro, pian
pianino, in Giapponese. Se c’è al mondo un modo inemotivo di
leggere, dev’essere questo. E poi, anche la donna che mi ascolta,
mi sta ascoltando inemotivamente.
«Un’aria romantica soffia dalla donna. Soffia dalla sua voce, dai
suoi occhi, dalla sua pelle. La donna, aiutata dall’uomo, va verso
poppa, forse per guardare Venezia al tramonto, o forse per
assaggiare il sangue che l’uomo fa saettare nelle sue vene –
siccome è inemotivo, lo faccio un po’ come viene. Qua e là potrei
saltare qualcosa.»
«Ah, sia pur così. ’Ché, date le circostanze, foss’anche
manchevole, non v’è di che dogliarsi.»
«La donna, affiancandosi all’uomo, si appoggia alla murata. Lì
dove stanno, il vento che soffia è più sottile di un nastro di raso.
La donna dice che le piacerebbe correre fino a Venezia con
l’uomo. Il palazzo dei Dogi, come un secondo tramonto, si va
tingendo di vermiglio.»
«Cosa sono i Dogi?»
«Non ha importanza. È il nome degli antichi governanti di
Venezia. E mi sa che lo sono stati a lungo... quel palazzo si trova
ancora a Venezia.»
«E poi, chi sono quest’uomo e questa donna?»
«Chi siano non lo so nemmeno io. Ed è per questo che è
divertente. Adesso non importa quale sia la loro relazione.
Proprio come tu ed io, stanno insieme così, ed è questo che li
rende interessanti.»
«Ah beh, sì, certo. E sembra siano su una nave.»
«Una nave o una collina; basta seguire quanto è scritto. Che se si
inizia a chiedersi il perché, si finisce per fare gli investigatori.»
«Hohohoho, allora non bisogna fare domande.»
112
«Con i romanzi normali, ci comportiamo tutti un po’ da
investigatori. Ma siccome non c’è inemotività, la cosa non mi
attrae.»
«E allora, proseguiamo la nostra indagine in modo inemotivo! E
adesso?»
«Venezia affonda e affonda ancora, fino a stirarsi in un’unica
linea nel cielo. La linea si spezza. Spezzandosi, si fa punteggiata.
Nel cielo marmoreo, solo una colonna rotonda, là, si erge
orgogliosa. Alla fine, anche il torrione che più alto si staglia,
affonda. È affondato, dice la donna. Il cuore della donna che
corre a Venezia è libero come il vento che corre in cielo. Alla
Venezia così nascosta, un giorno, potrò tornare, questo è
dolorosamente inciso nel cuore della donna. L’uomo e la donna
riversano il loro sguardo nella laguna scura. Le stelle si
accendono una a una. Il mare che ondeggia morbidamente, agita
suoi flutti. L’uomo prende la mano della donna. In lei sente come
un violino che non smette di piangere.»
«Non è poi così inemotivo, eh?»
«Ma va, a me pare proprio inemotivo. Ma se non ti piace, magari
potrei accorciarlo...»
«No no, a me va bene così.»
«E a me va anche meglio che a te. – E adesso, dunque... si fa un
po’ complicato. È difficile da tradurre... anzi, da leggere.»
«Se è difficile da leggere, fammi il riassunto.»
«Va beh, lo faccio come viene. – È solo per stanotte, dice la
donna. Stanotte? Chiede l’uomo. Una sola notte non può bastare,
che siano almeno molte, dice.»
«Lo dice la donna o l’uomo?»
«Lo dice l’uomo! La donna non vuole tornare a Venezia, giusto?
E queste sono le parole che lui usa per consolarla. – A notte
fonda, sul ponte, con le vele a fargli da cuscino, i ricordi
dell’uomo, in quell’attimo, quell’attimo simile a una goccia di
113
sangue bollente, quell’attimo in cui aveva stretto forte la mano
della donna, affiorano come marea. Mentre guardava nella notte
oscura, da quel matrimonio forzato, imposto alla donna, decise
che l’avrebbe salvata. E così risoluto, l’uomo chiuse gli occhi. – »
«E la donna?»
«La donna è indecisa sulla sua strada, tanto da non sapere
nemmeno più dov’è. Come chi è rapito dal vento, ha solo infinite
domande – da qui si fa un po’ difficile da leggere. Non riesco a
trovare una parola – avere infinite domande – chissà se c’è un
verbo...?»
«E c’è bisogno di un verbo? Mi sembra già assai così.»
«Ma che...!?!»
«Goo» piangono tutti gli alberi della montagna. Nell’attimo in cui
i nostri volti si incontrano, la camelia appoggiata nel vaso sul
tavolo ondeggia vibrando. «Il terremoto!» grida a bassa voce la
donna, e cercando di alzarsi, si appoggia al mio tavolo. I nostri
corpi si muovono sfiorandosi. Kikii, con uno stridente stormire
d’ali, un fagiano fra i cespugli spicca il volo.
«Un fagiano!» dico guardando fuori dalla finestra.
«Dove?» la donna, caduta, avvicina il suo copro al mio. Il mio
volto e il volto della donna si avvicinano tanto da sfiorarsi. Il
respiro che esce dalle sue sottili narici accarezza la mia barba.
«Sei così inemotivo...» dice la donna, severa, ricomponendo la sua
seduta.
«Ovviamente» risposi tagliando corto.
L’acqua di primavera raccolta nell’incavo delle pietre, sorpresa,
si muove ondeggiando pigramente. Il riverbero sul suolo,
siccome le onde si muovono dal profondo, e si stendono sulla
superficie prive di impedimento, non vi è parte in cui si
interrompa. Se esistesse una parola per descrivere un movimento
intimo e totale, la si dovrebbe usare in occasioni come questa. La
loro ombra tranquilla, i gocciolanti ciliegi di montagna, assieme
114
all’acqua, allungano e ritraggono, contorcono e distendono.
Eppure, per quanto la loro forma muti, il fatto che difendano
manifestamente l’aspetto di ciliegio, è estremamente interessante.
«Questo è piacevole. È stato un bel cambiamento. Senza
movimenti come questi, non è divertente.»
«Ah, se fossero le persone a muoversi così, per quanto si
muovessero, andrebbe bene.»
«Ma senza l’inemovitità, non ci si può muovere così.»
«Hohohoho, sembra proprio che l’inemotività ti piaccia un
sacco!»
«Ma che dice?»
«Anche a te, non deve dispiacere poi tanto. L’abito che
indossavi ieri...» come inizio a dirlo,
«Ah, voglio un premio!» dice svelta la donna, capricciosa.
«E perché?»
«Avevi detto che ti sarebbe piaciuto vederlo, e allora, non te l’ho
indossato apposta per mostratelo?»
«A me?»
«Un certo rinomato pittore aveva esplicitamente chiesto alla
nonna della casa da tè oltre la collina di poterlo vedere...»
Non trovai nessuna risposta che andasse bene. E la donna,
impietosa:
«A un uomo così smemorato, per quanti fatti gli si possano
mostrare, non c’è proprio verso, eh?» un po’ sarcastica, e un po’
caustica, scoccò dritta una seconda freccia letale. La situazione si
fa seria, e anche se ci fosse un modo di ribaltare il risultato, dopo
aver incassato un colpo così, è assai difficile trovare un’apertura.
«Allora, l’altra sera nella vasca, era anche quella giusto una visita
di cortesia, eh?» mi rialzo appena prima di finire al tappeto. La
donna tace.
115
«Mi scusi. Le offrirò un pegno della mia gratitudine.» cerco di
portarmi vantaggio il più possibile. Ma il mio approccio non ha
alcun effetto. La donna non ha l’aria di bersela, e osserva il
dipinto dell’abate Daitetzu. Finalmente:
«L’ombra dei bambù spazza i gradini senza smuovere la polvere» le vidi
pronunciare con la bocca in silenzio, e poi, si rivolese verso di
me, ma come se si fosse appena ricordata che ero lì:
«Come dici?» mi fa udire, a voce appositamente alta. Ma non me
la dà a bere.
«Ho appena incontrato quel bonzo» mostro una reazione
placida come quella del lago appena scosso dal terremoto.
«L’abate del tempio Kankai? Sarà ingrassato...»
«Mi ha chiesto di fargli una decorazione all’occidentale. I bonzi
Zen hanno uno strano senso dell’umorismo, eh?»
«Dev’essere per quello che sono così tondetti.»
«E ho incontrato anche un giovane...»
«Kyuuichi, giusto?»
«Sì. Kyuuichi-kun.»
«Lei ha un sacco di conoscenze!»
«Ma va, conosco solo Kyuuichi-kun. E non so molto nemmeno
di lui. È un tipo a cui non piace parlare.»
«Ma no, è solo timido. È ancora un bambino...»
«Bambino?! Ma non ha più o meno la tua età?»
«Hohohoho, dici? È mio cugino. Siccome parte per la guerra, è
venuto a farci visita.»
«E alloggia qui?»
«No, a casa di mio fratello.»
«Ah, e quindi è venuto apposta a bere il tè.»
«Preferisce l’acqua calda al tè. Anche se avrebbe preferito che il
babbo l’abbozzasse, è venuto giù perché l’ha chiamato. E chi lo
116
smuove, il vecchio? Però ho incontrato Kyuuichi mentre tornava
su...»
«Già, e tu dov’eri finita? Che l’abate se l’è chiesto, e ha detto che
magari ti eri andata a fare di nuovo una passeggiata da sola...»
«Infatti, mi sono fatta un giro al Lago dello Specchio.»
«Al Lago dello Specchio... vorrei farci un salto anch’io...»
«Sì sì, te lo consiglio.»
«È un bel posto per dipingere?»
«È un bel posto per affogarsi.»
«...Non che abbia una gran voglia di affogarmi, al momento...»
«Io, mi sa che uno di questi giorni mi ci butto.»
Pensai che la donna scherzasse, così alzai il volto sbuffando. Ma
la donna è senza dubbio seria.
«Io che mi getto e fluttuo – non mentre soffro – mentre
abbandono la vita tranquilla, fluttuando – ecco, ritraimi così.»
«Eh?»
«Te l’ho fatta! Te l’ho fatta! Te l’ho proprio fatta, eh?!»
La donna si alza con grazia. Accostasi alla soglia in appena tre
passi, voltandosi, mi sorrise teneramente. Per lunghi attimi di
totale stupore.
117
10
Faccio un salto al Lago dello Specchio. La strada che scende da
dietro il tempio Kankai, dalla radura fra I cedri fin giù nella valle,
fermandosi senza risalire sulla montagna opposta, si apre in due,
diventando essa stessa il perimetro del Lago dello Specchio. Sui
bordi del lago, ci sono un sacco di cespugli di kumasaza1. In certi
posti sono così fitti che sarebbe impossibile attraversarli senza
fare rumore. Guardando fra gli arbusti, si vede l’acqua del lago,
ma dove inizi e dove finisca, senza farci un giro intorno, proprio
non si capisce. Camminando, vedo che è più piccolo di quanto
pensassi. Non può essere più di trecento metri. Solo, ha una
forma estremamente irregolare, con le rocce sdraiate così, lambite
dall’acqua un po’ dove capita. E anche la profondità del bordo,
quasi volesse tener fede alla sua forma, là dove battono le onde,
si scopre in fogge sempre diverse, senza una regola.
Girando attorno al lago, ci sono un sacco di alberi. A centinaia.
E molti stanno germogliando. E in parecchi posti dove i rami
non si intrecciano, prendendosi il limpido sole primaverile,
veemente, cresce rigoglioso il sottobosco. Timidamente, in quegli
spazi si affaccia l’ombra esile delle violette selvatiche.
Le viole giapponesi sembrano addormentate. Non s’addice loro
quel verso in cui un’occidentale le ritrae come “divinamente
ispirate”. Come lo penso, per un attimo il mio piede si ferma. E
1
Una pianta erbacea della famiglia dei bambù, dalle foglie lunghe e appuntite, in
genere di colore verde scuro, dal caratteristico bordo bianco latte. Forma
cespugli molto fitti, normalmente bassi (arrivano al ginocchio, o alla vita).
119
quando si ferma, rimango lì finché non mi va più. Sono una
persona fortunata a poterlo fare. Se ci provi a Tokyo, ti tira sotto
il tram. E se non ti ammazza il tram, un piedipiatti ti fa sloggiare.
La città è un posto dove i comuni cittadini vengono trattati da
accattoni, mentre quei furfanti dei poliziotti vengono pagati
profumatamente.
Posai il mio sedere da comune cittadino su un tappeto d’erba.
Qui, se me ne stessi fermo così anche per cinque o sei giorni,
non dovrei preoccuparmi di recare disturbo a nessuno. Questo è
il bello della natura. In casi estremi può essere spietata, ma non fa
nessun favoritismo. Puoi anche essere un Iwasaki o un Mitsui 2,
non le importa nulla. È nelle proprietà della natura l’essere
indifferente all’autorità degli imperatori di ogni epoca. La
saggezza della natura, alta, trascendendo questo mondo corrotto,
eterna, erige un’assoluta imparzialità. Piuttosto che occuparmi
delle vanità terrene, e attirare così gli strali di Timone, preferisco
coltivare e vivere dietro a nove giardini di fiori di loto, e cento
acri di kei3. Si dice che il bene comune sorpassa l’interesse
privato. Fosse vero almeno un po’, ogni giorno, mille piccoli
aguzzini dovrebbero andare a far da concime ai prati in fiore.
Mi ero stancato di cadere nei ragionamenti. Non si può venire
apposta qui al Lago Specchio per snocciolare queste opinioni da
scolaretto. Sfilo una sigaretta dalla tasca, e shhht, sfrego un cerino.
L’ho sentito accendersi, ma non vedo il fuoco. Avvicinandolo
alla mia Shikishima4 e provando ad aspirare, dal naso è uscito il
fumo. Eh già, mi sono accorto di essere riuscito ad accenderla.
Gettato il cerino nell’erba corta, per un po’ si è sollevato un fumo
sottile, come un mulinello, per poi svanire subito. Provo a
2
Due famiglie molto influenti nel Giappone dell’epoca, la prima a capo della
Mitsubishi, la seconda a capo della Mitsui.
3
Miscanthus sinensis. Erba dall’alto stelo tipica della Cina, a dalla grande
infiorescenza bianca-argentata. Dove abbonda, costruisce veri e propri muri
d’erba. È anche estremamente profumata.
4
Prima marca di sigarette prodotta in Giappone.
120
scivolare fuori dal mio posto. Dove il tappeto scivola nel lago, sul
bordo dove, mi dico, basterebbe allungare i piedi per raggiungere
l’acqua tiepida, mi fermo. Provo a sbirciare l’acqua.
Fin dove giunge lo sguardo non si direbbe sia profondo. Sul
fondo, sottili, lunghi steli d’erba palustre se ne stanno moribondi.
Non saprei che altra parola usare per descriverli, a parte
“moribondi”. Le susuki5 sulle colline “ondeggiano”. Le alghe
attendono languide l’invito delle onde. Ma anche attendere cento
anni, immobili, quest’erba sommersa sul fondo dell’acqua, come
appostata, pronta a muoversi tutta, dall’alba al tramonto,
nell’attimo in cui fosse sfiorata, attendendo l’oscurità, attendendo
la luce, addensando sulle punte dei suoi steli le passioni di chissà
quante ere, immobili nell’attesa dell’attimo della loro fine, non del
tutto morte, sembrano vivere così.
Mi alzo e, dall’erba, raccolgo un paio di pietre, le prime che
capitano. Pensando di fare un’opera buona, ne lancio una dritto
davanti a me. Gorgogliando, fluttuano due bolle, che svaniscono
subito. Svaniscono subito, ripeto nella mente. In trasparenza,
languidamente, capelli lunghi come alghe attaccano a ondeggiare.
Non il tempo di poter dire che li intravedo, che l’acqua torbida
va a nasconderli sul fondo. Buddha Amida, ora pro nobis.
Mettendocela tutta, stavolta, tiro nel mezzo. Ha fatto un flebile
blup. È improbo tentar di farsi notare da cosa ’sì silente. Mi passa
la voglia di tirare altro. Mollo lì cappello e attrezzi, e giro verso
destra.
M’inerpico su per un viottolino. Con la testa coperta da grandi
alberi, il mio corpo si fa improvvisamente freddo. Nei luoghi in
ombra sull’altra riva, le camelie sono in fiore. I bordi delle foglie
delle camelie sono troppo abbassati; anche in pieno giorno,
anche se sono baciate dal sole, non danno l’idea di essere serene.
Soprattutto quelle camelie che si spingono per qualche metro
negli anfratti fra i massi, in luoghi tanto solitari che, non vi
5
Erba a basso stelo.
121
fossero i fiori, non ci sogneremmo nemmeno di pensare che
possa esserci qualcosa, si stringono le une sulle altre. Quei fiori!
Tanti che, a contarli tutto il giorno, non si finirebbe di contarli.
Ma, al solo guardarli, sono così vividi che mi verrebbe proprio da
contarli. Ma dico “vividi”, eppure non sembrano affatto allegri.
Fiammeggiano così veementi che, inconscio, il mio animo ne è
rapito, e solo dopo ne sono stupefatto. Nessun altro fiore è così
ingannevole. Ogni volta che vedo le camelie di montagna, mi
ricordano sempre una fattucchiera. Attraendo lo sguardo degli
uomini sui suoi occhi neri, senza che possano rendersene conto,
insinua nelle vene un dolcissimo veleno. E quando si realizza di
essere stati ingannati, ormai è tardi. Quando le camelie sull’altro
lato mi sono entrate negli occhi, io, sì, avrei preferito non
vederle, mi sono detto. Il colore di quel fiore non è un semplice
rosso. In una sgargianza che può spalancare gli occhi,
nascondono un sentimento tanto sommerso da essere
inesprimibile. Nel dimesso appassire sotto la pioggia dei fiori di
pesco, si prova solo commiserazione. Nel freddo risplendere
sotto la luna delle aronie, l’unico sentimento è la tenerezza. Quel
che è sommerso nelle camelie è del tutto diverso. Annerito,
malevole, temibile è l’umore che le ammanta. Tenendo questo
umore sul fondo, quel che lascia emerge è il suo aspetto
infinitamente sgargiante. E poi, scevra di ammiccamenti per gli
uomini, il suo invitare è ancor più invisibile. Sboccia
d’improvviso e appassisce piano, appassisce piano e sboccia
d’improvviso, per ere di centinaia d’anni, fra crepe di monti ove
l’occhio della gente non si posa, passa serenamente la sua
esistenza. Basta uno sguardo ed è la fine. Chi la vede, per
l’eternità non potrà sfuggire al suo fascino. Quel colore non è un
semplice rosso. È come il sangue dei prigionieri sterminati, che
chiama a sé gli sguardi della gente, e che intristisce con sé il cuore
della gente; è quel tipo di rosso.
Mentre li guardavo, uno di quei cosi rossi è caduto tuffandosi
sull’acqua. L’unica cosa che si muove nella silenziosa primavera è
questa corolla. Dopo un po’, ancora tuffandosi, ne cade un altro.
122
Quei fiori non appassiscono affatto. Più che distruggersi, lasciano
il ramo quando sono forti abbastanza. Quando lasciano il ramo,
lo fanno tutto d’un tratto, e per questo sembrano privi di
rimpianto, ma il fatto che cadano ancora così forti è un po’
odioso. Ancora ne cade uno, tuffandosi. Beh, se continuano a
cadere così, l’acqua del lago si farà rossa, mi dico. Lì dove i fiori
galleggiano silenti, mi sembra che l’acqua sia già un po’ rossa. Ne
cade un altro. Sarà finito sulla terra o sull’acqua? È così silenzioso
che non riesco a capire. Ne cade un altro. Quello dev’essersi
immerso, penso. Anno dopo anno, chissà quante migliaia di
corolle di camelie sono finite col cadere, e giunte sull’acqua
hanno sciolto il loro colore, marcendo nel fango, una volta giunte
sul fondo. Fra chissà quante migliaia di anni, questo vecchio lago,
senza che nessuno lo sappia, vissuto per seppellire le camelie
cadute, tornerà a essere una radura. Ancora uno grosso, tinto di
sangue, cade come un’anima. Ne cade un altro. Cadono
tuffandosi. Cadono sconfinatamente.
E se dipingessi una bella donna che fluttua verso questo posto,
mi chiedo mentre torno al posto di prima, fumando un’altra
sigaretta, sovrappensiero. Le parole rivoltemi ieri per scherzo
dall’onorevole Nami-san, signora dell’onsen, come cerchi
nell’acqua, si posano sul mio umile ricordo. Il cuore sale su
grandi onde e fluttua come un velo di legno 6. Faccio di quel volto
un seme che, fluttuando sotto le camelie, fa cadere chissà quante
corolle. Le corolle che cadono a lungo, la donna che fluttua a
lungo, cerco di evocare questo sentimento, ma chissà se potrei
disegnarlo. Come per quel Laconte... ma lasciamo perdere il
Laoconte. Che volti le spalle alla ragione o meno, l’ispirazione
non esce. Ma, pur restando umani, far uscire un sentimento
eterno e sovrumano non è cosa facile. È il volto ciò che mi
6
In Giapponese, “grandi onde” si pronuncia Oo-nami, quasi come “Onorevole
Nami”. Inoltre, un proverbio marinaresco giapponese recita che “un velo
(appena un po’) sotto i legni, c’è l’inferno”.
123
preoccupa di più. Anche se prendessi a prestito quel volto,
quell’espressione non va. La vittoria di quel dolore devasterebbe
tutto. Però, anche un volto sereno a forza sarebbe un guaio. E se
provassi con qualche altro volto? Questo, o forse quello, provo a
contarli sulle dita, ma non mi viene. Mi sa proprio che il volto
dell’onorevole Nami-san è il più adatto. Eppure, manca qualcosa.
Mi rendo conto che manca qualcosa, ma cosa sia ciò che manca
non mi è affatto chiaro. E non posso mettermi al lavoro facendo
finta di nulla, mentre diffido di me stesso. Se le aggiungessi della
gelosia? Con la gelosia c’è troppa ansia. Allora, forse l’odio?
L’odio è troppo veemente. E l’ira? L’ira rompe completamente
l’armonia. Risentimento? Se si parla di una poetica amarezza è
un’altra cosa, ma un mero risentimento sarebbe troppo volgare.
Dopo averci pensato un bel po’, finalmente arrivai a questa
conclusione. Mi ero scordato dell’esistenza del carattere
“struggimento”7. Lo struggimento è un sentimento sconosciuto
agli dèi, eppure è il sentimento di coloro che, agli dèi, sono più
vicini. Nell’espressione dell’onorevole Nami-san non appare la
minima traccia di questo struggimento. Ecco cosa manca.
Nell’attimo in cui, con un palpito repentino, quest’emozione si
aprisse fra le sopracciglia del volto di quella donna, potrei farne
un disegno perfetto. Purtroppo, non so quando potrei vederla.
Quel che colma il volto di quella donna è sempre un sorriso di
derisione, le sopracciglia a formare un tratteggio che grida
vincerò, vincerò io! E quindi, mi sa che non se ne fa nulla.
Frusciando frusciando, si sentono dei passi. Il mio disegno
mentale si è rotto per due terzi. Guardo e vedo un tizio che
indossa un corto kimono, con una fascina spalla, fra i bambù, che
se ne va in direzione del tempio Kankai. Dev’essere sceso dal
monte vicino.
«Che bella giornata, eh?» mi saluta sfilandosi la fascia dalla testa.
Nell’istante in cui si erge, la falce lunga tre palmi che pende dalla
7
124
Il termine originale è 憐れ – aware – struggimento, pena.
cintura ha brillato sfavillante. È un vigoroso uomo sui quaranta.
Mi sembra d’averlo già visto. Mi parla in tono confidenziale,
come se mi conoscesse.
«Dotto’, dipingi anche tu?» la mia attrezzatura da disegno era
aperta.
«Già. Avevo pensato di dipingere questo lago, ma è un posto
triste, eh? Non passa nessuno...»
«Sì sì. Proprio fra i monti. Dottò, certo dev’essere stata dura
scendere giù dal quel picco.»
«Eh? Ah, sei quel carrettiere, giusto?»
«Sì sì. Vede, faccio le fascine e le porto giù in paese.» dice
Genbei tirando giù la fascina e posandoci il sedere. Tira fuori il
portasigarette. È una roba vecchia. Non capisco nemmeno se è di
carta o di pelle. Gli allungo un cerino.
«Fare questo giro tutti i giorni dev’essere una seccatura.»
«Ma no, ci sono abituato – e poi non lo faccio mica tutti i giorni.
Solo una volta ogni tre.»
«Sarebbe una seccatura anche una volta ogni quattro.»
«Ahahaha. Se mi prendo pena per il cavallo, allora vedrò di farlo
ogni quattro.»
«Ah beh, allora... tieni più al cavallo che a te stesso, eh?
Hahahaha»
«Beh, dai, non proprio...»
«A proposito, questo lago è piuttosto vecchio, giusto? Più o
meno, quanto?»
«Tanto.»
«Tanto? Ma, da quanto?»
«Beh, che domande, da un sacco tanto. »
«Da un sacco tanto... capisco.»
«Sicuramente, da prima che ci si buttasse la signorina Shihoda.»
125
«Gli Shihoda, quelli delle terme?»
«Sì sì.»
«La signorina Shihoda ci si è buttata?... ma se è ancora viva!?!»
«Ma no! Non quella signorina. Una di tanto tempo fa.»
«Una di tanto tempo fa? E quando è successo?»
«Beh, dunque... tanto tempo fa.»
«E questa signorina di tanto tempo fa, perché ci si è buttata?»
«Dunque, quella signorina di tanto tempo fa, dicono fosse bella
come quella di adesso, dotto’!»
«Ah.»
«Un giorno passò quel boronji...»
«Boronji? Un monaco errante col cesto in testa?»
«Sì sì. Uno di quei boronji che suonano il flauto. Questo boronji
aveva chiesto ospitalità al capo villaggio, uno Shihoda, e quella
bella signorina, a furia di avere quel boronji sotto gli occhi – sarà
stato per il suo karma, ma diceva che voleva stare con lui e
piangeva.»
«Piangeva. Uhm...»
«Il punto è che il capo non ne voleva sapere. Diceva che non
voleva un boronji per genero. E così lo buttò fuori.»
«Il monaco errante?»
«Sì sì. Allora, la signorina lo inseguì fino a qui – si buttò proprio
dove c’è quel pino – e successe un gran casino. Si dice che avesse
con sé uno specchio. Per questo, questo lago, ancora oggi, si
chiama “Lago dello Specchio”.»
«Ah sì? Allora, qualcuno ci si è già buttato...»
«Già, una vera disgrazia.»
«Però è una cosa di tanto tempo fa. Giusto?»
126
«Proprio una roba di un sacco di tempo fa, dicono. E poi – beh,
è quasi tutto qui, dottò.»
«Quasi?»
«Quegli Shihoda diventano sempre più matti.»
«Come come?»
«Dev’essere una maledizione. Anche la signorina di adesso, di
recente dicono che è un po’ strana, è sulla bocca di tutti.»
«Hahahaha, non credo proprio.»
«Magari no, chissà. Però, i suoi vecchi sono davvero strani.»
«Dici quello nella casa?»
«No, quella morta l’anno scorso.»
«Ah...» dissi mentre guardavo salire un fumo sottile dalla cicca, e
chiusi la bocca. Genbei si rimette la fascina in spalla e se ne va.
Ma tu guarda; sono venuto qui a dipingere, e pensando a queste
cose, prestando orecchio a queste storie, sono giorni che non mi
viene manco uno schizzo. Ho fatto la fatica di tirare fuori gli
attrezzi, insomma, oggi, fosse anche uno scarabocchio, voglio
riuscire a finire qualcosa. Per fortuna, il panorama che ho di
fronte merita. Anche solo a prenderlo come scusa, vediamo di
disegnare un po’.
Una roccia verde scuro alta appena tre metri spunta dritta dal
fondo del lago, e là dove spezza l’acqua densa, ben dritti alla sua
destra, i kumasasa di prima, da sopra la sua punta fin sotto al pelo
dell’acqua, crescono rigogliosi senza lasciare nemmeno un palmo
vuoto. Sopra, un pino largo tre braccia, col tronco avvolto da
giovani edere, protendendosi di sbieco, sovrasta per più di metà
la superficie dell’acqua. Forse, la donna con lo specchio in tasca
si buttò proprio da quella roccia.
Posando il culo sul treppiede, osservo il materiale che devo
infilare nella tela. Ci sono il pino, i bambù, la roccia e l’acqua, ma
l’acqua non so proprio fin dove farla. La roccia è alta tre metri,
dovrei fare pure l’ombra di tre metri. I kumasasa non si fermano
127
sulla superficie, si riflettono tanto vividi che mi viene il dubbio
che stiano crescendo pure nell’acqua. Per quanto riguarda il pino,
torreggia in tutta la sua altezza fino al cielo, ma l’ombra che
proietta è estremamente lunga e sottile. A occhio, non saprei
misurarla. Magari, potrebbe essere interessante lasciar perdere gli
oggetti e disegnare solo le ombre. Disegnando l’acqua,
disegnando le ombre nell’acqua, e poi, mostrarlo alla gente
dicendo “questo è il dipinto”, dovrebbe sorprenderli. Però,
sorprendere e basta è noioso. Eh già, sorprendere è il minimo,
per un quadro. Come potrei organizzarlo, mi chiedo, e osservo
intensamente la superficie del lago.
Contrariamente alle mie speranze, studiare le ombre non mi
basta per fare un buon quadro. Mi vien voglia di provare
organizzarlo mettendole in contrasto con gli oggetti reali.
Muovendo gli occhi dalla superficie del lago, sposto lo sguardo
piano piano verso l’alto. Dalla roccia alta tre metri, alla punta
dell’ombra, a dove si congiunge alla superficie, e da lì esco
progressivamente dall’acqua. Da dove l’aspetto è lucido, risalgo
ispezionando minuziosamente la trama che si fa via via
increspata. E alla fine della risalita, con i miei occhi ora fermi là,
sulla ripida sommità della roccia, rimasi come una rana di fronte
a un serpente, tanto che mi cadde il pennello di mano.
Alle spalle del sole che passa fra i verdi rami, tingendo la roccia
verde scura, desiderosa di sbiadire nella sera di primavera,
vividamente in contrasto sull’ordito, un volto di donna – che mi
ha sorpreso fra i fiori, che mi ha sorpreso nel dormiveglia, che mi
ha sorpreso nel furisode, che mi ha sorpreso nella vasca, è quel
volto di donna.
Io, lo sguardo come inchiodato su quel pallido volto di donna,
sono immobile. Anche la donna, la sua figura flessuosa tesa al
massimo, sopra all’alta roccia, si erge senza muovere nemmeno
un dito. Che attimo!
Senza rendermene conto, mi sono alzato. La donna, leggiadra,
ruota il corpo. Nella cintura, ha sparso qualcosa di rosso come i
128
fiori di camelia, e come l’ho notato, è scesa svelta dall’altra parte.
Il sole del tramonto, sfiorando la chioma, tinge appena il tronco
del pino. I kumasasa si fanno via via più verdi.
Mi ha sorpreso un’altra volta.
129
11
Cammino distratto, aggrappato alla luna nebbiosa del villaggio
di montagna. Mentre salivo sui gradini di pietra del tempio
Kankai, contavo ad alta voce le stelle di primavera, una, due, tre,
e così via. Non che abbia in programma d’incontrare l’abate. E se
l’incontrassi, non mi andrebbe di chiacchierare. È che sono
uscito dal mio ostello così, a caso, e lasciando fare ai piedi,
placido placido, è andata a finire che mi sono trovato in fondo a
questa scala. Sono rimasto un po’ in piedi ad accarezzare una
pietra con sopra scritto “è vietato entrare nel cancello sulla
montagna a ovest”, ma all’improvviso mi sono sentito felice, e mi
son messo a salire.
Quell’opera... “Tristram Shandy”... non c’è opera più intrisa di
spirito divino. Il primo paragrafo l’ha scritto l’autore di suo
pugno. Per il resto, affidandosi a Dio, ha lasciato fare alla sua
penna. Ovviamente, non sapeva quel che scriveva. Chi scrive è
lui, ma chi detta è Dio. Come se l’autore non avesse la
responsabilità di decidere. E anche la mia passeggiata, che
aderisce a questa scuola, è una passeggiata irresponsabile. Anzi,
dato che non mi affido a un dio, è ancora più irresponsabile.
Quando Stan ha abdicato la sua responsabilità, allo stesso tempo
l’ha demandata al Dio che sta nei Cieli. Io, che non ho un dio che
se la prenda, l’ho gettata in questo stagno.
Una scala come questa può essere massacrante. Chi non ce la fa,
deve ritirarsi. Salire il primo gradino è un piacere. Quindi, sali il
secondo. Al secondo gradino, vien voglia di poetare. Ti prende
l’ispirazione, e vedi la vita a colori. Il terzo gradino è così
131
squadrato da essere strano. E proprio perché è strano, sali
ancora. Inizi a mirare al cielo su di te. Dalle profondità assopite,
piccole stelle brillano vivide. Potrei tirarci fuori una poesia, ti dici,
e continui a salire. E così, pian piano, io riuscii ad arrivare in
cima.
In cima alla scala, ricordo. Una volta, quando ero in viaggio di
piacere dalle parti di Kamakura, girando quelli che passavano per
templi maggiori, mi pare fosse il Santuario di Enkaku, proprio
mentre salivo mogio mogio una scala tipo questa, da oltre il
cancello, se n’era uscito un bonzo dalla pelata piatta, con su un
saio giallo. Io salgo, il monaco scende. Quando ci incrociammo,
il monaco mi chiese con voce tagliente: “Dove te ne vai”? Come
risposi “a venerare il tempio”, fermandomi sul posto, il bonzo,
mi apostrofò subito: “Lì non c’è proprio nulla!”, e continuò a
scendere svelto svelto. Con la sensazione di essere stato trattato
un po’ male, tanto franco era stato il commento, rimasi lì, fermo
sul gradino, e quando mi voltai a guardare il bonzo, e la sua testa
dall’ampia pelata, barcollando barcollando, se ne sparì nel
boschetto. E senza girarsi nemmeno una volta. Beh, i monaci
Zen sono proprio buffi. Salito pian piano, entrato mogio mogio
nel cancello di montagna, guardandomi attorno, l’ampio cortile, e
la sala principale, erano vuoti; di gente, neanche l’ombra. In quel
momento, mi sentii felice fin nel profondo del cuore. Al pensiero
che al mondo ci sono persone tanto franche, che possono
trattarti così francamente, in qualche modo mi sentii sollevato. E
non perché avessi raggiunto l’illuminazione Zen. Dello Zen, so
appena che inizia per “ze”. È solo che quel bonzo dall’ampia
pelata mi era diventato simpatico.
Il mondo è ottuso, rancoroso, puntiglioso, e pure sfrontato, ed è
strapieno di gentaglia. Anzi, c’è persino gente che ha una faccia
che non si capisce che ci stia a fare al mondo. E magari è pure
una faccia grande. Hanno un gran posto nella moda del mondo
fluttuante, e ne fanno una specie di vanto. Si appiccicano al culo di
qualcuno per cinque, dieci anni, e stanno lì a contare le scoregge,
e pensano che l’umanità stia solo in questo. E poi ti si piazzano
132
davanti e dicono a tutti, guardate che quello ha scoreggiato così,
ah, un’altra, e ora ha scoreggiato cosà, senza che nessuno
gliel’abbia chiesto. Se dici loro di levarsi dai piedi, non lo fanno,
ma prendono appunti e ti girano dietro, e gridano guardate,
un’altra, e siamo a tot, e ancora, e siamo a tot. Se dici loro che
danno fastidio, si mettono a strillare. Se dici loro di piantarla, non
la smettono più. Anche se dici, vabbeh, ho capito, continuano, ha
già fatto tot scoregge, eccone un’altra, e ancora una! E inoltre,
dicono che questo è l’obiettivo di essere letterati. Di obiettivi,
ognuno ha i suoi. E io preferisco gli obiettivi che se ne stanno lì
buoni e zitti, e che non ti dicono fai così e cosà. Gli obiettivi che
si mettono in mezzo e depistano la gente sono una scocciatura. E
blaterando che se gli obiettivi non si mettono in mezzo, non
servono a nulla, vengono anche da me a contarmi le scoregge, e a
obiettivare. Stando così le cose, il Giappone è spacciato.
E così, in questa notte di primavera, camminare senza obiettivi
fra le scatole è un vero piacere. Del venire, fare un obiettivo.
Dell’andare, fare un obiettivo. Là dove si poeta, trovare un
obiettivo. Là dove non si può più poetare, trovare un obiettivo.
E soprattutto, senza dar noia a nessuno. Questi sono sani
obiettivi! Contare le scoregge per attaccare gli altri come
obiettivo, trattenere le scoregge per autodifesa come obiettivo,
sono tutti obiettivi che finiscono lì dove inizia il suolo del tempio
Kankai.
Recitando uno, due, tre, mentre conto le stelle di primavera che
mi sovrastano, salendo le scale in pietra, il mare di primavera che
brillava fra le foschie mi apparve come la fascia di un kimono.
Entro nel cancello di montagna. D’intessere versi sublimi, m’era
passata la voglia. D’improvviso, mi pongo l’obiettivo di
smetterla.
Alla destra di un viottolino che passa sul lastricato della
canonica, una siepe fiancheggia la collina, e oltre la siepe,
immagino, un cimitero. Sulla sinistra, il tempio principale. Là
dove è più alto, il tetto brilla. È proprio come se, su migliaia di
tegole, fossero cadute migliaia di lune, mi dico ammirandolo. Da
133
qualche parte m’arriva chiaro il tubare di colombi. Sembra che
abitino sotto al cornicione. Forse me l’immagino, ma mi sembra
che le travi siano punteggiate di bianco. Magari è merda.
Dove cadono le gocce di pioggia, si allineano strane ombre.
Non di alberi, e certo, nemmeno d’erba. Mi danno l’idea dei
demoni disegnati da Iwasa Matabei1, che stanchi di recitare il
nenbutsu, si mettono a danzare. Da un estremo all’altro del tempio
principale, ballano in una fila ben ordinata. E anche quelle
ombre, da un estremo all’altro del tempio principale, ballano in
una fila ben ordinata. Evocate in questa aura lattiginosa, invitate
dalle campane, dai sonagli e magari anche da qualche preghiera
buttata lì, pur riluttanti, se ne saranno venute a danzare in questo
tempio di montagna.
Sporgendomi, vedo un grande cactus. Sarà alto un paio di metri,
verde come un cocomero acerbo, coi rami piatti come palette
che, girate verso il basso, cercano di andare sempre più su. Per
quante palette siano spuntate, sembra non vogliano smettere mai.
Pare quasi che, stanotte stessa, rompendo le tegole, siano capaci
di trapassare il tetto. Se si lascia a quelle palette il loro tempo,
prima di rendersene conto, potrebbero andarsene da sole, e
persino spiccare il volo. Non si riesce a credere che dalle palette
vecchie nascano le palette nuove, e che quelle piccole palette, in
lunghi anni, si facciano via via più grandi. Questa sequenza di
paletta in paletta è fenomenale. Di alberi così buffi non ce ne
sono tanti. E poi è così superbo! Pare che ci sia stato un bonzo
che, quando gli hanno chiesto cosa fosse Buddha, avesse risposto
che era la quercia2 nel giardino di fronte, ma se mi facessero la
1
Iwasa Matabei (1578–1650): Disegnatore ritenuto capostipite dei moderni
illustratori giapponesi, come Hokusai. Ad ogni modo, i disegni a cui si riferisce
l’autore erano stati erroneamente attribuiti a lui; si tratta in realtà di disegni
popolari raccolti nel tempio di Ootsu, tempio da cui l’omonimo stile prende il
nome.
2
È un riferimento al mito “fondante” dello Zen, anzi della sua corrente originaria
cinese detta “Chan”. È quello che viene considerato un koan fondamentale, e ha
questa forma: un monaco chiese al maestro Chao-chou “perché il Bodhidharma
134
stessa domanda a bruciapelo, senza nemmeno pensarci su,
risponderei che è questo cactus sotto la luna.
In gioventù ho letto il diario di viaggio di un tizio chiamato
Chao Buji3, e ancora ricordo questi versi a memoria.
Settembre è’l tempo
dell’alto cielo, e di rugiada puri,
dei vuoti monti, e belli, e chiari,
che a guardar su, le stelle tutte brillan grande
come a star sull’uomo, che lor luce spande.
Di là da la finestra
di giunchi dieci tronchi, a battagliar l’un l’altro,
cui voce è rotta e fratta nel fregarsi sempre contro.
Di là dai giunchi, peschi:
fantasmi impressionanti, se’n stanno soli in parte
con le basette ritte e nient’affatto corte.
Due, tre saranno
ma ancora fan stupore, ’che l’animo agitato
non riesce a prender sonno.
Ed ecco l’alba, e tutto è già passato.
provai a ripetere a bassa voce, e mi venne da ridere senza che
me ne rendessi conto. Anche questo cactus, nel posto e nel
momento giusto, potrebbe agitare il mio animo, e apparirmi
tanto impressionante da farmi cadere giù dalla montagna.
venne in Cina?” e lui rispose “guarda il cipresso nel cortile”. Stranamente,
Souseki, che conosce bene lo Zen, parla di una quercia, e non di un cipresso, ma
anche il resto della citazione sembra essere volutamente imprecisa.
3
Chao Buji (1053-1110): Scrittore e poeta mandarino. Il brano è tratto dalle
“cronache del viaggio in nuove città oltre le montagne a nord”, dove “montagne
a nord” è un epiteto per la catena del monte Mang, che indica la regione di
Luoyang.
135
Provando a sfiorarne gli aculei con le mani, mi ferisco
spiacevolmente le dita.
Il sentiero lastricato si esaurisce piegando sulla sinistra, ed esce
sulla canonica. Davanti alla canonica, c’è una grande magnolia.
Quasi non riuscirei a cingerla. In altezza, supera il tetto.
Guardando in alto, sulla testa ci sono i suoi rami. E anche sopra
ai rami, ci sono altri rami. E così via, da ramo in ramo, sopra a
tutti c’è la luna. Normalmente, quando ci sono rami intrecciati in
questo modo, da sotto non si vede il cielo. E se ci sono dei fiori,
nemmeno quelli. Ma i rami della magnolia, per quanto intrecciati,
negli spazi fra ramo e ramo, aprono fessure assai larghe. La
magnolia, a modo suo, stende i sottili rami tanto che quasi
disturba chi sta sotto. Persino i fiori sono ben evidenti. A
guardarlo da qui sotto, placidissimo, un fiore si staglia netto,
proprio come un fiore. E quel fiore, da quanto se la spassi, o da
quanto sia fiorito, proprio non lo so. E ciò nonostante, un fiore
dopo l’altro, nello spazio tra fiore e fiore, un cielo appena tinto di
blu fa capolino, e si fa desiderare. Il colore dei fiori,
naturalmente, non è bianco. Il bianco esplicito è troppo freddo.
Più il bianco è sfrontato, più dà l’impressione di voler rubare le
pupille della gente. Il colore della magnolia non è quello.
Evitando apposta il bianco più puro, assumendo un giallo appena
accennato, eppure tiepido, consideratamente, si ammanta di
modestia. In piedi su questo sentiero in pietra, ammirando
languidamente, smisuratamente questi onesti fiori, per un po’,
rimasi incantato. Quel che cade nei miei occhi sono solo fiori.
Non una singola foglia.
Guardo il cielo
fattosi tutto fiori
di magnolia
Mi vennero questi versi. Da qualche parte, una colomba
m’accompagnò col dolce canto.
136
Entro nella canonica. La canonica è spalancata. Come se fosse
in un regno senza ladri. E senza cani ad abbaiare.
«È permesso?» chiedo. Nessuna risposta, come nel folto di una
foresta.
«Per favore...» cerco ancora una guida. S’ode kuu-kuu, la voce di
una colomba.
«Per favoooooore!» chiamo a gran voce.
«Ooooooo!» è la risposta che giunge da molto lontano.
Entrando in casa di qualcuno, non m’era mai capitato di ricevere
una risposta come questa. Finalmente, assieme al risuonare di
passi lungo il corridoio, dall’altra parte avanzò l’ombra di una
lanterna di carta. Compare un giovane bonzo. Era Ryounen.
«C’è per caso l’abate?»
«Sì. Che ti serve?»
«Sono venuto a portare il disegno che mi aveva chiesto
quand’era venuto all’onsen.»
«Ah, sei il pittore. Su, entra.»
«Non ho un appuntamento, va bene lo stesso?»
«Nessun problema.»
Mi levo gli zoccoli e salgo dentro.
«Ma che pittore maleducato che sei!»
«Perché?»
«Sistema gli zoccoli, così. Ecco, guarda qui.» mi dice puntando
la lanterna. Su di una colonna nera, a un metro e mezzo da terra,
sta appuntato un foglietto squadrato male, con su scritto
qualcosa.
«Ecco. Leggi. Dice di guardare giù.»
«Capisco.» dico, e allineo i miei zoccoli agli altri.
137
La stanza dell’abate è in parte al corridoio, accanto alla sala
principale del tempio. Scostando rispettosamente il pannello,
dopo essersi inchinato rispettosamente,
«Ehm, è venuto a trovarla il pittore che sta dagli Shihoda.»
«Ah, avanti!»
Entro al posto di Ryounen. La stanza è tanto piccola da essere
opprimente. Nel mezzo c’è un focolare, e sopra un bollitore che
borbotta. L’abate stava leggendo.
«Dai, accomodati!» dice levandosi gli occhiali e mettendo da
parte quel che stava leggendo.
«Ryounen. Ryoooo-neeen!»
«Sìiiii?»
«Non ci porteresti un cuscino?»
«Sìiiii!» risponde Ryounen da lontano.
«Allora, sei venuto. A quanto pare ti annoiavi, eh?»
«Mah, è che la luna era così bella che, girovagando, sono finito
qui.»
«Già, proprio una bella luna, eh?» dice, aprendo il pannello.
Oltre un giardino senza nient’altro che due massi e un pino, c’è
subito la scogliera, e sotto ai miei occhi, nella foschia notturna, si
apre improvviso il mare. Mi sento come se d’improvviso il mio
spirito si fosse allargato. Sembra come se le lampare, disperse
laggiù, dove l’estremo orizzonte entra nel cielo, si fossero
tramutate in stelle.
«Questo è proprio un bel panorama. Abate, tenere chiusi gli
scuri non è un peccato?»
«Eh già. Ma sai, lo vedo tutte le notti...»
«Per quante notti lo si veda è sempre bello, un panorama così.
Io non dormirei per guardarlo.»
«Hahahaha. Certo, tu sei un pittore, per me è un po’ diverso.»
138
«Anche lei, abate, mentre pensa che è bello, sta dipingendo.»
«Ah, beh, hai ragione. In fondo, anche io dipingo Daruma 4.
Ecco, lì appeso, ho messo su quel disegno del mio predecessore,
non è poi così male, eh?»
Infatti, su di una piccola mensola c’è appeso un disegno di
Daruma. Anche se, come disegno, è impreciso e brutto. Ma
almeno, non è volgare. Non c’è nessun tentativo di coprire i
propri errori. È un disegno innocente. Questo predecessore
doveva essere uno a cui vanno bene anche disegni così.
«È un disegno innocente, vero?»
«Per quel che ne facciamo noi, è già un gran lavoro. Basta che si
intuisca il senso...»
«È assai meglio dei lavori buoni, ma volgari.»
«Hahahaha, beh, lo prendo come un complimento. A proposito,
ho sentito che al giorno d’oggi ci si laurea anche in pittura.»
«No, non c’è la laurea in pittura.»
«Ah no? Di recente, mi pare di aver incontrato laureati più o
meno in tutto.»
«Ah sì?»
«Un laureato è una persona notevole, giusto?»
«Sì. Piuttosto notevole.»
«Eppure, secondo me la pittura dovrebbe essere materia di
laurea. Chissà perché non c’è.»
«Beh, piuttosto, sarebbe opportuna una laurea per gli abati.»
4
Bodhidarma, Fondatore del culto buddista Chan, poi trasmesso nel Giappone
come Zen. È il “monaco per antonomasia”, e veniva stilizzato in icona, già
all’epoca di Souseki e anche prima, al punto da essere quasi l’antesignano degli
“emoji”.
139
«Hahahah, beh, addirittura – Parlando di persone che si
incontrano di questi tempi – pare che tutti abbiano un biglietto
da visita.»
«Che si incontrano dove? Tipo a Tokyo?»
«No no, anche qui, che a Tokyo saranno vent’anni che non ci
vado. Recentemente, ho sentito che hanno fatto un tram, o
qualcosa così, e mi piacerebbe provarlo, almeno credo.»
«È una cosa noiosa. Al punto da stuccare.»
«Mah, davvero? Mah, sarò come i cani di Shu, che abbaiano al
sole, o i buoi di Wu, che muggiscono alla luna 5; da campagnolo
che sono, forse finirei col trovarli una seccatura.»
«Non sono un seccatura... ma di certo, sono noiosi.»
«Eh già, già...»
Dal beccuccio del bollitore sbuffa copioso il vapore. L’abate
prende delle tazze dal loro armadietto e versa il tè.
«Eccoti un po’ di tè. Anche se non sarà buono come quello del
vecchio Shihoda.»
«Va bene lo stesso.»
«Suppongo tu vada così in giro per trovare l’ispirazione per i
tuoi quadri, giusto?»
«Sì. Mi porto dietro l’attrezzatura, ma anche se non dipingo non
importa.»
«Ah, allora lo fai un po’ anche per piacere.»
«Eh sì. Spero di non deluderla, ma... non mi va che mi si
contino le scoregge.»
5
140
Si tramanda che nel regno di Shu, incuneato fra le montagne, ci fossero così tante
nuvole che i cani non fossero abituati a vedere il sole, e che nel regno di Wu
facesse tanto caldo che, di notte, la luna potesse essere scambiata per il sole. Per
questo, quelle rare volte che si vedeva il sole a Shu, i cani, spaventati, abbaiavano,
e a Wu, nelle notti calde, i buoi abituati a un clima più mite muggivano contro
alla luna.
Per quanto sia un monaco Zen, sembra che almeno questo
discorso non l’abbia afferrato al volo.
«Il... conto delle scoregge...?»
«Se resti a lungo a Tokyo, ti contano ogni scoreggia.»
«Davvero?»
«Hahahahaha, te le contassero e basta sarebbe già buono. Invece
analizzano ogni scoreggia, e guardano se hai il buco del culo a
triangolo, o se è quadrato, e si perdono in queste cazzate.»
«Mah, forse è per motivi di igiene...»
«L’igiene non c’entra niente. È per motivi di indagine.»
«Indagine? Ah, capisco, allora si tratta di polizia. Ma a cosa serve
che la polizia indaghi su queste cose? Devono farlo per forza?»
«Il punto è che questo non aiuta molto la pittura...»
«Non aiuterebbe molto neanche me! Non ho mai fatto niente di
tanto male che dovesse essere indagato.»
«Immagino...»
«Ad ogni modo, non m’importa che la polizia mi conti le
scoregge. Contenti loro... finché non faccio niente di male,
polizia o no, nessuno deve aver niente da ridire!»
«E poi, le scoregge le fanno tutti, insomma...»
«Quand’ero un giovane bonzo, il mio predecessore mi disse
questo: la gente dovrebbe studiare tanto da non aver vergogna
nemmeno di mostrare le proprie interiora nel bel mezzo del
Nihonbashi6. Anche tu, studia tanto! E così, non dovrai nemmeno
viaggiare.»
«Per i veri pittori, è sempre così.»
«E allora, diventa un vero pittore.»
«È che se mi contano le scoregge, non ci riesco bene...»
6
Ponte al centro di Tokyo, che da nome all’omonimo quartiere.
141
«Hahahaha! Guardala così. Insomma, anche la signorina Nami
degli Shihoda, lì dove alloggi tu, s’è sposata e poi se n’è tornata
qui, e deve avere avuto tante preoccupazioni, e difficoltà, che alla
fine è venuta qui a sentire i miei sermoni. E insomma, di recente
se la passa molto meglio, ecco, vedi... adesso è una donna così in
gamba!»
«Uhm... beh, in effetti sospettavo che fosse una donna fuori
dall’ordinario...»
«Eh già, è una donna piuttosto acuta – Anche quel giovane
bonzo che era venuto qui a studiare, quel Taian, grazie a lei ha
capito che le cose che aveva accantonato erano importanti, e ha
incontrato il suo vero destino, – forse adesso è molto più saggio.»
Nel giardino silenzioso, cade l’ombra di un pino, e il mare
lontano, come a rispondere alla luce del cielo, come a voler dare
una risposta a tutti i costi, svelto e flebile, luccica.
Le lampare si spengono.
«Guarda l’ombra di quel pino.»
«Bella, vero?»
«Solo bella?»
«Sì.»
«Oltre a essere bella, non si cura di dove soffia il vento.»
Finisco il tè rimasto nella tazza, e dopo averla appoggiata a testa
in giù sul vassoio, mi alzo.
«Ti accompagno fino al cancello. Ryoooooo-neeeeen! L’ospite
sta andando via!»
Mentre, scortato, esco dalla canonica, una colomba piange kuukuu.
«Non c’è niente di più carino delle colombe. Quando batto le
mani, volano tutte qui da me! Ti faccio vedere?»
La luna si fa via via più luminosa. Silenziosa, la magnolia offre al
cielo innumerevoli nubi fiorite. Nel mezzo di questa perfettissima
142
notte di primavera, l’abate batte le mani. Il suono se ne va a
morire nel vento, senza che sia scesa una singola colomba.
«Non vengono? Eppure, in genere scendono...»
Ryonen mi guardò e accennò un sorriso. Forse l’abate crede che
i colombi vedano al buio. Che tenerezza!
Arrivati al cancello, mi separo da loro. Quando mi volto a
guardarli, vedo una grande ombra tonda, e una piccola ombra
tonda, cadere sul selciato e andare a svanire nella canonica, l’una
dopo l’altra.
143
12
Cristo fu colui che usò con perfetta maestria la massima vena
artistica, spiega e ricorda Oscar Wilde. Cristo, non saprei. Ma nel
caso dell’abate del tempio Kankai, penso che abbia esattamente
questo carattere. Non mi riferisco ai suoi interessi. E nemmeno al
fatto che trascende le mode. È che riesce ad appendere un
ritratto del Daruma che si fa assai fatica a chiamare quadro, e a
dire che è un lavoro venuto bene. Crede che ci sia una laurea in
disegno. Pensa che gli occhi delle colombe vedano anche di
notte. E ciò nonostante, ha il carattere dell’artista. Il suo cuore è
come un sacco senza fondo. Non trattiene nulla. Supera ogni
ostacolo, va oltre ogni desiderio, senza traccia di scorie rimaste
sul suo fondo. Forse, se gli si può trovare un singolo vizio, è
quello di lasciarsi assimilare da ogni luogo in cui si rechi, al punto
che, pur stesse pisciando o cagando, assurge alla massima
artisticità. E invece io, con gli ispettori che valutano il conto delle
mie scoregge, non riesco a essere pittore. Posso sedermi di fronte
al cavalletto. Posso fare qualche schizzo. Ma non certo dipingere.
A questo punto, invece che venirsene in un anonimo villaggio di
montagna a cercare i nascosti colori della primavera, sarebbe
stato meglio prima prepararsi artisticamente a fondo. Quando
entro in questo mondo, la bellezza del creato torna in me. Anche
senza imbrattare una tela, senza tingere nemmeno un fazzoletto,
sono fra i più grandi pittori di prima classe. La mia tecnica,
rifinita come quella di Michelangelo, precisa come quella
dell’eccelso Raffaello, dal punto di vista artistico, segue i passi dei
grandi maestri di ieri e oggi, e non si può scorgere alcuna
inadeguatezza nel mio pennello. Da quando sono arrivato
145
all’onsen, non ho disegnato ancora nulla. Mi sembra quasi di
essermi portato dietro la scatola degli attrezzi per puro sollazzo.
“Ma che è un pittore quello?” riderà la gente chiedendoselo.
Ridano quanto vogliono, adesso sono un vero pittore. Un pittore
come si deve. Questo reame non ha niente a che vedere col
dipingere quadri famosi. Anche se, chi dipinge quadri famosi
deve per forza conoscere questo reame.
Fatta colazione e fumata placidamente una Shikishima, termino
le mie riflessioni. Il sole si solleva, staccandosi alto dalle nebbie.
Aprendo i pannelli e ammirando la montagna sul retro, vidi gli
alberi verdi insolitamente limpidi, freschi come mai prima.
Penso costantemente che lo studio fra la relazione tra
atmosfera, oggetti e colori, sia l’argomento più interessante del
mondo. Concentrarsi sui colori per trasmettere l’atmosfera, o
concentrarsi sulle cose per delineare l’atmosfera? O ancora,
concentrarsi sull’atmosfera, e contemporaneamente lasciar
trasparire cose e colori, intrecciandoli? Anche solo un po’ di
enfasi basta a cambiare il senso di un quadro. Questo senso
finisce col differire da quello che preferirebbe il pittore. Questo è
ovvio, ed è naturale che dipenda dal tempo, dal luogo, e anche
dalle inclinazioni personali. Nei dipinti dei paesaggi degli Inglesi,
non c’è nulla di luminoso. Forse, odiano i dipinti luminosi, ma
anche se li amassero, con quell’atmosfera, proprio non vengono.
Eppure, Goodall1, sebbene Inglese, fa un uso dei colori assai
diverso. E diverso, dovrebbe esserlo. Pur essendo Inglese, non
ha mai dipinto un paesaggio dell’Inghilterra. Il soggetto dei suoi
disegni non è la sua terra natale. Invece del suo paese d’origine,
sceglie l’Egitto, o la Persia, dalle atmosfere naturalmente
trasparenti e luminose. Chiunque veda un suo dipinto per la
prima volta si sorprende. Sono fatti così bene che viene da
1
146
Friederik Goodall (1822-1904). Pittore Inglese romantico, famoso per le sue
opere che ritraggono l’Egitto, non solo paesaggisticamente, ma focalizzandosi
anche sui personaggi ordinari e occupazioni quotidiane, come sui miti del
passato.
chiedersi se è possibile che esistano Inglesi capaci di disegnare
tanta luce.
Non è tanto una questione di gusti. È semplicemente che, se
dobbiamo concentrarci sulle ambientazioni del Giappone, allora
dobbiamo anche far risaltare l’aria e i colori tipici del Giappone.
Per quanto i pittori francesi siano bravi, e riescano a ritrarre i
colori così come sono, non possiamo dire che quello sia un
paesaggio giapponese. Insomma, più che prendere la natura in
superficie, bisogna studiare lo spirito sottile, e quando si pensa
ecco, è quel colore lì, bisogna subito mettersi in spalla il treppiede
e alzare i tacchi. I colori sono effimeri. Persa l’unica occasione, lo
stesso colore non si poserà più così facilmente sulle pupille. Il
picco del monte che sto ammirando adesso è tinto di un colore
così bello che da queste parti non si vede quasi mai. Ho fatto
tanto per arrivare qui, e lasciarmelo scappare sarebbe un peccato.
Proviamo un po’ a ritrarlo.
Facendo scorrere la porta, esco sul cortile, e di fronte,
appoggiata ai pannelli del secondo piano, trovo Nami, in piedi. Il
mento sepolto nel bavero, non vedo nient’altro che il suo profilo.
Nell’istante in cui penso di salutarla, la donna, lasciando giù la
mano sinistra, aveva mosso la mano destra come fosse vento.
Brilla come un lampo, scorre scivolando nella seconda, o forse
terza piega del kimono, all’altezza del petto, e con un sonoro
scatto, il brillìo scompare. Nella mano sinistra della donna resta
una shirasaia2 lunga tre palmi. La sua figura si sfila, andando a
nascondersi dietro il pannello. Con la sensazione di aver spiato
un attore del kabuki al mattino presto, esco dall’ostello.
2
Lo shirasaya (白鞘) è un tipo particolare di fodero di legno morbido (e bianco, in
genere acero, da qui il nome che significa “fodero bianco”). Viene usato per
tenere le lame a riposo, essendo particolarmente adatto ad assorbire l’umidità.
Quello che ha fatto Nami è rimuovere un pugnale dal fodero di “riposo”, e
inguainarlo nel fodero adatto all’uso, in un gesto che è l’equivalente giapponese
del “dissotterrare l’ascia di guerra”.
147
Uscendo dal cancello, tagliando a sinistra, si prosegue su un
viottolino aggrappato alla montagna. Qua e là, piangono gli
usignoli. La sinistra dà su una stretta valle, in cui crescono
compatti i mandarini. A destra si allineano due colline per niente
alte, che mi ricordano che i mandarini crescono anche lì. Sono
già stato in questa terra, una volta, tanti anni fa. Non mi va
nemmeno di mettermi a contare quanti. Era in un freddo
inverno. Allora vidi per la prima volta i mandarini crescere sui
monti. Chiesi a un tipo, sono venuto a prendere dei mandarini,
me ne venda un ramo, ma ne prenda pure quanti ne vuole, si
accomodi, mi rispose dall’alto dei rami, e si mise a canticchiare
una strana melodia. E pensare che, a Tokyo, devi andare in
drogheria anche solo per comprare le scorze dei mandarini. A
sera, udii distinto un suono di campanelli. Quando chiesi cosa
fossero, sono i cacciatori che vanno a caccia di anatre, mi fu
risposto. Allora, passai di qui senza conoscere nemmeno i
caratteri per scrivere Nami.
Se quella donna fosse un’attrice, potrebbe essere un’eccellente
interprete del ruolo femminile 3. In genere, gli attori mettono a
frutto la loro arte quando vanno in scena. Quella donna, in casa,
recita col suo semplice esistere. E non sembra nemmeno che
reciti. Recita con la naturalezza di un genio. Si potrebbe dire che
abbia “il bel vivere” 4. Grazie a quella donna, ho un ottimo
materiale di studio per il disegno.
Non passa giorno che, finché non assisto alla danza recitata da
quella donna, non mi senta un velo a disagio. Che lo faccia per
dovere o per passione, o che sia un semplice ferro del mestiere,
3
Durante lo shogunato dei Tokugawa, alle donne era vietato recitare in pubblico. I
ruoli femminili erano coperti da attori maschi specializzati. Nell’era Meiji, questa
legge venne abrogata, ma era ancora comune che i ruoli femminili fossero coperti
da uomini.
4
Si riferisce a un breve essay del critico letterario Chogyuu Takayama (1871-1902),
美的生活を論ず– biteki seikatsu wo ronzu – “dialogare del bel vivere”, in cui
tratta dell’estetica esistenziale, da raggiungere attraverso l’edonismo e
l’individualismo.
148
se mi mettessi a studiare quella donna dal punto di vista di uno
scrittore qualunque, la troverei troppo provocante, e ne sarei
presto nauseato. Stando nel mondo reale, se dovesse crescere
quel seme di relazione intrecciato nello spazio fra me e lei, forse,
le parole per raccontarne il mio dolore non finirebbero mai. Nel
corso di questo mio viaggio, sono concentrato sul separarmi dalle
emozioni volgari, per diventare un pittore professionista, e
quindi, tutto quello che mi passa davanti agli occhi, devo vederlo
come fosse proprio un dipinto. Noh o kabuki che sia, devo
osservare tutto come fosse il personaggio di una poesia.
Sbirciando quella donna da dietro questi occhiali, quella donna
danzerà una danza molto più bella di qualsiasi donna abbia mai
visto fino a ora. Molto più bella della danza di qualsiasi attore che
non se la senta di dire, guardate quant’è bella la mia arte!
Non fraintendete questi miei pensieri. Anch’io, come membro
della società civile, la ritengo inappropriata, anzi, persino ribelle.
Ma la retta via è piena di curve, la virtù non è acqua, l’integrità
non la vendono un tanto al chilo e la moralità non è mai valsa
una vita. Farsene una ragione, per molte persone, è doloroso. Per
opporsi a questo dolore, bisogna aver sepolto da qualche parte il
piacere di sconfiggerlo. Che la si chiami pittura, poesia o danza,
questi sono solo differenti nomi dati al piacere che si cela nel
dramma. Se si riesce a gustarsela così, la recitazione diventa un
atto eroico, persino sublime, e sconfiggendo qualsiasi avversità,
colma il nostro petto con l’aspirazione massima. Dimentico dei
dolori della carne, senza stare a pensare alla scomodità della cosa,
praticando l’ascetismo, se fosse per il bene dell’umanità, troverei
divertente anche bollire in pentola. E se dovessi trovarmi in
piedi, in uno stretto angolo che si fa emotivo, a ridefinire cosa sia
l’arte, direi che l’arte è la cosa sopita nei nostri cuori di
gentiluomini istruiti, che evitano la malvagità per abbracciare la
giustizia, rifiutano le deviazioni per seguire la retta via, scampano
la debolezza per assumere forza, e quando proprio arrivano a
non farcela più, la cristallizzano in quell’unica scintilla di
determinazione, riflettendone finalmente l’abbacinante splendore.
149
Molti ridono degli atteggiamenti teatrali altrui. Ridono della
passione di chi compie sacrifici non necessari pur di realizzare le
proprie aspirazioni. Ridono dell’ossessione di chi si forza a ogni
modo di sviluppare il proprio talento, senza aspettare l’occasione
in cui si manifesta spontaneo. Ridere di chi riesce davvero a
comprendere sé stesso vale il fiato della risata. Ci sono certi
villani volgari che non hanno la più pallida idea di cosa sia il buon
gusto, che per non rovinarmi l’umore, non mi spreco neanche a
disprezzarli. C’era un giovane che lasciò il suo lamento sulla
sommità di una cascata alta cento metri, e si gettò nel precipizio.
Per come la vedo io, è una vita inestimabile gettata per una
splendida lettera. Certo, affrontare la morte è un atto eroico, solo
che è difficile capire i motivi che possono spingere al suicidio. E
per quanto sia difficile provare sulla pelle l’eroismo di affrontare
la morte, non si può ridere del gesto del giovane Fujimura.
Coloro che, non potendo assaggiare l’arte dell’affinare l’ultimo
coraggio, nemmeno se giustamente speso, sostengono che
quest’ultimo coraggio non si dovrebbe affinare mai, sono gente
assai più squallida del giovane Fujimura, e non hanno alcun
diritto di deriderlo.
Io sono un pittore. E anche in quanto pittore, sono un uomo di
buon gusto e, anche se il mondo emotivo mi considererà troppo
essenziale, assai più raffinato dei pragmatici di ogni latitudine.
Come membro della società, mi ritrovo nella posizione di un
educatore. Più di chi non sa poetare, di chi non sa dipingere, di
chi non ha un briciolo di arte, posso recitare con grazia. Nel
mondo emotivo, l’agire con grazia ha la sua forma, le sue regole,
il suo messaggio. Quel che si esprime con forma, regole e
messaggio è l’esempio seguito da ogni gente sotto al cielo.
Io, che mi sono allontanato dal mondo emotivo per un po’, in
questo viaggio, non ho il minimo bisogno di tornarvi. Se lo
avessi, questo viaggio lungamente atteso sarebbe vano. Non
posso lasciare che il mondo emotivo nasconda questa splendida
pepita sotto la frusciante sabbia che sto sfiorando. Non mi
obbligherò a tenere fede alle responsabilità di membro della
150
società. Come mero specialista della pittura, anche se solo per me
stesso, tagliando le trame che mi tengono attanagliato alle
necessità quotidiane, potrò realizzare facilmente i miei disegni. In
men che non si dica monti, fiumi e gente! E anche il
comportamento artificioso di Nami-san, non farò altro che
guardarlo e ricopiarlo così com’è.
Salendo un centinaio di metri, di fronte si vede un muro bianco.
Ah, c’è chi vive fra i mandarini, mi dico. La strada, senza
preavviso, si divide in due. Quando vedo il muro bianco piegare
sul fianco sinistro, girandomi, dal basso sale una ragazza che
porta una gonna rossa. Da sotto il bordo della gonna spuntano
caviglie color tè. Le caviglie finiscono nei sandali, e i sandali si
muovono svelti e vengono in qua. Sulla testa, quasi cadono i
ciliegi di montagna. Sulle spalle, porta il mare luccicante.
Risalendo sul sentiero che si inerpica aggrappato al fianco della
montagna, sono finito su un pianoro. A nord, un picco
tappezzato di erbe di primavera, così verdi che mi chiedo se non
l’abbiano coperto giusto stamane.
A sud, degli appezzamenti che si direbbero essere stati appena
ripuliti dalle sterpaglie, bruciandole, e che si estendono per
mezzo miglio, fino ad arrivare al fianco scosceso della roccia. Il
mandarineto si protende ora dal monte, e seguendo il villaggio
con lo sguardo, quel che entra negli occhi è, manco a dirlo,
l’azzurro mare.
Di strade ce ne sono a milioni, eppure, incontrandosi e
lasciandosi, lasciandosi e incontrandosi, chissà quante sono
considerate davvero importanti. Alcune non sono nemmeno
strade, ne fanno solo le veci. Una traccia bruna sull’erba, visibile a
tratti, che non lascia intuire cosa unisca, è intrigante proprio per
questo.
Senza acculacchiarmi da nessuna parte, vago qua e là sull’erba. E
anche questo panorama, che a guardarlo da fuori potrebbe essere
un bel quadro, penso, quando vengo al dunque non riesco a
fissarlo. Anche i colori cambiano ogni istante. E a furia di
151
sbirciare l’erba, a un certo punto m’è anche passata la voglia di
dipingere. E se non dipingo, non m’importa dove sto, e ovunque
mi sieda è casa mia. Il sole di primavera che si insinua fin nelle
radici più profonde dell’erba, quando si pianta il culo da qualche
parte, sembra come di calpestarne il miraggio invisibile.
Il mare brilla sotto ai piedi. Il sole di primavera, senza nemmeno
un filo di nube a fargli ombra, splende su ogni acqua, sì tèpido
che mi figuro il calore, sopito sul fondo, filtrare risalendo. Il
colore, un blu profondo che si sposta a chiazze, fa da tappeto a
pesciolini argentei che si muovono sottili. Il sole di primavera
brilla sotto un cielo smarginato, e sotto al cielo, veste smarginata
l’acqua, e fra loro, una bianca vela si scorge come l’unghia del
mignolo. Una vela che, peraltro, non si muove affatto. I velieri
che arrivavano da lontano tanto tempo fa dovevano sembrare
proprio come quella. E di tutto il mondo secolare, il resto è, al
più, quel mondo illuminato dal sole, quel mondo riflesso dal
mare.
Mi appisolo rannicchiandomi. Calandomi il cappello sulla
fronte, sono sereno come un Buddha Amida. A tratti, spuntano
dall’erba rigogliosi cespugli di cotogno5 alti fino ai fianchi. Ho
proprio posato la faccia davanti a uno di questi. Il cotogno ha dei
fiori intriganti. I rami ostinati non si piegano mai. Non che siano
poi davvero così dritti. È che da un corto ramo dritto si stacca un
altro corto ramo dritto, ad angoli sempre netti, e l’intero corpo
prende forma così. Lì, fiori rossi, oppure bianchi, tranquillamente
fioriscono. E anche qualche morbida foglia spunta qua e là. A
ben vedere, fra i fiori del cotogno ce ne sono di così folli che, si
direbbe, abbiano ottenuto l’illuminazione. Al mondo ci sono
quelli che, l’idiozia, la coltivano. Sono quelli che, nell’aldilà, si
5
152
Il termine originale è 木 瓜 – boke – detto “cotogno giapponese”, dal nome
scientifico Chaenomeles japonica. È un arbusto spinoso appartenente alla famiglia
delle rosacee, simile ai cotogni europei ma con infiorescenze più ricche e
colorate, generalmente rosso vivo, e con un fogliame più robusto, simile alle
foglie del biancospino, ma più piccole e rotonde.
reincarneranno in un cotogno. Anch’io vorrei diventare un
cotogno.
Quand’ero bambino e i cotogni erano in fiore e pieni di foglie,
mi era capitato di divertirmi a tagliarne e intrecciarne i rami. Con
i miei acquerelli da quattro soldi, giocavo a ritrarne le bianche
gemme seminascoste fra fiori e le foglie stese sul tavolo. Un
giorno, il cotogno dormiva leggiadro. Un altro giorno, come
svegliato controvoglia, di soprassalto, proprio mentre passavo
davanti al tavolo, coi fiori grinziti e le foglie secche, solo le
gemme avevano la luce di prima. Una cosa tanto bella, com’è che
può appassire così, nel giro di una sera, mi ero detto, dilemma
che, all’epoca, non sapevo sopportare. A ripensarci ora, a quel
tempo, ero assai più mondano.
Mentre sonnecchio un po’ controvoglia, il cotogno mi ricorda
della mia infanzia, vent’anni fa. Più lo osservo, più mi appisolo,
ed è una sensazione piacevole. E ancora, la poesia affiora.
Penso nel sonno. Compongo un verso alla volta, e lo fisso sul
libro dei miei pensieri. In breve, è tutto fatto. Provo a rileggerli
dall’inizio.
Son’ora fuor dall’uscio, e già penso molto.
Il verreo vento le vesti soffia in alto.
Selva l’erba cresce ne’ solchi sulla strada.
Nel sol sentiero fine scende la rugiada.
Fermo la verga, sugl’occhi la man posata,
mi bagna la brillante luce sfaccettata.
Odo tosto lo stormir d’allegri uccelli,
vedo petali scender liberi e libelli,
e gialli fiori di là dal fin della via,
e l’entro d’un tempio con su una poesia.
153
Contemplo il bordo delle nuvole alte
Nell’ampio cielo, le cicogne tornan svelte
Ma quant’è dolce questo filo di cuore!
Lo spirto ebbro m’oblia d’ogni dovere.
Ho trent’anni ma di ere ne vidi tante
e c’è una cosa che dico chiaramente
nel viaggio eterno verso l’ultima meta
degno di questi petali, sarò asceta.
Ecco, ce l’ho fatta, ce l’ho fatta! Con questo, ce l’ho fatta.
Guardando i cotogni nel sonno, dimentico dello stare al mondo,
ce l’ho proprio fatta. Senza stare a tirar fuori i cotogni, senza
stare a tirar fuori il mare, tirar fuori il sentimento basta e avanza.
Mentre mi dicevo così, annuendo e congratulandomi con me
stesso, udii un “ehm ehm” di chi si schiarisce la voce. Che
sorpresa!
Svegliandomi e guardando là da dove arrivava il suono, da
dietro la montagna, uscendo dal boschetto ceduo, è spuntato un
uomo.
Ha addosso un kimono color tè. Il kimono è assai sformato, e
sotto le pieghe del bavero si intravedono dei buchi, tipo occhi.
Che forma abbiano gli occhi non si capisce bene, ma di certo si
guardano intorno guardinghi! Con una cintura blu che gli gira
dietro al culo, e i piedi nudi infilati negli zoccoli, non ha nulla che
sia in ordine. E basterebbe la barba incolta per farlo passare per
un brigante.
L’uomo si ritrasse, come se stesse decidendo se scendere per il
fianco scosceso o girare dall’altra parte. Tanto che mi chiesi se la
strada per cui ero venuto fosse sparita, ma non era così. Alla fine,
riprende il passo verso me. Non ci dev’essere poi tanta gente che
va a passeggio sulla stradina che passa in questa radura. E poi, ha
l’aria di uno che passeggia? Non mi sembra nemmeno uno dei
154
tipi che vivono da queste parti. Ogni tanto, l’uomo si ferma. Si
allunga sulla strada. Oppure si guarda intorno. E sembra anche
molto assorto. Ha l’aria di aspettare qualcuno. Non capisco
proprio.
Non riuscivo a distogliere i miei occhi da questo uomo volgare.
Non che facesse paura, ma non si può nemmeno dire che mi
andasse di dipingerlo. Semplicemente, non potevo girare lo
sguardo. Da destra a sinistra, da sinistra a destra, mentre seguivo
l’uomo che faceva muovere i miei occhi, l’uomo si fermò. E allo
stesso tempo, un’altra persona si infilò nel mio campo visivo.
I due, come per accertarsi a vicenda di chi siano, si avvicinano a
turno l’uno all’altro. Io stringo pian piano il campo visivo, che si
concentra sul piccolo suolo al centro esatto della piccola radura. I
due, con la montagna di primavera alle spalle, e in fronte il mare
di primavera, si rivolgono improvvisamente l’uno verso l’altra.
L’uomo è di certo un brigante. E chi gli sta di fronte? Chi gli sta
di fronte è una donna. È Nami-san.
Appena ho riconosciuto Nami-san, mi è subito corso il pensiero
al pugnale di stamane. Come mi sono chiesto, non l’avrà ancora
sotto le vesti, in me, che finalmente ero riuscito a essere inemotivo,
è corso un brivido.
L’uomo e la donna, rivolti l’uno verso l’altra, per un po’ stanno
in piedi con lo stesso piglio. Non mostrano di volersi muovere.
Non so nemmeno se stanno muovendo la bocca, ma non li sento
parlare. A un certo punto, l’uomo piega il collo. La donna si gira
verso il monte. Il volto entra nei miei occhi.
Sul monte, un usignolo piange. Riesco a vedere che la donna gli
presta orecchio. Dopo un po’, l’uomo alza di scatto il collo
piegato, e fa per girare i tacchi. Senza dare l’idea di voler
accomiatarsi. La donna aggiusta la sua posa rivolgendosi al mare.
Dalla fascia che usa per cintura, quel che spunta sembra essere
l’elsa di un pugnale. L’uomo ha uno scatto d’orgoglio mentre si
avvia. La donna gli concede giusto due passi, e inizia a seguirlo.
Lei indossa dei sandali di paglia. L’uomo si ferma, sarà forse
155
perché lei lo ha chiamato? Nell’istante in cui si volta, la mano di
lei scende verso la fascia. Attento!
Quello che sfila lentamente non è il coltello di trenta centimetri
che avevo in mente, ma un sacchetto, un portasoldi. Sotto alla
bianca mano tesa, un lungo filo 6 ondeggia indolente nel vento di
primavera.
Appena sporto innanzi, tenuto giusto sopra i fianchi dalla
sinistra, bianca, il cui polso spunta appena, il drappo vermiglio.
Ecco, questo è un aspetto che potrei disegnare.
Quest’uomo, coperto per appena un palmo dal vermiglio che gli
si frappone, il suo esitare nel voltarsi del tutto, lo comprendo
bene. Pur senza esserne coinvolto, penso alle parole che ben
potrebbero dar forma a questo istante. È la forma di una donna
che tende ad avanzare, e di un uomo che tende a ritrarsi. Ma in
realtà non avanzano, né si ritraggono. Il confine che li separa
inizia all’improvviso là, dove finisce il filo del sacchetto.
Mentre mi chiedevo come preservare la strana armonia delle
forme di quei due, mi resi conto del contrasto fra i loro volti, e
fra le loro vesti, e la voglia di ritrarli andò crescendo.
La schiena corta ma solida, la sottile barba nera, il volto affilato,
il collo lungo, le spalle spioventi, in complesso, un aspetto
delicato. Un contrasto evidente con gli zoccoli adatti a sostenere
il corpo di un brigante, e la veste dimessa, di seta grezza, tirata
fino a coprire appena la vita.
L’uomo tende la mano e prende il sacchetto. La posa che
permetteva di apprezzare la diversità di chi tira e chi è tirato si
sbriciola all’istante. La donna non tira più, e l’uomo non sembra
più tirato. Nonostante sia un pittore, non mi era mai capitato
prima di voler, più che rendere in disegno l’aspetto psicologico,
ritrarre l’impressione lasciata.
6
156
Il termine usato per la parola “filo”, 紐 – himo – si usa anche, o soprattutto, per
riferirsi a un uomo che sfrutta una donna per farsi mantenere.
I due si lasciano andando in direzioni opposte. Di loro non resta
traccia, e quindi ritrarli è impensabile. Mentre entrava nel
boschetto ceduo, l’uomo si era girato una volta. La donna,
invece, non si era voltata. Lenta lenta, cammina in questa
direzione. E, finalmente, giunta di fronte a me:
«Maestro, maestro!»
mi chiamò con queste due parole. E se aveva fatto così, chissà
da quando mi aveva visto.
Con un «che c’è?», tiro fuori la faccia dai cotogni. Mentre mi
cade il cappello sull’erba.
«Che ci fai laggiù?»
«Dormivo poetando.»
«Non dire balle. Hai visto quel che è successo, giusto?»
«Quel che è successo? Quel che è successo... intendi quello?
Beh, sì. Ho assistito un poco.»
«Hohohoho, altro che poco, sarebbe stato meglio tu avessi visto
molto.»
«A dire il vero, ho assistito molto.»
«Ecco, vieni a vedere. Dai, vieni qui. Salta fuori dai cotogni.»
Approvando l’idea, salto fuori dai cotogni.
«Hai ancora qualcosa da fare fra i cotogni?»
«Non più. Stavo giusto pensando di rientrare.»
«E allora, rientriamo insieme?»
«Sì.»
Approvando
nuovamente,
ritraendomi
dai
cotogni,
rimettendomi il cappello, sistemando l’attrezzatura, mi metto a
camminare assieme a Nami-san.
157
«Vostra Grazia è forse riuscito a dipingere7?»
«Ci ho rinunciato.»
«Da quando sei qui non hai ancora disegnato nulla, o sbaglio?»
«Già.»
«Però, dopo aver fatto tanto per venire qui, sarebbe un peccato
non dipingere almeno qualcosina, eh?»
«Macché.»
«Ah no?... E perché?»
«Beh, ecco, perché porto tutto con me. Che disegni o no, porto
via le stesse cose.»
«Ah, ma così non vale, hohohoho sei assai spensierato, eh?»
«Proprio perché sono venuto in un posto come questo, se non
fossi spensierato, non sarebbe una disgrazia?»
«Ma che dici, ovunque tu sia, vivere spensierati non è mai una
disgrazia. ad esempio, anche se qualcuno mi vedesse nella
situazione di poco fa, penso che non me ne vergognerei per
niente.»
«Non bisognerebbe pensarlo.»
«Dici? Il tipo di prima, chi diamine pensi che fosse, Vostra
Grazia?»
«Non saprei. Di sicuro, non era un riccone.»
«Hohoho, ci hai preso in pieno. Devi essere un grande
indovino! Quello lì è un poveraccio, e siccome dice che non si
può stare in Giappone senza soldi, viene a chiederli in prestito a
me.»
«Ah... e da dove viene?»
«Dalla città.»
7
158
Nami alza di alcuni gradi la formalità del discorso, per un paio di frasi. La veloce
escursione nel tono super-formale sembra un po’ scherzosa.
«Assai lontano... e poi, dove va?»
«Mi sa che finirà in Manciuria.»
«E che ci va a fare?»
«E che ci va a fare... a raccattare un po’ di soldi, o a morire, chi
lo sa.»
A questo punto spalancai gli occhi e guardai un po’ il volto della
donna. Ora, le labbra sono tese in un’ombra di sorriso che sta
svanendo. Non ne capisco il motivo.
«Quello è mio marito.»
Più improvvisa di un tuono arrivato prima del lampo, la donna
mi tirò questa sciabolata. E io accusai il colpo inatteso.
Ovviamente, non mi andava di sapere altro, e va da sé che la
donna non pensava nemmeno di spiegare oltre.
«E allora? La cosa dovrebbe sorprenderti.»
«Già, mi ha un po’ sorpreso.»
«Non è il mio attuale marito; siamo divorziati.»
«Capisco... e quindi...»
«E quindi niente.»
«Beh, allora... – C’è una casa nel mandarineto, con quei bei muri
bianchi. È proprio una bella posizione, mi chiedo chi ci abiti.»
«È casa di mio fratello. Devo fare una piccola deviazione per di
lì, prima di rientrare.»
«Hai qualche affare da sbrigare?»
«Sì, mi hanno chiesto di fare una piccola commissione.»
«Ti accompagno.»
Girando per il viottolo che sale fuori dal villaggio, e subito piega
a destra, dopo essere saliti ancora per circa mezzo chilometro, c’è
un cancello. Senza indugiare sulla soglia, ci addentriamo nel
giardino. La donna deve conoscerlo bene, e procede sicura,
quindi anche io procedo sicuro come un conoscente. Nel
159
giardino che guarda a sud ci sono tre o quattro palme, e oltre il
muro a secco c’è un mandarineto.
La donna poggia il sedere presso un’aiuola e dice:
«Che bel panorama. Guarda!»
«Davvero, è proprio bello!»
Da oltre i pannelli tutto tace, si direbbe non ci sia nessuno.
Anche la donna, non ha l’aria di voler fare alcun rumore. Stiamo
semplicemente acculacchiati lì, guardando dall’alto il
mandarineto, in pace. Mi sembrò strano. Chissà cos’era questa
commissione.
Siccome non c’era niente da dire, ce ne stavamo entrambi muti
a fissare il mandarineto. Il sole, che si va posando nel meriggio,
bagna il fianco dei monti con raggi ancor più tiepidi, e le foglie
dei mandarini che indugiano negli occhi, brillano per la foschia
che si leva sullo sfondo. E finalmente, i galli in un’aia nascosta
cantano il loro chicchirichì.
«Ma tu guarda, s’è fatto mezzogiorno, eh? Mi ero dimenticata
della mia commissione. Kyuuichi-san, Kyuuichi-san!»
La donna, sporgendosi per chiamare, scosta rumorosamente i
pannelli chiusi. L’interno è un vuoto spazio di dieci tatami, un
drappo su cui sono dipinte scene campestri a decorare
inutilmente le assi di primavera.
«Kyuuichi-san!»
Dall’interno viene finalmente una risposta. Il rumore di passi si
ferma oltre il pannello interno, che si apre rumorosamente, forse
troppo in fretta, e il pugnale che stamane era inguainato nella
shirasaia, rotola sul tatami.
«Eccoti il regalo di commiato del nonno!»
Non mi ero accorto nemmeno che avesse infilato la mano nella
fascia. Il pugnale rimbalza due o tre volte, per correre sul tatami,
silenzioso, ai piedi di di Kyuuichi. Il fodero doveva essere un po’
largo, poiché, rilucendo, qualcosa lungo un dito, freddo, brillò.
160
13
Accompagno Kyuuichi-san in battello, fino alla stazione di
Fukuta. Quelli che siedono in barca sono l’accompagnato
Kyuuichi-san, l’accompagnatore nonno, Nami-san, il fratello
maggiore di Nami-san, il facchino Genbei e poi io. Che,
ovviamente, sono stato invitato per cortesia.
E se mi invitano per cortesia, accetto. Accetto anche se non ne
capisco il senso. In un viaggio inemotivo, non si fanno
complimenti. Il battello è piatto come una zattera con un
parapetto. Il vecchio sta in mezzo, Nami-san e io siamo stati
messi a poppa, e Kyuuichi-san e il fratello maggiore siedono a
prua. Genbei sta da solo con i bagagli.
«Kyuuichi-san, ti piace combattere1?» chiede Nami-san.
«E che ne so, finché non provo... Sicuramente sarà dura, ma
potrebbe esserci anche qualcosa di piacevole.» dice Kyuuichi-san,
che non sa nulla della guerra.
«Per quanto sia dura, è per la patria.» dice il vecchio.
«Adesso hai un pugnale, non ti viene voglia di andare in guerra?»
la donna chiede questa strana cosa. E Kyuuichi:
«Eh già.» risponde inclinando leggermente il capo. Il vecchio
ride accarezzandosi la barbetta. Il fratello fa finta di niente.
1
Nami abbandona il suo usuale stile femminile nel parlare, detto chiwa, e si rivolge
a Kyuuichi come farebbe un uomo.
161
«E pensi che combattere sia una cosa tanto facile?» risponde la
donna a Kyuuichi-san, e incurante della forma, gli pianta il viso
tinto di bianco in faccia. Kyuuichi-san scambia un veloce sguardo
col fratello di lei.
«Se Nami-san fosse un soldato, sarebbe assai forte.» sono le
prime parole che il fratello rivolge alla sua sorella minore. A
giudicare dal tono di voce, non si direbbe stia solo scherzando.
«Io? Io un soldato? Già, sarebbe meglio fossi diventata un
soldato. Così, adesso, sarei già morta. Kyuuichi-san. Anche tu,
sarebbe meglio tu morissi. Tornare vivi alimenta brutte dicerie.»
«Ma che ti salta in testa... su, su, torna vittorioso! Che non si
serve la patria solo da morti. Anch’io ho intenzione di vivere altri
due o tre anni. Ci rivedremo.»
Quando il vecchio allunga la coda delle parole, la loro fine si fa
sottile e si perde in un filo di lacrime. Ma da uomo, non lascia
emergere oltre il suo dolore. Kyuuichi-san, senza dire nulla,
voltandosi da una parte, guardò verso la riva.
Sulla riva ci sono dei grandi salici. Sotto, c’è legata una
barchetta, e un tizio che guarda intento la lenza. Quando la nave
della nostra compagnia, tirandosi dietro le onde, gli passò
davanti, l’uomo alzò distrattamente il volto, incontrando lo
sguardo di Kyuuichi-san. Fra i due che si scambiano lo sguardo,
non scocca nessuna scintilla. L’uomo pensa solo ai pesci. Nella
testa di Kyuuichi-san non c’è posto nemmeno per un’alborella.
La nave della nostra compagnia sfila oltre a Tai Koubou 2.
2
162
太 公 望 – Tai Koubou – in Cinese Tai Gongwang – Personaggio leggendario, si
narra che passasse tutto il tempo a pescare in riva al fiume, certo che, un giorno,
avrebbe avuto una gran fortuna. E un giorno, un re che passava di lì col suo
seguito, si fermò a discutere con lui di politica e di filosofia, restando talmente
impressionato da quell’uomo che lo volle assumere come suo ministro.
Chissà quante centinaia di persone passano per il Nihonbashi 3
ogni minuto. Se, stando in piedi sulla cuspide del ponte, si
potesse ascoltare ogni singola angustia che si annida nei loro
cuori, il mondo fluttuante difficilmente potrebbe continuare a vivere
assorto. È proprio perché si incontrano persone sconosciute, e
persone sconosciute si lasciano alle spalle, che alla fine, sul ponte,
spunta sempre qualche candidato a sventolare la bandiera del
tram4. Tai Koubou, il volto di Kyuuichi, sul punto di piangere,
non cerca nemmeno di spiegarselo, e questa è la sua fortuna.
Quando mi volto a guardarlo, osserva le onde tornate tranquille.
Mi sa che ha intenzione di continuare a osservarle finché dura la
guerra sino-giapponese.
L’argine non è particolarmente ampio. Il fondale è basso. La
corrente è placida. Seguendo gli argini, scivolando sull’acqua, mi
chiedo fin dove andremo, là dove si esaurisce la primavera, dove
la gente schiamazza, desiderosa di ribollire assieme. Il flebile
sentore di una goccia di sangue segna lo spazio fra le sopracciglia
di questo giovane che, sfrontatamente, trascina la nostra
compagnia. Il filo del destino trascina questo giovane verso un
lontano, oscuro, spaventoso Paese del nord, e per questo, il fato
di un certo giorno, un certo mese, un certo anno, che ci
attorciglia a questo giovane, ci costringerà a seguirlo fino a che,
questo fato, non si esaurirà. E quando il fato si esaurirà, con uno
sbuffo nello spazio che lo separa da noi, senza chiederci il
permesso, lo riconsegnerà nelle mani del destino. E anche noi
che rimaniamo, dovremo rimanere senza che ci sia chiesto il
permesso. Che lo desideriamo, o che lo aborriamo, non potremo
che essere trascinati.
3
Letteralmente “Ponte del Sol Levante”, era il ponte al centro della città di Edo,
poi Tokyo, che connetteva tutte le strade più importanti del Paese.
4
Sui primi tram a trazione elettrica, un addetto sventolava una bandiera per
chiedere strada ai passanti. Qui sta a significare che c’è sempre chi, pur non
avendo alcun reale potere, si agita per mostrare quell’unica briciola di autorità che
gli è stata concessa, scaricandola su chi, incolpevole, gli sta di fronte.
163
La nave scivola stranamente placida. Eh sì, su ambo le sponde
crescono le canne. Sopra ai terrapieni si vedono molti salici. Fra
di essi, spuntano basse case dai tetti di paglia. E spuntano finestre
sporche. E alle volte, spunta qualche anatra bianca. Le anatre
cantano gaa, gaa, e vanno fino in mezzo al fiume.
Quelli che rilucono abbaglianti a tratti fra i salici, devono essere
albicocchi. Si sente tonkan, tonkan, il battere dei telai. Nelle pause
fra i tonkan, il canto delle donne, haai, iyooo, risuona sull’acqua. Ma
cosa cantino, proprio non lo capisco.
«Maestro, la prego, mi ritragga!» mi chiede Nami-san. Kyuuichisan e il fratello parlano fitto dell’esercito. Il vecchio ha iniziato a
sonnecchiare.
«Scriverò per lei.» rispondo tirando fuori il blocco da disegno,
Che firma porta
il vento satinato
di primavera?
provo a scrivere. Ridendo, la donna:
«Una pennellata come questa non basta di certo! La invito a
ritrarre le mie sfumature con maggiore attenzione.»
«Anch’io vorrei farlo... ma il suo volto non basta per farne un
disegno.»
«Oh, ma quale franchezza! E allora come posso fare per farmi
ritrarre?»
«Beh, potrei ritrarla anche subito, sa... il fatto è che manca
qualcosa. Disegnarla fintanto che non esce, sarebbe un peccato.»
«Manca qualcosa? Beh, mi spiace, ma sa, con questa faccia ci
sono nata...»
«Il volto con cui si è nati può variare molto.»
«A proprio piacimento?»
«Già.»
164
«Ma sì, trattami da scema giusto perché sono donna!»
«È proprio perché sei una donna che dici queste scemenze.»
«Ah, è così, eh? E allora fammi vedere quanto varia il tuo
volto.»
«Il mio volto cambia tutti i giorni, anche troppo.»
La donna tace e si gira dall’altra parte. Alle sponde, titubanti,
giungono i campi che, a perdita d’occhio, si fanno via via più
uniformi. Qua e là gocce scarlatte, come sciolte dalla pioggia nel
mare di fiori, si stingono nella foschia, allargandosi
indefinitamente, e nel vuoto che le sovrasta, si staglia la punta di
un picco che soffia appena le nubi di primavera.
«Tu sei passato da quella montagna.» dice la donna, tendendo la
mano bianca oltre il parapetto a indicare quel sogno di montagna
in primavera.
«La Roccia del Tengu è da quelle parti?»
«Dev’essere sotto a quel folto verde, dove si vede un po’ di
rossiccio.»
«Quel posto in ombra?»
«Ma sarà un’ombra? Mi sembra che sia solo spoglio.»
«Ma va, è una rientranza. Fosse spoglio, si vedrebbe assai più
marrone.»
«Ah, davvero? a ogni modo, penso sia là dietro.»
«Allora, Sette Curve è un po’ sulla sinistra, giusto?»
«Sette Curve è di fronte, molto più lontano. Dopo quel monte, è
l’altro monte ancora.»
«Ah, vedo, vedo. Allora, occhio e croce, dev’essere là, sotto
quella sottile nuvola.»
«Sì, la direzione è circa quella.»
Il vecchio appisolato si sveglia sussultando, quando il suo
gomito scivola oltre la ringhiera.
165
«Non siamo ancora arrivati?»
e si stiracchia tirando fuori il petto, il gomito della destra
indietro, e stendendo la sinistra dritto di fronte, sembra fare
come un arciere. La donna ride, hohoho.
«Oh, scusate, è una mia abitudine...»
«Le piace tirare con l’arco?» chiedo sorridendo.
«Da giovane tiravo con l’arco lungo 5. Ancora adesso, anche se
non si direbbe, non me la cavo niente male.» dice battendosi la
spalla sinistra. A prua ferve un consiglio di guerra.
La nave entra in un’area che dev’essere già città. Si vede una
trattoria con su scritto “aperitivi” sui pannelli. Si vede una
tendina di corde vecchio stile. Si vede una legnaia. Ogni tanto si
sente perfino il suono di qualche risciò. Le rondini volano
pigolando e girando sulla pancia. Le paperelle piangono gaa, gaa.
Abbandonando la nave, la nostra compagnia si dirige alla
stazione.
Finalmente, sono stato ritrascinato nel secolo corrente. E
chiamo “secolo corrente” il posto da cui si può vedere il treno. Il
treno a vapore è certo la cosa più rappresentativa del ventesimo
secolo. Centinaia di persone stipate in una scatola e trasportate.
Senza compassione. La gente stipata... tutta con la stessa velocità,
tutta verso la stessa stazione, tutta egualmente allietata con lo
stesso vapore. Si dice che le persone salgono sul treno. Io dico
che sono ammucchiate. Si dice che le persone vanno in treno. Io
dico che sono caricate. Non c’è nulla irrispettoso per la
personalità quanto il treno. La civiltà esalta il singolo come mai
prima, e come mai prima, cerca di calpestare la personalità in
ogni modo possibile. Quel che ci dona un fazzoletto di terra, e ci
dà la libertà di dormirci o starci svegli è la civiltà moderna. Ma,
5
166
Cita esplicitamente l’arco più grande e pesante fra quelli usati tradizionalmente in
Giappone: 七分五厘 (sette bun/cinque ri), un arco lungo circa un metro e mezzo
e dalla sezione di oltre due centimetri.
allo stesso tempo, quel che ci costruisce attorno uno straccio di
ringhiera, e ci minaccia di non fare un passo oltre, è sempre la
civiltà odierna. I miserevoli cittadini della civiltà, giorno e notte,
mordendo questa gabbia, ruggiscono. La civiltà, dopo aver dato a
tutti tanta libertà da renderli fieri come tigri, li getta in una
gabbia, per preservare la pace nel mondo. Ma questa pace non è
una vera pace. È come la pace della tigre che guarda con odio i
visitatori dello zoo, mentre pisola. E se si sfilasse anche solo una
sbarra... il mondo finirebbe a scatafascio. Ci sarebbe una seconda
rivoluzione francese. La rivoluzione personale va avanti giorno e
notte. Il grande occidentale Ibsen usò sé stesso come esempio
dettagliato. Quando guardo la feroce corsa del treno a vapore,
che, senza distinzione, tiene in animo le persone come tutte
uguali, e considero i singoli stipati su ogni ruota, quelle ruote di
ferro che non pongono un millimetro di attenzione ai sentimenti
di ognuno... qui va a finire male. Penso che se non stiamo attenti,
finiremo nei guai. La società moderna è colma fin sopra ai capelli
di questi pericoli. Il treno che corre alla cieca, dritto nell’oscurità,
ne è una metafora.
Ho pensato alla teoria del treno mentre mi guardo attorno, con
le chiappe posate nella sala da tè di fronte alla stazione. Non vale
nemmeno la pena di fissarla sul mio blocco, quindi mangio i
dolcetti e bevo il tè in silenzio.
Una coppia se ne sta seduta al tavolinetto dall’altra parte.
Indossano entrambi sandali di paglia e pantaloni da lavoro, il
primo di color mattone, e l’altro, che li indossa di color
paglierino, si sfiora lì dove gli arrivano ai fianchi.
«Mi sa che sono messo proprio male.»
«Mi sa di sì.»
«Sarebbe bello avere due stomaci, come le vacche.»
«Già, se ne avessimo due, e uno si rompe, si potrebbe tagliare
via e saresti a posto.»
167
Pare che questo contadino sia malato di stomaco. Questi due
non conoscono che odore ha il vento che soffia in Manciuria.
Non si rendono conto di quali danni porti la civiltà moderna.
Non sapranno nemmeno con che caratteri si scrive
“rivoluzione”. Anzi, non sanno nemmeno se hanno uno o due
stomaci. Tirai fuori il blocco da disegno, e ritrassi la forma di
quei due.
Suona la campanella, tintillando. Il biglietto, già lo abbiamo
comprato.
«Via, andiamo» Nami-san si alza.
«Agl’ordini!» si alza anche il vecchio. La compagnia si trasferisce
in blocco sulla banchina. La campanella suona insistente.
Ruggendo “goo”, sui binari che luccicano di bianco, il serpentone
della civiltà arriva strisciando. Il serpentone della civiltà, dalla
bocca, sputa fumo nero.
«E quindi, ci separiamo.» dice il vecchio.
«Beh, abbiate cura di voi.» risponde Kyuuichi, chinando il capo.
«Mi raccomando, muori un pochettino!» ripete Nami-san.
«Ma le valigie che fine hanno fatto?» chiede il fratello.
Il serpente si ferma davanti a noi. Le porte sui fianchi si
spalancano. La gente esce, e poi entra. Kyuuichi è salito. Il
vecchio, il fratello, Nami-san e pure io stiamo lì in piedi.
Quando le ruote si muoveranno appena, Kyuuichi non sarà più
del nostro mondo. Andrà in un mondo lontano lontano. In quel
mondo, gli uomini si muovono nell’olezzo della polvere da sparo.
Rotolano scivolando su qualcosa di rosso. Il cielo grida forte
dodon, dodon. Mentre, sul treno che lo porterà in un luogo così,
Kyuuichi sta in piedi e tace, noi lo osserviamo. Noi, trascinati giù
dalla montagna con Kyuuichi, rompiamo qui il destino che ci ha
trascinati. Appena oltre le porte e i finestrini del treno, appena ci
guardiamo in volto, appena si frappone giusto un metro fra le
168
persone che vanno e quelle che restano, il destino già inizia a
sfilacciarsi.
I controllori chiudono frettolosamente le porte del treno,
correndo verso di noi. Mano a mano che le porte si chiudono, la
distanza fra le persone che vanno e quelle che restano si fa
lontana. Alla fine, anche la porta della carrozza di Kyuuichi viene
chiusa frettolosamente. Inconsapevolmente, il vecchio allunga il
collo verso il finestrino. Il giovane tira il collo fuori dal finestrino.
«Attenzione! Si parte!» dice una voce dal basso, e il treno,
insensibile, con le ruote sferraglianti, inizia a muoversi. I
finestrini ci passano davanti uno a uno. Mentre il volto di
Kyuuichi si fa piccolo, quando l’ultima carrozza della terza classe
mi passava davanti, un altro volto uscì dal finestrino.
Sotto un berretto consunto color tè, un brigante dalla barba
incolta e dall’aria affranta allungò il collo. In quel momento,
Nami-san e il brigante, sovrappensiero, incrociarono lo sguardo.
Le ruote di ferro procedono sferragliando. Il volto del brigante
scomparve. Nami-san guarda incantata il treno che si allontana. E
in quell’incanto, stranamente, affiorò un’espressione di
“struggimento”, che non avevo mai visto prima.
«Ecco! Ecco! Ora che è emersa, posso ritrarti!» battendo la
spalla di Nami-san, dico a bassa voce. Poiché, l’immagine che
avevo nella mente, in quell’istante improvviso, si fece completa.
169
Esegesi
1
Il primo capitolo introduce il piano dell’opera, sia
esplicitamente, con l’autore-protagonista che ci racconta il suo
progetto, che implicitamente, attraverso la narrazione degli
eventi.
Fin da subito, sappiamo che il viaggio non è fine a sé stesso, e
non è nemmeno intrapreso al fine di raffinare la propria arte e
trovare nuovi soggetti da dipingere. È un viaggio di crescita
personale, alla ricerca non tanto di una vita migliore, ma di un
migliore modo di vivere. L’ipotesi è che, epurando le emozioni
dalla necessità di vivere, anzi, studiandole come un osservatore,
come un tecnico che, le emozioni, non le vive, ma le analizza, le
gusta, le assapora raffinandole senza subirle, ma semplicemente
guardandole passare, senza trepidazione nell’attesa, e senza
rimpianto nell’abbandono, si raggiunga uno stato d’animo
perfetto, una felicità non effimera, ma eterna.
Ma, già nella teoria tratteggiata nell’introduzione, il protagonista
non si nasconde le difficoltà che incontrerà nel provare la sua
ipotesi. Infatti, nella seconda parte del capitolo, nella narrazione
degli eventi, vediamo il protagonista che, queste emozioni che
potrebbero anche risultare poetiche, se sublimate, le subisce
senza alcuna possibilità di estraniarsi. La realtà fenomenica,
indifferente ai suoi desideri, non si piega a essere ridotta a un
mero fatto estetico, e lo colpisce in tutta la sua forza.
Il tema richiama la filosofia Zen, per la quale riconoscere la
vacuità della realtà percepita dai nostri sensi è il primo passo per
l’illuminazione. Facile in teoria, difficilissimo nella pratica. Del
resto, Souseki fu istruito in un monastero Zen durante l’infanzia,
e studiò questi principi filosofici approfonditamente. Ma al
concetto di illuminazione, Souseki sostituisce un concetto più
mondano, quello dell’estèsi, ossia della bellezza intrinseca, fine a sé
stessa e autosufficiente, che non ha bisogno di essere stimata,
173
valutata e confrontata. Esiste come principio assoluto, e può solo
essere riconosciuta, o trovata, se cercata a fondo.
Altro tema che sarà caro a Souseki per tutto il resto dell’opera è
il confronto fra l’arte occidentale e quella orientale. Anche qui,
l’artificio di aver scelto un artista, e in particolare un pittore,
come protagonista, torna molto utile: il protagonista è libero di
criticare gli altri artisti, in genere, sul piano meramente estetico,
ma alle volte con piglio e competenza tecnica. In un opera che si
prefigge lo scopo nemmeno tanto velato di cambiare il paradigma
letterario dominante all’epoca, la possibilità di scendere sul
tecnico, se necessario, deve aver molto allettato l’autore.
Ma, contrariamente a quanto colto da molti critici occidentali, e
persino da molti traduttori, Souseki non critica l’arte occidentale.
Non l’ammira, anche se possiamo intendere che non la trova
affatto deludente, ma il suo obiettivo sono i suoi colleghi
connazionali contemporanei. Allo scopo di colpirli, alle volte,
sembra quasi attaccare l’arte tutta, senza risparmiare quella
occidentale, ma in realtà si tratta di un artificio retorico, chiaro
per i suoi lettori, un po’ meno per gli occidentali.
Souseki accusa direttamente i suoi colleghi-avversari del
movimento dell’ukiyo, e lo fa rivolgendosi direttamente al
“mondo fluttuante”, senza mai riconoscergli la dignità di
“movimento”, o nemmeno di “stile”. Tratta la parola ukiyo come
tratta qualsiasi altro termine composto di “mondo” (come in
“stare al mondo”, o “il mondo della gente” ecc.), quasi come se
volesse far finta che il lettore distratto possa non accorgersi dei
riferimenti diretti ai suoi avversari, quasi come fingesse di aver
nascosto il vero significato con delle metafore, che in realtà non
sono mai abbastanza sottili da poter essere fraintese, nemmeno
dai suoi lettori contemporanei meno preparati.
Tutto il passaggio che inizia dalla poesia in Inglese e finisce con
“Menomale che nella poesia orientale c’è qualcosa in grado di
trascendere”, parrebbe quasi una critica all’arte occidentale, ma
proprio verso la fine, ecco la stoccata, doppia, che fa cadere tutto
174
il discorso sui poeti giapponesi: l’uso del termine “詩歌” – shika
– per indicare la poesia: si tratta di una parola che si riferisce
esclusivamente a un certo tipo di poesie scritte in Giapponese.
Sarebbe come se, lanciandosi in una critica della poesia in
generale, magari dopo aver citato qualche verso di Shakespeare,
si chiudesse il discorso con qualcosa come: “e quindi, fra i sonetti
non ce n’è nessuno che meriti”. La parola “sonetto” riferebbe
tutto il discorso, che l’autore aveva finto essere generico, alla
poesia italiana.
Se questo non bastasse, ecco il “mondo fluttuante” citato
immediatamente dopo. Per il lettore Giapponese, la seconda
conferma che la critica non era rivolta alla letteratura occidentale,
e nemmeno alla letteratura in generale, è come il colpo di grazia.
Tanto più che Souseki affonda su un corpo ormai esanime il suo
“Menomale che nella poesia orientale c’è qualcosa in grado di
trascendere”, seguito da una poesia in Cinese nel testo originale.
Quell’ “orientale”, quindi, non era certo da intendersi come
“giapponese”, caso mai fosse venuto il dubbio. Un dubbio
difficile da farsi venire, a dire il vero, dato che un Giapponese
dell’epoca avrebbe sicuramente usato termini più diretti, se
avesse inteso parlare dell’arte dei suoi connazionali: mentre, per
un lettore occidentale, oggi, l’aggettivo “orientale” include
certamente anche il concetto di “giapponese”, per un lettore
giapponese dell’epoca lo stesso aggettivo usato in quel contesto,
avrebbe sicuramente comunicato un senso di “tutti gli asiatici
meno che noi”.
La ricerca dell’estèsi, la critica dell’ambiente artistico giapponese
contemporaneo e la presentazione della nuova tecnica narrativa,
da considerarsi preferibile per raccontare il secolo entrante, sono
i tre temi centrali dell’opera. Certo, come ogni grande scrittore,
Souseki non si limita a questo; tocca altri temi, anche importanti,
come la situazione politica, la cronaca del tempo, il rapporto fra il
mondo rurale e quello cittadino, il rapporto fra il Giappone
feudale e la modernizzazione a tappe forzate, e certo, anche il
175
rapporto fra uomini e donne. In questo romanzo c’è spazio
anche per l’amore. Solo un cenno, appena una pennellata di
acqua di mare stinta sul rossetto prelevato dalle labbra di lei,
come quella dipinta dal pittore di Baricco, ma c’è. Una pennellata
tanto sottile che, a molti traduttori, è sfuggita.
E tutto questo, avvolto in un sottile umorismo esistenziale, che
ti fa appena piegare l’angolo della bocca, che alleggerisce tutto del
peso di appena una piuma, ma anche il peso di una piuma,
moltiplicato per il tutto che alleggerisce, diventa qualcosa di
molto importante.
2
Questo capitolo descrive il protagonista intento ad iniziare il suo
percorso di allenamento all’inemotività. Il capitolo è diviso in tre
parti (senza però un confine netto); nella prima, il protagonista
riguadagna un luogo asciutto e passa dallo stato d’animo
sconfortato della fine del primo capitolo, dove subisce la natura,
a uno stato sereno, nel quale riprende il suo proposito di
ammirare il mondo come se fosse un quadro. Nella seconda
parte, il protagonista dialoga con la proprietaria della sala da tè, la
disegna, prova a mettere in poesia la sua attuale esperienza. Nella
terza parte viene introdotto l’altro personaggio principale del
romanzo, la signora di Nagoi.
Qui vediamo introdotto per la prima volta l’haiku, la poesia
ermetica in diciassette sillabe caratteristica del Giappone. Il
protagonista spiegherà in seguito la funzione degli haiku, ma già
qui possiamo vederne la dimensione ludica, oltre a quella poetica.
Infatti, a tratti, le brevi poesie sono solo un modo per ingannare
l’attesa; altre volte, le vediamo impiegate per cercare di catturare
una scintilla di eternità. Nel caso di “Canta il carriere / e passa
Suzuka con / pioggia di vere” c’è un piccolo e struggente messaggio
segreto, rivolto a quei lettori che avevano conosciuto Shiki
Masaoka, uno dei rari amici di Souseki, venuto a mancare meno
176
di quattro anni prima; un messaggio sottolineato dal brevissimo
inciso: “ma a rileggerli, mi accorgo che non sono versi miei”.
Non è questo l’unico punto in cui Souseki si approprierà
dell’inchiostro sul quale sono scritte le parole di questo romanzo
per il suo fine privato: raggiungere il lettore con un suo pensiero,
e non con il pensiero dei suoi personaggi. Qui, Souseki rompe
per la prima volta la quarta dimensione del testo, ed entra in
contatto col pubblico, non come narratore, ma come
protagonista della propria storia.
Eppure, questi tocchi di pura emozione, nei quali lo scrittore si
mette a nudo di fronte a tutti suoi lettori, sono anche essi parte
del progetto letterario di Souseki, della sua tecnica e del suo
manifesto. Così come l’attore che guarda in camera, lo scrittore
rompe una regola ferrea della letteratura che lo ha preceduto, e
così facendo, ci regala un frammento di sé, un frammento
d’anima trasparente, brillante ed eterno come il diamante.
Souseki vuole dimostrare che questo dovrà essere il modo di fare
letteratura, d’ora in poi; e lo fa mostrandocene l’effetto in pratica.
Lo splendido tanka “Verrà l’Autunno” è tratto dal Man’youshuu (“Raccolta di Diecimila Foglie”), e si tratta di un
componimento classico. Il tanka riveste nella letteratura
giapponese l’importanza che il sonetto ha in quella italiana, e
quelli nel Man’you-shuu, raccolti da tempi antichi fino al 1600,
sono considerati i più degni di essere tramandati ai posteri.
L’accostamento di questa poesia classica alla nuova forma di
narrazione, che infrange tutte le convenzioni del passato, non è
casuale. La sua presenza (e vedremo, centralità) in questo che è
un romanzo di rottura, rappresenta la continuità dello spirito
letterario, pur quando la forma deve necessariamente cambiare in
modo così drastico. Non il verbo, ma quell’essenza poetica totale,
rappresentata in sole trentun sillabe pure, proprio quella, rimane
e trasmigra nel romanzo moderno, anzi, futuristico, che la ospita.
L’anima dell’autrice di queste parole è accolta dallo scrittore
moderno, che ne riconosce la bellezza, e la esalta grazie a uno
stile nuovo, come fosse una pietra preziosa ed eterna, nata nel
177
ventre della terra per la naturale necessità delle forze fisiche, e poi
incastonata in un anello semplice, essenziale, chiaramente
forgiato dalle mani di un orefice odierno, ma ciò nonostante,
perfettamente degno di riceverla, e per questo, capace di esaltarla.
Ecco, non nel contrappunto fra passato e futuro, ma nella loro
continuità, è lì che Souseki inserisce il suo manifesto, ed è su
questo percorso che ci accompagna nel resto dell’opera.
3
Il terzo capitolo è forse uno dei lavori di letteratura più densi di
ogni tempo. La scena è totalmente introspettiva, onirica. Persino
il racconto del precedente arrivo alla locanda viene reso quando il
protagonista si sta già appisolando, e ciò che accade al mattino,
dopo il risveglio, è ancora lasciato nella sfera onirica e
introspettiva dall’indolenza mattutina, che l’autore ci racconta
esplicitamente. Questo permette a Sosueki di giocare con i tempi
e i luoghi, e di lasciar correre il pennello libero da vincoli di unità
logiche e sceniche, usando anche una grammatica più vaga, meno
dettagliata. Spesso l’autore ricorre a frasi nominali, o a “doppie
frasi”, dove due (e anche più) soggetti e periodi differenti si
susseguono nella stessa frase, senza vincoli di subordinazione. I
riferimenti storici e culturali abbondano a profusione, e mettono
spesso in difficoltà anche i commentatori giapponesi più esperti.
Il costante riferimento a terminologie, personaggi e suggestioni
che affondano le radici nella religione buddista Zen è
sicuramente parte della caratterizzazione del personaggio. Egli
infatti conosce a fondo il Noh, ma non parla mai del Kabuki,
conosce lo Zen ben oltre il livello di un semplice curioso ma non
parla mai dei Kami dello Shinto, legge correntemente il Cinese
ma non accenna mai alle opere della Corte Imperiale giapponese,
come ad esempio il Genji Monogatari. Tutto questo indica che il
pittore appartiene a un’elite culturale esterofila e estranea al
178
movimento nazionalista che si radicalizzò in Giappone a partire
dalla restaurazione del potere imperiale nel 1868, e che iniziò a
cristallizzarsi come forza politica totalitaria e intransigente, anche
dal punto di vista culturale, proprio a partire dai primi del ’900
fino al culmine dell’ingresso nella seconda guerra mondiale.
L’abbondanza di riferimenti vuole probabilmente servire sia
come rafforzativo che come semplice indicatore delle inclinazioni
del protagonista, ma ha anche il ruolo di permettere ai lettori
contemporanei che non avessero le chiavi per apprezzare alcuni
dei riferimenti la possibilità di comprenderne altri.
Tornando al capitolo, esso è privo di una struttura, al contrario
dei precedenti, e risulta una amalgama costantemente mutevole di
profonde introspezioni e considerazioni più frivole (in numero
minore, a dire il vero, ma sempre importanti). Assistiamo al
lavoro interiore di questo artista, e riconosciamo nei suoi discorsi
i pensieri che passano per la testa prima di dormire, o durante
una notte di sonno leggero. Comunque, al di là della struttura
assente, i temi principali trattati nel capitolo sono l’introspezione,
il rapporto fra la realtà e la poesia, il ruolo edonistico e
terapeutico degli Haiku e l’incontro con la protagonista
femminile, per ora chiamata solo “la Signora”. Scendiamo con
ordine nei dettagli là dove il lettore moderno e occidentale non
può coglierli.
La “donnina” che apre il capitolo introduce una serie di eventi
che il protagonista non si aspetta. Le poche frasi che rivolge a
esso sono in tono del tutto informale, e questo lascia il
protagonista un poco spiazzato. Il villaggio di montagna che lo
accoglie nelle sembianze di questa cameriera non nutre per lui la
deferenza che si era aspettato. L’episodio seguente, quello della
casa dalle travi marce, spiega il motivo del suo disagio; il “libro
illustrato” di cui il protagonista dichiara di essersi sentito parte è
un kusazoushi, l’antenato dei moderni fumetti; si tratta di un
formato letterario popolare, usato per raccontare storie
fantastiche e leggende che in genere assumevano i contorni di
fiabe oscure. Case isolate, abitate da donne sole, fanno spesso da
179
sfondo alle storie più macabre (forse perché il contrasto fra la
grazia femminile e i personaggi terribili impersonati da esse è più
marcato). La risata sghignazzante della giovane donna che aveva
abbandonato il viaggiatore nella stanza più isolata, e visibilmente
malconcia, ben si concilia con questo genere di storie, e si capisce
che le circostanze abbiano potuto inquietare il protagonista al
punto da non farlo dormire.
Il protagonista passa quindi in rassegna gli oggetti lasciati nella
stanza padronale che era stata adattata alla sua permanenza,
lodandone il gusto.
Viene poi il sogno. Non è un gran ché come sogno, e appunto il
protagonista se ne risente. Il lamentarsi del protagonista richiama
la tematica di fondo, che per quanto egli si sforzi di essere
inemotivo, persone assai più illuminate di lui hanno continuato
ad avere un inconscio incontrollabile. L’emotività è parte della
condizione umana, e i sogni ne sono l’aspetto rappresentativo più
forte. Il protagonista, per volere dell’autore, fallisce nel cogliere
questo aspetto, pur avendolo davanti agli occhi in quel momento.
Quindi ecco il primo vero incontro con la Signora. E inizia con
la canzone della Fanciulla di Nagara; il bisogno bruciante di
seguire quella voce è la prova che il protagonista è ben più
lontano dal raggiungere i propri scopi di quanto non voglia
ammettere. Stavolta, però, la dimostrazione è più evidente, e il
protagonista capisce di essere in pericolo. Infatti, l’incontro col
poetico si fa “reale”, e qui Souseki approfondisce la tematica del
rapporto fra il reale vissuto e il poetico costruito 6. La frase finale
di questo paragrafo,
6
180
Si noti qui la tecnica di descrivere il movimento della figura vista dal protagonista
attraverso il movimento degli oggetti circostanti; è l’angolo della casa che,
muovendosi, nasconde l’immagine alla vista. Essa rimane ferma al centro del
campo visivo, con gli occhi e il volto che la seguono perfettamente, tanto da farla
sembrare immobile.
Quelli che lo fanno apposta, smussando da questo mondo quadrato l’angolo
chiamato “senso comune”, e abitano nei tre angoli rimasti, possiamo anche
chiamarli artisti
è talmente evocativa che, per molti anni, la traduzione ufficiale
del Kusamakura in Inglese ha preso il nome de “il mondo
triangolare”. Certo, la tematica del modo “artistico” di affrontare
la realtà è una componente importante di quest’opera, ma rimane
un componente di sfondo, sebbene “visivamente” in primo
piano; indica, sottintende il tema, ma non vuole esserlo. Il tema
risiede nella bellezza della vita pur quando è amara, nella poesia
del reale al di là delle smussature che qualsiasi artista può
costruire artificiosamente. Il protagonista è un’artista, e questo
permette all’autore di rendere più evidente, più esplicito quel
processo di estraneazione, di mistificazione della realtà che
avrebbe dovuto essere implicito se la scelta fosse caduta su un
altro tipo di protagonista. È il protagonista stesso a dire che
anche le persone comuni spesso si comportano come gli artisti; la
volontà di “abbellire” è in tutti, solo che negli artisti si manifesta
consapevolmente, ed ecco che il dialogo fra il protagonista e il
lettore può ora contenere riferimenti diretti al tema che Souseki
vuole affrontare. Il protagonista-artista lavora su questo aspetto
coscientemente; qualsiasi altra categoria di persone non avrebbe
potuto, o se lo avesse fatto, sarebbe sembrata una forzatura.
L’incontro con l’ombra nel giardino svela l’inganno della poesia
umana, pallido specchio della poesia del reale, e ricorda al
protagonista quanto queste emozioni vere siano, da un lato,
inevitabili perché parte della nostra natura, e dall’altro, splendide,
per lo stesso motivo. Insomma, il protagonista rischia di perdere
il proprio assetto mentale, basato su una bellezza costruita più
che percepita. Per scampare a questo pericolo, egli usa la sua
tecnica preferita; ricorrere alla poesia ermetica per allontanarsi da
se stesso e ricostruire a suo piacere il proprio vissuto.
Qui vediamo Souseki giocare con la poesia, e mostrarci,
attraverso il suo protagonista, ma in parte direttamente, l’aspetto
edonistico degli haiku. Del resto, gli haiku nascono come
181
freddura in metrica, mantenendone il significato etimologico
(versi satirici), ed emergono dal substrato culturale Giapponese
che dà il massimo risalto e conferisce la massima dignità
all’ironia. E allora, ecco il poeta scendere di registro e diventare
colloquiale. Souseki ci spiega che gli Haiku non sono
necessariamente e sempre una cosa terribilmente seria. Possono
anche essere un gioco, quasi un esercizio di enigmistica, e non
per questo sono meno degni di considerazione. Anzi, lo stesso
esercizio di poetare per gioco racchiude in sé una scintilla di
illuminazione, che sta proprio nello rimettere nella giusta
prospettiva la realtà; in fondo, solo una nostra percezione.
In alcuni haiku, Souseki impiega termini estremamente antichi,
precedenti al ’400 se non risalenti a prima dell’anno 1000 (il
linguaggio del Man’yoshuu), in altri usa un linguaggio comune nel
periodo Meiji, in alcuni rispetta la metrica, in altri si limita a stare
nelle diciassette sillabe; alcuni di questi haiku sono pregevoli, altri
sono relativamente banali. Tutto questo per simulare il processo
creativo istintivo del protagonista nella situazione descritta.
Comunque la cura fa il suo effetto, tanto che quando il
“fantasma” riappare, stavolta assai più vicino, il protagonista
l’osserva tranquillo dal suo stato di dormiveglia. Ecco che la
poesia trionfa sulla realtà; è più che ovvio che la donna che entra
nella stanza è, molto probabilmente, l’usuale occupante, eppure
l’idea non sfiora nemmeno il protagonista. Essa è un’apparizione
ammantata di poesia, e in quanto tale, non reca il minimo
disturbo. Va e viene dal mondo dei sogni, e dei pensieri, come se
non fosse reale.
Della parte del risveglio penso sia più interessante parlare di ciò
che Souseki non dice che commentare ciò che dice. Questo non
perché ciò che è detto non sia interessante, tutt’altro, solo che la
perfezione stilistica e comunicativa di Souseki raggiunge qui il
suo apice; aggiungere qualcosa alla scena del risveglio, o alla
descrizione del principio di solenne compostezza, o piuttosto alla
metafora della terra sconvolta da una tragedia, sarebbe ozioso e
pretenzioso. Sono parole perfette così come sono.
182
Tuttavia, come spesso accade nella letteratura orientale, il non
detto è importante almeno quanto il detto; e in questo Souseki è
maestro. Sebbene non detti, arrivano chiaramente o
inconsciamente tutta una serie di messaggi che l’autore nasconde
abilmente sotto la soglia di attenzione. La Signora che stava
portando un kimono a uso accappatoio per il suo cliente, avrebbe
potuto lasciarlo nell’antibagno. Ma essa ha visto il protagonista la
notte precedente, prima da lontano, poi da vicino, mentre
dormiva. Forse è solo curiosa, ma la risposta pronta quando il
protagonista apre la porta della sala da bagno dice molte cose.
Dice che lei era lì già da tempo e che probabilmente ha osservato
lungamente il giovane artista. Dice anche che desiderava farsi
trovare dietro la porta; avrebbe potuto infatti allontanarsi mentre
lui si avvicinava. Il protagonista ci racconta che si sentiva troppo
pigro per asciugarsi; questo significa che quando aveva aperto la
porta non si era potuto coprire nemmeno con un asciugamano.
Il giovane osserva lungamente la Signora; quanto tempo non lo
sappiamo, ma sappiamo che analizzare con precisione ogni tratto
del suo volto deve aver richiesto un lungo attimo imbarazzante.
Per tutto questo tempo, il protagonista è nudo, immobile, con
solo un kimono sulle spalle, e osserva in modo molto insistente la
donna che ha di fronte, la quale si era certamente divertita a
sorprenderlo in questa posizione, ma che non si aspettava certo
una reazione tanto... composta. Mettendosi nei suoi panni non
sembra affatto strano che, come il giovane si era girato verso di
lei, (interessante il particolare, giusto accennato dal protagonista,
che lei stessa gli avesse posato il kimono sulle spalle, dopo
essergli girata attorno, come a volerlo guardare da ogni lato) lei
fosse indietreggiata di tre passi, e stesse guardando
compostamente e nervosamente al tempo stesso l’uomo che
aveva di fronte. La tensione nelle sopracciglia e il movimento
degli occhi trovano una spiegazione piuttosto naturale.
Il secondo “grazie” con tanto di inchino spezza quello che per
lei deve essere stato un momento carico di una notevole
tensione, e le comunica che il giovane non solo non era
183
imbarazzato, ma non aveva minimamente fatto caso alla
situazione; in un certo senso, aveva ignorato l’approccio assai
diretto della Signora. L’aveva considerata quasi... un
soprammobile (dal punto di vista di lei). Ecco il motivo della
risata in “ho” e delle parole di commiato. Nella letteratura e nella
cultura giapponese, la vocalizzazione della risata ha significati
particolari a seconda della vocale usata. La risata in “hi” indica un
sottile divertimento, adeguato a una fanciulla timorosa. La risata
in “he” è vagamente sardonica ma non necessariamente
sarcastica. La risata in “ha” è sincera, “di pancia”. La risata in
“hu” è fortemente derisoria. Di tutte, la risata in “ho” è quella
meno adatta a un personaggio femminile, e indica anche un certo
“sforzo”, una risata decisamente non “naturale”. È come se la
Signora prendesse l’occasione di quella frase per chiudere una
situazione imbarazzante che essa stessa aveva creato e che non
stava andando come pensava. Il resto della frase, buttato lì
mentre già aveva oltrepassato il protagonista, tornando verso il
corridoio (cosa assai inusuale nei rapporti fra estranei nel
Giappone dell’epoca) rafforza l’effetto della risata, così
mascolina, quasi a dire: “Ma sì, ma tanto mica sono una donna,
io, e che t’importa se sto lì a guardarti nudo... e prenditi pure il
tempo di rivestirti, visto che ci metti tanto...”. Insomma, il tutto
indica un malcelato nervosismo risentito, dovuto alla reazione
composta, anzi statica, del protagonista. Un risentimento che,
seppur malcelato, il protagonista non sa cogliere (ma il lettore sì).
Le tre frasi con le quali si chiudono il capitolo, indicano che la
signora si era anche preparata accuratamente per l’incontro. La
fascia del kimono rivestita di satin e l’acconciatura estremamente
elaborata (che lascia intravedere la nuca, considerata civettuola
nella cultura giapponese) richiedono un certo tempo per la
preparazione, e sebbene fosse d’uopo per una padrona di casa
prendersi questo tempo per accogliere gli ospiti, nel complesso il
tutto sembra un po’ studiato, anche in considerazione del fatto
che il kimono a uso accappatoio lo avrebbe potuto portare la
cameriera...
184
4
In questo capitolo viene mostrata in tutta la sua completezza la
tematica fondamentale del Kusamakura. Il protagonista, artista,
con la sua ricerca dell’estèsi, si crea un mondo nel quale fuggire,
un mondo perfetto senza pulci né mosche, un mondo di
emozioni belle perché controllate, misurate, statiche, dipinte.
Come un granchio, si ritira in questo mondo piatto,
“monodimensionale” (il fatto che, geometricamente, un foglio
abbia due dimensioni non è rilevante ai fini della poetica del
concetto).
La Signora, donna, creatrice di forza vitale, confuta questa
visione con la sovrapposizione della realtà. Non solo; questa
ideale estèsi non l’attira affatto; come per la poesia della fanciulla
di Nagara, più che sentimentale, la trova noiosa, seccante. Se non
si può vivere in un Paese senza pulci né mosche, si può almeno
vivere al meglio il nostro tempo e il nostro luogo... e non è detto
che la cosa non si riveli interessante.
E comunque, la donna insegna al poeta che la vera poesia è il
canto di un usignolo. Nessun’opera d’arte potrà mai essere bella
quanto la semplice bellezza della natura.
È tutto qui, scritto quasi per esteso. Ora non ci resta che vedere
e l’evolversi della situazione, e scoprire, o decidere, chi dei due ha
ragione.
Oltre all’introduzione della tematica fondamentale scritta quasi
in chiaro, nel capitolo viene introdotta la personalità vitale della
protagonista (il cui nome è ancora celato), le sue franche aperture
propositive al giovane artista, l’immensità della sfida del rimanere
inemotivi in quel luogo e in quella situazione. E ancora, il contrasto
fra la Signora, così straordinariamente intraprendente, e le donne
“normali”, rappresentate dalla cameriera, chiuse, se non ritrose,
non solo a una relazione, ma persino alla possibilità di
condividere, per un attimo, l’ammirazione per la bellezza di
un’idea di amore, seppur ideale e irreale.
185
I tre oggetti che appartengono alla Signora che ci vengono
mostrati all’inizio del capitolo sono molto significativi: una
fusciacca per il Kimono sgargiante e civettuola; l’Ise Monogatari
(uno dei più antichi scritti del Giappone e certamente una lettura
per palati raffinatissimi); l’Otegama, summa dei principi morali
Zen, datole da un monaco sulla cui frequentazione il protagonista
accenna qualche sospetto, ma comunque segno di un impegno
morale e trascendentale non comune. Una donna quindi viva e
forse “facile”, ma colta, raffinata e intelligente. Tanto da
migliorare, e non di poco, gli Haiku scritti dal protagonista la
notte prima. Quasi a voler ribadire, e in anticipo, che vena
artistica e forza vitale non sono necessariamente in
contraddizione.
5
Il quinto capitolo è estremamente complesso sia dal punto di
vista delle problematiche legate alla traduzione, sia per quanto
riguarda il livello semantico dei concetti che vengono lasciati
passare sotto traccia al lettore che costituiva l’audience medio di
quest’opera, al tempo della sua stesura.
Per questo, invito il lettore interessato a leggere anche le note
alla traduzione di questo capitolo, che contengono informazioni
abbastanza importanti per la comprensione della sottotraccia del
testo.
Per quanto riguarda il contenuto di alto livello, possiamo
distinguere principalmente tre temi che vengono intrecciati a più
riprese:
• La peculiarità e l’eccezionalità del personaggio della
Signora (il suo nome viene svelato nell’ottavo capitolo)
•
186
Il fatto che la sua eccezionalità è al di là della
comprensione dei suoi compaesani.
•
La lotta fra il protagonista e il mondo fenomenico, nella
ricerca dell’estèsi.
La storia di Taian e della sua relazione con la Signora è molto
simile al racconto Zen di Eshun. Si narra che una monaca di
nome Eshun, nonostante gli abiti dimessi e la testa rasata, fosse
molto bella, e che molti giovani monaci si fossero innamorati di
lei. Un giorno, uno dei suoi spasimanti le scrisse, invitandola a un
incontro segreto. Eshun non rispose, ma il giorno dopo, al
termine della lezione del maestro, si alzò in piedi e rivolgendosi al
monaco che le aveva scritto, davanti a tutti disse: «Se veramente
mi ami tanto, vieni qui e prendimi subito tra le tue braccia». La
morale della storia è che lo Zen è immediatezza, e quindi, se ami,
devi amare apertamente.
La Signora non aveva fatto altro che mettere in pratica gli
insegnamenti dei suoi precettori. Probabilmente, l’amore di
Taian non le era sembrato abbastanza sincero, o forse aveva
pensato che si trattasse di un’infatuazione che avrebbe finito col
rovinare la sua vocazione, e che, in futuro, Taian avrebbe
rimpianto di aver ceduto a una passione futile e mondana.
L’accenno di Ryounen al fatto che ora Taian sarebbe stato sulla
via per l’illuminazione, ci fa capire che il gesto della Signora aveva
ottenuto l’effetto desiderato, o quantomeno, un effetto
desiderabile. Tanto più che dopo la “scenata” pubblica, invece di
essere allontanata dal tempio, la Signora si era guadagnata il
rispetto e le lodi dei monaci.
Ma, come indicato a più riprese dal barbiere, dall’alto dei gradini
di un tempio, il mondo si vede alla rovescia; quel che vedono gli
istruiti monaci con cristallina chiarezza è invisibile ai popolani, e
viceversa.
Vale la pena ricordare che Souseki passò la sua infanzia presso
un monastero buddista. Nato molto tardi in una famiglia di
piccolissima borghesia di Tokyo nel 1868, quando suo padre
aveva 50 anni e sua madre 40, venne affidato ancora in fasce a
una famiglia di conoscenti, dai quali pare fosse particolarmente
187
amato, ma di un amore persino eccessivo e morboso, tanto che,
ancora giovanissimo, Souseki lo descrive come terribilmente
soffocante. Al giovane Kinnosuke (questo era il suo nome di
battesimo) non era mai stata nascosta la sua condizione di figlio
“in prestito”, anzi aveva regolari rapporti sia con i suoi veri
genitori che con i suoi fratelli. Questa situazione doveva
evidentemente pesare su di lui, al punto da rendergli inviso
persino l’amore dimostrato dai genitori adottivi. Recalcitrante ad
accettare l’affetto della casa d’adozione, Kinnosuke venne
allontanato all’età di sette anni e affidato a un convento di
monaci fino alla prima adolescenza. Nonostante l’austerità del
luogo, la relativa libertà, sopratutto emotiva e intellettuale, che
doveva aver provato per la prima volta, avrebbero costruito
molto del suo carattere; in molte opere Souseki mostra una
riconoscenza e una considerazione verso i monaci e la religione
buddista che è assai meno marcata nei suoi contemporanei
(anche per motivi di opportunità politica; i monaci buddisti erano
invisi all’elite dominante di fede shintoista).
Per quel che riguarda la ricerca dell’estèsi, il protagonista si trova
ancora ad inseguire il proprio proposito di vedere il mondo come
uno spettatore davanti a un quadro, o alla peggio, a teatro. Prova
a rendere il titolare come una delle sue figure di cartapesta, e
proprio quando crede di esserci riuscito, ecco che senza neanche
rendersene conto, entra nella sua stessa creazione e si mette a
chiacchierare, non solo facendosi coinvolgere, ma addirittura
cercando attivamente il coinvolgimento. La curiosità nei
confronti della Signora è troppa, ma il brano ci lascia intuire che
il protagonista cede non davanti al fascino del personaggio
femminile, ma addirittura alla semplice lusinga della prospettiva
di una chiacchierata spensierata con un personaggio divertente.
L’ascesi verso l’estèsi dovrà attendere un momento migliore; qui
va in fumo al primo alito di vento.
Oltre ad avere il ruolo di chiarire anche al lettore meno attento
l’eccezionalità del personaggio della Signora, Ryounen ha qui
anche il ruolo di fare da contraltare e contrappeso sia alla
188
volgarità del barbiere che al “tentativo” di serietà del
protagonista. È divertente quanto e più del barbiere, tanto che
l’anziano maestro ne loda questa sua caratteristica, ma non è
costretto a ricorrere alla grettezza popolana per raggiungere
questo scopo; la sua è una simpatia naturale, innata. Sta seguendo
una Via, un percorso di vita, ma è allo stesso tempo tanto leggero
che il vento di primavera lo soffia via; quanta differenza rispetto
al protagonista, e all’autore, che cerca una Via, la via dell’estèsi,
ma è gravato da dubbi e indecisioni. Ryounen non si chiede se sta
facendo la cosa giusta; la fa e basta. Il protagonista non solo non
riesce a incamminarsi sulla via che si è scelto, ma forse
inconsciamente, è ancora indeciso sulla vera natura, e sui veri
benefici di questa via. A parole si dice convinto che sarebbe il
modo migliore di vivere, ma c’è la figura della Signora a insinuare
in lui il dubbio, o forse solo a ricordargli che non è mai stato
convinto, che in fondo ci siano altri modi, magari migliori, di
vivere la vita. E forse è per questo che non riesce a imboccare la
Via dell’estèsi. Forse non ci riesce proprio perché teme che, una
volta imboccata, la Via non porti in quel luogo in cui il
protagonista vorrebbe essere condotto.
E invece Ryounen non ha dubbi. Ma non è privo di dubbi dopo
averli vittoriosamente sopiti; semplicemente ha raggiunto una
condizione in cui i dubbi non sono più parte dell’esistenza, come
l’acqua sulla luna o come la materia in un buco nero. Quella di
Ryounen non è Fede, poiché egli è oltre; non ha bisogno di
credere. Egli, semplicemente, è; ed è completo nel suo essere. Se
è tanto leggero da essere portato via dal vento di primavera,
allora è già un essere illuminato.
6
In questo breve capitolo, Souseki si confessa al lettore e si
racconta come mai avrebbe potuto fare in mille pagine di
un’autobiografia. Ci racconta il suo mondo interiore, ci racconta
come egli vede il suo processo creativo, che è probabilmente la
189
parte più intima della sua personalità, direttamente e senza
pudore; anzi, con una punta di orgoglio, ma certamente con
l’intenzione di accompagnarci nel suo mondo e di renderci
partecipi.
Il capitolo è diviso in tre parti; la prima è una breve
introduzione, composta dei primi due paragrafi. È uno degli
esercizi di stile più raffinati dell’intera opera, ma non si ferma a
questo. Il primo paragrafo paragona, non senza una sottilissima
ironia, gli occupanti della casa a insetti fastidiosi, eppure si sforza
di trovare un’estèsi anche in questa immagine poco lusinghiera. Il
paragrafo si chiude con un brusco e momentaneo ritorno al
colloquiale: “Beh, insomma, è un sacco tranquillo”. Questa
chiusura “fuori tono” è tipica delle rappresentazioni teatrali e
letterarie popolari, e fa in un certo senso parte del retaggio
culturale ancestrale Giapponese. È una tecnica per scaricare la
tensione ironica accumulata nella lunga sequenza di formalismi
che la precedono. I paragoni che precedono questo punto sono
evidentemente troppo carichi; l’autore esalta deliberatamente fino
all’iperbole, e oltre, il concetto che gli inservienti, e in generale il
mondo esterno, fastidioso, è come scomparso. Il passaggio al
colloquiale è un po’ come dire al lettore: “sì, so che stavi
sorridendo a bocca chiusa. Adesso puoi mostrare i denti”.
È impossibile non collegare il secondo paragrafo alla chiusura
del quinto capitolo. Ryounen portato via dal vento è l’immagine
della serenità dell’illuminazione, e qui il vento passa libero
animando l’universo, ma non può passare attraverso l’autore che
non sa come accoglierlo. La sua Via è la ricerca dell’estèsi, ma c’è
ancora quest’ansia, inconscia (perché percepibile, seppur
inespressa), che possa non essere la via giusta. L’autore, o forse il
suo personaggio, percepiscono che l’illuminazione è il Vuoto
dello Zen, ma solo a livello subliminale.
Nella parte centrale del capitolo, Souseki getta la maschera. Non
è più il personaggio, il pittore senza nome a parlarci, è Souseki
stesso, che ci racconta le sue esperienze, le sue speranze, le sue
aspirazioni. Questa parte è talmente chiara e diretta da non
190
richiedere commenti esplicativi, ma c’è un passaggio talmente
interessante che merita di essere notato:
Non come l’onda che, accarezzata dal vento, si spande fino al cielo più
elevato, è cosa ben diversa da una superficiale, grossolana passione come
questa. È piuttosto come l’invisibile, immenso fondale degli oceani azzurri
che si muovono fra continente e continente, e che sa dare loro forma e
consistenza.
Spesso Souseki critica i suoi contemporanei, e la prima frase
accumula tre figure retoriche usate a profusione dagli autori della
corrente dell’ukiyo (il “mondo fluttuante”), che Souseki
considerava decadente e, appunto, superficiale. 風に 揉ま れ –
kaze ni momare – accarezzati, sollevati, rapiti dal vento; 上の空 –
uwa no sora – il cielo superiore e 波を起こす – nami wo okosu –
generare onde, sono le tre figure retoriche che Souseki usa per
comporre un unica frase di senso compiuto e che, nel suo
riprendere queste tre, risulta persino ironica. Soprattutto la prima
espressione è spesso usata ancora oggi nei testi delle canzoni più
… melense, potremmo dire; se dovessimo tentare di rendere la
stessa ironia in Italiano, potrebbe venire qualcosa come: “Sentirsi
al settimo cielo per quell’apostrofo rosa fra le parole scusa se
t’amo”. Parte dell’ironia si perderebbe con il passare del tempo,
essendo diretta ai contemporanei dello scrivente: i lettori fra
cento anni potrebbero non cogliere il riferimento ai melensi titoli
di un noto autore di quest’epoca, ma l’effetto sul pubblico
immediato sarebbe certo.
Souseki è felice che il suo stile sia concreto, e se ne compiace;
come autore, gli piace compararsi a un fondale oceanico,
invisibile, ma solido e capace di dare forma a quei continenti, a
quelle “terre emerse” che sono le sue storie, i suoi personaggi.
Persino nelle opere più astratte e fantasiose, come “Io sono un
gatto” o i racconti onirici delle “dieci notti”, con pochi, sapienti,
vividi, cinematografici tocchi, Souseki riesce dare corpo a
personaggi che i suoi contemporanei lasciano avvolti
191
nell’indefinito e nella nebbia del mondo fluttuante. Non riesco a
non fare un parallelo fra questa frase e la descrizione del paese di
Nagoi, dove si svolge il romanzo, nel quarto capitolo:
Esaurita la montagna, essa si fa collina, e esaurita la collina, a circa
trecento metri essa si fa pianura, e quando la pianura si esaurisce sprofonda
nel mare, e proseguendo oltre per dieci chilometri, riemerge maestosa a
formare il perimetro di quattro chilometri dell’isola di Maya. Questa è la
topografia di Nagoi.
Questo “fondale” cui l’autore accenna, senza nominarlo, nella
descrizione così “tettonica” di questo luogo, gli da una solidità,
una concretezza che non troviamo nei romanzi dell’epoca di
Edo, e la descrizione che Souseki fa del suo stesso modo di
scrivere risuona in modo persino evidente nelle “terre emerse”
che fanno da pilastro al passaggio.
Terminato il paragrafo, l’autore riprende la sua maschera, e ci
ricorda che stiamo partecipando al suo gioco: “Chissà come
dev’essere provare a disegnare questo confine, mi chiesi.”
Souseki sa di aver parlato di se’, e non lo nasconde;
semplicemente invita il lettore a continuare a giocare, a far finta
che il protagonista non sia lo scrittore, ma il pittore in cerca della
Via dell’Estèsi. Il gioco continua per un po’ e include il passaggio
dove cita di sfuggita il ruolo predominante della musica. Devo
ammettere in tutta onestà che ho trovato questo inciso il peggio
strutturato dell’intero romanzo; un’illuminazione così
“abbagliante”, qualcosa di così importante come la
considerazione che esiste un’arte che potrebbe dare forma alla
tensione espressiva che l’autore/protagonista esprime con tanta
veemenza proprio in queste righe, non dovrebbe essere liquidata
come “materia sconosciuta”. Se è sconosciuta non potrebbe
suscitare una tale ispirazione, se e se la suscita, un personaggio
alla così disperata ricerca della Via dell’estèsi non
l’accantonerebbe per concentrarsi su un “second best”, o
addirittura un “third best” (pittura, e poi poesia) come avviene
qui. Ma non mi sento di infierire oltre su questo dettaglio; solo
192
che nella perfezione stilistica e nella bellezza del capitolo, risalta
fastidiosamente.
Giunto al paragrafo che introduce la poesia, Souseki scosta
nuovamente la maschera del suo personaggio:
Alla fine, la gelatina nella pentola si attacca spontaneamente alla punta
delle bacchette, pur fosse riluttante. Poetare è proprio così.
Un commento da poeta, quale Souseki è, non da pittore; e
infatti segue una sua poesia, già edita da otto anni, al momento
della stesura dell’opera. L’idea che Souseki fosse a corto di poesie
non è da prendere nemmeno in considerazione, nemmeno alla
luce del fatto che egli stesso la critica nel paragrafo successivo.
Direi che l’autore contava sul fatto che il lettore la conoscesse, e
potesse quindi comprendere che la poesia segna un altro punto
dove Souseki torna a parlare direttamente, senza il tramite del
suo personaggio. Infatti, il passaggio allo stile autobiografico ha
un significato profondo, nell’ingresso alla terza parte del capitolo.
La conclusione è tutta dedicata alla Signora e al suo
comportamento “strano”, che mesmerizza, ipnotizza il
protagonista; ma forse, come abbiamo intuito, è l’autore stesso a
presentarsi al lettore come spettatore di questa scena onirica. E
del resto, mai l’autore indica chiaramente che la figura di donna è
la “Signora”.
È un messaggio in codice per una lettrice speciale; forse per sua
moglie, verso la quale non ha mai saputo dimostrare affetto e
devozione, che pure stimava e, in cuor suo, amava, senza sapere
bene come fare.
Le prime biografie di Natsume Souseki dipingono sua moglie,
Kyouko come una persona instabile e malata di nervi, tanto da
causare una profonda depressione nell’autore, che si sarebbe
riverberata in tutta la sua produzione artistica; infatti, nessuna
delle storie d’amore descritta nei suoi romanzi si conclude
felicemente. Il suo stesso viaggiare come studioso di letteratura
sarebbe stato un tentativo di allontanarsi dagli spazi familiari, e
lasciarsi alle spalle questa situazione incresciosa. Ma
193
recentemente, anche in base alle testimonianze dirette dei figli e
dei nipoti di Souseki, molti critici sono giunti alla conclusione che
le cose fossero molto differenti. Il periodo della restaurazione
Meiji era un periodo marziale, fascista, e giungeva dopo oltre 300
anni di plutocrazia assoluta, nella quale l’antico retaggio
matriarcale della civiltà Giapponese era stato quasi
completamente cancellato. Era prassi consuetudinaria quella di
imputare alle mogli i difetti dei mariti; anzi, era segno di grande
devozione, per le mogli, caricarsi dei fardelli dei mariti. Un gioco
delle parti doloroso e falso, ma essendo noto a tutti i partecipanti,
non diversamente dalle forme di cortesia nella grammatica
giapponese, risultava spesso essere semplicemente una
schermatura superficiale. Una “menzogna formale”, un po’ come
è d’uopo rispondere “Bene, grazie” alla domanda retorica “Salve,
come sta?” pur se si è malati.
Souseki e Kyouko si erano conosciuti tramite una così detta
“visita di matrimonio” che precludono ai “matrimoni
combinati”, ma all’epoca queste visite erano un modo più che
comune per conoscersi, un po’ come oggi ci si conosce in
discoteca. Si erano piaciuti da subito, e Souseki era rimasto
colpito dalle capacità di Kyouko, che lodava spesso.
Probabilmente, Kyouko non era riuscita a curare Souseki dai
dolori della vita precedente, e Souseki non era riuscito a
lasciarseli alle spalle come aveva sperato di poter fare grazie a lei.
È certo che Souseki si sentisse in colpa per questo; le figure
femminili nei suoi romanzi, in qualche modo, sono sempre
superiori agli uomini a cui sono contrapposte; c’è sempre
qualcosa di grandioso in loro, che le rende distanti,
irraggiungibili; non ideali come le donne del dolce stil novo, non
astratte, bensì vere e desiderabili, eppure ancora irraggiungibili.
Ma è anche certo che Kyouko si sentisse responsabile per il senso
di colpa che, suo malgrado, aveva ispirato nel marito.
Se poi restasse qualche dubbio, questa splendida poesia in prosa
lo chiarisce:
194
Sei colore di primavera che va a oscurarsi, meraviglioso, e ogni tanto si
stinge nel miraggio, e mi sveglia, con quel broccato d’oro. Il vividissimo ordito
ora va, ora viene nel blu della notte avvolto, e tu silente, irraggiungibile mia
adorata, a poco a poco, svanisci. Sei stella di primavera che va a brillare,
vicina all’aurora, là nel profondo indaco del cielo in cui, volgendoti, cadi.
Le parole usate in Giapponese non lasciano dubbi sul fatto che
l’io parlante si rivolga direttamente a un ascoltatore ideale. Mai, in
nessuna parte del romanzo, e credo di poter dire, in nessun
lavoro di Souseki, c’è una resa così evidente e totale al fascino
femminile, una confessione d’amore così diretta, struggente ma
allo stesso tempo alta e carica di profondo rispetto. Né il
protagonista sembra pronto per questo; anzi, sia nel finale che
nel resto dell’opera, l’innamoramento è sottile, subliminale, e
lascia sempre nel lettore l’idea che in realtà di innamoramento
non si tratti, ma di semplice curiosità. Qui, e solo qui, no.
In questo passaggio, io leggo Souseki che vede sua moglie
tormentarsi per ciò che non è in grado di fare, e lui stesso
tormentarsi per lei. Nel resto del romanzo, la Signora non è una
proiezione di Kyouko; ma qui, in questo passaggio, Souseki ha
gettato la maschera. È sé stesso che parla di sé, e della donna che
ha di fronte, che vorrebbe chiamare senza riuscirci, a cui anela
parlare, invisibile e tormentato nel vedere il di lei tormento. È
mia profonda convinzione che questi non siano il protagonista
senza nome e la Signora della stazione termale: questi sono
Souseki e Kyouko.
7
Il settimo è un breve capitolo introspettivo, che però lancia
l’ultima parte del romanzo, dove assistiamo alla maturazione del
protagonista.
Nel passaggio introdotto da “Per me, sofferente per questa piatta
esistenza, nell’Ofelia di Millais, a considerarla sotto questa luce, v’è un
grande fascino”, quasi inconsciamente, l’autore scrive direttamente
195
ai suoi lettori, così come è accaduto nel sesto capitolo. C’è un
lamento, una confessione che ci sembrano molto veri, molto
diretti, e risuonano esplicitamente nella sua biografia. È la
confessione di un autore che vive l’avventura solo nei suoi
romanzi. All’epoca in cui scrive, è già una persona di grande fama
e successo, ha una vita sicura, una famiglia tradizionale e solida,
una posizione sociale di prim’ordine, ha visto il mondo e visitato
altri continenti in un epoca in cui questo privilegio era veramente
per pochi, eppure sente la sua esistenza “piatta”. È questo,
sicuramente, che lo spinge nei suoi frequenti viaggi, anche nel
viaggio a Tensui, nella prefettura di Kumamoto, da cui nascerà
quest’opera.
Quanto ci sia di autobiografico nella descrizione di Okura è
difficile saperlo; se da bambino Souseki è stato allevato prima in
una casa della media borghesia, e poi in un tempio buddista,
l’avanzata età dei genitori e il successo precoce nella carriera
scolastica gli consentirono un notevole grado di libertà personale
già nella seconda pubertà, verso i sedici-diciassette anni. Non
sarebbe sorprendente che, già a quell’età, Souseki avesse avuto la
possibilità di muoversi liberamente in città, solo o accompagnato
(se non condotto) dal fratello maggiore, in quei locali e in quelle
situazioni tendenzialmente rivolte a un pubblico più adulto.
L’aver intrattenuto questo genere di rapporti in età precoce, visto
il suo animo già predisposto alla poesia, può giustificare quello
strano miscuglio di idealizzazione ingenua e cinico disprezzo
verso le situazioni ambigue che vediamo in questo capitolo.
È però opportuno porre l’attenzione su un fatto che può
sfuggire al lettore occidentale. L’attività delle geisha non si
sovrappone alla prostituzione. Nella società giapponese, le geisha
svolgevano il ruolo di dame di compagnia, che avrebbero dovuto
intrattenere i loro ospiti con conversazioni erudite, canti e balli.
Le regole che riguardavano la possibilità di offrire favori sessuali
ai propri clienti variavano a seconda delle varie scuole, ma in
generale non solo era vietato il commercio di sesso, ma anche
solo un rapporto consensuale fra una geisha e un suo cliente. Per
196
questo, nell’immaginario collettivo giapponese, conquistare una
geisha rappresentava la massima espressione del fascino maschile:
per far innamorare una donna colta, intelligente, autonoma, ricca,
che conosce la psicologia e i segreti più intimi di molti uomini
potenti, e che ha tutto da perdere e nulla da guadagnare da una
relazione con un uomo, stabile o occasionale che sia, era
necessario possedere un fascino davvero irresistibile.
Al contrario, le intrattenitrici da taverna, come sembra essere
questa Okura, i mendicanti e le prostitute, erano considerati
“hinin”, non-umani, il gradino più basso della scala sociale
Giapponese.
Alla luce di questa considerazione, è interessantissima e molto
significativa l’inversione di scale di valore che ci offre Souseki. Le
geisha sono disprezzate al punto che in realtà Souseki si riferisce a
loro con una perifrasi (il termine che usa è 芸妓 – geiji – donna
che sfrutta le arti, e non 芸者 – geisha – persona d’arte), mentre
Okura, intrattenitrice da taverna e chissà, forse prostituta, è
idealizzata e ricordata con affetto. Per un Giapponese,
soprattutto nell’epoca di Edo, il messaggio è chiaro, e risuona
con il giudizio fortemente negativo che Souseki continua a
profondere per la decadenza espressa dalla corrente letteraria
dell’ukiyo, il mondo fluttuante. Anzi, forse inconsciamente, o
forse con estrema maestria, l’autore indica con precisione che, a
suo giudizio, la causa di questa decadenza sta esattamente nel
commercio delle emozioni sottili, nella svendita non del sesso,
ma della sensualità. Non è tanto con le geisha che Souseki se la
prende; le usa come simbolo, per personificare quella corruzione,
quel mercimonio di sentimenti un tanto al chilo che lui vede nelle
tematiche, e nelle opere, dell’ukiyo, le quali, in effetti, hanno
spesso delle geisha come protagoniste o coprotagoniste iconiche.
Dal punto di vista dello stile, va fatto notare che tutto il capitolo
è scritto in tono abbastanza colloquiale, tranne la descrizione
dell’intrusione della Signora nella sala da bagno. Qui il tono sale
parecchio, e Souseki ricorre al Giapponese classico per
197
accompagnare il lettore nel mondo della sua visione idealizzata.
La caduta allo stile piano dell’ultimo paragrafo, assieme al ritmo
dei periodi, che diventano corti e definiti, sono fulminei e
notevolissimi, ed estremamente significativi.
La tematica centrale dell’opera si abbatte con violenza nel finale;
per quanto il protagonista si sforzi di idealizzarlo, il mondo delle
emozioni, il mondo reale, lo seduce con forza, anzi, si fa beffe
della poeticità dei suoi intendimenti. La Signora non ha nessuna
voglia di assecondare le fantasie eteree del protagonista, e
nell’attimo in cui diventa reale, assume le sembianze non più di
una visione divina, ma di un’apparizione demoniaca, o comunque
aliena: il reiki, lo spirito-tartaruga del taoismo. La risata in “ho”,
di cui abbiamo già parlato, diventa “affilata” nonostante la vocale
usata sia la più tonda, perché evidentemente incide in profondità
i nervi del protagonista. Il rumore delle onde che sbordano dalla
vasca, “saa saa”, è un’onomatopea che ricorda il suono delle onde
sulla battigia, ma in Giapponese è anche un’espressione che
indica stupore o esortazione. Se usata in tono affermativo come
interiezione, “saa” è un’esortazione che significa “suvvia”,
“orsù”, “dai”. Se usata in tono interrogativo, in risposta a una
domanda, “saa?” significa letteralmente “e chi lo sa?”. Ecco
quindi che le onde, sorprese, comunicano al protagonista la loro
perplessità, in un graziosissimo cammeo di umanizzazione, che è
tanto cara a Souseki.
8
Il tema centrale dell’opera, l’impossibilità del raggiungimento
dell’estèsi, qui si fonde con l’attualità del tempo di Souseki. Il
giovane Kyuuichi, aspirante pittore, si è offerto volontario per la
guerra di Manciuria, ma questo lo scopriamo solo nelle ultime
righe.
La scena che si apre davanti ai nostri occhi è quella di quattro
persone che discutono amabilmente del più e del meno, senza
198
preoccupazione alcuna, e valutano con attenzione, e perizia, le
qualità di oggetti del tutto superflui. Si parla della firma
dell’artigiano come si parla del sesso degli angeli.
Ma l’autore non si accontenta di mostrarci delle persone dedite
a esprimere giudizi estetici su oggetti, scrittori e persino correnti
letterarie e artistiche. Il protagonista del capitolo è la suzuri,
utensile di uso comune, come un pennello, che può diventare
oggetto d’arte, e in questo caso lo diventa al punto tale che perde
la sua funzione originaria. È il trionfo dell’estèsi, della bellezza
fine a se stessa sulla funzione, sull’uso. Se il protagonista senza
nome non era mai riuscito a creare una condizione estetica, a
generare un’opera che egli stesso potesse apprezzare come
puramente artistica, qui, finalmente, la bellezza dell’estèsi fa la sua
comparsa in tutta la sua potenza.
E anche il tè, che compare prima della suzuri, è un oggetto
svuotato dalla sua funzione primaria; non una bevanda, ma
bellezza in forma liquida, capace di comunicare l’estèsi attraverso
i sensi del gusto e dell’olfatto.
Ma così come l’estèsi si mostra qui più forte che mai, più brusca
che mai è la caduta verso il mondo reale, qui per la prima volta
citato esplicitamente (現実世界 – genjitsu sekai – il mondo della
realtà).
Souseki esprime la sua contrarietà alla politica plutocratica del
governo Giapponese dell’epoca prima ancora di citare la guerra.
In questo capitolo, tutto ciò che c’è di bello viene dalla Cina.
Non nazione sottosviluppata e terra di conquista, ma culla della
civiltà e fonte della cultura a cui il Giappone deve molto, se non
tutto. Souseki arriva a esprimere questo giudizio esplicitamente,
quando il padrone indica Sorai come unica rivincita sulla
superiorità della cultura cinese, mentre l’abate zen ribatte che
nemmeno lui era poi tanto valido.
E il giudizio si fa ancora più netto in chiusura del capitolo. Il
giovane Kyuuichi non è un eroe. È un ragazzo spaventato, quasi
199
paralizzato dalla paura, dalla rugiada di quelle lande lontane che
già riecheggia nel palpito del suo cuore.
Eppure, nonostante la paura, non fugge dal suo destino. Souseki
disprezza la guerra, e non trova nulla di romantico né di glorioso
nella figura del guerriero, moderno o tradizionale che sia. Ma a
questo giovane, che ha firmato allegramente la sua condanna a
morte sotto la pressione della propaganda militaristica del regime
imperiale Giapponese dei primi del ’900, riconosce il coraggio di
accettare il proprio destino, e gli rivolge il sentimento di
fratellanza e di compassione per una persona che sa di andare a
morire.
Su un piatto della bilancia, un Souseki aspirante artista, la cui
arte è buona solo per sé stesso, sull’altro un ragazzo che non ha
alcun merito, o colpa, se non quello di aver creduto ciecamente
nella gloria a buon mercato vendutagli dal suo governo. Souseki
non ci dice da quale parte pende l’ago del suo giudizio, ma una
cosa è certa. Non per la guerra, non per il guerriero, non per la
politica, ma per l’uomo, per il ragazzo che ha di fronte, anzi, di
fianco; per quello, Souseki prova rispetto.
In questo capitolo, scopriamo anche il nome della Signora:
Nami. E non è un caso che non sia lei a rivelarlo, ma che lo
scopriamo, ascoltando, da intrusi, una conversazione che la
riguarda.
9
In questo capitolo, i protagonisti del romanzo giocano a carte
scoperte. Nami si fa intraprendente, e il protagonista senza nome
rivela la sua intenzione di innamorarsi, inemotivamente, si
intende.
Nami cerca il contatto fisico. Si propone come persona
concreta, di carne e sangue, si offre con passione, anche se solo
per gioco, senza impegno. A questo approccio, il protagonista
risponde offrendo la sua versione di passione: un amore
200
platonico, intrattenuto per il gusto dell’estèsi dell’amore in sé. Per
amore dell’amore, più che non della persona amata. Anzi,
nemmeno per quello: per mera curiosità intellettuale, per poter
apprezzare l’amore da vicino, ma ancora come osservatore, pure
se quell’amore è il proprio.
Ovviamente, è un offerta che a Nami non può interessare.
Tuttavia, per cercare di intrigare Nami nel suo gioco, il
protagonista cerca di proiettare loro due come protagonisti di un
romanzo; ma, Nami ha già affermato che a lei, i romanzi non
piacciono più di tanto.
È quasi fin troppo ovvio il gioco dello scrittore, che sfrutta il
livello di astrazione evocato dal protagonista per creare un terzo
livello. L’uomo e la donna in fuga da Venezia sono il romanzo
nel romanzo, il primo livello. Nami e il protagonista sono il
secondo livello. Ma in realtà, essi non sono proiettati per gioco in
un romanzo; l’essenza reale della loro esistenza è che essi sono
davvero protagonisti di un romanzo.
Da un lato, Souseki, molto “avanti” e “cinematografico” nei
suoi romanzi, usa questo stratagemma per rappresentare una
scenografia, una situazione che è essa stessa protagonista, così
come potrebbe essere stato rappresentato, molto dopo, in un
film del cinema neorealista francese. Dall’altro, ci invita a
scoprire quale sia questo terzo livello di astrazione, e ci dà alcuni
indizi.
Perché Nami chiude il capitolo dichiarando che ha pensato più
volte al suicidio? Perché invita il protagonista a “dipingerla così”?
Perché esce dalla stanza divertita, soddisfatta della sorpresa che
ha causato, e della vittoria sull’inemovitività del protagonista?
Al livello del romanzo, lo scrittore ci lascia nell’ambiguità di non
sapere se Nami stesse completamente scherzando, fosse
assolutamente seria o se la realtà stesse da qualche parte nel
mezzo. Da un lato abbiamo lo sguardo serio di Nami quando
pronuncia il suo proposito, ma dall’altro abbiamo il sorriso
tenero sulla soglia.
201
La mia lettura è che, in realtà, nei momenti più difficili del suo
divorzio, a Nami, può essere passata per la mente l’idea di
suicidarsi, magari proprio gettandosi in quel lago; che sia un’idea
di quelle che, appunto, affiorano nei momenti più bui, lasciando
soltanto il ricordo del loro passaggio con lo scorrere del tempo.
Nami ha usato quella sua esperienza, quel suo ricordo doloroso,
il ricordo dei momenti in cui aveva desiderato gettarsi in quel
lago, come arma per scardinare l’inemotività del protagonista. In
questo senso, è seria e faceta assieme: è seria, perché è vero che
quel pensiero lo ha avuto, ma è faceta, perché adesso è diventato
parte del gioco che intrattiene col protagonista; in effetti, è
diventato il colpo di grazia.
Vuoi l’estesi dell’esistenza? Eccoti un’esistenza su cui essere
estetico: prova a disegnarmi così, mentre mi suicido. Riusciresti a
essere tanto inemotivo? Il mio essere donna in carne e sangue ti è
davvero così indifferente?
Questo sembra dire Nami al protagonista, questa sembra essere
la sua sfida. Una sfida che, ovviamente, il protagonista non può
raccogliere. Come ogni altro capitolo, anche questo si chiude con
la resa del protagonista alla realtà dell’esistenza, all’impossibilità
di accedere all’estèsi.
Ma c’è ancora un altro livello di lettura, per accedere al quale
dobbiamo conoscere la biografia di Souseki.
Nel 1898, Souseki e sua moglie Kyouko, all’epoca in gravidanza,
si trasferirono a Igawafuchi, in una casa che si trovava in riva a
un canale. Kyouko cadde nel canale, probabilmente a causa di un
giramento di capo dovuto alla gravidanza, e venne salvata allo
stremo delle forze da un pescatore che si trovava lì per caso.
Secondo alcuni biografi, Kyouko si era gettata di proposito nel
canale con l’intento di suicidarsi; è credibile la tesi secondo la
quale potrebbe aver avuto uno scompenso emotivo dovuto alla
gravidanza e all’allontanamento dalla sua città natale, tuttavia, le
circostanze dell’evento portano a pensare che si sia trattato di un
mero incidente.
202
Anche se tutto si risolse per il meglio, e Kyouko poté portare
felicemente a termine la gravidanza, il fatto lasciò sicuramente
un’impressione profonda su Souseki, al punto da convincerlo a
trasferirsi nuovamente con sua moglie, sebbene fosse appena
giunto in quella città.
È anche notevole il fatto che Kyouko ( 鏡 子 ) si scriva con lo
stesso ideogramma di specchio ( 鏡 ). Certo, “Specchio” è un
nome plausibile per un lago, ma è indubbio che qui abbiamo un
altro messaggio che Souseki ha voluto inviare a sua moglie.
A mio avviso, il senso è il seguente: all’epoca, Souseki era un
giovane professore universitario eppure già un famoso scrittore.
Il suo principale interesse era la letteratura, come arte ma anche
come scienza, ossia, come studio scientifico delle opere letterarie.
Completamente assorbito da questo interesse, aveva perso di
vista gli affetti più cari, e in particolare, sua moglie. Quell’evento,
quell’atto, lo hanno riportato alla realtà, e gli hanno ricordato
l’importanza di ciò che è concreto.
Il tenero sorriso di Nami per il protagonista deve essere stato il
tenero sorriso che Kyouko deve aver rivolto a Souseki quando ha
ripreso conoscenza, dopo essere stata tratta in salvo.
10
In questo capitolo, Souseki si concede il lusso di sferrare una
critica diretta alla società cittadina del suo tempo; tuttavia, la
critica non è fine a se stessa, e serve per indirizzare il lettore, per
dargli un’indizio subliminale su come decifrare una critica ben
più profonda e aricolata, che si cela sotto l’allegoria delle camelie
di montagna.
La critica superficiale è uno sfogo sincero; Souseki mal sopporta
la gente banale, gretta, materiale, e non si trattiene dal criticarla
aspramente. Qui, arriva a dire che, se ci fosse giustizia al mondo,
ogni giorno mille aguzzini andrebbero a ingrassare la terra. Per
203
Souseki, ci sono persone che potrebbero migliorare il loro
contributo all’umanità e al mondo se avessero il buon senso di
usare sé stessi come concime; e già quello, per loro, sarebbe un
onore. Souseki non si vergogna di pensarlo e di scriverlo, ma
questo suo disprezzo viscerale non è rivolto alle persone umili, o
a quelli che non rispondono al suo senso di morale. È rivolto a
coloro che, approfittando della briciola di autorità che è stata
data loro, opprimono chi non ha avuto la stessa fortuna. Invece
di mettersi al servizio della gente, come sarebbe loro richiesto,
asservono la gente alla loro grettezza, e così facendo, la
peggiorano. È questo che l’autore addita, e disprezza senza
riserve e senza vergogna.
Da qui, dall’esplicito, il filo del disprezzo prosegue verso le
camelie di montagna. Perché prendersela tanto con un semplice
fiore?
È fin troppo ovvio che, nel cadere infinito delle camelie, che
andranno a tingere di rosso il fondo del lago, e poi a marcire nel
suo fango, c’è una metafora. Potrebbero rappresentare l’umanità
nella sua interezza, e nel triste destino che l’attende; ma ci sono
alcuni dettagli che rendono la metafora più precisa. Lo sguardo è
attratto dalle camelie come da una fattucchiera. Basta uno
sguardo, ed ecco che questa fattucchiera ci insinua nelle vene un
dolcissimo veleno. E il rosso delle camelie di montagna è quello
del sangue dei condannati.
L’accumularsi di tutte queste metafore, accostato al disprezzo
appena mostrato per l’abuso dell’autorità, risuona come un velato
richiamo al tema della guerra di Manciuria, e alla guerra in
generale. Le camelie che si gettano sul fondo del lago, a tingerlo
di rosso e a marcire, ancora fiorite, quasi avessero volontà
propria, sono i soldati che partono volontari. Non è la loro vista
che disturba l’autore; è semplicemente il sapere che esistono
coloro che, di propria iniziativa, si gettano verso una morte sicura
e addirittura ingloriosa, ciò che affascina e inorridisce allo stesso
tempo. Chi contempla questo aspetto dell’umanità, ne rimane
204
sconvolto, al punto di non poter più distogliere lo sguardo, al
punto di perdere sé stesso.
L’incontro con Genbei rappresenta un temporaneo ritorno alla
realtà; l’idillio del paesaggio incontaminato, che permette
all’autore di spaziare nelle profondità dei propri pensieri, e dei
propri giudizi, è rotto dall’incontro con un uomo comune, che fa
un lavoro comune. Eppure, quest’uomo ci porta in un’altra
dimensione fantastica: il racconto del suicidio dell’antenata di
Nami ricorda molto le leggende popolari diffuse in Giappone;
storie che hanno spesso tinte romantiche e macabre insieme.
Proprio nell’epoca di Souseki, si andava formando un genere di
letteratura popolare detto ero-guro, abbreviazioni delle parole
inglesi erotic e grottesque. Sebbene nuovo come genere letterario,
l’ero-guro si muove sulle orme delle leggende popolari giapponesi,
che a loro volta affondano le radici negli antichi miti fondanti,
trascritti (solo in parte, si pensa) nel Kojiki.
Souseki fa pochissime concessioni a questo genere. Se ne
trovano tracce nelle sue dieci notti, ma l’ero che piace a Souseki è
solo quello dei sentimenti. O, come nel caso della descrizione di
Nami nell’onsen, quello estremamente raffinato, quello del nudo
che non ha nulla di impudico, perché simbolo ed espressione di
purezza e libertà, talmente naturale da non portare con sé
nemmeno il ricordo, nemmeno l’ombra dei desideri della carne.
E il guro di Souseki si limita al disagio, o allo struggimento per la
dimensione cosmica della tragedia umana.
Nella storia dell’antenata che si getta nel lago, risuonano le
suggestioni del mito della Fanciulla di Nagara, e ancora,
l’impressione per la scampata morte della moglie Kyouko (si veda
l’esegesi del capitolo 9). E, come evocata da queste suggestioni,
nella descrizione della natura che circonda questo luogo sereno e
tetro assieme, ecco apparire Nami. Ancora, più spirito che donna,
più idea che persona, incarna e focalizza la descrizione del luogo
che si va formando nella mente del pittore. Quando la
descrizione si fa dettagliata e visuale, ecco che si impone la
presenza eterea di Nami, anche qui, mai nominata direttamente,
205
proprio a sottolinearne l’aspetto iconico in questa
rappresentazione, che passa dal concreto all’onirico. È il volto di
donna che ha sorpreso il protagonista nel sonno, all’onsen, e
adesso qui. Appare sulla roccia, in alto, contro al sole, sopra
l’estèsi che il pittore cerca di costruire nella sua mente per farne
disegno. È una figura talmente immersa nella descrizione del
paesaggio, e allo stesso tempo talmente distinta, che ci resta il
dubbio che non sia reale, che sia il pittore, inconsciamente
ossessionato da quella donna, ad immaginarsela come somma e
punto focale di questo luogo naturale, sereno e tetro assieme.
Solo l’ultima frase, la corta chiusura “mi ha sorpreso un’altra
volta”, certifica che si trattava di un’evento reale, che Nami, in
carne e ossa, era lì davvero.
11
Questo capitolo, almeno in apparenza, diverge dal tema generale
del romanzo, e si concentra su una critica diretta agli intellettuali
“avversari” di Souseki: gli esponenti della corrente artistica nota
col nome di ukiyo, il “mondo fluttuante”. Non è la prima critica
che Souseki rivolge loro, ma è certamente la più dura.
La critica si articola su due livelli logici e due livelli tecnici. Dal
punto di vista logico, Souseki lamenta l’invadenza degli esponenti
dell’ukiyo, e la loro propensione a giudicare l’altrui lavoro
secondo il loro metro, da un lato, e il loro puntiglio nel dettare le
linee guida che l’arte giapponese dovrebbe seguire, dall’altro.
Souseki si ribella sia alla prima che alla seconda imposizione, e lo
fa clamorosamente, con le sue opere e dentro le sue opere. Dal
punto di vista tecnico, Souseki usa, con l’esperienza di un
maestro, il registro volgare, rivolgendolo contro coloro che meno
lo possono sopportare, per poi spostarsi sul registro poetico ed
eccellere sopra alle possibilità dei suoi contemporanei. La fusione
di questi quattro livelli, due logici e due tecnici, genera una
sinergia che scardina l’impianto piatto e monotono dell’ukiyo, e
ne sigilla la sconfitta.
206
Mi preme ricordare che Souseki usa la metafora dell’esponente
della corrente dell’ukiyo che si mette a dire a tutti “ecco, ne ha
fatta un’altra”, non solo perché è una similitudine diretta del loro
comportamento, ma anche perché questo è il comportamento
che, nell’immaginario collettivo giapponese, è tipico dei bambini
petulanti e maleducati. Quasi per antonomasia, questo è il gretto
divertimento dei bimbi dell’asilo, che dovrebbero sedere
composti e attenti, ma gridano ridendo e additando colui a cui
scappa una scoreggia.
Ma sotto la superficie evidente della critica all’ukiyo, corre un
altro tema, che è quello della via dell’artista. La metafora della
scalinata del tempio, a inizio capitolo, rappresenta chiaramente la
carriera dell’artista, e in particolare dello scrittore. Qui, Souseki
usa un tono informale e diretto, che, come all’inizio del primo
capitolo, ho tradotto con il “tu” impersonale. A un lettore
giapponese, il brano suona come narrato parzialmente in prima
persona, ma con una sfumatura di “assolutismo”, di validità
generale, che permette di immedesimarsi nell’io narrante; l’invito
dell’autore è quindi reso molto bene con il “tu”.
Il primo gradino è quello dell’amatore, dell’hobbista, di colui
che si avvicina all’arte per il proprio piacere; fra questi c’è chi si
appassiona tanto che, invece di essere mero fruitore, prova a
scrivere, dipingere o suonare qualcosa. Viene voglia di costruire
qualcosa di proprio (il termine usato da Souseki è proprio 作る
– tsukuru – costruire). Ma ecco il terzo gradino, quello squadrato
in modo strano: per progredire, bisogna apprendere la tecnica,
con le sue regole che non sono apparenti ai non iniziati, anzi, che
il saper nascondere fino a renderle invisibili distingue il grande
artista dal principiante. E saliti sul terzo gradino, si sogna di poter
arrivare fino in cielo; è a partire da lì che è possibile sondare le
profondità più oscure, nascoste dell’animo umano, e di sé stessi,
da dove è possibile trarre quelle stelle che possono risplendere
nel firmamento dell’arte. Ma quando arrivi in cima, diventa un
atto così naturale che puoi voltarti indietro, e guardare il tuo
207
percorso freddamente, e alla fine, pensare che di tutto questo,
della stessa voglia di essere artista, puoi farne arte, puoi farne un
racconto. Solo ora, Souseki dice “io”, e ci confessa che questo è
esattamente ciò che sta facendo.
L’artista deve essere capace di mostrare il proprio animo senza
vergogna, così come suggerisce l’abate. All’inizio, non
comprende la brusca metafora del protagonista, e serve da
contrappeso comico alla scrittura viscerale e volgare che ha
caratterizzato alcune parti del capitolo, ma poi, da acuto monaco
Zen, afferra il senso generale delle lamentele del pittore che ha di
fronte, e riesce a buttare lì un eccellente consiglio: come il
monaco Zen, l’artista deve studiare tanto da potersi spogliare
(anzi, mostrare persino le viscere) sul Nihonbashi, il ponte che dà
il nome all’omonimo quartiere di Tokyo, uno dei più affollati,
dove tutti passano, senza provare la minima vergogna. Ma il
protagonista ancora non è pronto, ed è per questo che viaggia.
Anche Souseki aveva viaggiato molto, in Giappone ma
soprattutto fuori, alla ricerca delle origini della letteratura, in vari
continenti. Nei suoi viaggi, deve aver scoperto che il vero viaggio
da compiere è quello dentro di sé, alla ricerca di quel luogo ove,
quando si giunge, non si ha più timore di mostrarsi per quel che
si è.
Il cactus che si incontra alla sommità della scalinata del tempio
ha una funzione metaforica. Il ripetersi delle “palette”, che
nascono le une dalle altre, partendo dal basso e salendo sempre
più in alto, tanto che sembra possano arrivare ovunque, fino in
cielo, sono una metafora delle opere dell’artista. Dalle prime, più
umili e semplici, nascono lavori che poggiano sui precedenti, per
certi versi simili, e tutte riconducibili allo stesso tronco, eppure,
di paletta in paletta, di opera in opera, si crea un corpus
grandioso, che sembra poter non finire mai.
A questo punto, l’autore introduce la poesia di Chou Buji;
Souseki la associa al fluire delle sue idee per l’impressione degli
alberi oltre la foresta di bambù, che sembrano spaventosi come
208
spettri; anche questo cactus potrebbe sembrare spaventoso: il
lavoro di grandi artisti, così imponente, in altri momenti avrebbe
potuto intimidire lo scrittore, tanto da farlo scappare giù da
quella montagna su cui è salito, attraverso la scalinata della
tecnica e dello studio. Ma al di là dell’uso funzionale a questa
metafora, la poesia è un cammeo interessante in sé, e accarezza in
modo subliminale un’altra delle tematiche care a Souseki: la sua
avversione per le politiche militaristiche giapponesi.
Ma è un excursus breve, giusto un accenno, e subito torniamo
alla tematica principale del capitolo, attraverso la metafora più
potente fin’ora introdotta: la magnolia, albero umile eppure
bellissimo, è la metafora del lavoro dello scrittore migliore: egli
non copre con le foglie quel che sta dietro, anzi, sopra. Stende
solo sottili rami, su cui si posano fiori ben evidenti, nitidi, pudici
nel loro giallo tenue, ma di chiara bellezza; e dietro ai sottili rami
fioriti, dietro all’intreccio, si intravede il cielo chiaro. Un cielo
chiaro che è una metafora per l’anima dell’artista, che si intravede
oltre la trama che egli intesse, ma anche per la realtà che fa da
sfondo all’intreccio, non nascosta, ma anzi, evidenziata, esaltata.
E in effetti, questo è ciò che Souseki sta facendo in questa
opera. Dietro alla trama, appena tratteggiata, dell’artista
viaggiatore e della donna divorziata, che accennano appena l’idea
di un intreccio amoroso, si vede chiaramente, anzi, addirittura
esaltato, sia l’animo di Souseki, i suoi pensieri più intimi, i suoi
giudizi di merito e di valore, i suoi stessi processi creativi, sia la
realtà che egli vive, di un mondo in equilibrio instabile fra un
passato stantio, ma rassicurante e un futuro inquietante, eppure
promettente, che arriva con la forza dei treni a vapore, e dei tram
elettrici.
Ecco quindi che anche questo capitolo rientra nel piano
generale dell’opera, che consiste nella ricerca dell’estesi, e forse la
risolve, o quanto meno, propone una possibile soluzione: l’estèsi,
la bellezza dell’arte, non è da cercare in regole formali, come
quelle proposte dall’ukiyo. Certo, trovarla richiede studio,
impegno e tecnica, ma quando la tecnica è consolidata, il risultato
209
finale consiste nel riuscire a esaltare la realtà, e soprattutto la
realtà del proprio stesso animo, così com’è, senza complessi e
paure. Perché, è questo ciò che muove il lettore, o l’osservatore,
o l’ascoltatore, più di ogni altra cosa: riconoscere ciò che sa, ciò
che è vero, ciò che è reale, e sentirselo spiegato senza inganni,
direttamente, così che risuoni con la sua stessa anima.
12
Il capitolo dodici è una parte cruciale dell’opera, per diversi
motivi e a diversi livelli. A livello superficiale, abbiamo uno
sviluppo consistente nella trama, e nella relazione fra Nami e il
protagonista, che prepara alla chiusura.
A livello intermedio, viene sviluppato con forza il tema della
ricerca dell’estèsi, del fallimento del protagonista e del successo di
Nami.
Ma l’aspetto più interessante, dal punto di vista letterario, è
l’aspetto più profondo: qui Souseki presenta il suo manifesto
artistico, prima descritto e poi magistralmente esemplificato.
Leggendo altri scritti contemporanei a Souseki, il salto fra lo
stile del capitolo dodici rispetto al resto dalla letteratura di inizio
’900 è massimamente stridente. Nelle parti finali, a parte qualche
parola e ideogramma oggi desueti, il Kusamakura sembra scritto
ieri mattina. Anzi, rispetto ad alcuni autori moderni, anche molto
famosi, il suo stile visuale e immediato è persino più evoluto!
Invece, i suoi contemporanei cercano di imitare gli stili del
passato, e più vanno a pescare forme verbali e termini seisettecenteschi, più sono valutati come abili letterati.
Ma procediamo con ordine, partendo proprio dall’aspetto più
interessante.
“Nonostante sia un pittore, non mi era mai capitato prima di volere, più
che rendere in disegno l’aspetto psicologico, ritrarre l’impressione lasciata.”
210
Su questa frase, pensata dall’autore nel mezzo della scena madre
del capitolo, si concentrano tutte le considerazioni fatte fino a
quel momento sull’arte, e sul modo di ritrarre le cose. Una volta
risolta l’ovvia metafora del pittore con lo scrittore, e del disegno
col romanzo, ecco il piano della letteratura di Souseki: non
descrivere le cose come sono, nemmeno dal punto di vista
interiore, nemmeno riportando i pensieri dei personaggi, bensì
trasmettere le sensazioni, le impressioni ingenerate da una storia.
La trama non come fine, ma come mezzo per creare uno stato
d’animo nel lettore.
E come ottenere questo risultato?
“Penso costantemente che lo studio fra la relazione tra atmosfera, oggetti e
colori, sia l’argomento più interessante del mondo. Concentrarsi sui colori per
trasmettere l’atmosfera, o concentrarsi sulle cose per delineare l’atmosfera? O
ancora, concentrarsi sull’atmosfera, e contemporaneamente lasciar trasparire
cose e colori, intrecciandoli?”
Anche qui, risolvendo la facile metafora dei colori, che
rappresentano i ferri del mestiere dello scrittore, come le figure
retoriche, il ritmo, il registro e così via, Souseki si chiede quanta
tecnica impiegare, quanto far risaltare le descrizioni rispetto alle
sensazioni. E la sua soluzione è:
“Insomma, più che prendere la natura in superficie, bisogna studiare lo
spirito sottile, e quando si pensa ecco, è quel colore lì, bisogna subito mettersi
in spalla il treppiede e alzare i tacchi.”
Studiare lo spirito sottile. Souseki è maestro del non detto, del
dito che indica la luna, del tratteggiare con poche parole un’intera
scena, e con la scena tratteggiata, sottintendere a un tema ancora
più vasto. E, una volta afferrato lo spirito sottile, bisogna
resistere alla tentazione di approfondire, spiegare, dettagliare,
perché a quel punto si rompe l’equilibrio magico che ha
permesso, con quelle esatte parole, di creare quell’esatta
sensazione.
Molti scrittori indulgono nel tema, cadono nella tentazione di
spiegare meglio, perché temono che il lettore non immagini
211
esattamente quello che desiderano che egli immagini. E
aggiungono parole, frasi, o interi capitoli non solo superflui, ma
dannosi.
Ma, esattamente, qual’è l’artificio tecnico che permette di
rendere lo spirito sottile delle cose? Secondo Souseki, non esiste
un preciso “qualcosa”. Per scrivere così, bisogna che la propria
essenza di scrittore sia capace di cogliere questo spirito sottile,
come risuonando, come riverberando con l’emozione che si
vuole comprendere, e poi ricreare. O con le sue parole:
“E se dovessi trovarmi in piedi, in uno stretto angolo che si fa emotivo, a
ridefinire cosa sia l’arte, direi che l’arte è la cosa sopita nei nostri cuori di
gentiluomini istruiti che evitano la malvagità per abbracciare la giustizia,
rifiutano le deviazioni per seguire la retta via, scampano la debolezza per
assumere forza, e quando proprio arrivano a non farcela più, la
cristallizzano in quell’unica scintilla di determinazione, riflettendone
finalmente l’abbacinante splendore.”
Non una tecnica, ma un bagliore, il bagliore di una cosa pulita,
smussata, lucidata: il cuore del poeta.
Souseki senza voler definire la tecnica in cui eccelle, ce ne dà un
esempio, affinché questo serva proprio come un manuale per
seguire il percorso di purificazione artistica a cui allude. Più che
un indizio, ci da una vera e propria indicazione, quando scrive
“Proviamo un po’ a ritrarlo” alla fine del paragrafo in cui si
chiede se sia meglio ritrarre l’atmosfera, o piuttosto gli oggetti –
nella scena successiva, il suo protagonista non dipinge, ma scrive
quella scena che è la prima delle rappresentazioni, delle fasi
teatrali descritte in questo capitolo; e non sono le immagini che si
fermano nella mente. Le immagini che Souseki ritrae servono
esattamente a creare quell’atmosfera che trascende la descrizione,
e diviene un rarefatto stato d’animo nella mente del lettore.
Attorno alla frase centrale, si svolge la scena dell’incontro tra
Nami e suo marito. Non viene detto nulla sul loro passato,
almeno non qui, anzi, nemmeno che si tratta del marito di Nami.
212
Addirittura, Nami viene quasi sempre indicata con l’epiteto “la
donna”, a indicare che la sua personalità è puramente incidentale.
Eppure, anche se non conosciamo i protagonisti della scena, i
pochi gesti, gli atteggiamenti, così come seccamente descritti da
Souseki, ci bastano a ricreare l’intera storia passata fra di loro,
senza bisogno di raccontarla. L’autore la conosce, e la condensa
in quei gesti e in quegli atteggiamenti, tanto potenti da ricreare in
noi non tanto la stessa identica storia, ma la stessa sensazione che
il conoscere quella storia deve generare.
Nell’avvicinarsi all’era moderna, gli scrittori hanno abbandonato
lo stile narrativo e hanno abbracciato allo stile descrittivo/visuale.
Souseki non è solo un precursore di questo stile, ma lo porta già
alle estreme conseguenze, lo porta già al punto in qui nemmeno
la descrizione in sé è importante, bensì è solo un mezzo per
permettere al lettore di raggiungere uno stato d’animo. E ci lascia
anche un manifesto, un manuale per seguire i suoi passi.
Tutto questo è superbamente intrecciato al tema fondamentale
del romanzo: la ricerca dell’estèsi. Ecco che l’autore ci rivela
esplicitamente quello che ci aveva suggerito fino a ora:
“Quella donna, in casa, recita col suo semplice esistere. E non sembra
nemmeno che reciti. Recita con la naturalezza di un genio. Si potrebbe dire
che abbia “il bel vivere”. Grazie a quella donna, ho un ottimo materiale di
studio per il disegno.”
È lei che ha il dono dell’estesi, non l’autore, che lo cerca.
L’impossibilità di trovare l’illuminazione cercandola in modo
grossolano e diretto è un tema centrale del buddismo Zen, e
Souseki, qui, si arrende all’evidenza che la “vita estetica” non si
può raggiungere imponendosi una disciplina, bensì accettando
con naturalezza la “vita reale”, e muovendosi leggiadri in essa,
come sa fare Nami. Una conclusione che si può applicare anche
alla tecnica dello scrittore, che per diventare sublime deve
trascendere la disciplina e sgorgare naturalmente dall’animo.
Nel capitolo, riaffiora prepotente anche l’aspra diatriba tra il
modernismo di Souseki e quella che lui ritiene una stolida e
213
cocciuta arretratezza culturale dei suoi connazionali. La sottile
critica verso la politica espansionista dell’Impero Giapponese
emerge dall’allusione nascosta fra l’ambiente culturale e quello
militare. In particolare, la storia del giovane Fujimura suicidatosi
affinché le sue parole, incise sulla roccia sulla cima di una cascata,
fossero
ricordate,
è
un’accusa
doppia,
rivolta
contemporaneamente ai letterati e ai militari. Coinvolgendo
implicitamente i militari in questo inciso, Souseki li “traina” in
tutte le critiche precedenti e successive, assieme al suo bersaglio
diretto, che sono i suoi colleghi letterati.
Si deve notare anche che l’atto stesso di includere episodi
specifici di cronaca contemporanea nel racconto fa parte delle
innovazioni che Souskei propone al suo pubblico. Nel
movimento del mondo fluttuante non c’era spazio per la realtà
contemporanea; al limite, le si poteva alludere, ma non certo
includerla direttamente. Anche nominare direttamente un autore
del passato, o un artista contemporaneo, avrebbe rotto la
finzione del romanzo. Nominare elementi del mondo “reale”
aveva nell’ukiyo lo stesso significato, e la stessa stigma, che il
“guardare in camera” aveva nel cinema delle origini: avrebbe
coinvolto il pubblico in maniera attiva, e i primi registi, così come
gli autori dell’ukiyo, immaginavano il pubblico come un ente
passivo, che assisteva a uno spettacolo senza esserne
direttamente coinvolto. Con lo sguardo in camera, così come con
la narrazione in prima persona e con l’inserimento di elementi di
cronaca, si chiama il pubblico a partecipare attivamente alla
finzione della narrazione. Questo fa esattamente parte del
manifesto di Souseki, che desidera non solo coinvolgere il lettore,
ma trasmettergli sensazioni ed emozioni che lo rendano
totalmente partecipe della storia, non come un osservatore, ma
come un protagonista della sua narrazione.
Ma in questo capitolo, Souseki non si accontenta di descrivere il
suo manifesto e di esemplificarlo; non si accontenta di attaccare il
mondo fluttante con la cronaca dopo aver creato un ambiente
etereo, fatto di pura emozione che trascende la descrizione stessa
214
degli oggetti che compongono le scene. L’autore intreccia
sapientemente a tutto questo alcune metafore, come quella del
cotogno: gli acquerelli da quattro soldi dell’infanzia pittore senza
nome erano gli strumenti ancora poco affilati del Souseki giovane
scrittore. O della ragazza vestita con un kimono rosso, e le
caviglie color tè: un abbigliamento impossibile all’epoca. Quello
rosso era un kimono dedicato alle feste, occasione in cui
chiunque avesse potuto indossarlo, avrebbe anche indossato
calze di seta bianca. La ragazza che ci viene incontro portando
sulle spalle il bagliore del mare rappresenta la libertà del nuovo
secolo, libertà di essere ciò che si vuole, senza timore del giudizio
altrui.
13
La gravità del momento in cui un giovane parte per la guerra,
senza sapere se farà ritorno, è immersa in un racconto che, a
tratti, si fa persino ironico. Ancora, è un carattere tipico della
narrazione popolare giapponese, che ama mescolare sentimenti
diversi nella stessa storia. Ancora oggi, nei film drammatici, o
persino nei film horror, non manca mai qualche scenetta
divertente, che possa far sorridere, o persino ridere.
Lo stridente contrasto fra la gravità del tema e il modo di
raccontarlo diventa esplicito negli atteggiamenti di Nami. Souseki
vuole che lo notiamo, poiché ha due funzioni ben precise.
La prima è quella di farci apprezzare l’assurdità della vita, ma
soprattutto della morte sul campo di battaglia. L’ironia di Souseki
è qui l’ironia del destino, che deride l’atteggiamento umano di
cercare un senso, di dare una forma, una dignità a quello che, suo
malgrado, gli succede.
La seconda è quella di attaccare direttamente gli scrittori e gli
artisti suoi contemporanei, che ignoravano le forme di arte
popolare giapponese per chiudersi in un elitismo che aveva dato
vita al movimento del “mondo fluttuante”. Quello che Souseki
215
attacca direttamente è il tono neutro, fastidiosamente costante
delle loro opere, più rigide nella costanza del tono di quanto le
opere greche lo fossero nel rispetto delle unità aristoteliche.
Souseki usa la narrazione popolare come strumento per portare
in scena sia la tragedia di un uomo, di un ragazzo che va in
guerra, che la tragedia umana tutta. Nel successo di questo
esperimento, c’è il colpo di grazia al decadente mondo fluttuante.
Ma questa considerazione, per quanto vasta, è assai lontana
dall’esaurire l’esegesi del brano, da dividersi in due parti: la
chiarificazione del significato meta-linguistico e culturale di alcuni
passaggi, persi a distanza di oltre cento anni, che permettono di
meglio apprezzare la veloce narrazione di questo capitolo, e le
considerazioni più ampie sul significato generale del capitolo, e
dell’opera che chiude.
Il capitolo si apre col protagonista che racconta il perché stia
accompagnando Kyuuichi in quello che potrebbe essere il suo
ultimo viaggio: lo hanno invitato, per mera cortesia, e
probabilmente non aspettandosi che accettasse (anzi, si intuisce,
aspettandosi che non accettasse). Ma il protagonista accetta lo
stesso, e chi lo ha invitato ora non può esimersi dal portarlo con
sé. Ovviamente, è un artificio narrativo che ci consente di vivere
la scena, ma è anche la conseguenza naturale dell’atteggiamento
del protagonista, che quasi a giustificarsi, ci ricorda che “in un
viaggio inemotivo, non c’è bisogno di fare complimenti”. In
questo suo ultimo tentativo, vuole assistere alle scene struggenti
che seguiranno come fosse uno spettatore. Stavolta, per davvero.
La domanda di Nami, “Adesso hai un pugnale, non ti viene
voglia di andare in guerra?”, fa eco alla controversia culturale
della ri-militarizzazione del Giappone nei primi anni del
ventesimo Secolo. La restaurazione Meiji aveva abolito la classe
dei Samurai, e vietato a chiunque di indossare armi. Prima,
indossare due spade era l’unico simbolo di riconoscimento della
casta dei Samurai, e il segno tangibile del loro potere effettivo.
Con questo atto, il nuovo Governo imperiale voleva rendere
esplicita la volontà di privare i Samurai del loro potere, ma
216
soprattutto sancire un principio egalitaristico, almeno
formalmente, che fosse ben visibile alla larga parte del popolo,
reduce da centinaia di anni di soprusi e sottomissione alla classe
militare.
Adesso, in nome di una politica espansionistica e di un
militarismo di stampo fascista che si andava formando in quegli
anni, ai nuovi guerrieri era di nuovo consentito indossare armi. E,
avere un’arma provoca la tentazione di usarla, che si sia semplici
uomini o interi stati.
Il dialogo fra i personaggi è leggero, persino il nonno, che
sembra essere molto triste, sorride quando il protagonista gli
chiede della sua passione del tiro con l’arco. È capitato a tutti noi;
anche nelle occasioni più tristi, anche quando perdiamo una
persona cara, è impossibile mantenere l’umore assolutamente
costante e concentrato sul sentimento dominante. Alle volte, ci
scappa una risata persino a un funerale. E quando succede, ce ne
dispiaciamo, come se, osservando la nostra emozione che emerge
spontanea, in contrasto non solo con l’umore generale, ma
persino con il nostro stesso stato d’animo, ci chiedessimo, ma
come, non dovrei essere triste? Non è un sacrilegio, o non è
almeno un po’ strano ridere mentre sto provando un dolore
tanto grande?
È semplicemente che l’emotività non si piega di fronte alla
ragione. Souseki descrive questa spontaneità, lontana da una
scelta razionale del proprio stato emotivo, proprio mentre
descrive il ritorno del protagonista alla città, a quel luogo di
attività quotidiana dal quale era fuggito, per intraprendere la sua
ricerca dell’estèsi. È in questa normalità che la sua ricerca si
esaurisce.
L’altro tema centrale dell’opera, la critica alla corrente letteraria
del mondo fluttuante, qui si fonde con la struttura stessa della
narrazione. Un taglio “verista”, con descrizioni di oggetti
concreti, dialoghi rapidi e superficiali, sequenze temporali,
impressioni visuali; il tutto è esattamente la realizzazione pratica
217
della teoria tratteggiata lungo tutta l’opera. Questa realizzazione,
la pratica del verismo alla Souseki, è l’affondo finale al mondo
fluttuante che, ormai, l’autore ritiene definitivamente sconfitto,
anzi, superato.
Altro aspetto appena sfiorato è la critica alla modernità. Souseki
è in realtà un convinto modernista, e nel suo quotidiano
abbraccia con convinzione l'innovazione tecnologica e sociale
che si accompagna al ventesimo secolo. Ma qui, si permette non
tanto una critica, quanto un’analisi attenta dei pericoli che la
modernità porta. Al singolo vengono date potenzialità senza
precedenti, ma questo si accompagna alla difficoltà di realizzare
queste potenzialità, e alla frustrazione nell’insuccesso. È un tema
sempre nuovo, perché fin dall’inizio del ventesimo secolo, a ogni
generazione le potenzialità del singolo sono andate aumentando,
rendendo quelle dei propri genitori pallide, al confronto. Souseki,
da grande autore quale è, riesce ad individuare una tendenza che
si ripeterà costante, una tensione fondamentale nello sviluppo
sociale di una civiltà basata sul progresso tecnologico. Ma qui, a
Souseki non interessa trovare una soluzione. Il suo sfogo non
vuole essere né una critica, né tanto meno una soluzione al
problema. Solo, se fino a ora ha lottato con i suoi colleghi
contemporanei, dimostrando la necessità di superare la letteratura
del passato (e superare non solo nel senso di “andare oltre”, ma
anche e soprattutto nel senso di “essere migliore”), proprio nel
momento del suo ultimo successo, della vittoria suggellata dalla
perfetta narrazione verista, vuole mettere in guardia chi decida di
seguire le sue orme da quanto di distruttivo, di nevrotico e di
disumanizzante esista nel modernismo estremo. È come se ci
dicesse, sì, superiamo il passato, e di slancio; ma ricordiamoci di
restare umani – al più, inemotivi, ma pur sempre umani.
Tre sono i cammei pregevoli su cui voglio porgere l’attenzione.
In ordine cronologico, per primo la secca chiusura del dialogo fra
il protagonista e Nami:
«Ma sì, trattami da scema giusto perché sono donna!»
218
«È proprio perché sei una donna che dici queste scemenze.»
«Ah, è così, eh? E allora fammi vedere quanto varia il tuo volto.»
«Il mio volto cambia tutti i giorni, anche troppo.»
Nami abbassa improvvisamente il registro, stizzita, pensando
che il pittore si stia celiando di lei. Ma il suo scatto non va nel
senso che potrebbe essere inteso da una sensibilità occidentale
moderna, ossia, una reazione all’essere trattata con sufficienza
solo perché donna; è l’esatto contrario. Qui Nami teme di essere
stata appiattita al ruolo dell’uomo, teme che che il pittore la tratti
non da donna, ma da amico. Il pittore risponde che l’idea sciocca
di essere trattata diversamente, e quindi di liquidare le sue parole
come se fossero uno scherzo da commilitoni, proprio in quanto
donna. Lei si ritrae sulla difensiva, ed è per questo che crede che
l’idea che il volto possa cambiare a piacimento sia solo uno
scherzo, ed è questo che il protagonista stigmatizza. Ma il pittore
è serio: il volto cambia davvero di giorno in giorno. Ad esempio
la lunghezza della barba, lo scavarsi delle rughe agli angoli della
bocca, l’assumere un atteggiamento serioso, piuttosto che
rivolgere uno sguardo neutro, o un sorriso sereno a qualsiasi
cosa, a seconda del proprio umore...
Il pescatore sul fiume che incrocia gli occhi di Kyuuichi, è uno
dei particolari che fanno parte del verismo che caratterizza
questo capitolo. Una figura di nessuna importanza, che non
interagisce con i personaggi; anzi, importante proprio in quanto li
ignora. Ironicamente, Souseki lo paragona a Tai Gongwang, un
saggio dell’antica Cina che diventa consigliere di un re, mentre è
solo un pescatore che si ostina a ignorare il mondo che lo
circonda.
I due avventori della sala da tè di fronte alla stazione sono
ancora elementi totalmente ininfluenti nel romanzo, e importanti
proprio per questo. Ancora, sono elementi che uno scrittore della
corrente dell’ukiyo non avrebbe mai inserito. Eppure, sebbene
irrilevanti, Souseki riesce a dirci molto di loro: contadini, fuori
219
luogo in città, probabilmente sono venuti per vedere un dottore,
che non ha potuto curare quello di loro che sta male.
Per quanto riguarda la scelta del soggetto, penso possa trattarsi
di un cenno autobiografico, come ce ne sono altri sparsi nelle
pagine del romanzo. Infatti, Souseki soffriva di ulcera, e ne morì
nel 1916. Probabilmente, iniziava a provare dolore già nel 1906,
mentre stendeva questo romanzo. Quasi come se il dolore che
stava provando gli avesse dato l’ispirazione di inserire questi due
personaggi là, dove aveva deciso di scrivere di un soggetto fuori
tema, ininfluente nella trama del romanzo, seppur importante nel
piano generale dell’opera, in quanto sinergico alla formazione del
quadro verista.
Ciò che chiude l’opera è il completamento del quadro mentale
che il protagonista cercava di formare. Come ogni altro aspetto di
questo romanzo, si tratta di una chiusura che agisce su più livelli.
Da un lato, abbiamo il ritorno dell’artista nella realtà cittadina,
sigillata con un racconto verista degli eventi mondani che lo
circondano; dall’altro abbiamo il completamento della personalità
di Nami. Lei, artista perfetta, in quanto capace di trasmettere la
sua arte senza recitare, mostra una gamma completa di emozioni,
ma la sua interiorità è chiusa al mondo esterno. La danza
composta, seppur naturale, che inscena per il protagonista è
incompleta, perché manca quella scintilla di essenza, di anima
diretta, non mediata; manca quella scintilla raffinata nel cristallo
che significa l’anima stessa dell’artista, di cui Souseki parla quando
arriva a definire l’arte. Lo struggimento che Nami prova mentre
guarda per l’ultima volta l’uomo che era stato suo marito è un
sentimento puro, che non vuole essere mostrato, che lei non può
indossare come un abito, e che non può interpretare come una
danza. È un sentimento solo suo, intimo, che emerge perché non
può fare altro che emergere. Nami aveva interpretato la sua vita,
e i suoi sentimenti, vivendoli con consapevolezza e naturalezza, e
l’artista in cerca di una via di estèsi era rimasto affascinato da
questa danza, dai sentimenti che Nami indossava, consapevole e
con naturalezza.
220
Questo sentimento, e questo solo, Nami lo prova
inconsciamente, incontrollatamente. Non lo guarda passare, non
lo vive, non lo subisce, non lo indossa. Semplicemente, il
sentimento nasce in lei, ma non per lei. Viene al mondo
attraverso di lei, ma non grazie a lei.
Ed ecco che il quadro si completa. Adesso Nami non è solo
colei che vive consapevole del suo vivere, non ha solo raggiunto
l’estèsi cercata dall’artista; incarna la perfetta naturalezza del
vivere, incarna l’emozione pura che non può essere
razionalizzata, incarna la sorpresa di scoprirsi sconosciuti, e
incarna l’essere oltre il bisogno di assaporare questa sorpresa.
Ed ecco che l’autore e il protagonista, tornati nel mondo reale
dopo il loro viaggio, trovano l’arte totale nella normalità di un
sentimento puro. Un koan Zen recita: il novizio non vede la via; il
monaco segue la via; il maestro non vede la via. All’inizio del viaggio in
quest’opera, la via verso l’estèsi era indefinita. Poi, si traccia il
sentiero dell’artista, che apprende la tecnica, ma intravede
l’obiettivo che la trascende: è la naturalezza di Nami, che indossa
le proprie emozioni senza doverle studiare. E alla fine, ecco l’atto
del maestro, di Nami, che consiste nell’essere presa da
un’emozione che non può indossare, e nemmeno vivere;
semplicemente, Nami e la sua emozione coesistono, come in una
persona qualsiasi, come il maestro che non vede la via,
esattamente come l’allievo; ma non vederla più dopo averla
percorsa, non vederla perché ora il maestro stesso è la via, è
qualcosa di completamente diverso.
Questa era l’illuminazione estetica che il protagonista e l’autore
cercavano. In questo momento, nel raggiungimento, nel
riconoscimento di quell’emozione che giunge oltre la possibilità
di essere vissuta, si realizza l’estèsi totale, e lo scopo finale del
viaggio.
221
Note di traduzione
1
In questo primo paragrafo delle note di traduzione, è necessario
introdurre anche la descrizione delle scelte che hanno condotto
alla traduzione di alcuni termini chiave che, presentati nel primo
capitolo, accompagneranno il lettore in tutta l’opera.
世 の 中 – yo no naka, vuol dire letteralmente “in mezzo al
mondo”, ed è una semplice espressione idiomatica che indica lo
stato delle cose, la realtà pratica opposta alla vuota teorizzazione.
Ho scelto il termine “stare al mondo” per tradurre l’uso che il
protagonista fa di questo termine.
Il protagonista fa anche un largo uso di termini che contengono
la radice 人 – nin – umano. La parola “umano”, in Italiano,
richiama una volontà di estraneazione, di astrazione dalla
condizione terrena che, sebbene confacente al protagonista, non
è invece letteralmente presente in alcuni di questi termini. ad
esempio 人間 – ningen – è letteralmente “genere umano”, ma è
un termine di uso talmente comune da assumere semplicemente
il significato di “persona”, o “persone”, in un registro
giust’appena formale. Allo stesso modo, 人 情 – ninjou, che
letteralmente vuol dire emozioni umane, non ha un senso di
opposizione o di distinzione dell’emotività così come usualmente
vissuta; è un semplice termine di uso comune che indica i
sentimenti, anche qui in un registro velatamente formale. Ho
usato il termine “umano”, che in Italiano ha forti connotazioni
metalinguistiche, solo per tradurre parole specificatamente
appartenenti all’area scientifica o filosofica, come 人類 – jinrui –
razza umana e 人物 – jinbutzu – “uomo-cosa”, uomo visto nella
sua fisicità di animale.
225
Fra questi termini, assume particolare importanza la parola 非人
情 – hininjou – letteralmente “anti/uomo/passione”. Si tratta di
un neologismo coniato da Souseki per l’occasione, ed ho voluto
tradurlo con un neologismo che potesse avere la stessa valenza in
Italiano: “inemotività”. Sono stato fortemente tentato dal termine
“disumanizzazione”, che avrebbe dato un taglio più moderno alla
parola. Ma sebbene questa parola fosse attraente, e sebbene
sarebbe stata perfetta nella battuta finale del primo capitolo
(provate a rileggerla sostituendo la parola “inemotività” con
“disumanizzazione”), non rendeva il carattere di “emotivo,
passionale” che la parola originale aveva.
Il tono e la forma impersonale colloquiale in “tu” che ho
adottato nell’incipit cerca di rendere l’originale, decisamente
informale, che ha il chiaro scopo di coinvolgere attivamente il
lettore nel monologo del protagonista, al punto da farne quasi un
dialogo fra il protagonista e il lettore. Sebbene la forma scelta
dall’autore sia grammaticalmente una forma impersonale, Souseki
tinge sapientemente diversi dei termini nell’incipit di caratteristici
tocchi “volitivi” e personali. L’impressione che se ne riceve è
quella di ascoltare un narratore che parla in tono diretto, schietto
e assertivo di argomenti che esso presenta come verità universali,
sulla base dell’estensione della propria esperienza vissuta,
passando dal particolare al generale. Questo modo di presentare
la propria esperienza attraverso forme impersonali è piuttosto
comune in Giapponese, e rappresenta una normale modalità
comunicativa. Ho ritenuto che il modo più diretto di tradurre
questa forma espressiva, sia per tono che per connotati metalinguistici, fosse il “tu” impersonale, usato spesso in Italiano nelle
conversazioni informali.
Ad esempio, “lo stare al mondo è difficile” è nell’originale とか
くに人の世は住みにくい – tokaku ni hito no yo wa suminikui –
che costituisce una modalità di comunicazione estremamente
diretta e informale.
226
Nella frase “dopo essere stato al mondo per vent’anni, compresi
ciò che valeva la pena d’essere vissuto davvero”, lascio cadere la
ripetizione di “mondo” nell’originale: 世に住むこと二十年に
して、住むに甲斐ある世と知った – yo ni sumu koto nijuunen
ni shite, sumu ni kai aru sekai to shitta 7 – che letteralmente vuol dire
“dopo aver vissuto nel mondo per ven’tanni, seppi che c’era un
mondo in cui valeva la pena vivere”. È impossibile non notare
l’allitterazione con rima interna in “sumu ni kai aru sekai”
dell’originale, e non potendo renderla in Italiano, mi è sembrato
inutile mantenere la ripetizione che, evidentemente, verteva su
questo effetto.
La frase “...considerato che sono in grado di plasmare il
creato...” traduce またこの不同不二の乾坤を建立こんりゅ
う し 得 る の 点 に お い て – mata kono fudoufuji no kenkon wo
konryuu shieru no ten ni oite – letteralmente, “… e ancora, riguardo
al punto che sono in grado di erigere un universo non-unitario e
non-duale”. Il concetto di universo non-unitario e non-duale è
un termine taoista, che ha una forte connotazione
filosofico/religiosa. Qui, l’autore non sembra avere alcun
interesse per il significato letterale del termine, fra l’altro di
difficile comprensione per i suoi contemporanei; piuttosto,
sembra interessato a tirare in ballo, in questo contesto, un
termine facilmente riconoscibile come avente una precisa
connotazione filosofica; uno scrittore occidentale avrebbe potuto
ricorrere alla “causa prima” aristotelica, o alla “quintessenza”
della materia. Qui ho ripiegato su “creato”, che ha una
connotazione più filosofica e religiosa della parola dal suono
scientifico “universo”.
Nella scena dove il protagonista inciampa e cade su una pietra
alta circa un metro, è difficile rendere il ritmo crescente e il
7
La pronuncia “ufficiale” degli ideogrammi è diversa da quella esplicitamente
indicata dall’autore, che la scrive sopra di essi, in una tecnica nota come ateji.
227
decrescente livello di registro. Praticamente, subito prima del
“fatto”, il protagonista sta cadendo nei suoi pensieri, tanto che
l’ultima frase è in tono colloquiale, pressoché dialettale. Con
quella gestualità che caratterizza le opere teatrali, e poi
cinematografiche e figurative giapponesi, il protagonista finisce
col pensare “tanto forte” da “colpirsi da solo”, e cadere. Non
solo; la pietra alta proprio un metro, e un tempo indefinito prima
che il personaggio si rialzi, ci suggerisce, senza dirlo, che la caduta
è stata particolarmente dolorosa…
Il frammento della poesia di Shelley sulle allodole che inizia con
“We look before and after...” è tradotto in Giapponese dall’autore
nell’originale, all’interno del testo, in prosa, così come appare in
questa traduzione.
L’inciso “è cosa da poco”, nella scena in cui il protagonista
calpesta i dente di leone, cerca di mantiene l’ambiguità presente
nel testo originale fra il riferimento al comportamento dei fiori,
che ignorano il passante, e il comportamento del protagonista,
che si è preso pena per qualcosa per cui non c’era bisogno di
preoccuparsi.
In “Se prosegue giusto un miglio, trova una sala da tè. Certo che
ti sei proprio bagnato, eh?” il passaggio dal tono formale a quello
colloquiale nella seconda frase è nell’originale.
Nella battuta che riguarda i cavalli dalla “faccia più lunga dei
loro padroni” ho colto un forte richiamo alla letteratura inglese.
Il modo di dire “avere la faccia lunga” per indicare
un’espressione triste è presente sia nella cultura Italiana che in
quella Inglese, mentre è assente in quella Giapponese. Con
“faccia lunga”, in Giapponese si intende esattamente un volto
lungo, sproporzionato, quindi sgraziato, opposto al volto ovale
che incarna l’ideale di bellezza orientale. Tuttavia, Souseki visse
per tre anni in Inghilterra, e sarà certamente venuto in contatto
con questo modo di dire. La traduzione del passaggio è
pressoché letterale, e leggendolo non ho potuto scacciare l’idea
228
che Souseki avesse voluto strizzare l’occhio a quei pochi
connazionali che sarebbero stati in grado di capire la battuta.
Poesie nel capitolo
A parte la poesia di Shelley, in Inglese, in questo capitolo
Soueseki cita due brevi passaggi da poemi cinesi.
Il primo è un brano in 5-5 sillabe, a rima baciata con assonanza
interna, del poeta cinese Yuangming, tratto dal componimento
“Venti sorsi di vino”. Souseki ne propone una traduzione in
Giapponese, annotando gli ideogrammi nel manoscritto
originale; si tratta di una traduzione in prosa, che non cerca di
rendere il ritmo o la metrica originale. Qui, la traduzione letterale
dal Cinese:
採菊東籬下
colgo crisantemi sotto la siepe a est
悠然見南山
sovrappensiero guardo la montagna a sud
Il secondo è invece in quattro versi di cinque sillabe a rima
alternata, tratto dal “Palazzo di Bambù” di Wang Wei. Anche in
questo caso, la traduzione in prosa giapponese è nell’originale, e
traduce letteralmente la poesia cinese:
独坐幽篁裏
sedendo da solo fra i bambù
弾琴復長嘯
suono l’arpa e, di nuovo, canto a lungo
深林人不知
il bosco profondo non conosce l’uomo
明月来相照
arriva la luce della luna a splendere
[assieme a me
229
2
Il termine “anticamera” traduce 土 間 – doma – letteralmente
“stanza in terra”, fungeva da l’anticamera, o ingresso, nelle case
giapponesi e soprattutto nei negozi. Era costituito da un’ampia
area, spesso larga quanto tutta la casa e lunga anche un paio di
metri, dove gli ospiti (o gli avventori) lasciavano gli zoccoli ed
eventualmente i soprabiti. Si potrebbe pensare quasi come una
veranda chiusa più che a una stanza vera e propria; il suo nome
deriva dal fatto che anticamente, e in alcuni casi anche all’epoca
di Souseki, il pavimento della doma era in terra battuta.
Nell’incipit, perdo una splendida espressione che riguarda il
braciere posato sulla panca. L’espressione “incurante dello
scorrere del tempo” traduce in realtà una frase molto ricercata: 日
の移るのを知らぬ顔で – Hi no utsuru no wo shiranu kao de
– letteralmente “con la faccia di uno che non conosce il passare
dei giorni”. Tradurlo mantenendo anche solo una parte
dell’aspetto letterale sarebbe stato impossibile, perché, in Italiano,
tutte le espressioni simili appartengono a un registro colloquiale,
mentre la frase suona molto poetica in Giapponese. Ho scelto
quindi di usare il senso di “personalizzazione” che aveva
l’espressione originale attraverso l’avverbio “incurante”, che è
proprio di cosa animata. Infatti, in tutto il brano iniziale, Souseki
cerca di dare una caratterizzazione vitale, quasi consapevole agli
oggetti che lo circondano. I polli pensano, il braciere è tranquillo,
l’incenso fa la faccia indifferente...
L’espressione “fa un po’ strano” traduce una locuzione
estremamente colloquiale e “moderna”, per l’epoca in cui era
scritta. Per rendere questo senso attraverso questa locuzione, ho
leggermente girato il senso della frase, che in originale era
qualcosa di simile a “la scena che sto vedendo di una persona che
non soffre a lasciare incustoditi i propri averi è un po’ diversa che
in città”, ma la frase sfrutta due idiomatici e sia il senso che il
230
tono complessivo risultano più vicini alla traduzione nel capitolo
che non al senso letterale.
La frase “Essere inemotivi da queste parti sarà uno spasso” è la
chiave di lettura del capitolo. Va detto che si tratta di una frase
grammaticalmente ambigua, perché letta allo stesso modo, ma
con un “taglio” differente, potrebbe anche significare “questi
luoghi sono interessanti/divertenti per la loro inemotività”, ma
mi sento di escludere con decisione questa seconda lettura; il
tono enfatico del resto della frase da un lato, e il contesto in cui il
protagonista sta illustrando un luogo “umanizzato”, opposto alle
città fredde e guardinghe, rendono questa lettura decisamente
improbabile. Anche in questo caso, il termine di basso registro
“spasso” è stato scelto in base al tono dell’originale.
Nell’espressione “vedere qualcuno che non non soffre a lasciare
incustoditi i propri averi fa un po’ strano”, Souseki usa un
elegantissimo ateji, ossia, una composizione di ideogrammi a cui
viene dato un suono diverso per significare un concetto
intermedio. La parola qui usata, – mise – vuol dire “negozio”, ma
gli ideogrammi usati sono 見世 – vedere + mondo – col senso
“quanto vediamo del (nostro) mondo”. Il senso medio sono gli
“averi”, con riferimento anche all’attività commerciale.
Nel capitolo, ci sono due momenti in cui il tono e il registro
salgono costantemente, fino a raggiungere un picco di estasi
poetica che avvicina la prosa alla poesia; raggiunto l’apice,
l’incantesimo si rompe e il protagonista rimane contrariato,
disturbato dall’aver quasi afferrato l’effimero per un istante, e
non esservi riuscito per quelle scomposte pose dei protagonisti
del suo dipinto mentale, a cui accennava nel primo capitolo, e
che, secondo i suoi piani, avrebbero dovuto anch’esse far parte
dell’estèsi. Il primo è quando l’anziana signora indica la roccia del
Tengu; appena il tempo aprire il blocco da disegno, e il
protagonista rimane “con un palmo di naso” (l’espressione usata
dall’autore – temochi busata – non è molto dissimile da questo
significato).
231
Il secondo è quando Gen-san impreca al suo cavallo,
probabilmente per averlo schizzato con l’acqua appena caduta.
Nell’originale, l’imprecazione è コ ラ ッ – kora – non proprio
volgare ma nemmeno elegantissimo, direi meno formale di
interiezioni come “insomma!” o “allora!”. Ma la scritta in
katakana e l’aggiunta di un piccolo tsu finale aggiungono una
sfumatura più popolana, e un “porcaccia” ci sta proprio bene.
Si noti anche lo scambio di battute fra i due personaggi; la
conclusione “che guaio...”, che è piuttosto tipica di un certo
modo di dialogare stereotipato, richiama l’idea che il protagonista
vuole avere delle persone che avrebbe incontrato nel viaggio, che
si sarebbero dovute comportare come attori in una recita. Ecco la
recita, che precede il momento di estasi poetica, e che dura assai
poco.
Trovo adorabile l’uso dell’onomatopea pura jaran jaran per
descrivere il rumore dei campanelli, e la sua ripetizione a mo’ di
tormentone. Fa molto “giapponese in vena di sorridere”.
Nell’originale, quando viene usata per l’ultima volta (mentre
Gen-san si allontana), ho tradotto con “Dietro ad un jaran jaran”
il semplice じ ゃ ら ん じ ゃ ら ん と – jaran jaran to. Il to finale
esprime un complemento di citazione e/o di accompagnamento.
Significa contemporaneamente “con un jaran jaran” e “dicendo
(facendo) jaran jaran”. Il fatto che stia da solo in una frase ci da il
senso di “aggiunta”, “p.s.”, “e anche...”, che funziona proprio
come nella traduzione in Italiano. Tuttaiva, ho preferito arricchire
con “Dietro ad un...”, invece del più semplice “con un...” o
“facendo...”,
perché l’uso del to in quella posizione è
comunissimo in Giapponese, mentre sarebbe suonato un po’
monco in Italiano.
Il termine “rio”, sul finire del capitolo, traduce 白川 – shirakawa
– letteralmente “fiume bianco”. Oltre a essere un toponimico
(famosa località della provincia di Kumamoto, dichiarato
patrimonio dell’umanità dall’Unesco), è un termine piuttosto
232
desueto, usato nei poemi classici, che indica un generico torrente.
L’autore insiste sull’uso di questo termine, una volta introdotto
dalla signora anziana, quasi “agganciandosi” ad esso, un po’
scherzosamente, come a voler enfatizzare l’uso di questa parola,
sicuramente preso da qualcuno dei poemi che la nonna sembra
ripetere senza comprendere a pieno.
Poesie nel capitolo
Mi sono preso la libertà di tradurre gli haiku e il tanka
mantenendo la metrica 5-7-5(-7-7). Ho cercato nel contempo di
rispettare il senso, la lettera e la struttura degli originali. A questo
scopo, ho preso la licenza poetica di sostituire “primavera” con
“vera”, e il complemento “della primavera” con l’aggettivo
“verreo”. Stesso discorso per “carriere” al posto di “carrettiere”.
Per chi desidera approfondire, ecco gli originali e la loro
traduzione letterale:
春風や
haru kaze ya – vento di primavera e
惟然が耳に
Izen ga mimi ni – Izen, al cui orecchio
馬の鈴
uma no suzu – campana di cavallo
馬子唄の
mago uta no – canzone da carrettiere
鈴鹿越ゆるや
suzuka koyuru ya – passa oltre Suzuka e
春の雨
haru no ame – pioggia di primavera
馬子唄や
mago uta ya – [con] canzoni da carrettiere e
白髪も染めで
shirogami mo some de – [persino] il tingersi a
[bianco dei capelli
233
暮るる春
kururu haru – vivere le primavere
花の頃を
hana no koro wo – il tempo dei fiori
越えてかしこし
koete kashikoshi – supera timidamente
馬に嫁
uma ni yome – una sposa a cavallo
Il tanka “Verrà l’autunno” è esattamente il brano n.1564, nella
sezione 8 del Man’you-shuu, attribuito ad una poetessa dell’epoca
di Nara conosciuta solo con l’epiteto “Dama Heki dei Lunghi
Rami”. In prosa, i versi significano più o meno, “Soffro perché
so di essere come la rugiada, che si posa sugli steli d’erba, ma che,
in autunno, è destinata a svanire”. È stato scritto intorno all’anno
800, quando la scrittura cinese era stata da poco importata e non
ancora completamente adattata al Giapponese. Si tratta di un
Giapponese talmente antico da essere pressoché inintelligibile
oggi, a parte alcuni punti fermi che permettono, a un Giapponese
ben istruito, di comprendere il senso generale. Questo è
l’originale:
秋付者 尾花我上尓 置露乃 應消毛吾者 所念香聞
Souseki usa una ricostruzione principalmente fonetica di quello
che doveva essere il suono dei caratteri, tratta da uno studio
praticamente contemporaneo alla stesura del romanzo:
あきづけば/をばなが上に/置く露の、/けぬべくもわは、
/おもほゆるかも
Io ho preferito basarmi su uno studio più moderno, che
mantiene i caratteri ideografici che non hanno cambiato
significato né pronuncia, e aggiunge l’uso di alcuni ideogrammi
che entrarono a far parte del Giapponse in un momento
234
successivo, e riassumono il suono espresso nella versione
precedente. Questa è la traduzione letterale:
秋づけば
aki-zukeba – quando arriverà l’autunno
尾花が上に
wobana ga uhe ni – sugli steli d’erba8
置く露の
oku tsuyu no – la rugiada posata
消ぬべくも吾は
kenubeku mo waha – dovrà svanire, e
[così io
思ほゆるかも
omohoyuru kamo – penso dolorosamente
Secondo le analisi filologiche più diffuse, l’io parlante nella
poesia pensa a se stesso come a rugiada che dovrà svanire e se ne
dispiace. Questa è probabilmente l’interpretazione che aveva più
presente Souseki, essendo molto adatta a rappresentare le ultime
parole di una donna che si suicida per amore. Si tratta anche
dell’interpretazione molto autorevole presentata da Kouichi
Satou nel suo “Introduzione al Man’youshuu” (Man’youshuu
nyuukan, Bungeisha), secondo la quale il “kamo” finale sarebbe
una particella esclamativa rafforzativa (una specie di “ahimè”).
3
Il testo originale dell’incipit del capitolo è 昨夕は妙な気持ち
が し た – yuube wa myou na kimochi ga shita. L’espressione è
estremamente semplice e colloquiale, ma renderla direttamente in
Italiano è molto difficile. Letteralmente vuol dire: “L’altra sera mi
ha fatto una emozione strana”. L’uso dell’idiomatico strutturale
“x ga shita” (mi ha fatto... mi ha dato) richiede l’applicazione di un
idiomatico strutturale che possa avere la stessa significanza per il
8
Wobana – si tratta di un tipo particolare di erba selvatica ad alto stelo, tipica del
Giappone.
235
lettore italiano. Qualsiasi traduzione rispettosa sia del senso che
della lettera della frase, come ad esempio “La sera scorsa mi ha
dato strane emozioni”, perde il tono dell’originale, rendendolo
troppo asettico. Soprattutto, si perde una certo coinvolgimento,
calore, condivisione che l’autore vuole richiamare nel lettore. Ho
preferito allora perdere la lettera di “emozione” (kimochi), per
tradurre più l’atmosfera della frase che non la sua struttura. Ecco
quindi che la scelta cade su: “Che strana, ieri sera”, una frase che
mantiene il senso dell’originale e recupera il sottile invito alla
partecipazione e alla condivisione, pur sacrificando la struttura e
la lettera. Va inoltre detto che è importante il richiamo di poche
righe dopo: “Quel che mi ha fatto strano...” che permette di
riprendere un concetto di “stranezza” generale, dato dalla “sera”
nel suo complesso, e che in questo rispetta lo stesso richiamo (e
anche lo stesso tono colloquiale) presente nell’originale.
Il termine “donnina” traduce gli ideogrammi 小 女 (ko-onna,
piccola + donna). Questo termine veniva usato all’epoca di
Souseki per indicare le inservienti, ma solo quelle effettivamente
giovani. Si tratta quindi di una descrizione letterale (piccola
donna) che diventa un idiomatico per “inserviente” in modo del
tutto incidentale. Il significato che passa nella mente del lettore
giapponese è “una piccola donna, quindi inserviente”. Questo
uso può essere compreso “naturalmente” anche da un lettore
Italiano, quindi ho preferito tradurre letteralmente il termine
originale.
L’inciso “e l’incertezza del mio cuore incerto si fa incerta”
traduce in modo abbastanza letterale 心細さの細さが細る –
kokorobososa no hososa ga hosoru – la sottigliezza del mio cuor sottile
si assottiglia. “Cuore sottile” è un’idiomatico che significa
ansioso, incerto (non nel senso di indeciso, ma nel senso di
malfermo). Qui, forse, il concetto di “ansia” spiegherebbe meglio
l’originale, ma si perderebbe il gioco di parole, e “incertezza” è
comunque una traduzione abbastanza adeguata.
236
La frase “…e abitano nei tre angoli rimasti, possiamo anche
chiamarli artisti” merita un piccolo approfondimento. Intanto, va
detto che ci perdiamo l’accostamento del verbo “vivere” con il
concetto di “casa” in 三角のうちに住むのを芸術家– sankaku
no uchi ni sumu no wo geijutsu-ka – [quelli che] vivono in una casa
triangolare [si chiamano] artisti. Ma il termine uchi ha una doppia
funzione: come nome significa casa, ma come particella singifica
“fra”, “all’interno”. In realtà, uchi ha il significato etimologico di
“interno, intimo”, e assume quello di “casa” solo per estensione.
Qui, piuttosto, il concetto di casa viene fatto... uscire dalla porta
dando a uchi il compito di diventare particella/preposizione (fra i
tre angoli), e rientra dalla… finestra… in geijutsuka – artista – che
letteralmente vuol dire “di casa (di un casato) d’arte”. Si tratta di
uno di quei trucchi che Souseki usa spesso per sorprendere il suo
lettore. Volendo, si potrebbe anche tradurre sankaku no uchi ni
sumu come “vivere in una casa triangolare”, ma l’assenza
dell’ideogramma che significa esplicitamente casa, e l’uso delle
lettere fonetiche al suo posto, l’uso della parola “tre angoli”
(sankaku) al posto dell’aggettivo “triangolare” (sankaku-kei), oltre
al significato di “stato in luogo” in detti “tre angoli”, ci fanno
propendere per tradurre uchi con “fra”. Piuttosto, si recupera il
senso subliminale di “casa” usando il verbo “abitare” al posto di
“vivere” (che è comunque uno dei significati estesi di sumu). Nella
stessa frase,と呼んでもよかろう– to yonde mo yokarou – ha un
forte senso volitivo; il -rou finale corrisponde grosso modo
all’inglese “let’s”. Il significato letterale è “facciamo[ci] andare
anche bene il [fatto di] chiamarlo così”.
Ho usato il termine “giramento di scatole” per tradurre
l’espressione hara ga tatsu. Letteralmente, questa espressione
significa “si alza (in piedi) la pancia”, e potrebbe essere tradotta
in maniera meno letterale con il nostro “dare (o avere) il
voltastomaco” – ma non è questo il senso. L’espressione non
sottintende un senso di nausea, bensì l’idea di essere scocciati,
seccati, di provare un’intrattenibile rabbia viscerale. Inoltre, ha un
sapore popolare e sottilmente volgare che, in questo contesto,
237
“avere il voltastomaco” non rendeva. L’intenzione di Souseki era
proprio quella di abbassare il registro in modo brusco, pur senza
scendere direttamente nello scurrile.
Nel testo originale, nella scena in cui il protagonista, uscito dalla
vasca da bagno, si trova davanti la Signora, non c’è la parola
“donna”. Il fatto che si tratti di una donna lo si capisce dal saluto
e da come chiede “dormito bene?”: 御早う。昨夕はよく寝ら
れましたか – Ohayou. Yuube wa yoku nemuraremashita ka. Il saluto
informale ohayou, seguito dal verbo passivo e reso formale
nemuraremashita, e anche il wa dietro alla parola di tempo yuube (ieri
sera), marcano la frase come appartenente al registro semiformale detto chiwa, tipicamente di uso femminile. È un po’ come
se uno scrittore italiano avesse descritto la stessa scena facendo
dire alla Signora: “oh, scusa, sono stata indiscreta”. La parola
“indiscreta” ci avrebbe fatto capire che chi parla è una donna, e
lo scrittore non avrebbe avuto bisogno di ripeterlo
successivamente. Non avendo nessun aggettivo o participio da
rendere al femminile, ho dovuto ripiegare per cambiare il
successivo hito (persona) in “donna”.
La frase di commiato della Signora è 往いって御覧なさい。
いずれ後のちほど – Itte goran nasai. Izure nochihodo. Il verbo iku
è normalmente scritto 行く; l’ideogramma 往 è molto insolito.
Ricorda 住 – sumu – abitare, stare in un luogo, vivere. Quindi,
Souseki ha voluto trasmettere un senso di movimento verso un
luogo che sarebbe poi diventato un luogo di soggiorno. L’altra
parte della frase, izure nochihodo, significa letteralmente “ad un
certo punto, in seguito”. È una di quelle espressioni idiomatiche
che sottintendono una parte della frase, lasciata non detta perché
nota. In Italiano, sarebbe come dire “tanto va la gatta al lardo...”.
Un esempio più comune di questo tipo di costruzione è il saluto
o-saki ni… che letteralmente significa “prima di voi”, ma è
idiomaticamente legato al concetto “esco dall’ufficio/finisco il
238
lavoro/torno a casa prima di voi”. Qui, nochihodo – “in seguito” è
idiomaticamente legato a “vi spiegherò tutto”. Izure è
semplicemente un rafforzativo. Quindi, la Signora intende dire
che, quando l’ospite si sarà accomodato, si presenterà per
“spiegare” qualcosa, probabilmente il prezzo della stanza e le
regole dell’albergo. Ho tradotto con “mi farò viva” per
mantenere il tono molto informale, e un certo senso di
“spiegazione” (“farsi vivo”, in genere, significa dare notizie di sé);
inoltre, ho raccolto parte del valore subliminale di 往 , che era
nella frase precedente.
Poesie nel capitolo
Questa è la poesia in Cinese che apre le danze dei
componimenti ermetici:
竹影
ombra di bambù
払階
spazza gradini
塵不動
polvere non muove
Ecco la sciarada di haiku in versione originale con traduzione
letterale:
海棠の
kaidau no – delle aronie
露をふるふや
tsuyu wo furufuya – la rugiada turbinante
物狂ひ
monoguruhi – viene fatta impazzire
花の影、
hana no kage – ombra di fiore
女の影の
onna no kage no – dell’ombra di donna
朧かな
oboro ka na – è foschia!
239
Souseki critica questo haiku con l’espressione ki ga kasanatteru,
ossia, “le stagioni si accumulano”; questo perché una delle regole
degli haiku è quella di inserire uno e un solo kigo, ossia una parola
di che ha a che vedere con “le stagioni” (in generale, con la
natura). In effetti, sia hana (fiore) che oboro (foschia, vaghezza)
sono classificate come “kigo di primavera”; ma in realtà
l’espressione è una perifrasi per indicare che l’haiku è ridondante.
Così come nella traduzione, anche nell’originale l’insistenza in 21-2 sillabe (ombra di fiore / ombra di donna, anche se onna ha
una valenza metrica di 3, per o-n-na) e la ripetizione della parola
“ombra” sono un poco fastidiose, e in questo passaggio l’autore
vuole semplicemente sottolineare che il puntiglio sui dettagli
tecnici che emerge comunque nella mente del protagonista è del
tutto fuori luogo.
正一位、
shiyau ichiwi – nobile di massimo grado
女に化けて
onna ni bakete – trasformata in donna
朧月
oborozuki – la luna velata dalla foschia
Shiyau ichiwi, in Giapponese moderno Shou ichi-i, (letteralmente
“primissimo grado”) è l’onorificenza maggiore concessa a un
personaggio che si sia particolarmente distinto per il proprio
servizio alla nazione o devozione all’Imperatore, anche se in
alcuni casi è stato concesso per diritto “divino” anche prima della
nascita. Il titolo viene anche riferito alle divinità maggiori Shinto,
per distinguerle da quelle minori.
春の星
haru no hoshi – stelle di primavera
を落して夜半の
wo ochite yoha no – cadute, della notte
[fonda
かざしかな
kazashi kana – decorano la volta!
In Giapponese arcaico, la parola “kana” che chiude molti haiku
indica stupore, stupefazione, ed ha un senso simile al kamo
240
esortativo usato nel tanka del Man’yoshuu visto alla fine del
precedente capitolo, traducibile con “oh, quanto...”.
春の夜
haru no yoru – notte di primavera
の雲に濡らすや
no kumo ni nurasu ya – di cui in una
[nube mi bagno, e
洗ひ髪
arahi kami – capelli lavati
春や今宵
haru ya koyohi – primavera e stanotte
歌つかまつる
uta tsukamatsuru – assume canzone
御姿
go-sugata – una forma
In questo haiku Souseki non rispetta la metrica 5-7-5, ma conta
semplicemente 17 sillabe nel complesso.
海棠の
kaidau no – delle aronie
精が出てくる
sei ga detekuru – lo spirito se ne esce
月夜かな
tsukiyo ka na – in questa notte di luna
うた折々
uta ori-ori – una canzone, di tanto in
[tanto
月下の春を
gekka no haru wo – in questa primavera
[sotto la luna
をちこちす
wochikochisu – viene cadendo
Anche in questo caso, Souseki si libera della metrica 5-7-5 e
opta per un 6-6-5.
241
思ひ切つて
omohikitte – con tutta se stessa/col
[massimo impegno
更け行く春の
fukeyuku haru no – avanza lenta, della
[primavera
独りかな
hitori kana – una persona sola (!)
4
Mi sono preso la libertà di tradurre in modo non letterale la
frase: “In questo viaggio inemotivo, è un solido luogo che pare
sfidarmi”. L’originale è 非人情の旅にはもって来いという屈
強な場所だ, letteralmente “in un viaggio inemotivo, è un luogo
resistente che mi dice: portamelo!”. Ho lasciato perdere il
riferimento al discorso riportato perché, in questo caso, si tratta
di una struttura sintattica di base; per quanto abbiano fama di
preferire forme indirette, i Giapponesi esprimono attraverso
attribuzioni dirette molti concetti che in Italiano vanno
perifrasate. Ad esempio, sono comuni le espressioni che
letteralmente suonano come “è una situazione che uno dice:
scappiamo”, o “sembra una di quelle cose che gridi: Ahhhh!”.
L’uso di queste locuzioni di attribuzione diretta è strutturale,
tanto che alle volte riesce a suonare anche abbastanza formale,
sebbene, in genere, marchi il passaggio a un registro basso. Per
quanto riguarda la sfida, non è tanto nel verbo in sé, né
nell’imperativo (motte koi = portamelo!), quanto nell’utilizzo di
quei due verbi e di quella modalità verbale, che in un discorso
diretto e in questo contesto implica più che un ordine, più che un
invito perentorio, una vera e propria sfida a fare quanto richiesto.
In questo caso, una sfida a essere inemotivi fino in fondo, a
portare in questo luogo “resistente” la tanto sospirata
inemotività. Da notare che l’espressione kakatte koi (costruita allo
stesso modo) equivale esattamente al nostro “fatti sotto!”
242
La frase “Ché fra i cibi occidentali di cose con un bel colore non
ce n’è manco una.” traduce un’originale non proprio dialettale,
ma dal tono decisamente colloquiale, che quasi strizza l’occhio al
lettore, e in tono vagamente esplicativo e famigliare gli
“racconta” che, sapete, di cibi occidentali ne so qualcosa, e
saranno quel che volete, ma di colori belli, manco l’ombra. Qui, il
tono dell’autore si abbassa al livello minimo di familiarità appena
al di sopra del dialettale; anche se “manco” è un termine
vagamente dialettale in Italiano, penso che l’espressione possa
tradurre correttamente il tono originale. Poi prosegue con
“l’insalata e quel tubero rossiccio”, che nell’originale è あればサ
ラ ド と 赤大根ぐ らいなもの だ . Mentre per l’insalata usa il
termine tradotto direttamente dall’Inglese, “sarado”, per le carote
finge di dimenticarsi il nome e usa il termine “aka-daikon”, un
tubero rosso morfologicamente simile alla carota, sconosciuto in
occidente ma comune in oriente. Tutto questo brano è in tono
sensibilmente minimo, e invita il lettore al sorriso. Sa un po’ delle
nostre barzellette sull’Italiano, il Francese e il Tedesco che fanno
leva su luoghi comuni che non hanno molto di vero, ma non
importa, tanto fan ridere lo stesso. Avesse voluto essere una cosa
seria, Souseki avrebbe avuto a disposizione termini e locuzioni di
gran lunga più sofisticati.
Il soggetto della frase “al contrario della donna di stamane, ha una
una posa estremamente tranquilla” era originariamente “la posa” e
non “la donna”; ma esiste una parola in Giapponese che esprime
l’insieme di persona e postura (kakkou) che non ha equivalente in
Italiano, e usando “posa” come soggetto, nella frase si
sottintenderebbe che la posa è diversa, ma la persona è la stessa.
Souseki gioca nel contrasto fra le due donne, e per il momento
non le chiama per nome; persino la loro acconciatura è la stessa,
quindi è molto importante individuare senza ambiguità le due
distinte persone.
Nel paragrafo dopo il dialogo con la cameriera, ho usato “non ci
sono palle” per tradurre un’espressione dialettale in registro
243
popolare talmente antica da essere scritta con un ideogramma
non più supportato dai moderni computer, che ha più o meno il
senso letterale di “le menzogne sono ben visibili” o “chi mente
non non ha nascondigli”. In contrasto, l’espressione che ho usato
è piuttosto moderna, ma il detto doveva essere ben comune
all’epoca di Souseki (un po’ come le frasi in latino che usiamo
ancora oggi), e mi permette di recuperare parte del gioco di
significati originale. Infatti l’autore usa questo detto che ha a che
fare col campo visivo mentre parla, in un altro senso, del campo
visivo della cameriera, e del suo, e l’insistenza si avverte piuttosto
forte. Così, fra pupille e occhi, ho pensato di inserire un richiamo
idiomatico che abbia lo stesso senso dell’originale, ossia, che la
verità è lampante, e che permette di recuperare l’insistenza,
seppur focalizzata su un oggetto diverso.
Nello stesso passaggio, il termine “arnese” traduce l’originale 道
具 – dougu – che significa esattamente “attrezzo, arnese,
suppellettile”. L’uso di questa parola abbassa quindi ancora il
registro della costruzione, che sebbene resti molto elegante nella
grammatica e nel concetto, diventa piuttosto colloquiale nel tono
generale.
La frase “Anche se la relazione fra me e la chioma a ginkgo non
ha nulla di amorevole...” presenta due interessanti aspetti del
Giapponese parlato. Il primo è il ricorso abituale alla meronimia,
ossia indicare un oggetto o una persona attraverso un particolare
già citato; nel nostro caso è la cameriera, che diventa
inesorabilmente “chioma a ginkgo”. Il secondo è quello dell’uso
della metonimia, che indica un concetto “globale” attraverso una
sua espressione “particolare”. Nell’originale, la “relazione
amorevole” è parafrasata con l’espressione setsunai omoi,
letteralmente, pensiero doloroso. In poesia (e spesso anche nelle
canzoni moderne), l’amore non corrisposto è rappresentato con
questa espressione; in questo modo, si indica con una parte (il
pensiero doloroso) il tutto (l’amore non corrisposto). L’incrocio
di meronimia e metonimia nella stessa frase, sebbene siano figure
244
retoriche comuni nel Giapponese colloquiale, è un piccolo
capolavoro.
Nella traduzione della frase che introduce la Signora, “In queste
occasioni, mostrarsi timidi, o ritrosi, addirittura vergognosi, non
sarebbe affatto strano”, ho dovuto necessariamente cassare
un’altra parola dal valore ambivalente: keshiki. Normalmente
questa parola significa “panorama” o “scenario”, o al limite
“veduta”, ma in Giapponese assume anche un valore per
estensione e astrazione che in Italiano non ha: indica anche un
atteggiamento visibile, uno “spettacolo” dato da qualcuno, ma in
senso positivo. Una situazione da vedere, in genere bella. La
fusione del concetto fisico di “panorama” e di quello astratto di
“situazione” è l’utilizzo che Souseki fa di keshiki, aggiungendolo
agli aggettivi “timidi”, “ritrosi” e “vergognosi”. In pratica,
significa vedere una persona che dà spettacolo con la sua
timidezza, ritrosia e pudicizia, uno spettacolo piacevole da
guardare. Il concetto è ben noto a tutti coloro che conoscono i
manga e gli anime, con le ragazze inevitabilmente ritratte con le
gote rosse, gli occhi tremolanti e le mani intrecciate mentre fanno
la loro dichiarazione d’amore. Quello è il genere di
“atteggiamento evidente” che ha in mente Souseki quando parla
di keshiki. Purtroppo, nella traduzione ho dovuto rinunciare
all’insistenza di keshiki, ripetuto tre volte accanto a ogni aggettivo,
ma in Italiano non avrei potuto mantenere il ritmo, quindi ho
preferito mantenere il significato usando la locuzione
“mostrandosi...”.
L’idiomatico che segue, “È il caso di dire che mi ha lasciato al
palo”, traduce l’espressione sen ni kosareta, letteralmente “mi
hanno superato nella fila”. Sarebbe equivalente al nostro “mi
sono passati avanti”. In questo caso, il significato in Giapponese
è chiaro: la Signora ha “scavalcato” il turno di essere timida,
lasciandolo all’artista, e si è portata avanti, in un modo che agli
occhi del protagonista, ha del “sopruso”. Tuttavia, applicare lo
stesso idiomatico in Italiano, ossia “mi è passata avanti”, avrebbe
avuto un risultato incomprensibile. Ho deciso di recuperare lo un
245
significato molto simile attraverso un’altra frase idiomatica,
“lasciare al palo”, che in questo caso rende chiaro lo “scatto in
avanti” della Signora. Per amor della completezza, anche l’altra
metà della frase, “È il caso di dire...”, traduce un idiomatico che
sta appunto a significare “siamo in quel tipo di situazione...”
Quando Souseki insiste sui tre caratteri di “grazie”, lo fa
scrivendoli al contrario. Il generico “grazie” giapponese, arigatou,
si scrive normalmente in caratteri fonetici: あ り が と う . La
grafia antica è: 有難う. Etimologicamente ha il senso letterale di
“d’ora in poi, mi è difficile esistere”, sottintendendo “tanto è il debito di
riconoscenza che ho con lei...”. Nell’originale, Souseki scrive invece
難 有 う , indicando la pronuncia a parte, per sottolineare che
intende invertire i due ideogrammi di proposito. Probabilmente,
l’autore usa questo espediente per attirare l’attenzione sulla grafia
della parola, e sull’enfasi posta nel pronunciare ogni carattere.
L’altalenarsi di registri formali e informali nel dialogo fra i due
protagonisti è un altro piccolo gioiello di Souseki. In Giapponese,
la distinzione fra vari registri (di base, se ne distinguono tre: il
piano, il medio e l’onorifico) non è netta come nelle lingue
neolatine. Se alcune parole, forme verbali e costruzioni
appartengono prettamente a un determinato registro, il livello di
formalità complessivo è però un continuum dato dalla miscela di
parole e forme provenienti da registri differenti. Così, si può
usare il verbo “essere” in registro “medio” (desu) senza
necessariamente dare del “lei”, magari accompagnandolo a un
pronome informale come kimi. Il Giapponese permette quindi
spettacolari excursus su tutta la gamma della formalità all’interno
di una frase o nelle diverse parti di un dialogo. La formalità del
registro permette quindi di trasmettere informazioni
metalinguistiche molto difficili da rendere in Italiano. Ho usato il
passaggio dal tu al lei quando gli “scatti” erano più evidenti, pur
conscio che, in Italiano, non solo non si conviene passare
d’improvviso dal “lei” al “tu”, ma nemmeno passare dal “tu” al
246
“lei”. Il lettore è avvisato quindi del fatto che questi passaggi
vogliono indicare un simile passaggio che nell’originale ha un
significato ben preciso di “demarcazione” di parti del discorso
più serie o più scherzose, più poetiche o più “calde”.
La Signora usa normalmente un registro femminile chiamato
chiwa; sebbene abbia tratti e parole prese dal registro formale
medio, si tratta più di un modo di infiorettare e rendere
civettuolo il discorso che non un livello di discussione formale.
In fatto di termini e strutture utilizzate, sta da qualche parte a
metà strada fra il “piano” e il “medio”, ma l’impressione che ne
ha l’ascoltatore Giapponese è quello di essere trattato certamente
con rispetto, ma anche con calore e partecipazione. Più con
calore e partecipazione che non con rispetto. Per questo ho
scelto di tradurre le frasi del dialogo in chiwa usando il “tu”, anche
se questo mi priva della possibilità di demarcare con chiarezza i
passaggi dal chiwa al registro propriamente piano; per quelli ho
fatto ricorso alle note. Sarà così anche nel resto della traduzione.
Poesie nel capitolo
La poesia di Wang Wei citata da Souseki in questo capitolo si
intitola “Il recinto dei cervi”. Segue la versione integrale in
Cinese:
鹿柴
Il recinto dei cervi
空山不見人
(sul) vuoto monte, non vedo persone
但聞人語響
ma odo parole di persone risuonare
返景入深林
Il sole al tramonto passa nel folto del
[bosco
復照青苔上
facendo risplendere il muschio.
Seguono nell’ordine gli Haiku con la traduzione letterale così
come cambiati:
247
海棠の
kaidau no – delle aronie
露をふるふや
tsuyu wo furufuya – la rugiada fa
[turbinanre
朝鳥
asagarasu – un corvo mattutino
–
花の影、
hana no kage – ombra di fiore
女の影を
onna no kage no – all’ombra di donna
重ねけり
kasanekeri – si va assommando
[vicendevolmente
–
御曹子
onzoushi – figlia di un nobile casato
女に化けて
onna ni bakete – trasformata in donna
朧月
oborozuki – la luna velata dalla foschia
Si noti che Onzoushi conta cinque sillabe in Giapponese (o-nzo-u-shi).
5
Le battute del coprotagonista di questo capitolo, il barbiere
ubriaco, sono scritte in stretto dialetto di Tokyo. Souseki è
attentissimo a non lasciarsi sfuggire nemmeno un possibile
termine dialettale; alcuni di questi termini sono talmente
“freschi”, all’epoca della stesura che passeranno presto di moda,
tanto che oggi è difficile ricostruirne il senso. Uno di questi
termini di gran moda all’epoca ma oggi dimenticato è レコ- reko,
inversione volontaria delle sillabe di kore (questo). Veniva usato
248
come pronome personale in terza persona con senso spesso
dispregiativo, e per estensione, indicava gli amanti, soprattutto a
quelli non ufficiali o che avrebbero voluto diventare tali, ma con
scarso successo (noi diremmo “il suo lui”).
Ho scelto di usare il Romanesco per tradurre le sue battute per
tre motivi: primo, Tokyo è la capitale del Giappone così come
Roma è la capitale d’Italia; il suo dialetto è riconosciuto ovunque
ed è ben caratterizzato. Secondo, il dialetto di Tokyo condivide
con il Romanesco la caratteristica di essere fondamentalmente
strutturato come la lingua di riferimento, ma di essere usato
principalmente per semplificare la pronuncia dei termini e
renderli più “amichevoli”; in entrambi i dialetti, sia l’introduzione
di termini specifici che la variazione di strutture grammaticali
giocano ruoli minori. Terzo, l’effetto complessivo di entrambi i
dialetti è quello dare al parlante un’aria bonaria e amichevole, che
gli consente di trattare con meno rispetto del dovuto un terzo
estraneo, compensando la mancanza di formalità con simpatia e
condivisione.
Invece, le battute del giovane bonzo a fine capitolo sono scritte
nell’originale usando il dialetto del Kansai, la regione di Kyoto e
di Osaka. Qui è più difficile capire la provenienza esatta dal mero
scritto, anche perché pur essendo il discorso evidentemente
connotato come dialettale, l’effetto non è radicale come nelle
battute del barbiere. Si ha più l’impressione di un ragazzo di
Kyoto che si sforza di parlare il Giapponese medio, mentre nel
caso del barbiere si ha l’impressione di un personaggio che voglia
ostentare a tutti i costi il proprio dialetto, al punto di rifiutarsi di
usare forme non dialettali. Ho scelto il Toscano per rendere le
battute del bonzo per analogie non dissimili dal caso del barbiere.
Innanzi tutto, il Toscano rimanda inevitabilmente alla culla della
cultura moderna italiana, così come il dialetto del Kansai ha
molto a che vedere con la fondazione della cultura Giapponese.
Così come la Divina Commedia è considerata la base della
letteratura italiana, il Genji Monogatari, scritto nell’undicesimo
secolo alla corte di Kyoto è considerato la base della letteratura
249
Giapponese. Inoltre, il dialetto del Kansai è associato a un’idea di
simpatia e giocosità che ha dei tratti simili al Toscano
nell’immaginario collettivo italiano. A dire il vero, nel dialetto del
Kansai, questa caratteristica è meno marcata, mentre vi è una
certa associazione alla figura di abili commercianti e/o uomini
d’affari che noi identificheremmo col dialetto milanese, o forse
genovese. Tuttavia, essendo il personaggio evidentemente in
vena di scherzare, ho pensato che il Toscano fosse adatto a
rendere quella sfumatura di simpatia e celio naturale che l’autore
aveva reso tramite alcuni termini specifici del dialetto del Kansai.
Venendo al brano, il barbiere chiama il protagonista con il
generico appellativo di danna, letteralmente “riverito signore”, ma
già all’epoca “declassato” ad appellativo da rivolgere a generici
sconosciuti senza particolare segno di distinzione; in questo
assomiglia molto al dotto’ usato nella traduzione. In seguito, nel
testo originale il termine danna viene usato nuovamente (e già lo
si è incontrato in precedenza), ma si adottano altre traduzioni a
seconda del contesto e del registro nel quale è usato.
Nel passaggio “E poi, questo barbiere non è un chiunque qualsiasi”, ho
interpretato liberamente l’originale その上この親方がただの
親方ではない – sono ue kono oyakata ga tada no oyakata de wa nai –
e poi, questo padrone non è un semplice padrone. Questo perché
il brano precedente, “...chiunque, se dovesse svolgere la propria
attività quotidiana al cospetto di tale villano, finirebbe col
risentirne”, nell’originale si riferisce evidentemente al padrone,
persona “costretta a svolgere la propria attività quotidiana”
davanti allo specchio. Il transfert delle caratteristiche dello
specchio imbruttente all’uomo che ne subisce gli influssi maligni,
che l’autore rende evidente pur in modo sottile, perde di forza
nella traduzione e rischia di svanire. L’attacco in Giapponese,
“sono ue”, (in più), suggerisce al lettore che si fosse distratto che
già da un po’ si sta parlando del barbiere, e non più dello
specchio in sé, ma è un’espressione che non mantiene gli stessi
tratti metalinguistici se tradotta in Italiano. Lo stratagemma nella
250
traduzione (“non è un chiunque qualsiasi”) consente di recuperare
il richiamo, assieme all’ironia dell’originale, e recupera anche
l’insistenza della ripetizione nella frase (padrone-padrone), pur in
modo differente.
Poco più avanti, non ho saputo resistere alla tentazione di
lasciare non tradotta l’onomatopea pura “gori gori”, che sta a
rappresentare il suono di stille di ghiaccio frantumate sotto i
piedi. L’espressione usata poco prima, “Quando la sua baionetta
aveva aperto le danze...” traduce un idiomatico dal significato
simile (letteralmente, spalancare il tempo) usato nell’originale.
A causa del fatto che nella cultura italiana manca il concetto
della di 本 家 – honke (casa d’origine), che è molto comune in
Giappone, ho dovuto cambiare il senso letterale del seguente
scambio di battute:
«E sarà sì! Che cor fratello maggiore son come cane e gatto.»
«Ha pure un fratello?»
«Eh sì; sta nella villa sulla collina. Vacce a’ ffa du’ passi, che c’è ’na bella
vista.»
In realtà, l’originale è il seguente:
「当り前でさあ。本家の兄(あにき)たあ、仲がわる
しさ」
「本家があるのかい」
「本家は岡の上にありまさあ。遊びに行って御覧なさ
い。景色のいい所ですよ」
Letteralmente, la traduzione suona come:
«Ma è ovvio (dialettale). Col fratello maggiore della casa
originale, i rapporti sono cattivi, pure (dialettale)»
«C’è anche una casa originale?»
251
«La casa originale è sulla collina. Vai a vedere (imperativo +
rispetto) divertendoti a camminare. È pure un posto con un bel
panorama.»
Purtroppo, nel veloce scambio di battute non è possibile
recuperare sia il valore letterale che quello metalinguistico del
concetto di 本 家 – honke, “casa principale/originale”. Si tratta
dell’abitazione che viene identificata con l’idea stessa di clan
familiare. È la casa che costituisce il luogo fisico del “casato”,
punto di origine della nobiltà della famiglia, punto di riferimento
delle generazioni passate e future.
Nel brevissimo scambio di battute passano tre concetti chiari a
un Giapponese, ma impossibili da tradurre nel ritmo dello scritto.
Primo, che gli Shihoda sono un nobile casato, degno di avere
una “honke”, quindi costituiscono un vero e proprio clan
familiare.
Secondo, che la stazione termale, seppur imponente, non è che
una abitazione secondaria, e un luogo di lavoro. La famiglia
risiede propriamente in un altro luogo, che deve essere ancora
più ricco e maestoso.
Terzo, che la casa principale, e quindi la reggenza del casato,
andrà al fratello maggiore della Signora, e che quindi essa non è
destinata a gestire le sorti, e le fortune, della famiglia.
Oltre a questo, riceviamo una quarta informazione, in questo
caso esplicita, che ci dice che il futuro reggente del casato e la
protagonista femminile non sono in buoni rapporti.
Tornando al problema della traduzione di questo passaggio, la
potenza del concetto di honke e dei vari valori metalinguistici
associati non poteva essere tradotta nel veloce scambio di battute
senza perdere il ritmo della narrazione. Si sarebbe potuto cercare
di arrotondare il passaggio con termini mediati, come ad esempio
“casato”, ma l’autore usa il valore letterale di honke anche come
luogo fisico. Anche l’uso delle note, da solo, non era adeguato,
perché i termini su cui si sarebbero potuti appoggiare le note (ad
252
esempio, “casa originale” o “villa”) sarebbero stati estranei al
flusso del discorso, e le note non avrebbero comunque potuto
rendere più sensibile l’uso di termini che al lettore italiano
sarebbero sembrati fuori contesto.
Considerati questi fattori, ho deciso di ridurre il contenuto
informativo del passaggio al solo valore esplicito nel passaggio
originale: la protagonista ha un fratello, e i due non sono in buoni
rapporti. Inoltre, tramite il contesto, si riesce a recuperare la parte
rilevante del contenuto implicito: sarà il fratello a ereditare tutto,
e allora, per la protagonista, saranno guai. Pur avendo sacrificato
la lettera e parte del valore metalinguistico, penso che ricorrendo
al trucco di indicare il fratello maggiore al posto dell’honke, il
passaggio abbia comunque mantenuto il significato esplicito e
implicito originale.
Approfitto della descrizione di questo passaggio per indicare
che l’espressione “come cane e gatto” traduce in modo non
letterale un idiomatico, declinato con sapore fortemente
dialettale: 仲がわるしさ – naka ga waru shi sa, letteralmente “sai,
e poi, fra di loro va male”.
Il passaggio successivo, “Il padrone, senza tanti complimenti,
allineò le sue dieci unghie ricolme di lordume sulla mia scatola
cranica...”, cambia improvvisamente registro linguistico. La
composizione della frase è incidentale, con due avverbi di modo
piazzati nel bel mezzo del discorso; in Giapponese, le frasi
incidentali sono rare, e due in un discorso sono quasi introvabili.
In più, il passaggio è ricco di nomi appartenenti al registro alto,
inconsueti nel linguaggio comune. Il tutto dà una sensazione di
stranezza, di “sdegno” che, apposto al fraseggio dialettale appena
conclusosi, suona molto ironico.
Nel passaggio “Quel che va a formare quella collinetta di gusci di
conchiglia, chissà se sono ostriche, vongole, o cozzaloni”, l’uso del termine
dialettale “cozzaloni” al posto di “cozze” traduce un gioco di
parole dal significato pressoché identico. Nell’originale, si parla di
253
ostriche, vongole e cozze, ma al posto della parola 馬 鹿 貝 –
bakakai – vongola – è usato il termine 馬鹿 – baka – idiota. In
Italiano, il termine cozza ha assunto il significato di persona di
brutto aspetto, e “cozzalone” è una trasformazione del termine
facilmente riconoscibile; l’aspetto sgraziato delle cozze ha causato
l’applicazione secondaria del loro nome a questa caratteristica
umana. In questo caso, nel Giapponese accade il contrario:
estendendo il termine baka, lo si è applicato ai frutti di mare che
corrispondono alle nostre vongole, che ai Giapponesi dovevano
sembrare particolarmente sgraziate o prive di qualità interessanti.
a ogni modo, il risultato che si ottiene con i due giochi di parole è
lo stesso: con questo trucco, l’autore ci dice sottilmente che sta
per compiere un’analogia fra gli uomini e le conchiglie; quelli che
sono preziosi (ostriche da perla), quelli che non valgono nulla
(baka) e quelli così così.
L’analogia delle conchiglie termina con l’espressione 柳の下へ
た ま る – yanagi no shita e tamaru, che ho tradotto con
“s’affrettano là sotto i salici”. Innanzi tutto, va ricordato (come
scritto in nota) che “sotto ai salici” indica idiomaticamente una
posizione fortunata. Fra i vari significati del verbo tamaru, in
questo contesto il senso più adeguato sarebbe “accumularsi”; ma
qui Souseki, sempre generoso nell’uso dei kanji, lascia la parola in
hiragana, cosa che ne nasconde il significato esplicito. Fra gli altri
sensi del verbo “tamaru” troviamo “scaldarsi”, o “rinnovarsi”, e
ancora “sopportare”. Allora, vista l’analogia fra il destino di
queste conchiglie e quello degli uomini, ritengo che qui l’autore
desiderasse estendere il significato di tamaru al di là del semplice
“riunirsi, ammucchiarsi”, e che in questa posizione, in questo
contesto e privato del kanji di riferimento, il senso da intendersi
sia quello di esistenze che si spingono l’un l’altra alla ricerca di un
posto difficile da trovare, un posto che, essendo stretto, le
costringe ad ammucchiarsi. Penso che la figura retorica più adatta
a rendere questo senso in italiano sia l’estensione del verbo
254
“affrettarsi” riferito all’esistenza umana. Un’ultima nota: ho
inserito “là” per dare il senso di movimento e direzione che è qui
espresso in Giapponese dalla particella へ – he (verso, in
direzione di...).
Verso la fine del monologo sul barbiere, la locuzione usata
“magari la loro azione rientra nell’alveo della forza maggiore”. è
leggermente riadattata. L’originale è かえって大勢力の一部と
な っ て 活 動 す る に 至 る か も 知 れ ぬ , letteralmente: “anzi,
possono arrivare ad agire come una parte della forza (più)
grande”. Tuttavia, l’uso di 大 – dai – grande, davanti a 勢力 –
seiryoku – forza, si configura come un “cinesismo”; qui, dai
assume un senso più proprio di aggettivo che ha perso in
Giapponese9, ma mantiene in Cinese. L’uso di questo aggettivo in
senso comparativo ha l’effetto di dare una nuova vita alla parola
seiryoku. Ho pensato di rendere questo effetto in Italiano usando
la locuzione “forza maggiore”, dove maggiore, normalmente un
aggettivo comparativo, entra a far parte del lemma creando un
nuovo sostantivo; esattamente lo stesso effetto ottenuto da
Souseki attraverso questo sapiente trucco. L’unica differenza è
9
L’ideogramma 大 – dai/tai è molto comune in Giapponese e viene usato anche
per formare l’aggettivo 大 き い – ookii (grande); ma il suo uso diretto nei
sostantivi, sebbene intenda comunque un senso di grandezza, si lega ad altri
ideogrammi formando dei lemmi atomici, dove il senso originario si perde
nell’insieme. ad esempio: 大 学 – daigaku (università), 大 使 館 – taishikan
(ambasciata), 大人 – otona (adulto), 大当たり – ooatari (bel colpo!) ecc. Trovarlo
direttamente apposto a un lemma già completo, in veste di aggettivo e con una
sfumatura di comparativo è alieno al Giapponese, ma tipico della lingua cinese. A
proposito di otona, si noti l’ateji (cambio di pronuncia) nella frase successiva del
testo originale: qui, per la parola 大人 viene esplicitamente indicata la pronuncia
taijin, che ci impone di considerare 大 ancora come aggettivo e quindi come
cinesismo; questo termine arriva però dal Giapponese classico (e a sua volta dal
Cinese) e indica quello che noi definiremmo un “grand’uomo”.
255
che in Italiano forza maggiore è un termine ben noto, e con un
contenuto semantico ben definito, mentre il termine usato da
Souseki è praticamente un neologismo, ma anche se il lettore
giapponese deve lavorare un po’ di più con la fantasia, il senso a
cui si arriva è lo stesso. Per quel che riguarda la parola “alveo”, ho
scelto di usarla al posto di “attività” sia per alzare il registro del
passaggio verso il poetico, sia perché gli ideogrammi coinvolti nel
passaggio hanno un senso secondario e subliminale di “flusso”.
In particolare, 活 動 – katsudou – attività, è composto dagli
ideogrammi
活
(vitalità) e
動
(movimento), e il primo
ideogramma, 活 , è composto da una parte sinistra che
rappresenta l’acqua, e da una destra che anticamente aveva il
senso di lingua nell’atto di emettere suoni (parlare). Usando
“alveo”, ho raccolto il senso “fluido” associato al concetto di
attività nella parola giapponese, che raccoglie un senso
direzionale latente, di forza non statica, ma in movimento in 勢力
seiryoku, presentado al lettore italiano un concetto che richiama il
fluire della forza rievocato dall’originale.
Il culmine delle riflessioni dell’autore sul padrone si raggiunge
con la frase: “Io, inconsapevole, a un lieve umore più prossimo a
questo cielo, con leggiadro celio m’avvicinai”. Qui, l’originale si
tinge di poesia, e Souseki ricorre ad artifici stilistici come
ripetizioni, assonanze e ritmo tipico delle liriche orientali, e ci
aggiunge anche un po’ di allitterazioni in stile occidentale. Il
gioco “cielo – celio” è nell’originale “弥生半 - 弥次” yayoi naka
(primavera) – yaji (burla, celio), due termini troppo inconsueti per
passare inosservati. In “...buffo buffone...” diventa ancora più
esplicito, con l’originale 安 価 な る 気 炎 家 anka naru kienka,
letteralmente “buffone da quattro soldi”. Qui, Souseki usa, al
posto di 炎 – en, un ideogramma molto raro, oggi non più
utilizzato, probabilmente per essere certo di attirare l’attenzione
del lettore sull’assonanza.
256
La frase successiva, “piantai lì il culo a cazzeggiare del più e del
meno”, merita una spiegazione approfondita. Innanzitutto,
“piantare il culo” è letteralmente nell’originale ( 尻 を 据 え て shiri wo suete – piazzare il sedere). Ho tradotto il termine 四方八
方 の話 – yomoyama no hanashi – chiacchiere senza scopo – con
“cazzeggiare” per il tono generale della frase (ci torno dopo), ma
anche e soprattutto per la struttura di questo idiomatico. Si tratta
infatti di uno dei numerosi “idiomatici ricorsivi” giapponesi,
ossia, strutture già usate come idiomatiche che vengono sfruttate
per creare nuovi idiomatici del tutto differenti dagli originali. Il
termine 四 方 八 方 è un tipico idiomatico di origine cinese,
letteralmente quattro-direzioni-otto-direzioni, e significa in ogni
direzione, in senso letterale; molto simile al nostro “da tutte le
parti”. Il Cinese fa un uso quasi strutturale di questi idiomatici; ad
esempio, il termine corrispondente al nostro “cosa” (generico
oggetto) è 東西 – dongxi – letteralmente est-ovest. La parola 四
方 八 方 sihou-bahou (quattro direzioni – otto direzioni) è stata
importata in Giapponese con la pronuncia shihō-happō, e con lo
stesso significato (da tutte le parti, ovunque). Col tempo, si è
stratifica un’altra pronuncia, che usa gli antichi numerali
giapponesi, e sostituisce la parola hou (direzione) con mo (e poi,
inotlre): yomo-yamo, che suona un po’ come “quattro e
quattr’otto”, ma assume il senso di “molte cose, ogni cosa,
variegato”. Infatti, il numero “otto” (ya) veniva usato anticamente
in Giappone per intendere “tanti”, al punto che ancora oggi i
negozi che vendono articoli vari, le nostre mesticherie, prendono
il nome di 八百屋 – yaoya – negozio di 800 (cose). E’ per questo
che il senso originale cinese, limitato alle direzioni geografiche, si
è ampliato fino ad includere anche generiche “cose”. Si è poi
aggiunta un’altra struttura idiomatica, grazie alla sostituzione
dell’ultimo mo con ma, all’inizio forse per mera assonanza: yomoyama. La parola yama indica quasi inequivocabilmente il termine
257
“monte”, e viene usata in Giapponese come in Italiano anche per
indicare, idiomaticamente, una quantità spropositata, eccessiva;
ad esempio 悪者は山ほどある – warumono wa yama-hodo aru – di
gente cattiva ce n’è un monte. Con yama al posto di yamo, il
termine ha assunto un senso di qualcosa di eccessivamente
variegato, e per questo privo di scopo o di effetto pratico,
inconcludente. L’uso si è talmente cristallizzato da avere una
trascrizione ideografica propria: 四 方 山 , mantenendo
l’ideogramma 方 – hou (direzione), pur perdendo la sua
pronuncia, ora sostituita da mo, ma cambiando gli ultimi due
ideogrammi (happou, otto direzioni) in yama (monte). Souseki
trascrive il termine cinese con i quattro ideogrammi originali, ma
indica la lettura esplicita della versione a tre ideogrammi yomoyama. Non mi dilungherò nell’analisi dell’etimologia della parola
“cazzeggio”, ma è evidente che, seppure colorita da una
sfumatura volgare che non esiste nell’originale, sia il carattere
stratificato del valore idiomatico che il senso letterale del termine
originale sono mantenuti bene da questa parola come
nessun’altra avrebbe potuto fare. Inoltre, da un lato è l’autore
stesso ad aver abbassato il tono repentinamente (“cazzeggio”
aggiunge ben poco a “piantare il culo” in termini di registro
volgare); dall’altro, la parola è ormai sdoganata in Italiano e ha
perso la maggior parte del suo connotato scurrile.
Sul tono generale della frase, aggiungo solo che è fin dalle prime
lettere che Souseki ci fa capire che il tono sta per cambiare. Il
Giapponese è pieno di forme che consentono di introdurre
elementi del discorso che seguiranno, sia in modo diretto che
tramite artefatti metalinguistici (come analizza bene Jay Rubin in
“Making Sense of Japanese”, in un paragrafo dal titolo autoesplicativo, “Warning: this language works backwards”, in riferimento
ai “warning” di cui il discorso giapponese è ricco). La frase parte
secca con こう考えると – kou kangaeru to... – e così pensando –
una tipica forma interloquitale che grida al lettore: “adesso arriva
258
la battuta, preparati”. Ci sono altre tre pause come questa, che
nelle conversazioni vive sono riempite dai commenti degli
ascoltatori, e che formano un dialogo dinamico col lettore e
caricano il discorso di un senso di attesa e di anticipazione che
culmina nell’ultima parte della frase, “piantai lì il culo a
cazzeggiare del più e del meno”. E’ ovvio che si vuole ottenere
un effetto esplosivo, e tutto questo mi porta a pensare che se
Souseki avesse avuto a disposizione un termine idiomatico come
quello italiano, lo avrebbe usato molto volentieri.
Ho dovuto ricorrere a uno stratagemma per rendere le ultime
due frasi del dialogo fra il bonzo e il barbiere. Dovendo tradurre
un termine offensivo usato solo nei testi religiosi buddisti, ho
usato un’offesa in latino abbastanza comprensibile per il lettore
italiano; per poi rendere meglio l’espressione di sorpresa del
barbiere ho usato la ripetizione parziale della parola di difficile
comprensione, modalità di risposta comune in Italiano ma
assente nell’originale e in Giapponese in generale. Qui il dialogo
originale:
「 咄 こ の 乾 尿 蕨 」 (Tokko no kanshiketsu – Pezzo di merda
secca!)
「何だと?」(Nan da to? – Che dici?)
Fra l’altro, il termine kanshiketsu – escremento secco – è scritto
nell’originale con una variante differente e poco nota (l’ultimo
ideogramma ha il tratto orizzontale e le due stanghette superiori
scritte di fianco a sinistra, in verticale), tanto che non è
riproducibile sui moderni computer. Questo termine è
comunemente usato nei testi buddisti giapponesi per indicare una
condizione impura, anche in senso astratto, come ad esempio
una risposta affrettata e priva di valore a una domanda sulla
natura del Budda. E’ un termine che un popolano non preparato
non avrebbe nemmeno potuto decifrare. Ovviamente il bonzo lo
rivolge al barbiere come ulteriore scherno, in aggiunta al valore
semantico dell’offesa. La risposta del barbiere certifica il fatto che
259
non ha compreso l’offesa, sebbene il tono secco e perentorio di
“nan da to” lasci intendere che aveva intuito che non si trattava di
una forma di saluto benaugurate.
6
Il paragrafo introduttivo del sesto capitolo è stilisticamente il
brano più interessante e strutturalmente complesso dell’opera,
fino a ora. In tutti i passaggi introspettivi, (gran parte del primo e
del terzo capitolo, oltre alla parte centrale del quinto) Souseki,
maestro dell’anacoluto e della dialisi (spesso usate inseme in
singoli periodi, in vari intrecci e combinazioni), ama evocare
scenari complessi, spiazzando il lettore con frasi incidentali,
spesso cambiando soggetti e argomenti in modo improvviso, per
riprendere il tema principale in seguito, o introducendo un tema
che poi si scopre essere solo una premessa al vero tema del
discorso; ma qui va oltre, e si spinge su un terreno che
padroneggia con eleganza e maestria, nonostante sembri essere
raro fino a ora: l’enàllage, ossia l’utilizzo creativo e innovativo di
forme sintattiche inusuali, allo scopo di dare maggior risalto agli
elementi variati. Ad esempio, in questa frase:
E chissà, forse in moscini, che alla fine del duro lavoro di rendere ancor più
lunghi i lunghi giorni, ancora anelanti la dolce rugiada che sui pistilli
s’addensa, sotto le camelie distesi, quel mondo, fragrantemente, dormono.
Souseki usa “dormire” in senso transitivo (quel mondo …
dormono); inoltre l’avverbio “fragrantemente” è applicato in
modo non ambiguo a “dormono”. In Giapponese, come in
Italiano, dormire è principalmente intransitivo, e “fragrante” è
utilizzato esclusivamente come aggettivo, ma la lingua
giapponese consente di marcare ogni elemento del discorso con
degli indicatori che rendono esplicita la sua funzione nella frase;
in questo modo, l’ambiguità e la difficoltà nel comprendere
questi costrutti insoliti sono notevolmente ridotte. Questo è il
periodo originale:
260
または永き日を、かつ永くする虻のつとめを果した
る後、蕋に凝る甘き露を吸い損ねて、落椿の下に、伏せ
られながら、世を香ばしく眠っているかも知れぬ
La parte che ho evidenziato corrisponde all’ultima frase 世を香
ばしく眠っているかも知れぬ. La particella を riferita a “世”
indica senza ombra di dubbio che il mondo è oggetto diretto del
dormire, e 香ばしく眠っている ci dice che “fragrantemente” è
un avverbio di modo che insiste su “dormire”.
Approfitto del fatto che ho preso questa frase come esempio
per porre l’attenzione sulla scelta di tradurre 虻 – abu – tafano,
con “moscini” per motivi di tono, assonanza e anche vagamente
semantici. In realtà abu viene fatto corrispondere a tutta una serie
di insetti fastidiosi, da una specie di grosse zanzare, alle mosche
cavalline, fino ai tafani; usare il termine “centrale” sarebbe stato
impreciso anche perché non tutti i tipi di abu sono emofagi (e
quelli che ha in mente l’autore si nutrono di nettare). Inoltre, il
termine non assume lo stesso tono popolano e dispregiativo che
ha in Italiano; era quindi opportuno usare un termine che, pur
indicando un esplicito senso di fastidio, non variasse il tono
poetico della frase, dal momento che questo periodo esprime
l’apex della poeticità del passaggio. Moscerini o moscini erano
buone scelte; delle due parole ho preferito la seconda perché abu
è un termine che potremmo definire “contratto”, dal momento
che le forme composte come hanaabu o ushiabu sono più comuni.
Una frase poco più avanti pone un serio problema di
traduzione:
Vivendo in un universo multipolare, la nostra natura, che ci obbliga a
scommettere sui nostri successi, è nemica del vero amore.
L’originale è il seguente: 東西のある乾坤に住んで、利害の
綱を渡らねばならぬ身には、事実の恋は讎である e si
261
appoggia all’espressione idiomatica 綱を渡る – nawa o wataru –
attraversare la corda, che in realtà si riferisce all’azione di
prendere un traghetto a corda per passare un guado, ed ha il
significato di “prendere un rischio”, o “correre dei rischi”.
L’espressione è riferita a 利害 – rigai – interesse (personale), che
abbiamo già incontrato spesso, ed è un concetto piuttosto
centrale nell’opera, abbastanza da meritare una traduzione diretta;
tuttavia, la traduzione diretta è problematica, dal momento che
suona come “correre dei rischi per il proprio interesse”. Sebbene
la struttura semantica e sintattica nell’originale giapponese renda
chiaro che si intende “correre dei rischi al fine di soddisfare i
propri interessi, così da volgere il bilancio profitti-perdite a
proprio vantaggio”, una traduzione letterale che mantenga al
tempo stesso il significato originale e il termine “interesse”
(possibilmente associato all’aggettivo “personale”) sarebbe
risultata pesante, poco elegante e fuori contesto. La soluzione
adottata, “che ci obbliga a scommettere sui nostri successi”
consente di mantenere il ritmo e il senso reale dell’originale,
sacrificando il termine letterale “interesse”. Sebbene perdiamo un
riferimento topico a un termine importante nelle tematiche
dell’opera, la traduzione così posta rende più evidente un
riferimento autobiografico che è sicuramente nelle intenzioni
dell’autore e che sarebbe potuto passare inosservato se si fosse
usato il termine, meno denso di carica emotiva, “interesse”. Si
tratta infatti di un commento che può essere riferito alla vita
dell’autore, e al suo rapporto con sua moglie Kyouko.
Il termine “valle di lacrime”, traduce 火宅 – kataku – casa in
fiamme, una metafora buddista che ha lo stesso senso e la stessa
valenza religiosa della traduzione che ho usato.
Uno dei termini chiave del capitolo è 同化する – douka suru –
assimilare, quando transitivo, e adeguarsi, quando usato in modo
riflessivo. Il senso è difficile da rendere nelle lingue occidentali;
262
letteralmente, il verbo è formato dagli ideogrammi 同 (identico,
stesso, manifestazione multipla di un unità), e
化
(trasformazione, cambiamento). La combinazione degli
ideogrammi suggerirebbero un’idea di trasformare qualcosa fino
a renderlo identico a qualcos’altro. Per via di un velato senso
“riflessivo” nell’ideogramma 同 , usato in cinese per la
comunissima espressione 同 意 – tong-yi – essere d’accordo, il
senso più comunemente utilizzato è quello di “assimilazione”, di
trasformazione attiva che si compie su qualcosa per renderlo in
qualche modo più compatibile parlante. In particolare, lo si usa in
ambito culturale, quando si descrive la situazione in cui una
cultura dominante assorbe una meno forte. Per questo motivo, il
termine ha oggi un velato senso negativo; all’epoca di Souseki,
questo comportamento doveva essere molto meno stigmatizzato
e molto meno caratterizzato dal punto di vista sociopolitico; ciò
nonostante, non riesco a non pensare che nel passaggio:
Nell’ordinario adeguarsi vi è un che di compulsivo. È anche per questa
compulsione che è piacevole.
che costituisce quasi un inciso nel paragrafo, vi sia nascosta una
critica sussurrata nei confronti dei metodi della restaurazione
Meiji e del nascente imperialismo giapponese, che opprimeva
anche gli artisti imponendo loro un appiattimento sulle posizioni
marziali del regime militare.
L’espressione topica “Solo i poeti e coloro che sanno diventare artisti,
mordendo questo mondo intricato all’estremo, conoscono la purezza intima”
fa leva su un idiomatico particolarmente ricco: 徹骨徹髄の清
きを知る – tekkotsu tettsui no aoki wo shiru – conoscere l’azzurro
delle ossa e del midollo esposti. Certamente, ossa e midollo non
sono azzurri, al limite bianchi e grigi, ma “azzurro” ha in
giapponese il senso di puro, o giovane, a seconda del contesto.
L’uso dell’aggettivo “azzurro” rende esplicito il fatto che
l’immagine piuttosto cruenta di ossa e midolli esposti non è
263
letterale, bensì completamente figurata. La resa in Italiano
sarebbe stata piuttosto ardua, così ho optato per un “intimo”,
che riassume il senso che l’idiomatico originale vuol dare:
qualcosa di usualmente ben nascosto e allo stesso tempo
fondamentale, portato alla luce senza essere vittima di pudore.
Nel passaggio “e inoltre posso anche liberarmi dei miseri limiti
del cuore che, normalmente, si cura del possibile e
dell’impossibile”, i concetti di possibile e impossibile sono
espressi usando i termini cinesi 可 – ke – e 不可 – buke. Alla fine
dello stesso passaggio, il verbo “descrivono” è espresso usando
un verbo giapponese: 言い了せる – iiooseru – letteralmente “dire
con cetrezza, affermare”. Ma l’ideogramma usato per ooseru
(affermare) è l’ideogramma che ha in cinese il valore di particella
perfettiva: 了 – le. La lettura che Souseki impone è un ateji, ossia
un cambio volontario ed esplicito di lettura. In altre parole,
Souseki usa il concetto di “azione perfetta, completa” che questa
particella esprime in Cinese, assegnandone il valore a un verbo
ausiliario giapponese, che dovrebbe avere un significato simile,
per enfatizzarne la forza e “sigillare” il concetto di 言い – ii –
dire. In questo modo il verbo diventa qualcosa di simile a “dire
perfettamente, dire e affermare una volta per tutte”.
È interessante notare che in questi paragrafi, dopo “È anche
perché ci rendiamo conto...”, e in particolare in “Chissà come
dev’essere provare a disegnare questo confine...”, l’autore indulge
molto nell’uso delle desinenze verbali classiche, usate all’inizio
del periodo Meiji, nell’ultima parte dell’800. Souseki aveva usato
lo stile Meiji per i suoi scritti giovanili e lo usava regolarmente
nella corrispondenza privata e nei suoi saggi, ma per i suoi
romanzi più famosi (Anima, Il Cancello, Io sono un gatto, ecc.)
usa una lingua più moderna ed essenziale. In particolare, nella
presente opera sembra voler sfidare il Giapponese a lui
contemporaneo a sostenere le strutture grammaticali complesse
ed eleganti, la poesia, i termini arcaici e i fraseggi che gli intesse
264
sopra. Souseki usa il Giapponese moderno come una lama
affilata per penetrare il mondo della letteratura che, all’epoca,
doveva essere certamente ancora ben infiorettato e ricco di
arcaicismi, nonostante la modernizzazione a tappe forzate che
anche la cultura giapponese stava vivendo. Non lo usa per essere
più comprensibile ai suoi contemporanei (piuttosto, lo stesso
Souseki si lamenterà nella sua corrispondenza di aver ecceduto
nell’enfasi sullo stile, dando a sé stesso l’impressione di aver
compiuto un lavoro vuoto di contenuti e incomprensibile nelle
forme), bensì come per dimostrare che non era necessario
ricorrere ad artifici come l’uso di una lingua formale e desueta, e
che il Giapponese contemporaneo, se ben impiegato, poteva
essere ricco come e più che in passato. Eppure, in questi
paragrafi l’impiego delle desinenze classiche come “-taru”10, “tarazu”, “-ranuba”, “-zareba” è pressoché onnipresente. Fra l’altro,
risalta in modo particolare proprio perché il resto della struttura
della frase non è tipico dell’800, ma rimane molto moderno; nella
traduzione, l’ho quindi reso con Italiano contemporaneo, senza
cercare di farlo suonare desueto. Ho la sensazione che l’autore
abbia iniziato a usare “-taru”, ancora comune all’epoca ma
comunque meno “moderno” rispetto al tenore medio del testo,
perché comodo per esprimere un concetto di passato prossimo
progressivo, ma allo stesso tempo perfetto, che ben si adattava
alla descrizione dell’esperienza mistica dell’autore nell’atto di
10
Il suffisso “-taru” è tutt’oggi usato, sebbene poco comune, per trasformare un
nome in un aggettivo di qualità superlativo, in genere applicato a persone. ad
esempio, 教師たる人 – kyōshi-taru hito – un a persona perfettamente qualificata
come docente, un docente “fatto e finito”. Alle orecchie di un Giapponese suona
un po’ come il nostro suffisso -oso, ma invece di indicare una caratteristica
parziale (es: un tipo gioc-oso), indica una qualità che caratterizza in modo
completo il nome reggente, quasi arrivando a definirlo nel contesto del discorso.
Quest’uso però deriva dal più antico suffisso verbale -taru, che applicato a un
verbo significava originariamente “appena giunto a completamento”: un’azione
continuata nel passato prossimo e che si perfeziona adesso, ed è quindi appena
terminata. L’uso verbale era già in declino all’epoca in cui quest’opera è scritta, e
oggi è praticamente scomparsa dal giapponese parlato, sebbene resti
comprensibile per l’uso che se ne fa ancora come suffisso nominale.
265
creare un opera d’arte, e che non aveva un’immediata
corrispondenza nelle forme verbali più moderne, e che,
piaciutogli l’effetto, abbia seguito l’ispirazione del momento e si
sia lasciato guidare dalle parole così, come gli venivano naturali.
Il passaggio al tu impersonale nel paragrafo che inizia con “Ma
se eccelli...” riflette un cambiamento di struttura nell’originale,
che qui vede l’impiego dei pronomi personali e alcuni pronomi
possessivi “fossili” (desueti in Giapponese moderno) molto più
caratterizzati dello stile impersonale usato fino a quel momento.
Sebbene i pronomi usati abbiano una sfumatura impersonale ben
riconoscibile, sono decisamente definiti; da qui la scelta dell’uso
del “tu” impersonale.
Dopo il passaggio al tu impersonale, nel paragrafo che inizia
con “Fra questi due tipi di artigiani”, Souseki torna allo stile
contemporaneo, e inizia a usare un tono seppur forbito, diretto e
colloquiale, con chiari riferimenti alla propria esperienza. In
breve, passa dal tu impersonale e dalle forme arcaicizzate a una
visione più intimista, attraverso l’uso dell’ “io” e di un tono più
colloquiale.
Nel passaggio “... sebbene desiderassi muoverla più di ogni altra
cosa, ma non bastava questo a muoverla ...”, la ripetizione di
“muoverla” è nell’originale. Similmente i due “mi dico” nel
paragrafo successivo sono ripetuti dall’autore, e con enfasi tale da
non passare inosservati.
Nel passaggio “... e in un batter d’occhio, doveva essere già
passata” l’autore usa un idiomatico molto comune, che
letteralmente suona: “nemmeno il tempo di pensare «ah»”.
Sebbene in genere questa struttura idiomatica abbia dignità
sufficiente a esigere una traduzione più diretta, vista la pesantezza
del discorso e le esigenze di ritmo, ho preferito ripiegare su un
modo di dire italiano con lo stesso senso.
Il brano che inizia con “La donna, naturalmente, non parla” fa
un uso molto sofisticato del termine 固より – motoyori – che vuol
266
dire principalmente “ovviamente”, oppure “già da un prima”. Il
termine è ambiguo e assume tutta una gamma di significati;
etimologicamente aveva il valore di “accaduto con certezza in
passato”, quindi “assodato”, e per estensione ha assunto un
valore più vicino a “ovvio”. L’uso sofisticato a cui mi riferisco
riguarda appunto lo sfruttamento di questa ambiguità, che lascia
il lettore nell’incertezza e nella sospensione fra i vari possibili
significati. Ho scelto di tradurre questo termine con
“naturalmente”, che in Italiano accumula due significati di
“ovvio” e di “fatto in modo naturale”. Questi due significati sono
diversi da quelli dell’originale in Giapponese, ma il termine ha il
pregio di raccogliere la potenza dell’ambiguità che l’autore vuole
evidenziare ripetendo il termine motoyori in quattro frasi (due in
questo periodo e due nel successivo). Anche se il significato
secondario di “naturalmente” è diverso dal significato secondario
di motoyori, il significato primario coincide; e anche il secondario,
pur diverso, può essere inserito nella struttura del discorso senza
disturbarla. Qui, è più importante l’ampiezza dell’ambiguità che
non che non i “poli” di significato a cui essa tende, e penso che la
scelta di “naturalmente” sia adeguata a rendere la sensazione che
l’autore voleva evocare.
Poesie nel capitolo
I due brevi componimenti nel paragrafo che si apre con “La
giovinezza...” in realtà fanno parte di un unica poesia che si
intitola 春日静坐 – haruhi seiza – “Sedendo in silenzio un giorno
di primavera”, scritta dall’autore stesso nel 1898, quindi otto anni
prima della stesura di questo romanzo, ed è un breve
componimento in Cinese, con versi composti di cinque sillabe, in
stile antico. Souseki ne dà qui una traduzione in giapponese
molto “libera”. Ho voluto rendere la metrica e le rime nel testo
originale scrivendo in endecasillabi, e mi sono attenuto un po’
più strettamente al senso originale in Cinese che non alla
reinterpretazione operata dall’autore in Giapponese. Qui sotto
riporto il testo in Cinese, la traslitterazione in pinyin e fra
267
parentesi il testo in giapponese già traslitterato in caratteri latini.
La traduzione offerta da Souseki è infatti resa tramite lettere
fonetiche (hiragana) che trovano una corrispondenza esatta nei
caratteri latini, e riportare i caratteri originali non sarebbe di alcun
aiuto alla comprensione del testo.
青春二三月 Qīngchūn èr sān yuè (Seishun ni-sangatsu)
Due-tre mesi di gioventù
愁随芳草長 Chóu súi fāngcăo cháng (Urei wa housō ni
[shitagatte nagashi)
Il rimpianto insegue le erbe fragranti a lungo
閑花落空庭 Xiánhūa làokōng tīng (Kanka kuutei ni ochi)
I fiori selvatici non danno frutti (o non
[sbocciano) nel giardino (ben tenuto)
素琴横虚堂 Sùqín héng xū tàng (Sokin kyōdō ni yokotaru)
L’arpa giace su un fianco nella sala vuota.
蠨蛸挂不動 Diéxiāo gùa bùdong. (Shōshō kakarite
[ugokazu)
La farfalla si aggrappa senza più muoversi
篆煙繞竹梁 Zhuànyān rào zhuliáng. (Ten’en chikuri you wo
[meguru)
Il fumo d’incenso si avvolge alle travi (di
[bambù)
In questa prima parte, il primo verso è libero, mentre gli altri
seguono una rima baciata debole in -ng. La seconda parte è la
seguente:
独坐無隻語 Dúzuò wúzhǐyǔ (dokuza shite sekigo naku)
268
Siedo solo senza proferire una singola parola.
方寸認微光 Fāngcùn rèn wēiguāng (housun ni bikou wo
[mitimu).
E mi rendo conto di una tenue luce a un palmo
[dal cuore.
人間徒多事 Rénjiān tú duōshì (Ningen itazura ni taji).
La gente si affanna dietro agli affari quotidiani.
此境孰可忘 Cǐ jìng shú kě wàng (kono kyō izuku ni kawa
[suru beki)
Come dimenticare questo limite (?).
会得一日静 Huèidé yī rì jìng (tamatama ichinichi no sei wo
[ete)
Riuscendo a riservarmi un giorno di quiete.
正知百年忙 Zhèng zhī bǎinián máng (masa ni hyakunen wo
[shiru)
Comprendo gli affanni di cen’tanni.
遐懐寄何処 Xiáhuái jì héchǔ (kakai izure no tokoro ni
[yosen).
E giungo in un luogo lontano, irraggiungibile.
緬邈白雲郷 Miǎnmào báiyún xiāng (Menbaku-tari hakuun
[no kyou).
Nell’eterno paese delle nuvole.
Qui la traduzione in Giapponese di Souseki è decisamente più
“libera”: itazura (per scherno, schernendo) non appare in 人間徒
多 事 , e 此 境 孰 可 忘 ha un forte senso interrogativo per la
particella 可 – ke – “forse”, ma Souseki lo rende con beki – che
269
indica l’obbligo a compiere un azione (il senso diventerebbe
“bisogna liberarsi” e non “come liberarsi?”). Nella traduzione in
Italiano ho preferito seguire i versi cinesi, perché più semplici da
mettere in metrica, e perché qui la traduzione dell’autore in
Giapponese ha più il sapore di una prosa ragionata e libera che
non di un testo poetico. Lo schema delle rime, che ho riproposto
negli endecasillabi è A-B-B-B C-B-D-B-B-C-B. A essere fiscali, le
rime dei versi B in Cinese sono in -ng, come nella prima parte
della poesia; avrei dovuto mantenere la rima in -nto, ma ho
preferito cambiare lo schema per una maggiore varietà e
musicalità nella traduzione in Italiano. Anche se in origine le due
parti erano in realtà componenti di un’unica poesia, in questo
testo sono presentate come poesie autonome, quindi mi sono
sentito libero di ridurre il peso di quel -nto: nella seconda parte
l’ho usato solo per i due versi in C.
7
Nel passaggio “Solo questo nembo, perfetto come corona dei
due caratteri di notte di primavera”, Souseki usa usa letteralmente
la parola 冠 – kanmuri – “corona”, usando poi il verbo essere
declinato in -taru per indicare la completezza dell’azione svolta, e
gioca con la forma grafica dei caratteri 春宵 – shunshou – notte
primaverile, entrambi “coronati” con tratti che ricordano forme
eteree.
Il passaggio che inizia con “Sdraiandomi supino col bordo della
vasca a sostenermi la testa...” scende progressivamente di tono,
fino ad arrivare al colloquiale, e anche più in basso, alla fine del
paragrafo. Ancora una volta assistiamo al processo mentale del
personaggio che, mano a mano che cerca di districarsi fra i suoi
pensieri, abbandona i formalismi e si concentra sulla sostanza.
L’espressione “Millet è Millet, e io sono io” è una tipica forma
colloquiale giapponese, che assume la struttura “X wa X, Y wa Y
(da/no da)”. È estremamente comune nel giapponese parlato, a
270
livello colloquiale, quando si vuole sottolineare alla persona con
cui si sta parlando che un esempio che ha appena fatto non è
adeguato a sostenere il suo punto di vista. Si usa anche riferito
alle situazioni o ai momenti, per indicare che anche se le cose
sono andate in un certo modo in passato, non è detto che si
ripetano così anche in futuro.
Nel passaggio, è particolarmente interessante questa frase: “a un
essere che vive semplicemente fluttuando, il dolore non serve”.
L’originale usa un’ambiguità del Giapponese difficile da tradurre,
ossia l’uso del verbo iru, che a seconda del contesto può voler
dire “entrare”, “essere” e “necessitare”. In genere l’ambiguità è
risolta dall’ideogramma usato, e in questo caso Souseki usa
l’ideogramma di “entrare” (che si può pronunciare anche hairu,
ma l’autore sceglie di specificare la pronuncia ambigua iru).
Tuttavia, la forza dell’ambiguità etimologica del termine, e l’uso
del tono colloquiale, dove è consentita una maggiore ampiezza
dei significati, mi fa preferire la traduzione che ho adottato a una
meno interessante “Il dolore non entra in un essere che vive
semplicemente trascinato via”, anche perché “quell’entrare”, pur
se disambiguato, mantiene nel tono piano una valenza semantica
allargata. Se in Italiano diciamo, in tono informale, “e questo che
c’entra?”, stiamo usando il verbo “entrare”, ma il valore
semantico è “qual’è la relazione con quello che ho detto?”.
Similmente, il comune verbo iru, pur nel senso di “entrare”, ha
valori semantici estesi che non coincidono pienamente con il
concetto reso in Italiano: il senso della frase originale 流れるも
のほど生きるに苦は入らぬ, costruita sul pattern “X ni Y wa
iranu”, significa letteralmente: “in X non entra Y”; anche a
spingercelo, il secondo termine non può essere inserito nel
primo, non c’entra, è superfluo, è eccessivo, non necessario.
Vale anche la pena di sottolineare che l’insistenza in questo
passaggio “...è proprio bella ... è proprio un bel quadro”, è
nell’originale, che ripete a chiusura due frasi successive 相違いな
271
い – aichigainai – proprio così, senza dubbio. Il tono del passaggio
invita a usare un registro informale.
Nella frase “Nel mio cuor di bambino, vedere quei pini mi
faceva stare bene” ho dovuto rinunciare alla ripetizione
dell’ideogramma “cuore” dell’originale: 小供心にこの松を見
ると好い心持になる – kodomo-gokoro ni kono matsu wo miru to yoi
kokoro-mochi ni naru. La parola kokoro-mochi, formata dagli
ideogrammi “kokoro” (cuore) e “motsu” (possedere) ha il
significato idiomatico di “sentimento”, e non esiste in italiano un
sinonimo di sentimento derivato da “cuore” capace di reggere la
ripetizione dell’originale. Ho tradotto con il termine yoi kokoromochi (buona sensazione) con “mi faceva stare bene” per via del
valore verbale delle parole composte, e per il tono molto
colloquiale e caldo del associato a questa parola.
Il passaggio “Quel che già dovrebbe essere bastante, si sforzano di farlo
bastantissimo, o bastantissimo tanto ...” traduce un divertente gioco di
parole che si basa sul termine 十 分 – juubun – abbastanza.
Esistono due modi di scrivere questa parola, e il più “letterario” è
充分 ossia letteralmente “ogni parte”. L’altro modo, 十分 , più
comune nel Giapponese quotidiano, significa letteralmente “dieci
parti”. Il passaggio originale è: 十分で事足るべきを、十二分
にも、十五分にも. Le parole 十二分 – juunibun – dodici parti
e 十五分 – juugobun – quindici parti, sono inventate usando il
valore letterale di juubun e ovviamente significano che se “dieci
parti” sono abbastanza, allora dodici, o quindici, lo saranno ben
di più. Alle orecchie di un Giapponese deve suonare simile a una
battuta come potrebbe essere in Italiano: “sei tremendo, anzi
quattromendo, di più, cinquemendo!”
272
In “È per questo che si dice che il troppo stroppia”, il proverbio
originale è 満 は 損 を 招 く – man wa son wo maneku – il pieno
invita il danno.
La descrizione del profilo di nudo inizia con “La nuca rotonda
poggerà leggera...” è uno dei pochi passaggi dell’opera che ho
tradotto col futuro. Il modo futuro non esiste nei verbi
giapponesi; ne fa funzione il presente usato in congiunzione con
espressioni di tempo future. Tuttavia, esiste una forma volitiva
che indica la volontà ferma di compiere una certa azione in un
momento successivo, e che quindi è opportuno tradurre col
nostro futuro. Qui Souseki usa alcune di queste forme, e sebbene
il tempo futuro non sia perfettamente individuato, è chiaro dal
contesto, e dalle forme verbali che impiega, che non sta
descrivendo qualcosa che vede in quel momento, bensì qualcosa
che intende fare, o che sta comunque ricomponendo nella sua
mente.
L’originale del passaggio “... a disegnare sei a sei le trentasei scaglie di
un drago lo si fa buffo, invece le carni nude nude, osservate pure pure, ...” è
“六々三十六鱗を丁寧に描きたる竜の、滑稽に落つるが
事実ならば、赤裸々の肉を浄洒々に眺めぬうちに神往の
余 韻 は あ る ” . Come si può notare, c’è una ripetizione ben
evidente dei tre ideogrammi che si traducono come le parole
ripetute: “sei”, “nudo” e “puro” (il carattere speciale 々 ha
appunto questa funzione). Sebbene le parole 赤裸 – nudità e 浄
洒
–
purezza, non richiedano la ripetizione del secondo
ideogramma, l’autore gioca con il concetto di 六 々 – sei a sei,
costruendo un artificio linguistico che è difficile rendere in
un’altra lingua.
Nell’ultimo paragrafo, “lambirono” è l’unico verbo al passato;
tutto il resto è reso al presente.
273
Il “mostro tartaruga” è nell’originale un 霊亀 – reiki – spirito
tartaruga; normalmente, avrei lasciato questa parola non tradotta,
spiegandola in una nota, ma il suono è identico al nome della
pratica spirituale famosa come “Reiki”. Nell’epoca in cui scrive
Souseki (1906), questo movimento spirituale deve ancora nascere
(la sua origine si fa risalire a una esperienza mistica vissuta da
Mikao Usui intorno al 1920, e la prima scuola di Reiki venne
fondata nel 1922). Quindi, la parola è sicuramente disgiunta dal
più famoso “Reiki”, ma usare il termine originale avrebbe
confuso il lettore Italiano. Il reiki-tartaruga è uno dei quattro
spiriti animali della filosofia taoista, assieme all’unicorno (kirin),
alla fenice (houou) e al drago (ryuu). È considerato un messaggero
di fortuna, tanto da apparire raffigurato spesso nei talismani
portafortuna, ma come tutti gli spiriti taoisti è considerato
volubile e pericoloso.
Poesie nel capitolo
La poesia di Letian è composta sette caratteri cinesi, e Souseki
ne fa una traduzione a margine praticamente letterale. Questi
sono i caratteri originali in cinese:
温泉
sorgente
水滑
acqua liscia
洗凝脂
lava l’unto
Il lettore vorrà perdonare il mio vezzo nell’averla tradotta come
un haiku, in tre versi da 5-7-5 sillabe.
La poesia composta dal protagonista al volo nella vasca è la
seguente (si ricordi che il suffisso -ou si legge come ō, ossia come
una o lunga).
雨が降ったら濡れるだろう。 Ame ga futtara nureru darou.
霜が下りたら冷たかろ。 Shimo ga oritara tsumetakaro.
274
土のしたでは暗かろう。 Chi no shita de wa, kurakarou.
浮かば波の上、
Ukaba nami no ue,
沈まば波の底、
shizumaba nami no soko,
春の水なら苦はなかろ。 haru no mizu nara ku wa nakaro.
Una traduzione letterale può essere:
Se piovesse, mi sa che ti bagneresti.
Se scendesse la foschia, dovresti aver freddo.
Sotto la terra, deve far buio.
Se galleggi, sopra le onde,
se affondi, sotto le onde,
se fosse acqua di primavera, non dovresti soffrire.
E’ interessante notare che questa poesiola è l’unica composta
imitando una forma poetica tipicamente occidentale. Abbiamo
infatti una struttura A-A-A-B-C-A, con i versi in A endecasillabi
(il terzo in realtà è in dieci sillabe, ma c’è una pausa naturale dopo
il -de wa che aggiusta la metrica), mentre i due B e C sono liberi
sia in metrica che in rima; il taglio dell’ultima -u (allungamento
della o) in alcuni versi è fatto evidentemente per motivi di
metrica. Anche l’abbandono del Giapponese classico e l’uso di
un Giapponese assolutamente colloquiale e contemporaneo, oltre
all’uso della punteggiatura, sconosciuta nella poesia tradizionale,
vogliono essere un tentativo di adottare in toto un’idea di poetica
occidentale. Quindi, sebbene la ritraduzione di questa poesia in
una lingua occidentale possa sembrare un po’ banale,
nell’economia del romanzo costituisce un esperimento inedito e
assume un certo valore, anche in considerazione del fatto che,
mentre nelle poesie in Cinese le rime sono relativamente comuni,
in Giapponese sono pressoché sconosciute, e proporle richiede il
ricorso a strutture linguistiche ripetitive. ad esempio, in Italiano,
la costruzione della rima attraverso verbi al futuro è considerata
275
tanto banale da essere universalmente rifuggita dai poeti (con
notevoli eccezioni come il Carducci, Tutto che questo mondo falso
adora / Co ’l verso audace lo schiaffeggerò: / Ei mi tese le frodi in su
l’aurora / A mezzogiorno io le calpesterò). Invece, l’uso del suffisso
-ro(u), forma potenziale/volitiva dei verbi giapponesi, è uno dei
pochi modi di una certa consistenza disponibili per creare rime in
Giapponese (e vista la novità dell’esperimento, all’epoca di
Souseki, un modo per niente scontato).
8
In generale, in questo capitolo ho preferito lasciare non tradotti
alcuni termini che indicano luoghi, animali, personaggi storici e
oggetti di uso comune. L’uso di questi termini era tanto
pervasivo da renderne una traduzione difficile e poco elegante.
Unica eccezione, le unità di misura, che ho preferito tradurre,
come al solito, per consentire al lettore italiano di comprendere
meglio le dimensioni espresse.
La frase “Al di là della buona fattura del timbro, non mi sembra
così importante...” è nell’originale “ 銘は観賞の上において、
さ の み 大 切 の も の と は 思 わ な い が ” che si traduce
letteralmente come “pur ammirando la firma, non penso sia una
cosa tanto importante”, ma nella prima parte della frase, il
carattere 銘 – mei – indica esplicitamente la tipica firma-sigillo
usata in oriente per marchiare le opere d’arte, generalmente
prodotta con un timbro apposito. La struttura della frase
suggerisce, senza dirlo, che in fondo chiunque potrebbe imitare
l’originale e con esso quel timbro, ma la traduzione diretta
perderebbe questo significato. La traduzione meno diretta che ho
scelto lo trasmette, almeno in parte.
La perifrasi “è un piacere raffinato per intenditori” traduce una
frase idiomatica che ha un senso letterale leggermente differente:
276
閑人適意の韻事 – kanjin tekii no inji – letteralmente “una ricerca
artistica adeguata a qualcuno del mestiere”, dove “del mestiere” si
riferisce all’arte (kanjin è letteralmente una persona che ha una
relazione con l’argomento di cui si parla, e in questo caso
l’argomento è nell’ultima parola, inji). Questa frase idiomatica ha
assunto nel Giapponese corrente un significato spostato e
iperbolico, diventando un modo di dire che indica qualcosa di
futile, a cui si dedicano persone con troppo tempo libero. Ma sia
il tono della frase, la prima del capitolo dove Souseki passa a una
costruzione poetica, sia il contesto linguistico dell’inizio del
periodo Showa mi fanno pensare che qui l’autore avesse inteso
questa costruzione nel suo significato originale, e senza quella
punta di ironia che ha assunto col tempo. In questo senso, il
valore idiomatico è esattamente sovrapponibile al nostro “piacere
per intenditori”.
Nel brano che inizia con “Sulla mensola, col ripiano tirato a
lustro come uno specchio...” ci sono alcune ripetizioni
esplicitamente inserite con grande evidenza dall’autore.
Nell’originale, la ripetizione è su “lustrare”, e su una parte del
termine che indica l’opera di calligrafia di Bussourai; questa
ripetizione l’ho resa ripetendo l’aggettivo “grande”, riproducendo
all’incirca il ritmo dell’originale. In questo passaggio, il termine
“cornice” sostituisce una parola che indica le strutture di supporto
ai kakemono: 装 幀 – soutei – che si traduce più o meno come
“rilegatura”, e che, in questo caso, indica l’insieme delle corde
che sorreggono il tutto, del peso che si trova alla base ed
eventualmente una cornice di stoffa che tiene ferma la carta, sul
sostegno di broccato.
L’espressione “...siccome deve aver visto qualche stagione...”
traduce una frase che riprende liberamente modi di dire e frasi
idiomatiche dallo stesso significato: 多少の時代がついている
から- tasho no jidai ga tsuiteru kara – letteralmente “siccome gli si
sono appiccicate più o meno epoche...”.
277
Nella frase pronunciata dall’Abate, “...anche se durante il
Kyouho avevano un pessimo gusto, c’è qualche bell’oggetto...”,
l’originale per “avevano un pessimo gusto” è letteralmente “i
calligrafi avevano dei brutti caratteri”. Ho scelto una traduzione
più liberale per mantenere ritmo e senso dell’originale.
La frase in cui il padre di Nami racconta la storia del coperchio
della pietra-calamaio è molto rapida nell’originale, e lascia alcuni
dettagli ambigui. Il testo è il seguente:
「山陽が広島におった時に庭に生えていた松の皮を剥
いで山陽が手ずから製したのですよ」
La traduzione letterale è: “Quando San’you fu (si trovava) a
Hiroshima, tagliò con le sue mani un ramo da un pino che
cresceva in un giardino.”
Ho scelto di caratterizzare il giardino come di proprietà di
San’you e il pino come cresciuto da lui, perché nel Giapponese
parlato molte parti ovvie del discorso sono lasciate sottintese, e la
struttura complessiva della frase non fa pensare a un giardino, e
un pino, qualsiasi. La connessione con il soggetto-agente è
abbastanza forte da lasciare nel lettore l’idea che gli altri elementi
del discorso siano posseduti da esso, pur senza chiarificarlo
esplicitamente. L’autore avrebbe potuto essere più chiaro sul
fatto che il giardino e l’albero fossero di San’you, usando un
complemento di specificazione, ma avrebbe anche potuto
chiarire il fatto che non fossero stati suoi usando un verbo
differente per “crescere” e “trovarsi”: un incontro “casuale” con
un oggetto sconosciuto sarebbe stato probabilmente espresso
con 有った in luogo di 生えていた , e un passaggio casuale
presso Hiroshima sarebbe stato espresso con 置いた, o 通った
in luogo di おった . Va però ricordato che la relazione con gli
oggetti rimane inespressa, e il lettore Giapponese non riceve
informazioni sufficienti e definitive per dirimere il dubbio; non
278
potendo tradurre direttamente questa ambiguità in Italiano, ho
scelto di rendere il senso che sembra predominante.
Quando Kyuuichi si rivolge al padre di suo padre, con la frase
“non c’è bisogno che il nonno mi accompagni”, in realtà, nel
testo originale, viene usato il termine 御伯父 – go-oji – il “signor”
zio. Tuttavia, anche se la parola usata significa genericamente
“zio”, qui Souseki usa degli ideogrammi che hanno il senso
generico di persona imparentata col padre. L’ideogramma usato
più comunemente per zio è 叔父 . È difficile ricostruire questo
dettaglio a cento anni di distanza dall’uso comune, ma credo che
Kyuuichi abbia semplicemente inteso usare quel termine non nel
senso proprio di “fratello del padre” ma nel senso generico di
“parente più anziano”.
Nell’espressione “... a piangere siano gli uccelli, a cadere siano i
fiori, a scorrere siano gli onsen ...” il verbo originariamente
associato agli onsen è “ribollire”; ho preferito usare “scorrere” per
l’evidente associazione di idee col destino dei soldati, che l’autore
voleva richiamare. Infatti, mentre in Italiano si usa rendere l’idea
delle vittime in guerra con l’immagine dello “scorrere del
sangue”, in Giapponese si usa l’immagine più cruenta del
“ribollire del sangue”.
9
Quando Nami apre il capitolo con la domanda “È
interessante?”, e nel passaggio successivo “E allora come fa a
essere interessante?”, l’espressione originale è 勉 強 に な る –
benkyou ni naru, che letteralmente si traduce come “diventare
studio”. È un idiomatico che si usa per indicare una lettura, ma
anche un’esperienza in generale, di cui si può fare tesoro e dalla
quale si può apprendere qualcosa, e in senso traslato, qualcosa di
genericamente interessante e utile. Purtroppo, si perde il gioco di
significati usato dall’autore, quando passa dal senso traslato
279
implicato da Nami al significato letterale dell’espressione, e
risponde alla seconda domanda con 勉強じゃない – benkyou ja
nai – letteralmente “non è studio”. La parola usata
successivamente per esprimere questo concetto, 面 白 い –
omoshiroi – contiene anch’essa una ambiguità; può voler dire sia
“divertente” che “interessante”; ho usato la parola più adeguata a
tradurre il significato basandomi sul contesto e su ciò che ritengo
l’autore volesse significare di volta in volta.
Nelle battute iniziali, l’autore usa il termine 半 襟 – han’eri,
mezzo colletto – per indicare il kimono indossato da Nami. Ho
preferito perdere la metonimia per evitare la fastidiosa ripetizione
collo-colletto, o usare un termine non noto al lettore italiano, che
non avrebbe potuto cogliere a pieno il significato del passaggio.
La risposta di Nami “I romanzi, li leggo, così, ogni tanto...”,
nell’originale era 小説なんか読んだって、読まなくったっ
て… letteralmente “Cose come i romanzi, che li legga, che non li
legga...”. Il pattern X-nanka Y-tte, Y-nakutatte è una espressione
idiomatica, tipicamente femminile, che significa quanto ho scritto
nella traduzione.
Nella frase “E così, essere artista significa innamorarsi senza
provare emozioni, eh?”, Nami usa la parola 不人情 – fu-ninjou,
che è esplicitamente sinonimo della parola chiave del romanzo
非人情 – hininjou – inemotivo. Si possono vedere i prefissi “fu-”
e “hi-” come due prefissi negativi aventi origini etimologiche
diverse, ma sostanzialmente lo stesso significato, così come in
italiano possiamo avere “in-” e “a-” che, seppure con sfumatura
diversa, negano il termine a cui sono apposti. L’uso di questo
termine vuole significare che Nami ha letto il protagonista, ne ha
compreso la ricerca della liberazione dalle emozioni, ma non la
condivide, al punto di storpiare la parola che gli è tanto cara.
280
La frase “Ah, sia pur così. Che, date le circostanze, foss’anche
manchevole, non v’è di che dogliarsi” traduce un’insieme di frasi
di circostanza eccessivamente formali e un po’ datate. È evidente
che Nami le usa con un intento velatamente ironico.
Nel passaggio successivo, l’autore usa due volte una espressione
che ho tradotto con il nostro idiomatico “darla a bere”, o
“bersela”. Nell’originale, è:
女は何喰わぬ顔で... その手は喰わない。
Letteralmente, “la donna, con la faccia di una che non mangia
niente...” e “non mangio quella mano”. In Giapponese si usa
infatti il concetto di “mangiare” per indicare l’idea di non cogliere
la verità dietro una menzogna; la similitudine si riferisce al pesce
che mangia l’esca con tutto l’amo. Per quanto riguarda la frase
idiomatica “non mangio quella mano”, questa accumula due
metafore (caso piuttosto comune, in Giapponese), dove per
“quella mano” si intende il modo di agire di qualcun altro, e per
“mangiare”, si intende, appunto, bersi una bugia.
La frase “I bonzi Zen hanno uno strano senso dell’umorismo,
eh?” è tradotta in modo abbastanza liberale, ma coglie il senso
dell’originale: 禅坊さんなんてものは随分訳のわからない
事 を 云 い ま す ね – letteralmente: “Quelli che si definiscono
signori bonzi Zen dicono a profusione cose di cui non si capisce
la ragione, vero?”
Come ho già osservato altre volte, il senso dell’umorismo dei
monaci Zen è proverbiale, in Giappone. Molti Koan, piccole
storielle logicamente assurde, usate come fonte di meditazione
per raggiungere l’illuminazione, sono perle di umorismo, ed è
noto che una delle manifestazioni esteriori di chi raggiunge
l’illuminazione è scoppiare in un riso incontrollato. Tralasciando
il vezzo tipicamente Giapponese di indicare esplicitamente le
definizioni (“quelli che si definiscono”), ormai usata in senso
meramente incidentale, senza quasi nemmeno un senso più
281
velato (come ad esempio, il nostro “I così detti...”), e quello di
apporre -san (“signore”) anche a nomi collettivi, cose inanimate e
concetti astratti, l’espressione interessante qui è: “cose di cui non
si capisce la ragione”.
Questa espressione non indica semplicemente qualcosa di
insensato. È una perifrasi che può essere usata in senso
dispregiativo, per indicare un ragionamento fastidioso o
spiacevole, o in senso positivo, per indicare una cosa buffa,
anche se futile. Qui viene utilizzata in questo secondo significato,
per indicare qualcosa che potrebbe essere sovrapponibile all’idea
di non-sense inglese.
Incidentalmente, questa espressione, “wake no wakaranai”, si è
evoluta fino a diventare una frase chiave del registro femminile
moderno: “wake wakannai” letteralmente “non capisco la
ragione”, usata in questo modo contratto quasi esclusivamente
con connotazione negativa, per apostrofare un comportamento
disprezzato, o per indicare disapprovazione. ad esempio, si
potrebbe udire un gruppetto di ragazze in età scolare dire
qualcosa come: “Quello lì ha tradito tutte le ragazze con cui si è
messo insieme!” “Davvero!?! Wake wakannai!” – che non sta a
significare “non ne comprendo il motivo”, ma “che cosa
riprovevole!”
Per rendere a pieno il significato dell’originale nel passaggio
“...Anche se avrebbe preferito che il babbo l’abbozzasse, è venuto giù perché
l’ha chiamato. E chi lo smuove, il vecchio? Però ho incontrato Kyuuichi
mentre tornava su...” ho dovuto aggiungere molti dettagli che
restano impliciti nelle strutture grammaticali Giapponesi. Qui,
infatti, Nami riduce la formalità del discorso, il che equivale a
ridurre la precisione con cui individua i vari soggetti e oggetti dei
verbi. Così come in Italiano abbiamo alcuni elementi semantici
incorporati nei verbi e negli aggettivi, in Giapponese si possono
dare altre indicazioni attraverso i verbi e i termini usati. In
particolare, si può esprimere la “direzione” in cui si svolge un
verbo. Di conseguenza, i dettagli che possono essere resi
282
impliciti, pur restando chiari, sono differenti fra Italiano e
Giapponese, e non sovrapponibili.
ad esempio, si consideri la seguente breve poesia in Italiano:
Danza la falda bianca
nel ciel scherzosa
poi sul terren si posa
stanca, danza la falda bianca
(È un breve componimento che apre una canzone di Shikata
Akiko: Hana Kisou). Si osservi come il lettore italiano è subito in
grado di comprendere che “scherzosa” non è riferito al cielo, che
è il nome a cui è grammaticalmente più vicino: grazie alla
concordanza di genere, siamo in grado di capire che “scherzosa”
è senza dubbio da riferirsi alla “falda bianca”. Per tradurre questa
poesia in una lingua che non incorpora il genere nei nomi e negli
aggettivi (ad esempio, l’Inglese o il Giapponese), abbiamo due
possibilità: cambiare la struttura delle frasi in modo che
“scherzosa” sia grammaticalmente legato a “falda bianca”, o
usare i nomi e i pronomi opportunamente, in modo da dirimere
l’ambiguità causata dalla perdita di questo dettaglio semantico.
Per rendere la frase di cui sopra, passando dal Giapponese
all’Italiano, ho dovuto fare entrambe le cose. Inoltre, ho anche
dovuto rendere una frase idiomatica: “E chi lo smuove” era
nell’originale 麻痺が切れて困ったでしょう – letteralmente:
“Tagliare il formicolio [di un arto addormentato] è un problema,
giusto?”. È ovviamente una frase che si riferisce all’immobilità
tipica di una persona anziana, e lo indica in maniera assai poco
rispettosa. “Il vecchio” non è nell’originale, ma era necessario
recuperare il tono informale e vagamente denigratorio, oltre
all’indicazione del fatto che la persona che non si muove è il
padre di Nami, non Kyuuichi, cosa che, al lettore Giapponese, è
immediatamente evidente.
283
I tre “Te l’ho fatta” alla fine del capitolo, nell’originale sono resi
col verbo 驚く – odoroku – essere sorpresi. Letteralmente, Nami
dice al protagonista “sei rimasto sorpreso!”, ma il verbo usato in
questo modo, direttamente, coniugato al passato piano (odoro-ita),
nel linguaggio femminile, sottintende che la causa della sorpresa è
il parlante. Anche qui, abbiamo una di quelle forme direzionali
(dal parlante all’ascoltatore) che sono chiare al lettore
Giapponese, ma non possono essere tradotte direttamente. Per
questo, ho dovuto usare la nostra forma idiomatica per rendere
lo stesso significato originale.
La frase che chiude il capitolo “Per lunghi attimi di totale
stupore” è nell’originale 茫然たる事多時 – bouzen-taru koto taji.
Si tratta di una costruzione nominale, e inusuale nella sua
struttura, appartenente al registro letterario. Bouzen è una parola
di origine cinese che significa “stupore”. Il suffisso verbale (qui
verbalizzante) -taru, comune in Giapponese classico, indica
qualcosa che possiede la qualità indicata al massimo grado, tanto
da essere un esempio rappresentativo di una categoria; noi
diremmo “per antonomasia”. Il koto (“cosa”) applicato al suffisso
verbale, forma una frase relativa. Il concetto trasmesso da bouzentaru koto è: “cosa sorprendente per antonomasia, una cosa
rappresentativa del concetto di sorpresa”. La parola taji forma
uno dei giochi cari a Souseki: i due ideogrammi 多時 significano
“molto” e “tempo”; quindi, un lungo tempo. Gli avverbi di
tempo, in Giapponese, sono le uniche parti del discorso libere da
particelle che ne specificano la funzione, quindi taji basta da solo
a sottintendere “per molto tempo”. Tuttavia, normalmente,
parola dal suono taji si scrive 多事, letteralmente “molte cose”,
che assume il valore idiomatico di “eventualità impreviste”,
“problematiche insorte”. La grafia 多時 è inventata da Souseki
per l’occasione. Si noti che 事 – ji – nella grafia comune 多事 è
lo stesso ideogramma di koto, che significa appunto “cosa, fatto”.
Quindi, Souseki prende la parola che normalmente usa lo stesso
284
ideogramma appena scritto (koto), e ne cambia l’ideogramma e il
senso: da “fatti sopraggiunti” a “molto tempo”. L’effetto di una
simile costruzione sul lettore deve essere appunto quello di
causare confusione e stupore, lo stesso stupore a cui la frase fa
riferimento.
Si noti infine l’equilibrio dell’uso di tempi al presente e al
passato nelle ultime parti del capitolo: c’è una simmetria che
incornicia il racconto: “Pensai che la donna scherzasse...” è al
passato. Poi si cambia al presente, che rimane fino all’ultima
frase, “...mi sorrise teneramente”. È un modo per rendere più
vivida l’immagine parentetica di quel preciso momento.
10
L’incipit è semplicemente 鏡が池へ来て見る – letteralmente
“vengo a vedere il lago dello specchio” – ma il verbo “venire”
combinato con altri verbi, significa idiomaticamente “andare a...”.
Ancora oggi, questa semplice regola è fonte di imbarazzo per
molti traduttori. Qui, ho preferito tradurre con un nostro
idiomatico (fare un salto) per riprodurre il tono colloquiale e
familiare dell’originale.
Anche la seconda frase pone un interessante problema di
traduzione: 観海寺の裏道の、杉の間から谷へ降りて –
kankaiji no uramichi no, sugi no aida kara tani e orite. Qui, Souseki usa
la struttura sospensiva del Giapponese per ritardare il verbo fino
alla fine della seconda subordinata (orite – scendendo). In genere,
cerco di riprodurre l’ordine dei verbi per mantenere il ritmo e
l’ordine con il quale l’autore costruisce gli scenari nella mente del
lettore, ma in questo caso avrei ottenuto l’effetto opposto:
letteralmente, la frase suona come: “Dietro al tempio Kankai,
dalla radura fra i cedri la strada che scende...”. Aggiustandola un
attimo avrei potuto lasciare il verbo nella subordinata, ma
comunque la si giri, in Italiano suona troppo poetico, mentre in
285
l’intento originale è quello di “fare economia”: presentare con
meno parole possibile lo scenario più articolato possibile.
Questo, per dare al lettore l’idea di un luogo molto raccolto:
tempio, sentiero, radura, cedri, montagna, strada e lago, fanno
tutti parte di un piccolo, raccolto insieme, una specie di cammeo,
una bolla di cristallo che racchiude un mondo completo, ma in
miniatura; e questa sensazione è resa comprimendo questo
mondo nella frase più sintetica possibile. Una frase, che oltre a
essere sintetica, deve essere fluida, filare via veloce, per far
arrivare tutti questi concetti il più velocemente possibile, e in
modo chiaro, al lettore. Questo, e non il “tono poetico” (in realtà
assente nell’originale), era quello che andava trasmesso in questo
caso, e per questo, ho optato per la costruzione più snella
possibile – mi sono però concesso la libertà di riprodurre parte
dell’effetto generato dalla struttura sospensiva: “La strada che
scende da dietro il tempio Kankai, dalla radura fra I cedri fin giù
nella valle...”; applicando due complementi (da dietro..., dalla
radura...) allo stesso verbo (scende), ottengo lo stesso effetto
dell’originale, sebbene nell’originale il verbo venga dopo.
Nell’originale, il gioco di parole “comuni cittadini... sedere da
comune cittadino” è reso con le espressioni 太平の民... 太平の
尻 – taihei no tami / taihei no shiri. Sebbene taihei voglia dire
“comune” (letteralmente, “grande-piatto”), è un’espressione
insolita, sofisticata, e incatenata al concetto di “gente comune”
nell’espressione idiomatica taihei no tami. L’estrarre questo
aggettivo e accostarlo a shiri (sedere) ha un effetto ironico, al
quale il nostro “comune” non rende giustizia.
Nella scena in cui il protagonista accende una sigaretta, si
riferisce al cerino dicendo “Lo sento accendersi”: l’originale è
reso con 手応はあったが – tegotae wa atta ga... – “la sensazione
c’era ma...” (tegotae letterlamente significa “risposta della mano”).
Nella stessa scena ho reso 雨竜 – amaryou (letteralmente “drago
di pioggia”) col termine “mulinello”: è quel piccolo turbine che si
286
forma quando una pioggia sottile viene fatta vorticare da una
corrente d’aria ascendente, e forma una colonna visibile.
L’espressione “Buddha Amida, ora pro nobis” traduce la frase 南
無 阿 弥 陀 仏 – namu amida butsu, che è una traslitterazione in
antichi caratteri sino-giapponesi di una espressione in Sanscrito.
Il significato di questa espressione è approssimativamente
“Buddha Amida, ci affidiamo a te”: dichiara l’abbandono del
parlante alla volontà del Buddha. Il senso è abbastanza
sovrapponibile al latino “ora pro nobis”, là dove per “prega per
noi” non si intende esattamente l’atto di pregare, ma si chiede al
divino di intercedere, rimettendoci al suo giudizio. Il senso del
passaggio è che il protagonista decide di porre fine alle sofferenze
dell’erba moribonda, e dopo esserci riuscito, invoca il Buddha
Amida per una specie di estrema unzione.
In questo passaggio, vediamo anche due impieghi di una figura
retorica cara a Souseki: l’ipallage. Infatti, troviamo “capelli lunghi
come alghe” (mentre sono le alghe a essere lunghe come capelli),
e “l’acqua che va a nasconderle” (mentre sono le alghe che vanno
a nascondersi nell’acqua). Il doppio impiego può essere inteso
come rafforzativo, o forse, per assicurarsi che non passi
inosservato.
La frase che ho tradotto con “Mi inerpico su per un viottolino”
sembra aver dato diversi grattacapi a molti traduttori.
Nell’originale è 二間余りを爪先上がりに登る – niken amari
wo tsunesaki agari ni noboru. Letteralmente vuol dire “due
ken(=0,9*2 metri) appena/su di una salita unghia-avanti/salgo”.
Trattiamo subito un brutto cliente, 爪先上がり – tsunesaki agari
– che sta a significare “una salita così irta che ti ci devi
aggrappare con le unghie” – ed è semplicemente una costruzione
idiomatica che indica un viottolo di montagna. Ci resta 二間余
りを登る – niken amari wo noboru – che è un nemico abbastanza
287
formidabile. Fosse 二 間 を 登 る – niken wo noboru – allora si
potrebbe tradurre “risalgo (per) due ken (due metri)”. Fosse 二
間余り登る – niken amari noboru – allora si tradurrebbe “risalgo a
malapena due metri”. Ma quella particella wo dopo un avverbio
(amari – nemmeno, appena), ci mette in guardia sul fatto che
questa deve essere una costruzione idiomatica, per quanto
misconosciuta. Spulciando altri esempi di questa costruzione, mi
viene da dire che dovrebbe risultare come una costruzione
incidentale, un inciso per dare evidenza alla costruzione nel
complesso; quell’avverbio sembra essere un rafforzativo, come
“proverbiale”, “solito”, “usuale”, “immancabile” ecc. L’idea resa
sembra essere qualcosa come il nostro “esco per fare i proverbiali
quattro passi”, oppure “eravamo i soliti quattro gatti”.
L’interpretazione è confortata dal fatto che questa unità di
misura, “ken”, non viene mai usata da Souseki, a parte un
richiamo nello stesso paragrafo, e in generale, è estremamente
rara. Inoltre, la distanza di due metri non può essere assunta col
valore letterale, data la descrizione dell’ambiente circostante.
Infine, cosa che Souseki fa spesso, quello a cui assistiamo qui
sembra essere la compressione di due idiomatici in un unica
frase, (l’altro è “tsunesaki agari”). Data la difficoltà, ho deciso di
non insistere sulla precisione, ed ho incaricato la parola
“inerpico” di sorreggere la sensazione di leggere una figura
retorica. È un compito un po’ gravoso, ma dato che il termine è
desueto e spesso usato con valenza retorica, penso che così possa
passare almeno parte del sapore originale, assieme a tutto il
valore semantico che credo di aver riportato fedelmente.
Quando il protagonista osserva le camelie, l’aggettivo “serene”
traduce il termine 軽快 – keikai – che, più precisamente, significa
“piacere leggero”. Traduce sia uno stato d’animo leggero
(spensieratezza), che qualcosa di fisico che trasmette leggerezza
(come una forma, o una danza agile e aggraziata). Ho scelto di
usare l’aggettivo “sereno” per enfatizzare l’umanizzazione delle
288
camelie, ed evidenziare la sensazione che Souseki voleva
trasmettere, ma senza calcare la mano su quello “spensierato”
che, usando la radice “pensiero” assente nell’originale, sarebbe
stato forse eccessivo.
In questo passaggio, ho voluto mantenere la ripetizione
originale di “camelie” e “contarli”: mantiene un certo ritmo
poetico/semplice dell’originale: molto della poetica giapponese
sta nella capacità di rendere grandi emozioni usando le
costruzioni più semplici e le parole più comuni possibile.
La costruzione “insinua nelle vene un dolcissimo veleno” è
nell’originale 嫣然たる毒を血管に吹く – enzen-taru doku wo
chikan ni fuku – letteralmente “soffia nelle vene un massimamente
grazioso veleno”. Ora, enzen è un termine letterario che individua
una bellezza femminile e ammiccante, quasi a lasciar sfuggire, a
lasciare intravedere un velo appena percettibile della passione che
rimane nascosta. Credo che la classica antinomia “dolce veleno”,
con l’aggiunta del superlativo per rendere -taru, possa rendere
abbastanza bene questa espressione, che esce direttamente dai
testi classici.
Nella frase “È come il sangue dei prigionieri sterminati, che
chiama a sé gli sguardi della gente, e che intristisce con sé il cuore
della gente...” ho voluto mantenere ritmo, struttura e ripetizioni
dell’originale. In particolare, ho lasciato un’ambiguità che esiste,
ma è leggermente differente nel testo di Souseki. Nella
traduzione, il secondo “con sé” può voler dire “per come è,
grazie alla sua forma”, oppure “assieme a se”. La frase può essere
intesa come “che per sua natura opprime il cuore della gente”,
oppure “che opprime il cuore della gente, in simpatia con la sua
stessa oppressione”. Nell’originale, abbiamo 自から人の心を不
快にするごとく – mizukara hito no kokoro wo fukai ni suru gotoku.
Letteralmente significa “come se, se stesso, rendesse infelici i
cuori della gente”. Ma il “se stesso” è espresso attraverso la
parola “mizukara”, che è normalmente un avverbio di modo (fare
289
da sé medesimo). Per la struttura del Giapponese, senza
un’ulteriore specificazione, e nel tono colloquiale del discorso (i
toni formali tendono ad aumentare la precisione delle direzioni
delle azioni), il mizukara si può riferire sia al nome che lo segue 11
(hito – persona), che al verbo (ni suru – rendere). In altre parole,
può essere visto sia come un aggettivo per “persona”, che un
avverbio di modo per “rendere”. Quindi, il lettore può scegliere
se leggere che sono le persone che, per conto loro, si rendono
tristi nel vedere il sangue dei condannati, oppure che è il sangue
dei condannati che, per conto suo, senza compiere alcun gesto,
ma solo per la sua natura, rende infelici i cuori della gente. Non
volevo perdere il senso di ambiguità, ma non potevo tradurre
usando un avverbio che potesse, all’occorrenza, comportarsi da
aggettivo, quindi ho ripiegato sul “con sé”, che rende
un’ambiguità quasi altrettanto forte, anche se nell’originale,
l’ambiguità riguarda chi rende tristi chi (le persone stesse oppure il
sangue), mentre nella mia traduzione riguarda il modo in cui il
sangue rende triste le persone (assieme a sé, oppure tramite di
sé).
Nel passaggio successivo, il termine “tuffandosi” traduce
l’avverbio di modo ぽたり – potari – una parola che appartiene a
quella gamma di avverbi di modo onomatopeici che cercano di
rendere la sensazione del suono (reale o figurato) col quale
avviene un’azione. In particolare, questo avverbio indica
un’azione che provoca un suono simile a quello di di una bolla
che risale, o di un oggetto pesante che si immerge. Il termine più
11
290
Il Giapponese conosce una classe di aggettivi chiamati aggettivi verbali. Sono
aggettivi che, da soli, indicano la qualità di “essere in un certo modo”, al punto
che vengono coniugati seguendo il tempo del verbo principale, e la frase che li
contiene può omettere la copula. Mizukara non è “esattamente” uno di essi, ma è
un così detto avverbio in -to, un avverbio di modo che però, al grado di
conversazione colloquiale, può anche indicare l’azione di fare qualcosa per conto
proprio, senza necessità di appoggiarsi a un verbo. Qui, l’autore usa la flessibilità
del Giapponese, permettendo a quello che normalmente è un avverbio di
svolgere un ruolo simile a un aggettivo verbale, o semplicemente al “nome di
un’azione”.
vicino in Italiano è “gorgoglìo”, ma “gorgoglìo” indica un suono
continuo, mentre potari indica solo il primo della sequenza di
suoni che compongono il gorgoglìo. Ero propenso per renderlo
con l’onomatopea “pluf”, ma ho ripiegato per “tuffandosi”, che
ha un forte valore onomatopeico.
Nella frase “E se dipingessi una bella donna che fluttua verso
questo posto, mi chiedo mentre torno al posto di prima...” – la
parola giapponese per “posto” (tokoro) è ripetuta tre volte, ma in
un caso su tre, la ripetizione ha valenza strutturale, e ripetere tre
volte “posto” nella traduzione sarebbe stato incorretto.
Nel periodo successivo, “Le parole rivoltemi ieri per scherzo
dall’onorevole Nami-san...”, l’eccesso di formalità e la struttura
onorevole (altro) / umile (io) hanno una sfumatura
evidentemente ironica, soprattutto considerando che si tratta di
un monologo che si svolge nella testa del protagonista.
Nell’originale, la frase inizia con 温泉場の御那美さん... – yuba
no o-nami-san... – l’onorevole Nami-san dello stabilimento
termale... – ma ho voluto calcare la mano perché nella traduzione
letterale si perde il fatto, chiaro a un Giapponese, che l’onorifico
vicino al nome di un luogo di lavoro significa anche che la
persona indicata è il padrone dell’attività.
La parola “struggimento” traduce 憐 れ – aware. Esiste un
carattere omofono: 哀れ. Questo è il carattere più comune, che
significa generalmente pietà, o compassione; ma nel parlare
comune, ha anche connotazioni negative: essere in uno stato
talmente disdicevole da generare pietà; pietoso. Il carattere usato
da Souseki ha connotazioni più poetiche, ed esclude il senso più
comune. Resta quindi la pietosa compassione; ma se rivolta verso
sé-stessi e non verso altri, questa pietosa compassione può
assumere il senso di “tristezza, malinconia”. Che la
“compassione” o la “pietà” siano un sentimento sconosciuto agli
dèi è certamente un controsenso. Possederle è la caratteristica
fondamentale di tutte le divinità della dottrina buddista e di
291
buona parte di quelle cristiane, e anche quella di alcuni kami
canonici dello shinto; e persino di alcune divinità greche, alle quali
Souseki avrebbe anche potuto riferirsi, fra i suoi numerosi
richiami al neoclassicismo inglese.
Nello stesso passaggio, la traduzione “...le sopracciglia a formare
un tratteggio che grida vincerò, vincerò io!” è una
reinterpretazione dell’originale 勝とう、勝とうと焦る八の字
の み で あ る – katou, katou to aseru hachi no ji no mi de aru.
Letteralmente vuol dire “vincerò, vincerò [dice] in fretta un
carattere a forma di otto”. Il carattere “otto” è composto da due
barre diagonali; nella stampa l’inclinazione è molto marcata (八),
ma nello scritto manuale, le due stanghette sono corte e
l’inclinazione è appena accennata. Il carattere rende bene l’idea di
sopracciglia sorridenti, tanto che viene usato per gioco per
comporre volti usando caratteri come の per gli occhi e し o も
per il naso. Tutti i giapponesi lo sanno, e hanno fatto o visto fare
un disegno così, ma chiaramente il lettore italiano ha bisogno di
una spiegazione. Piuttosto della traduzione letterale con
l’aggiunta di una nota, ho preferito tradurre il significato e
figurare la stessa immagine che si sarebbe composta nella mente
di un giapponese. Nello stesso senso anche il cambio di 焦る –
aseru – affrettarsi / precipitarsi in “gridare”, dal momento che la
particella と – to – indica un complemento di citazione diretta, e
sottintende il verbo “dire”; il senso quindi è “affrettarsi a dire”,
un concetto che noi rendiamo con “gridare” .
Il discorso del carrettiere inizia in tono molto informale, per
diventare più formale quando il protagonista si avvicina (tanto da
accendergli una sigaretta). Quando inizia a raccontare la storia
della signorina Shihoda torna a uno tono molto informale. È un
tratto abbastanza normale nella psicologia Giapponese, quello
allacciare una conversazione, da lontano, con brevi frasi
informali, per poi passare a un tono più formale quando
292
l’interlocutore si avvicina, soprattutto se lo si considera di una
“classe sociale superiore”, per poi tornare all’informale quando
“si è rotto il ghiaccio”. Tuttavia è difficile renderlo in Italiano,
perché non c’è abbastanza spazio per rendere questo
cambiamento attraverso i nostri marcatori di formalità.
In questo discorso, “Sì sì.” traduce は あ い – haai – un
allungamento del “sì” formale, hai, che ha un tono un po’
scherzoso. Viene usato spesso dai bambini per rispondere alle
richieste dei genitori, ritenute giustificate ma... un po’ fastidiose.
ad esempio, “Kotarou! Smettila di giocare con la sabbia, che ti
sporchi tutto!” – “Haai!”
In “...Avevo pensato di dipingere questo lago, ma è un posto
triste, eh...” Souseki usa l’aggettivo 淋 し い – samishii – che
generalmente vuole significare “solitario”; tuttavia, non è
semplicemente “solitario”. Indica quella sensazione di tristezza
che deriva dalla solitudine. I traduttori usano liberamente l’uno o
l’altro significato a seconda del contesto, anche se “solitario” è
considerato più preciso. Ho preferito tradurre con “triste” perché
il concetto di “solitario” è espresso nella frase successiva, e in
questo modo trasmetto la gamma completa di questo sentimento.
Il passaggio “Magari no, chissà. Però, i suoi vecchi sono
davvero strani / Dici quello nella casa? / No, quella morta
l’anno scorso” ha richiesto un certo adattamento.
Abbiamo infine una notevole ipallage in “Alle spalle del sole che
passa fra i verdi rami … è quel volto di donna”. Ovviamente, è il
sole che è alle spalle del volto.
11
“The Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman”, o più
brevemente “Tristram Shandy”, è un romanzo dalla struttura
molto particolare. Fu il primo a sperimentare una trama non
lineare, dove trova anche spazio la critica meta-mediatica, ossia, il
293
riferimento esplicito al fatto che quello che si sta leggendo è un
libro, e come tale, ha dei limiti che l’autore vorrebbe superare.
A partire dalla scena in cui il protagonista ricorda l’incontro col
monaco Zen, il registro scende sul livello colloquiale, e Souseki
inizia a usare in maniera sovrabbondante gli avverbi doppi; sono
brevi parole (di due, massimo tre sillabe), che, quando ripetute,
assumono il senso di avverbio. ad esempio kira, antica radice di
“splendore”, diventa kira-kira per indicare un modo di brillare.
Soro-soro vuol dire “subitamente”, “presto”. Uwa-uwa è
“timidamente”, e così via. Questi avverbi doppi appartengono a
un registro medio, ma l’abusarne fa scendere il livello del
discorso al colloquiale; inoltre, è una tecnica, usata
principalmente dalle donne, per ingraziosire e rendere più
simpatico il discorso. Dove ho potuto, ho raddoppiato gli
aggettivi o gli avverbi per rendere il ritmo, e anche il senso di
“carino” dell’originale, (i.e. “mogio mogio”), ma non ho potuto
riportarli ovunque, dal momento che ce ne sono uno o due per
frase, e che, normalmente, il raddoppio degli aggettivi, in Italiano,
costituisce un superlativo.
La critica, piuttosto diretta, dello stile denominato ukiyo è una
traduzione abbastanza letterale del testo originale. In questa
parte, “senza dirti fai così e cosà” traduce ひったひったと云わ
ず – hitta-hitta to iwazu, che letteralmente vuol dire “senza dirti
ecco, ne ha tirata un’altra!”. È da notare che il comportamento di
evidenziare grossolanamente le scoregge, nella cultura giapponese
è il comportamento infantile per antonomasia.
In “E inoltre, dicono che questo è lo scopo di essere letterati”,
ho tradotto con “scopo” la parola 処世 – shosei – che significa
“condotta propria”, “modo giusto di fare”.
Nella scena in cui si parla di demoni che danzano, “...stanchi di
recitare il nenbutsu, si mettono a danzare. Da un estremo all’altro
del tempio principale, ballano in una fila ben ordinata...” i due
verbi “danzano” e “ballano” traducono due ideogrammi
294
differenti, ma che hanno la stessa pronuncia e lo stesso senso: 踊
– 躍 – odoru – ballare.
Poco oltre, ho tradotto una parola tipica del registro poetico, 朧
夜 – oboroyo – con “aura lattiginosa”. Letteralmente vuol dire
“notte di foschia”, ma il concetto di oboro, non è totalmente
sovrapponibile a foschia.
Ancora poco oltre, “prima di rendersene conto” traduce 何で
も不意に – nandemo fui ni – letteralmente “qualsiasi cosa/a ogni
modo senza intenzione”.
La frase “Di alberi così buffi non ce ne sono tanti” cerca di
mantenere il tono colloquiale e leggermente ironico dell’originale:
こんな滑稽な樹はたんとあるまい – konna kokkei na ki wa,
tanto arumai. Incidentalmente, “tanto” è un avverbio perfettivo, di
quelli che finiscono in -tto o -nto, come zutto (assolutamente,
sempre), o motto (molto di più), o chanto (precisamente,
correttamente), e significa esattamente... “tanto” in Italiano!
Nella descrizione della magnolia, Souseki usa l’epiteto 一 輪 –
ichiwa – per indicare i fiori. Letteralmente, la parola vuol dire “un
cerchio”, ma è una figura retorica comunissima in Giapponese,
tanto da essere usata persino nel linguaggio comune. Ho
preferito quindi ripetere “fiore”.
Sempre nella stessa descrizione, “Si ammanta di modestia” è
una traduzione un po’ liberale di: 奥床しくも自らを卑下して
い る – okuyashiku mo mizukara hige shiteiru – che letteralmente
vuol dire “pur se intimamente, si insulta da solo”, ma qui
“insulto” assume il senso di “mentire volutamente sui propri
meriti”. La costruzione sa di artificioso e retorico, da qui l’idea di
usare una simile retorica in Italiano.
Nel dialogo con l’abate, quando il protagonista si lamenta per
l’invadenza della gente di Tokyo, “si perdono in queste cazzate”
295
traduce 余計な事をやりますよ – yokei na koto wo yarimasu yo –
letteralmente “fanno una cosa eccessivamente liberale”. Ho
preferito tradurre “cosa eccessivamente liberale” con “cazzate”
perché yokei è il termine più vicino, in Giapponese. Sebbene non
volgare, in origine, il suo continuo accostamento a parole volgari,
e l’uso sempre più idiomatico nel parlare comune, da un lato, e lo
sdoganamento di “cazzate” nell’Italiano parlato dall’altro, ci
autorizza ad accostarli, soprattutto in considerazione del tono
volgare del resto del discorso, al quale “cazzate” non aggiunge e
non toglie nulla.
Poesie nel capitolo
La poesia cinese di Chao Buji merita un’analisi particolarmente
approfondita.
In realtà, il brano riportato da Souseki è in prosa, e tradotto (a
dire il vero, in modo non molto preciso) in Giapponese. Ho
valutato a lungo l’opportunità di usare come base della
traduzione il testo trascritto nel romanzo, o piuttosto l’originale
cinese. Alla fine, ho deciso di tradurre il brano originale, e di
renderlo in poesia, dal momento che, anche se in prosa,
l’originale ha un alto grado di poeticità: assonanze, strutture
ripetitive, ritmo e persino terminologie sono quelle tipiche della
poesia cinese. Credo di aver fatto un buon servizio a questo
breve brano rendendolo in metrica, e in versi semiliberi. Anzi, ho
cercato di mantenere il ritmo originale, la struttura e anche alcune
delle assonanze. Questo è il brano in Cinese:
于时九月,天高露清,山空月明,仰视星斗皆光大,如
适在人上。窗间竹数十竿相磨戛,声切切不已。竹间梅棕
森然如鬼魅离立突鬓之状。二三子又相顾魄动而不得寐。
迟明,皆去。
Le prime tre frasi sono “parole di quattro caratteri”, tipiche
strutture usate in un oratoria formale e in poesia, e descrivono lo
scenario di settembre, dal cielo alto, dalla rugiada pura, con
296
montagne spaziose e luna chiara, con le stelle che, tutte, “brillano
grande”, quasi fossero state messe apposta su ogni uomo. Qui,
l’aggettivo 大 – grande – è posto dietro alla parola a cui si
riferisce, 光 – luce”, un evidente espediente poetico. Le due frasi
successive propongono un’insistenza con il soggetto e quindi il
carattere che indica “spazio” 间, qui inteso con senso di “oltre,
dietro”. Il bambù, oggetto della prima frase, diventa soggetto
nella seconda, creando una costruzione ritmica che ho riportato
con “Di là da la finestra / di giunchi …. Di là dai giunchi,...”. In un
paio di punti ho rinunciato a tradurre il significato letterale, per
riportare invece il senso generale e soprattutto la ritmica e la
poeticità del brano originale. In particolare, ho mantenuto la
metafora che risulta evidente in questo brano: i giunchi che si
sfregano di continuo sono guerrieri che combattono guerre senza
senso; oltre, si intravedono, alberi belli (peschi e palme, nel testo
originale), ma spaventosi come spettri, che hanno persino le
basette ritte (nell’immaginario Cinese è un’icona tipica degli
spettri), ancor più inquietanti perché se ne stanno fermi, da soli, a
guardarsi l’un l’altro, mentre gli eserciti combattono. Sono i
generali, o i governanti, indifferenti alle sofferenze degli uomini
che mandano a morire. Ma all’alba, l’illusione svanisce: con la
luce, si vede chiaramente chi è cosa, e quanto vale.
La traduzione in Giapponese nel testo di Souseki è imprecisa e
rinuncia a ogni tentativo di metrica; nei punti più oscuri del testo
cinese (direi, più poetici), trascrive carattere per carattere
l’originale, nel tentativo di non alterarne il significato. Tentativo
vano, dal momento che gli ideogrammi non tradotti hanno un
senso assai differente in Cinese e in Giapponese. Questo è il
testo che compare nel Kusamakura:
時に九月天高く露清く、山空しく、月明かに、仰いで
星斗を視れば皆光大、たまたま人の上にあるがごとし、
窓間の竹数十竿、相摩戞して声切々やまず。竹間の梅棕
297
森然として鬼魅の離立笑鬚の状のごとし。二三子相顧み
魄動いて寝るを得ず。遅明皆去る。
Letto in Giapponese, questo brano suona più o meno (al netto
delle ambiguità col Cinese non tradotto) come:
Alle volte, in settembre, quando il cielo è alto, la rugiada è pura, le
montagne sono vuote e la luna splende chiara, e le stelle sembrano brillare su
tutti, messe apposta sopra a ogni persona, fuori dalla finestra dieci bambù si
colpiscono l’un l’altro, emettendo grida spezzate. Fra i bambù si intravedono
demoni impressionanti come boschetti naturali di peschi e palme
[l’inversione del concetto è nel brano Giapponese] in disparte con
la barba sul sorriso [un errore di trascrizione fra sorriso 笑 e
improvviso, o ritto 突]. Due o tre tizi si guardano l’un l’altro, l’animo
smosso che non riesce a prender sonno. A mattino inoltrato, tutti se ne
vanno.
L’origine più forte di ambiguità fra il Cinese e il Giapponese qui
sta nella differenza di significato nel carattere 皆 , che in cinese
significa “ogni cosa”, mentre in giapponese significa “tutti
quanti”, e si riferisce unicamente alle persone, e nel carattere 子,
che significa “bambino” sia in Cinese che in Giapponese, ma in
Cinese classico viene usato anche come contatore generico
(come il nostro -esimo) e come suffisso per i sapienti (i.e.
Confucio si scrive 孔夫子, e Lao-tsu, o più precisamente Laozi,
il fondatore del Taoismo, si scrive 老子). Anche il verbo 去る –
saru, “passare” ha un significato leggermente diverso in Cinese. E
poi, il termine arcaico 迟 明 , letteralmente “luce tarda”, oggi
sappiamo che indica non il mattino inoltrato, ma l’alba, ossia, la
luce che arriva a tarda notte (le regioni a nord della Cina sono alla
latitudine di Londra; d’estate, l’alba può arrivare alle tre del
mattino).
Avendo letto le altre traduzioni dal Cinese di Souseki, e
conoscendone la precisione, o anche solo avendo osservato che
298
altrove ha preferito scrivere direttamente i brani in Cinese,
eventualmente traducendoli a margine, mi viene da pensare che
l’autore abbia avuto accesso solo a materiale già tradotto.
All’epoca, sarebbe stato difficile procurarsi il testo originale,
soprattutto avendo scadenze editoriali da rispettare, mentre
questo brano poteva facilmente essere incluso in antologie,
magari scritte alla fine del ’700, di larga diffusione e facile
consultazione.
L’altra poesia nel capitolo è l’haiku sui fiori della magnolia. Il
testo originale è il seguente:
木蓮の花ばかりなる空を瞻る
mokuren no / hana bakari naru / sora wo miru
Della magnolia / diventato nient’altro che i fiori / il cielo guardo.
Nell’originale, senza divisione in versi. Il senso originale
suggerisce l’immagine di una persona che guarda in alto, e vede
un cielo fatto solo di fiori di magnolia.
12
In “bisogna studiare lo spirito sottile” l’autore usa
un’espressione di origine cinese, una tipica “parola in quattro
ideogrammi”: 雲 容 煙 態 – unyou entai. Letteralmente vuol dire
“dalla forma fumosa, e dal contenuto nebuloso”. In Cinese, si
usano spesso due ideogrammi “sinonimi” per comporre la parola
“radice” di un concetto. ad esempio, 雲 煙 – yunyan –
letteralmente “nube-fumo” esprime il concetto di etereo,
fumoso. Le due componenti ideografiche del concetto radice
vengono poi utilizzate per formare tutta una serie di concetti
“adiacenti”, combinandole con altri ideogrammi. In alcuni casi, si
“intercalano” con altri ideogrammi, per formare piccole frasi
idiomatiche come 雲容煙態 – yunrong yantai – o in Giapponese
299
unyou entai. L’uso di queste strutture è comunissimo in Cinese,
tanto che, ancora oggi, continuano a nascere neologismi basati su
questo modo di organizzare i concetti, e i Cinesi usano
naturalmente queste strutture mentali per comunicare concetti
non banali nelle conversazioni quotidiane. Invece, in
Giapponese, la struttura è del tutto aliena; esistono una serie di
parole di quattro ideogrammi importate dal Cinese e prese come
termini “da dizionario”. Alle orecchie di un Giapponese, anche
all’epoca di Souseki, unyou entai doveva già suonare come un
latinismo suonerebbe a un Italiano, che magari è in grado di
comprenderlo, ma che non fa certo parte del suo parlare abituale.
“Uscendo dal cancello, tagliando a sinistra,...” traduce
letteralmente 門を出て、左へ切れると – mon wo deru, hidari e
kiru to. Il verbo kiru, tagliare, ha assunto molti significati
idiomatici, ancor più che in Italiano, ed è diventato estremamente
diffuso (al punto da diventare un ausiliare nell’espressione di
concetti come “riuscire a...” “fare fino in fondo...”); ma non è un
caso che l’autore lo usi qui, dopo aver ripetuto “uscire” e
“sinistra”, riprendendo il paragrafo precedente, in cui si parla di
un coltello.
Mentre riflette sul rapporto fra il protagonista e Nami, Souseki
usa un gioco di parole che ho reso con “nel corso del mio
viaggio”. L’originale è このたびの旅行 – kono tabi no ryoukou –
che letteralmente vuol dire “nel viaggio di questa volta”, ma tabi
(volta, occasione), è anche un sinonimo di “viaggio”. Anzi,
originariamente vuol dire “viaggio”, e assume il significato di
“volta, occasione”, solo attraverso un passaggio al valore
idiomatico. Quindi, al lettore giapponese l’espressione suona
come “nel viaggio di questo viaggio”. Ho cercato di rendere con
“corso”, che ha subito trasformazioni idiomatiche simili, e
comunque trasmette una certa idea di movimento, o strada da
percorrere, che si sposa col senso originale del raddoppio
dell’idea di viaggio.
300
Poco oltre, “Non fraintendete questi miei pensieri” traduce una
figura retorica usata molto spesso nella letteratura giapponese, e
intraducibile in modo diretto, che consiste nel parlare di sé stessi
come di un oggetto terzo, rivolgendosi direttamente
all’ascoltatore: こんな考をもつ余を、誤解してはならん –
konna kangae wo motsu yo wo, gokai shite wa naran – “quel me stesso
che ha questo tipo di pensieri, non deve essere frainteso”. Esiste
anche una certa ambiguità nel risolvere il soggetto della frase (è il
parlante o l’ascoltatore che non deve fraintendere?), ma è
un’ambiguità che si risolve osservando il modo imperativo del
verbo e l’oggettivazione del parlante. È sempre possibile
continuare a leggere questa frase come se fosse rivolta dall’autore
a sé stesso, ma rimane sempre una forte sfumatura di
coinvolgimento dell’ascoltatore.
La frase “La retta via è piena di curve, la virtù non è acqua,
l’integrità non la vendono un tanto al chilo e la moralità non è
mai valsa una vita.” è una traduzione leggermente liberale di una
serie di variazioni su figure retoriche e luoghi comuni noti al
lettore giapponese. Nell’originale: 善は行い難い、徳は施こし
にくい、節操は守り安からぬ、義のために命を捨てるの
は惜しい – zen wa okonai-gatai, toku wa hodokoshi-nikui, sessou wa
mamori-yasukaranu, gi no tame ni inochi wo suteru no wa oshii –
letteralmente “il bene è difficile da mettere in pratica, la virtù è
difficile da profondere, l’integrità non si protegge a buon
mercato, buttare la vita per il dovere è triste”. La mia soluzione
mantiene il senso abbastanza aderente all’originale, ma permette
di raccogliere l’effetto dei luoghi comuni maltrattati sia
dall’autore che dai suoi lettori, che, suppone l’autore, non
possono essere nuovi a queste considerazioni.
In “...cristallizzando quell’unica scintilla di determinazione, se ne
può riflettere l’abbacinante splendore” ho deciso di spostare
“scintilla”, che nell’originale si trova nella frase seguente, per
mantenere il ritmo e le sensazioni evocate dall’autore. Per la
301
precisione, l’originale è: どうしても堪えられぬと云う一念の
結晶して、燦として白日を射返すものである – doushite mo
taerarenu to iu ichinen no kesshou shite, san to shite hakujitsu wo ikaesu
mono de aru – letteralmente “quel che cristallizza quel pensiero
fisso di non farcela più, come una scintilla, è la restituzione del
bagliore del sole”. Quel sen to shite (“come una scintilla”, o
“scintillando”, o ancora “scintillante”) dell’originale è
evidentemente riferito al pensiero reso cristallino, pure se
grammaticamente appartiene alla subordinata successiva. Sarebbe
stato possibile rendere questa forma anche in Italiano, riferendosi
allo scintillìo del sole e lasciando che l’associazione tra il brillare e
il cristallo si formasse nella mente del lettore, ma qualsiasi
soluzione mi sembrava poco elegante, e avrebbe spezzato il ritmo
della frase. Invece, rendere l’avverbio di modo, o il verbo, in un
nome associato allo stesso agente dell’originale, permette di
recuperare sia il significato che le immagini trasmesse dal testo,
senza perdere il ritmo poetico e veloce del discorso.
“Ridere di chi riesce davvero a comprendere sé stesso vale il
fiato della risata” era nell’originale 真に個中の消息を解し得
たるものの嗤うはその意を得ている – makoto ni kochuu no
shousoku wo satoshietaru mono no warau wa, sono iki wo eteiru – chi ride
di chi riesce a comprendere davvero sé stesso (letteralmente le
informazioni personali che lo riguardano) ottiene quel fiato. La
parte iniziale usa una perifrasi per indicare “sé stesso”, e nella
traduzione perdo il senso di “indagine”, di “scoperta” che
abbiamo nell’originale, mentre la parte finale fa leva su alcuni
idiomatici che indicano qualcosa di poco valore, senza usarli
direttamente. Mi spiace per la perdita, ma sarebbe stato
impossibile rendere il significato esatto senza appesantire troppo
il ritmo della frase.
Nel ricordo di Fujimura, come usuale, la ripetizione delle parole
“ultimo coraggio” e “affinare” sono nell’originale, che usa anche
302
l’espressione 壮烈の最後を遂ぐる – souretzu no saigo wo toguru –
che significa appunto “affinare l’ultimo (ultima parte del)
coraggio”.
Il ho scelto di usare “mondo emotivo” come traduzione
dell’originale 人情界 – ninjou-kai – e 人情世界 – ninjou-sekai. Il
lettore attento noterà che ninjou vuol dire “emotivo”, ed è la
radice del termine chiave “inemotivo” (hi-ninjou).
La scelta dei termini “forma”, “regola” e “messaggio” in “Nel
mondo sensibile, l’agire con grazia ha la sua forma, le sue regole,
il suo messaggio” e nella frase successiva, è un adattamento
necessariamente arbitrario. Souseki non usa parole complete per
esprimere questi concetti, ma ideogrammi volutamente
“incompleti”; sono ideogrammi che, da soli, non formano una
parola giapponese, e richiedono l’appoggio di sillabe fonetiche o
di altri ideogrammi. Questo stratagemma è usato dagli autori
giapponesi per “sostantivare” concetti astratti e trasformarli in
oggetti del discorso, in categorie grammaticali da manipolare
attraverso la struttura della frase. Gli ideogrammi qui usati a
questo scopo sono 正 – sei/shou, 義 – gi, e 直 – choku. 正 –
sei/shou – esprime il concetto di correttezza, o di correzione (di
un errore). Ideograficamente ed etimologicamente, rappresenta
una squadra usata per costruire un muro ad angolo retto;
richiama fortemente il concetto di “forma giusta”, ho quindi
scelto di renderlo con “forma”. 義 – gi – era in origine usato per
indicare i riti e e il cerimoniale di corte, e quindi le procedure per
la gestione della cosa pubblica. Da lì, ha assunto il significato di
“legge”, e per estensione “giustizia” e “regole”. La scelta di
renderlo con “regola” è la più naturale, dato il contesto. 直 –
choku – deriva dal pittogramma di una mano che posa un oggetto
in un luogo adatto ad accoglierlo, ed è usato per esprimere il
concetto di “diretto”, in tutti i sensi: sia come movimento da un
punto a una destinazione senza deviazioni, sia come idea che
303
viene espressa direttamente, francamente, onestamente. In questa
sua seconda accezione, porta con se un senso abbastanza
esplicito di “comunicazione”: la franchezza a cui si riferisce è
quella del pensiero trasmesso a chi ascolta. Da qui la scelta di
renderlo con “messaggio”, sicuramente meno preciso di “diretto”
o “franco”, ma molto più adeguato al contesto (comunque, il
lettore sicuramente... riceve il messaggio... che il messaggio
dell’espressione artistica deve necessariamente essere franco). È
da notare che questi tre ideogrammi sono legati nelle parole 正義
– seigi – giustizia (astratta, nel senso di “cosa giusta”) e 正直 –
shouchoku – onestà.
In questo passaggio, ho cambiato il termine usato per tradurre
所 作 – josaku – recitazione. È la parola usata per indicare i
movimenti sul palco degli attori dei teatri tradizionali, quindi per
estensione indica anche la danza che è spesso parte centrale, se
non esclusiva, di queste recite; per ulteriore estensione, già al
tempo di Souseki la parola indicava eufemisticamente l’agire
pubblico, studiato e non naturale, l’atteggiamento che si assume
di fronte agli estranei, quello che noi definiremo “atteggiarsi”, ma
senza particolari accezioni negative.
La frase che ho tradotto con “Ha addosso un kimono color tè.”
era nell’originale 茶の中折れを被っている – cha no nakaori wo
kabutteiru – letteralmente, “porta addosso un nakaori di tè”. Il
nakaori è un abito semplice, usato tipicamente dalla gente
comune, e il colore del tè (marrone giallastro) è quello meno
pregiato. Ho preferito tradurre con nakaori con “kimono” per
non confondere il lettore che non conoscesse il termine, e per
evitare di aggiungere una nota. Si perde un po’ la resa di questo
personaggio come un appartenente alla classe popolare, ma
difficilmente il lettore italiano avrebbe potuto apprezzare
direttamente questa caratterizzazione. Ho cercato di rendere il
senso di “sciattezza” chiaro nell’originale iniziando la frase con
“ha addosso”.
304
Il termine esatto usato per rendere “ E chi gli sta di fronte? Chi
gli sta di fronte è una donna” nell’originale è 相 手 – aite –
“l’altro”, ma “l’altro è una donna” suonava decisamente troppo
male, in Italiano. Ho dovuto usare un’espressione priva di
connotazioni di genere, esattamente come l’originale.
Poco oltre, l’inciso “Mentre mi chiedevo come preservare la
strana armonia delle forme di quei due, mi resi conto del
contrasto fra i loro volti, e fra le loro vesti, e la voglia di ritrarli
andò crescendo”, ha richiesto alcuni adattamenti. L’originale è
二人の姿勢がかくのごとく美妙な調和を保っていると同
時に、両者の顔と、衣服にはあくまで、対照が認められ
る から 、 画 とし て見 ると 一 層 の 興 味 が 深い – futari no
seishou ga kaku no gotoku bimyou na chouwa wo mamotteiru to douji ni,
ryousha no kao to, ifuku ni wa akumademo, taishou ga mitomerareru kara,
ga to shitemiru to issou no kyoumi ga fukai. Letteralmente, suona come
“assieme al preservare la strana armonia delle forme di quei due
così come descritta, assieme al contrasto di entrambi i loro volti,
e persino nei loro vestiti, l’interesse nel farne disegno si faceva via
via più profondo”. Mi sono liberato dalla lettera per seguire
meglio il ritmo dell’originale, pur mantenendo il significato e le
immagini descritte. Qui, kaku no gotoku – così come scritta – è
un’espressione idiomatica che noi traduciamo con “così com’è”.
Le due espressioni “più improvvisa di un tuono arrivato prima
del lampo, la donna mi tirò questa sciabolata” traducono due
frasi idiomatiche, di cui la prima è di uso letterario, la seconda è
di uso più comune. L’originale è 迅雷を掩うに遑あらず、女
は突然として一太刀浴びせかけた – jinrai wo oou ni itoma
arazu, onna wa totzuzen to shite hitotachi abisekaketa. Letteralmente, la
prima espressione suona come “senza spazio per coprire il
lampo”, e la seconda come “la donna, all’improvviso, iniziò a
bagnare la spada”; il loro significato è quello usato nella
traduzione.
305
Nell’espressione “Anche la donna, non ha l’aria di voler fare
alcun rumore”, ho voluto raccogliere la sinestesia presente
nell’originale: 女は音の景色もない – onna wa oto no keshiki mo
nai – lett. “la donna non ha il minimo ’panorama’ di rumore”. Il
termine 景色 – keshiki – significa letteralmente “panorama”, ma
viene spesso usato (abbiamo già visto) per tradurre il nostro
idiomatico “avere l’aria”, o comunque per indicare una “vista”,
una “visuale” su anche su qualcosa di astratto come un
fenomeno, o ancora per indicare qualcosa che si mostra, che dà
spettacolo o che risulta evidente da un atteggiamento che vuole
esplicitamente ottenere un certo effetto in chi osserva. Si tratta
comunque di un termine che ha un forte connotato “visuale”, e
qui Sosueki è sublime nel formare questa sinestesia, applicandolo
al suono. L’aspetto volitivo (“...di voler fare...”) non è nella lettera
del passaggio originale, ma quando si usa il termine keshiki
riferito a una persona, è forte il senso di atteggiamento, di
volontà nel mostrare. Quindi, l’idiomatico italiano “avere l’aria di
voler...” rende molto meglio il senso originale di quanto potrebbe
fare “avere l’aria” e basta. Purtroppo, si perde un po’ di ritmo,
serratissimo in Giapponese, ma ho cercato di recuperare usando
l’elisione in “voler” e “alcun”.
In fondo al capitolo, nella locuzione “...per correre sul tatami,
silenzioso...”, ho aggiunto la virgola che era assente in origine:
“silenzioso”, nella frase Giapponese 静かな畳の上を – shizuka
na tatami no ue wo – al di sopra del silenzioso tatami – è
esplicitamente un aggettivo di tatami e non, come ci si
aspetterebbe, e come sarebbe semanticamente logico, un
avverbio riferito al lancio del coltello. Allo stesso modo, nella
frase successiva 寒いものが一寸ばかり光った – samui mono
ga issun bakari hikatta – una cosa fredda brillò per appena tre
centimetri – “freddo” si riferisce generalmente al modo in cui
brilla una lama, ma qui diventa un aggettivo per un “qualcosa”
che allude alla lama.
306
Souseki usa spesso e con naturalezza questo genere di artifici
retorici, sconosciuti nella letteratura orientale e Giapponese in
particolare, probabilmente avendoli appresi dagli scrittori
occidentali, ma con una sostanziale innovazione: definirei queste
due figure come due enallage, ma il punto è che la struttura del
Giapponese permette di individuare in maniera esplicita e
inequivocabile la funzione di questi elementi del discorso. Così,
quella che nelle lingue occidentali sarebbe una enallage diventa
una figura ancora più forte, perché da un lato spiazza
completamente il lettore proponendogli un termine chiaramente
fuori posto, e dall’altro lo guida a una perfetta, non ambigua
comprensione di questa “stranezza”. Un po’ come se l’autore
dicesse al lettore: sì, non hai capito male, è proprio così.
Se avessi copiato esattamente la figura, avrei dovuto scrivere
qualcosa come “gettò il pugnale silenzioso sul tatami”, e
normalmente avrei preferito una traduzione più letterale della
forma retorica, ma, in questo caso, ho preferito aggiungere una
virgola, e creare l’ambiguità dell’attribuzione di “silenzioso” al
gesto (avverbio), o al tatami (aggettivo), per meglio attirare
l’attenzione del lettore su questo dettaglio, e per sottolineare il
raddoppio di questa forma retorica nella struttura della frase
successiva.
Poesie nel capitolo
La poesia inserita in questo capitolo è un componimento che
Souseki ha realizzato indipendentemente, dal titolo 春 興 –
shunkyou – “Rapito dalla Primavera” (lett. Interesse profondo per
la primavera). Si tratta di un componimento particolare, in stile
漢 詩 – kanshi – “poesia in ideogrammi”. Il kanshi è un’opera
classica, in auge alla corte imperiale dall’800 al 1200 circa, che usa
i caratteri cinesi per rendere alcune parole ed espressioni
giapponesi. I caratteri hanno un preciso significato, codificato per
questo tipo di letteratura, che non è necessariamente lo stesso
significato che hanno in Cinese, o persino nel Giapponese
307
comune12. Molte poesie del Man’yo-shuu (collezione di diecimila
foglie) sono scritte in questo stile, così come molti dei testi in
prosa e documenti amministrativi antichi (principalmente, il
Nihon-shoki). Anche solo leggere direttamente questi scritti,
senza una traduzione in Giapponese fonetico, richiede una
preparazione letteraria specifica; scrivere un nuovo
componimento è un’impresa al di là delle capacità del letterato
medio, e richiede una padronanza della letteratura antica fuori dal
comune.
Souseki include questa poesia in questo punto per evidenziare il
contrasto del suo manifesto letterario con la letteratura antica,
esattamente come fa Dante quando mostra la dignità del volgare,
impiegandolo per scrivere la sua Divina Commedia, o come fa
Beethoven quando parla ai suoi colleghi compositori nell’inciso
del quarto movimento della nona sinfonia, introducendo “l’Inno
alla Gioia” con le parole: “Amici, basta con questi suoni, è tempo
di armonie più liete!”. Consci di introdurre un cambiamento
paradigmatico, questi autori parlano ai loro colleghi
contemporanei indicando loro la via antica, e mostrando che
quella nuova non solo è la sua degna erede, ma ne è persino
superiore.
La poesia stessa introduce un’innovazione che entrerà a far
parte della cultura popolare giapponese moderna, al punto da
essere oggi molto comune nelle canzoni e nella sottocultura
generale: gli ultimi versi della poesia sono una dichiarazione
12
308
A titolo di esempio, nel verso “ 韶 光 猶 依 依 ” , gli ideogrammi 依 依 che
normalmente significano “vestito”, “rappresentano” il verbo “ii”, ossia “dire”, e
sono usati esclusivamente per il loro valore fonetico “i”. Il lettore è tenuto a
sapere che, in questo stile letterario, l’ideogramma “依” normalmente è usato per
rendere il valore fonetico “i”, e più raramente per il suo significato di “abito”.
Discorso simile va fatto per circa tre-quattrocento ideogrammi che sono usati in
maniera “peculiare” in questo stile, e per alcune parole e espressioni chiave usate
sempre con valori specifici. Inoltre, per ricostruire il senso dei versi, si usano
“regole” grammaticali che differiscono radicalmente da quelle giapponesi, anche
antiche, e imitano il Cinese solo a tratti.
d’intenti, un atto volitivo dell’autore. Tradizionalmente, le poesie
di questo genere sono meramente descrittive, ma qui abbiamo il
poeta che si rivolge direttamente al lettore e lo coinvolge,
parlando di un desiderio, di un’intenzione che l’autore vuole
comunicare. Souseki vuole dimostrare così che questo nuovo
stile è degno anche della più alta poesia Giapponese.
La poesia è scritta in versi di cinque ideogrammi (che non
corrispondono necessariamente a cinque sillabe, anzi, sono letti
ognuno in modo differente). Sebbene la forma orale sia libera,
nella traduzione ho preferito rendere la metrica grafica rigida
dell’originale con versi italiani in tredici sillabe, a rima baciata.
Qui sotto riporto la poesia originale con la traduzione letterale
verso per verso.
出門多所思 Esco dalla porta con molte preoccupazioni
春風吹吾衣 Il vento di primavera agita le mie vesti
芳草生車轍 L’erba cresce nelle tracce dei carri
廃道入霞微 Sul sentiero abbandonato scende la rugiada
[sottile
停杖而矚目 Fermo il bastone e affilo gli occhi
万象帯晴暉 Diecimila cose sono cinte dalla luce sfaccettata.
聴黄鳥宛転 Odo lo il battere delle ali (braccia) di uccelli
観落英紛霏 Vedo i petali scendere dolcemente
行尽平蕪遠 Alla fine della strada, lontani campi di nanohana
[(fiori di rapa)
309
題詩古寺扉 Il cancello di un vecchio tempo su cui è scritta
[una poesia
孤愁高雲際 Contemplo il bordo delle nuvole alte
大空断鴻帰 Nell’ampio cielo, tornano le cicogne
寸心何窈窕 Ma quant’è delicato un filo di sentimento!
縹緲忘是非 Lo spirito leggero mi fa dimenticare i doveri
三十我欲老 A trent’anni desidero la saggezza
韶光猶依依 Voglio dire chiaramente
逍遥随物化 Andrò verso la lontana reincarnazione
悠然対芬菲 Con la dignità dei petali
13
In “E se mi invitano per cortesia, accetto”, l’ultima parte
esprime una forma idiomatica che è nell’originale: 御招伴でも
呼ばれれば行く – Oshouban de mo yobarereba iku – “se/quando
mi invitano come uno di loro, ci vado”. Ma il verbo iku – andare
– usato in questo modo, sottintende un cinesismo: in Cinese vuol
dire “va bene” oppure “lo faccio”, e in Giapponese assume parte
dello stesso valore. In breve, i valori idiomatici di iku in
Giapponese sono più ricchi di quelli di “andare” in Italiano, e il
senso trasmesso dall’originale è più “se mi invitano per cortesia,
accetto” che non “se mi invitano per cortesia, vado” come la
traduzione letterale suggerirebbe.
Nella frase successiva, “Accetto anche se non ne capisco il
senso”, come al solito l’ambiguità del riferimento di “non capire
310
il senso” all’invito, piuttosto che al fatto di accettarlo, è
nell’originale.
La risposta del nonno “Ma che ti salta in testa... su, su, torna
vittorioso!” contiene alcune forme idiomatiche che ho tradotto in
Italiano con forme simili, rinunciando alla lettera per facilitare la
comprensione. L’originale è そんな乱暴な事を―まあまあ、
めでたく凱旋をして帰って来てくれ – sonna ranbou na koto
wo – maa, maa, medetaku gaisen wo shite kaettekite kure –
letteralmente “una cosa così avventata! - su, su, (fallo per me),
torna facendo atti di eroismo di cui congratularsi!”. La prima
parte della frase usa una modalità comunicativa Giapponese che
è poi la stessa che permette di parlare direttamente a qualcuno
pur rivolgendosi a esso in terza persona: quella “cosa così
avventata” è un richiamo a chi ha appena parlato, e a tutti gli
ascoltatori, che esprime disapprovazione per quanto detto. Nella
traduzione letterale suona indiretto, ma nella pratica del
Giapponese parlato, la sua attribuzione è perfettamente chiara.
La seconda parte si apre con medetaku, che è un avverbio
intraducibile, derivato dall’aggettivo verbale medetai, che indica
una cosa di cui congratularsi (suonerebbe, se esistesse una parola
simile in Italiano, come “congratulevole” o “congratuloso”), e finisce
con l’ausiliare direzionale kure, ossia “fare per me, fammi il favore
di...”. È una tipica costruzione idiomatica che infioretta il “torna
vittorioso” in una struttura priva di significato reale, e che
trasmette semplicemente un senso di forte augurio a livello metacomunicativo. In particolare quel “maa, maa”, è una tipica
esortazione a stemperare i toni, come dire “non litigate”, “lasciate
perdere” o “andiamo, non fate così...”.
L’espressione che rendo con la metafora “filo del destino” è in
Giapponese 運命 の縄 – unmei no nawa – fune del destino. A
parte lo spessore, le due metafore sono molto simili, e il senso
dell’espressione è quello che ho usato nella traduzione.
311
La locuzione “chiedere il permesso” traduce un cinesismo
molto compatto: 否応 もな し – iyaou mo nashi – letteralmente
“senza nemmeno (farci) dissentire/consentire”. Si perde un po’
di ritmo, ma la traduzione “chiedere il permesso” è
probabilmente la più adeguata a rendere il concetto in Italiano.
Il veloce scambio di battute che inizia con “Ma sì, trattami da
scema giusto perché sono donna!” pone diversi problemi di
traduzione. Innanzi tutto, lo scambio si svolge al tono formale
minimo, cosa che diminuisce la precisione dell’attribuzione delle
frasi. In particolare: 女だと思って、人をたんと馬鹿になさ
い – onna da to omotte, hito wo tanto baka ni nasai – letteralmente:
“pensando che sono donna, fai la gente scema”, è dal tono di
formalità più basso in assoluto, fra quelle pronunciate da Nami. Il
verbo omotte – tradotto sopra con “fai” – non è indicativo, ma
imperativo; spesso, in questo tipo di fraseggi, i Giapponesi usano
l’imperativo per intendere il contrario di ciò che vogliono
realmente esprimere, come potrebbe fare un Italiano dicendo
“ecco, vai avanti, prendimi per scemo!”. La risposta è un po’ più
composta, ma resta sempre a un livello formale appena più basso
del solito: あなたが女だから、そんな馬鹿を云うのですよ
– anata ga onna da kara, sonna baka wo iu no desu yo – letteralmente
“sei donna, e quindi dici quelle scemenze”. La parola anata e il
verbo desu marcano la frase come di tono formale medio, ma la
costruzione è tipica di un tono piano. In particolare,
l’attribuzione di iu (dire) è dubbia. Normalmente, sarebbe da
riferire al parlante (io dico), ma il ga in anata ga aggancia il
soggetto a “tu”, e inoltre l’uso di sonna (quel genere di..) davanti a
baka (scemenza) aggiunge un senso di distanza, e di norma, anche
se non necessariamente, viene usato per esprimere il fatto che si
sta parlando di qualcun altro; per esprimere qualcosa di fatto dal
parlante, si usa in genere konna (questo genere di...). Anche la
risposta lascia intendere che Nami ha compreso quel “dire” come
riferito a sé: それじゃ、あなたの顔をいろいろにして見せ
312
てちょうだい – sore ja, anata no kao wo iroiro misete choudai – “se è
così, fammi vedere la varietà del tuo viso”. La risposta è adeguata
se il parlante ha inteso “sei tu che dici scemenze”, ma sarebbe
assai forzata dopo un “io dico scemenze”. Se il protagonista
avesse voluto ammettere di “dire scemenze”, Nami non avrebbe
motivo di chiedere una dimostrazione pratica del discorso che lei
considera una sciocchezza. E la risposta これほど毎日いろい
ろ に な っ て れ ば た く さ ん だ – kore hodo mainichi iroiro ni
nattereba takusan da - “se variasse così ogni giorno sarebbe molto”,
è marcata come di informale dall’uso di “da” al posto di “desu”.
L’espressione “takusan da”, che letteralmente significa “è molto”,
esprime idiomaticamente il fatto che il parlate è seccato, o
sarebbe spazientito nell’eventualità indicata dal resto della frase.
Ad esempio, “mou takusan da!” si può tradurre con “ne ho avuto
abbastanza!” o “adesso basta!”. L’uso di “da” al posto di “desu” ci
conferma che il parlante vuole intendere quel takusan nel valore
idiomatico di “perdere la pazienza” più che nel suo valore
letterale “molto”.
Ho usato l’espressione “fazzoletto di terra” per esprimere il
concetto originalmente reso con di 何坪何合の地面 – nanhei
nanyou no chimen – che suona come “tot iarde e tot metri quadri di
suolo”. Si tratta ancora di un tipico cinesismo, di una parola in
quattro ideogrammi, ma stavolta molto popolare e
giapponesizzata, che assomma l’idea di un perimetro (tante unità
di misura lineare) e un’area (tante unità di misura d’area). Ho
preferito usare un idiomatico che rendesse lo stesso significato,
piuttosto che una traduzione più letterale, che non avrebbe dato
il senso di “fastidio” trasmesso dall’originale. Successivamente,
l’autore usa la stessa parola riferita al confine: 何坪何合の周囲
に鉄柵を設けて – nanhei nanyou no shuui ni tessaku wo moukete –
letteralmente “erigere su tot iarde e tot metri quadri di confine
una staccionata di ferro”. L’espressione è forzatamente applicata
313
al confine, ed ho cercato di rendere l’effetto con “straccio di
ringhiera”, che richiama l’idea di “fazzoletto” di prima, e che,
come l’originale, discorda con l’idea di “ringhiera”.
Alla fine del paragone fra il treno e la civiltà moderna, Souseki
chiude con la considerazione あぶない、あぶない。気をつ
けねばあぶないと思う – abunai, abunai. Ki wo tsukeneba abunai
to omou – che letteralmente si traduce con “pericolo, pericolo. Se
non si sta attenti, è pericolo, penso”. Quel modo di raddoppiare
una parola alla fine del discorso è una tipica modalità di
comunicazione giapponese. Il parlante scuote la testa e parla con
sé stesso, coinvolgendo l’ascoltatore. Al contrario che nelle lingue
occidentali, qui il raddoppio stempera, invece di enfatizzare, il
senso dell’avvertimento. È un po’ come dire “guarda che ti metti
nei guai”, o “potrebbe andare a finire male”. Nel raddoppio,
abunai perde sia il suo significato letterale di “pericoloso” che il
valore idiomatico di “attento!”, per diventare una sorta di
mormorio di disapprovazione. In seguito, abunai è usato nel suo
valore letterale, e lo traduco con “pericolo”.
Appena dopo, l’espressione “fin sopra i capelli” traduce 鼻を衝
かれるくらい – hana wo tsukareru kurai – letteralmente “tanto da
tappare il naso”.
“Agl’ordini!” traduce una parola del gergo militare, ど う れ –
doure – che ha lo stesso significato. Inoltre, questo è un termine
specifico del linguaggio dei samurai. Che lo fosse stato, che
discendesse da una famiglia di samurai o che volesse solo
imitarne uno, il padre di Nami ci trasmette anche questo
significato, che non è possibile rendere direttamente in Italiano.
Durante i saluti, quello di Nami, “Mi raccomando, muori un
pochettino!” cerca di rendere il tono dell’originale: 死んで御出
で – shinde oide – che letteralmente è una forma imperativa del
verbo morire (“muori!”), ma questa forma appartiene al registro
314
femminile detto chiwa, che serve a ingraziosire il discorso.
Leggendo il suffisso imperativo “oide”, il lettore si immagina una
donna che, con vocina femminile e allegra, agita la manina tutta
sorridente, nell’atto di pronunciare parole benaugurati di tutto
cuore. L’effetto di accostare questa forma al verbo morire è
ironico, non minaccioso, anche se è evidentemente un augurio
fuori luogo.
La parola virgolettata “struggimento” traduce il testo
virgolettato「憐れ」 – aware. È il termine usato nel capitolo 10,
quello che, secondo l’autore, mancava per rendere perfetta
l’espressione di Nami. Questo termine ha molti significati, fra cui,
“dolore”, “compassione”, “pena”, e perfino “sdegno”, se usata in
certi contesti. Si tratta della forma sospensiva del verbo awareru –
provare pena – soffrire per... - e la forma sospensiva giapponese
corrisponde alla nostra forma sostantivata (awareru → aware =
soffrire → sofferenza). Fra i termini possibili, la scelta è caduta
su “dolore” per due motivi: innanzi tutto, il sospensivo di questo
verbo è stato idiomaticamente usato per selezionare
preferenzialmente questo fra i significati possibili delle altre
forme. Inoltre, alcuni dei significati sinonimi non sono
esattamente sovrapponibili ai corrispondenti italiani. In
particolare, la “pena” indicata da aware non è quella indotta dalla
compassione, dall’empatia e dal desiderio di aiutare altri esseri
umani che stanno soffrendo, ma si concentra sul sentimento
della persona che lo prova, al punto che, in alcuni contesti, può
anche assumere una sfumatura di disapprovazione, e non di
compassione, verso ciò che provoca quel sentimento.
Negli ultimi due paragrafi del romanzo, verbi al presente e al
passato remoto si alternano regolarmente, a indicare, anzi, a
significare un vivido ricordo che si mescola alla narrazione dei
fatti.
Nell’ultima frase, “l’immagine che avevo nella mente” è in
originale 余が胸中の画面は – yo ga kyuuchuu no gamen wa... – che
letteralmente traduce come: “la tela (da disegno) che avevo nel
315
mezzo del mio petto”. Kyuuchuu è la versione aulica
dell’idiomatico comune mune no naka, che letteralmente vuol dire
“in mezzo al petto”, e significa “avere nel cuore”, e ovviamente
“nell’anima”. Usare il petto per significare il cuore, anzi l’anima, è
molto comune anche nel Giapponese parlato. Ero tentato di
rendere l’aspetto di richiamo a una parte fisica del corpo per
significare qualcosa di astratto con “l’immagine che avevo in
testa”, ma questa soluzione era troppo poco raffinata per rendere
l’uso di kyuuchuu al posto del più comune mune no naka.
Ovviamente, nemmeno “avevo in mente” sarebbe andato bene,
per via dell’abuso che se ne fa nel parlare comune in Italiano. Ma
“nella mente” permette di allontanarsi dal valore idiomatico, e
ammanta l’espressione di una certa ricercatezza che, penso,
cattura almeno in parte la forma dell’originale. Per l’uso di
“immagine” al posto di “tela”, è ovvio che “la tela” sta per “il
quadro”, in una tipica metonimia, che si accoppia a quella
idiomatica di “nel petto” per “nell’anima”. Ma avendo ormai
rinunciato a rendere la prima metonimia, non me la sentivo di
tradurre solo la seconda, sbilanciando così la struttura originale.
Poesie nel capitolo
L’unica poesia nel capitolo è un haiku a metrica libera (non
suddiviso in 5-7-5 sillabe) che ho tradotto con:
Che firma porta
il vento satinato
di primavera?
L’originale è il seguente:
春風にそら解け繻子の銘は何
Haru kaze ni / soradoke shusu no / mei wa nani
Letteralmente “Nel vento di primavera / il satin che si scioglie
nel vuoto / qual’è il suo marchio?”
316
La primavera
e per guanciale, erba
sotto le stelle
nell’anima, libertà
del silenzio interiore

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