Per guanciale, erba - Giancarlo Niccolai
Transcript
Per guanciale, erba - Giancarlo Niccolai
Per guanciale, erba Natsume Souseki Traduzione di Giancarlo Niccolai © 2015 di Giancarlo Niccolai. Tutti i diritti riservati. http://www.niccolai.cc ISBN: 978-1-326-24521-4 Titolo originale Kusamakura di Natsume Souseki pubblicamente disponibile presso il sito del progetto Aozora Bunko http://www.aozora.gr.jp Ringraziamenti Un sentito ringraziamento al Prof. Corrado Molteni che mi ha insegnato le basi della lingua Giapponese e l’amore per la cultura orientale. Grazie a Kiyoshi Kohara, per aver sopportato tutte le mie domande indiscrete sul vero significato delle frasi più oscure e delle parole più terribili mai scritte nella lingua Giapponse. Federico Ciriminna merita infine un grande ringraziamento per il prezioso lavoro di correzione, senza il quale, il libro che tenete fra le mani sarebbe molto peggiore. Indice Introduzione...................................................................................I Capitolo 1.......................................................................................1 Capitolo 2.....................................................................................15 Capitolo 3.....................................................................................29 Capitolo 4.....................................................................................45 Capitolo 5.....................................................................................59 Capitolo 6.....................................................................................73 Capitolo 7.....................................................................................87 Capitolo 8.....................................................................................97 Capitolo 9....................................................................................109 Capitolo 10..................................................................................119 Capitolo 11...................................................................................131 Capitolo 12..................................................................................145 Capitolo 13..................................................................................161 Esegesi........................................................................................171 1..................................................................................................................173 2..................................................................................................................176 3..................................................................................................................178 4..................................................................................................................185 5..................................................................................................................186 6..................................................................................................................189 7..................................................................................................................195 8..................................................................................................................198 9..................................................................................................................200 10................................................................................................................203 11................................................................................................................206 12................................................................................................................210 13................................................................................................................215 Note di Traduzione....................................................................223 1..................................................................................................................225 2..................................................................................................................230 3..................................................................................................................235 4..................................................................................................................242 5..................................................................................................................248 6..................................................................................................................260 7..................................................................................................................270 8..................................................................................................................276 9..................................................................................................................279 10................................................................................................................285 11................................................................................................................293 12................................................................................................................299 13................................................................................................................310 Introduzione Il Kusamakura è un romanzo breve, scritto di getto, in due settimane, nel settembre del 1906. Natsume Souseki, all’epoca trentanovenne, era già un autore apprezzato, pur avendo pubblicato principalmente solo critiche letterarie e il best seller “Io sono un gatto” (titolo originale: wagahai neko de aru). “Souseki” è un nome d’arte, che costituisce la lettura giapponese di un idiomatico cinese, “pietra nella corrente”, che significa “ostinato”. Il giovane Kinnosuke, questo il suo vero nome, si era laureato presso l’università Imperiale di Tokio nel 1884. Dopo aver insegnato come docente in varie scuole medie e superiori del Giappone, fu inviato a studiare in Inghilterra per tre anni come “primo scolaro inviato all’estero”, su ordine del Governo Imperiale, dal 1900 al 1903. Al suo ritorno, fu nominato docente di letteratura inglese, inizialmente alla Prima Scuola Superiore di Tokyo, e poi all’Università Imperiale. Souseki non fu soltanto un notevole scrittore: il suo interesse per la letteratura era contemporaneamente artistico e scientifico. Edgard Allan Poe volle spiegare quanta tecnica egli impiegasse nello scrivere i suoi racconti, illustrando la genesi di una delle sue poesie di maggior successo, “Il Corvo”, nel suo saggio “La filosofia della Composizione”. Souseki doveva avere una visione della letteratura analoga, non scevra di costruzioni simili a teoremi matematici. Ma nonostante questo, per Souseki la letteratura non è fine a sé stessa; come tutte le arti, ha uno scopo preciso: elevare lo spirito umano al di sopra della sua natura fisica, al di là del possibile e del quotidiano. In questo, tecnica e teoria giocano un ruolo importante, ma pur sempre secondario. I Sono la base, la struttura, forse anche i ferri del mestiere. Ma come della musica di Bach, tecnicissima, non è la tecnica che ci rapisce, anzi, come nella sua musica la tecnica si raffina tanto da diventare invisibile, per lasciare spazio all’arte che può muovere l’anima, così sono i testi di Souseki. Tecnicamente tanto perfetti da farci dimenticare di quanto lo siano. Una tecnica impiegata con naturalezza e senza il segno di un minimo sforzo: per questo, diventa un’impercettibile sottotraccia alla potenza dell’arte che trasmettono. Souseki volle scrivere quest’opera per illustrare ai suoi colleghi e ai suoi studenti le teorie che egli stesso aveva contribuito a fondare. Come protagonista, sceglie un pittore, che rimarrà senza nome per tutto il romanzo, e racconta la storia in prima persona. Il pittore è un giovane trentenne, che decide di intraprendere un viaggio, al fine di raffinare l’arte che, a Tokyo, non riesce a perfezionare. Perché un pittore? Souseki avrebbe tranquillamente potuto scegliere uno scrittore come protagonista. Del resto, lo vedremo scrivere e ragionare di letteratura, più spesso di quanto non dipinga, o non ragioni di pittura. Ma la scelta di usare un pittore come esempio di artista, fornisce all’autore la possibilità di attingere a molte metafore, paralleli, e immagini da rendere in lettere. Non solo: la struttura del testo è estremamente visuale, oserei dire cinematografica. La narrazione degli eventi, ben distinta dalla narrazione dei pensieri del protagonista, si presta bene a essere resa in sceneggiatura. Questa visualità nella narrazione è una delle innovazioni che Souseki introduce nella letteratura giapponese. Fino ad allora, le opere teatrali e quelle letterarie erano state fondamentalmente separate, ma Souseki aveva studiato Shakespeare, il cui testo letterario, già completo in sé e fruibile “sulla carta”, era pensato per essere rappresentato in scena senza ulteriori adattamenti. Ecco quindi che lo stratagemma del protagonista pittore permette all’autore ulteriori spunti per creare un ponte fra la letteratura e le arti visuali, in maniera esplicita quanto naturale. Souseki non si accontenta di raccontare che, per lui, la letteratura II deve dipingere un’immagine vivida nella mente del lettore: lo vuole anche mostrare, in un gioco di livelli letterari che è ripetuto e ripreso molte volte. In alcune delle sue riflessioni, vedremo persino lo scrittore stesso rivelarsi al lettore, attraverso l’equivalente letterario del “guardare in camera”, taboo cinematografico nei primi film in bianco e nero, che soltanto Oliver Hardy romperà, sul finire degli anni ’30. Guardando in camera, Hardy esce dal paradigma del grande schermo, che voleva gli spettatori come separati dalla scena, quasi stesero spiando ciò che accade nella narrazione, e li chiama a se’, li invita a essere partecipi della commedia, che per lui è una tragedia, che si sta svolgendo in quel momento. Come se dicesse “guardate cosa mi tocca fare”, e cercasse la simpatia e la comprensione del pubblico. Così, rompe la sospensione di credulità che permette al pubblico di immedesimarsi nella finzione, ma allo stesso tempo, rompendola, la rende ancora più salda, portando quella finzione nella realtà attuale dello spettatore, coinvolgendolo all’interno di un gioco di significati più ampio. Questo è quello che vediamo fare a Souseki in quest’opera, quando, senza dirlo esplicitamente, trasmette chiaramente che i pensieri stesi sulla carta non sono del pittore senza nome, ma dello scrittore che siede dietro al tavolo. Souseki rompe la quarta dimensione del testo, e invita il lettore a entrare nel romanzo; non lo dà per scontato, ma anzi, dialoga con lui, ne esige la partecipazione, lo tiene sempre con sé, quasi fosse una figura trasparente che cammina a fianco del protagonista pittore. Quindi, quest’opera si presenta come l’applicazione ideale della tecnica narrativa verista, cinematografica, traducibile in sceneggiatura, che ricrea scene e immagini nella mente del lettore, come fosse uno schermo su cui l’autore proietta le stesse immagini che egli vede. E, vedremo, lo fa ponendosi in contrasto esplicito con il paradigma letterario allora dominante in Giappone, il movimento dell’Ukiyo, il “Mondo Fluttuante”. III Ma, il romanzo non è solo un esercizio di stile. Quasi fosse una dimostrazione matematica, la tecnica narrativa descritta esplicitamente trova anche un’applicazione pratica nella narrazione della storia. È la storia di un giovane uomo che crede di aver già imparato tutto della vita, e per questo, vuole trovare qualcosa di superiore, un ideale, un’estèsi che esca dal quotidiano, e trascenda verso la purificazione dell’anima, anzi, espressione stessa di un’anima pura, un cristallo immutevole e trasparente, attraverso il quale la luce della vita possa assumere tutta la sua bellezza, e il suo significato. L’ideale che il giovane artista cerca non è soltanto irraggiungibile; è anche inutile, anzi, vuoto. Sulla sua strada, il giovane uomo incontra una donna, che sebbene sua coetanea, ha vissuto molto più di lui. Una donna che, proprio perché non è in cerca ideali per cui vivere, è andata oltre il concetto stesso di ideale, e proprio per questo, vive la vita più bella che si possa vivere: la vita vera. Secondo alcuni suoi biografi, sembra che, negli anni successivi, Souseki si fosse espresso in modo critico verso il Kusamakura. Alcuni1 interpretano le lettere che aveva inviato in risposta a suoi amici e colleghi, che chiedevano quale fosse il senso dell’opera, come una parziale ritrattazione dei temi lì espressi. Nella risposta a una lettera di Miekichi Suzuki, Souseki scrive che “anche se una vita ascetica e distaccata è desiderabile, la vita dovrebbe essere vissuta intensamente”. Tuttavia, in questo non vedo affatto una critica o un’inversione dei valori trasmessi da quest’opera. A mio giudizio, si tratta esattamente di quanto appare chiaro, oggi, leggendo questo romanzo. Quello che leggo in quelle risposte non è una disaffezione per il Kusamakura, bensì un rammarico per il fatto che un messaggio tanto chiaro, così chiaro che, forse, solo un trattato filosofico avrebbe potuto enunciarlo in modo più 1 IV Ad esempio, questa è la posizione espressa da Kin’ya Suruta, in “Kusamakura, a Journey” in “The Journal of the Association of Teachers of Japanese, Vol. 22, No. 2 (Nov., 1988)” esplicito, non fosse stato ricevuto da quei lettori a cui era principalmente rivolto. Premessa alla traduzione La cultura giapponese, per molto tempo chiusa, autoreferenziale, austera, almeno in apparenza, esercita da sempre un fascino innegabile sugli occidentali. Tanto più forte è il fascino quanto profondo è il mistero che la circonda. Ma negli ultimi trenta, quarant’anni, l’apertura commerciale del Giappone al resto del mondo ha causato anche un flusso costantemente crescente di interscambio culturale, che ha reso alcuni aspetti della cultura giapponese accessibili a un vasto pubblico mondiale. Soppesando da un lato il mito della cultura giapponese e, dall’altro, fenomeni culturali di massa come gli anime e i manga, l’osservatore casuale potrebbe essere indotto a pensare che questi ultimi siano semplicemente un prodotto di consumo, una sorta di neo-cultura creata artificialmente per essere massificata ed esportata. La “vera” cultura giapponese – può pensare detto osservatore casuale – deve essere ben altra, fatta di seriose e voluminose opere letterarie e profonde rivelazioni spirituali. In realtà, avvicinandosi alla cultura giapponese e cercando di risalire alla fonte di quella ironia, alle volte grottesca, alle volte grossolana, ma mai biecamente banale, ci si perde nella notte dei tempi. Guardando con occhio allenato “I sette samurai”, un film drammatico di Akira Kurosawa, si vedono gli attori impersonare molti interludi comici, la cui struttura si ritrova appunto nel linguaggio dei manga e degli anime. Un esempio per tutti, nella scena in cui viene arruolato Heiachi, un samurai per sua stessa ammissione non troppo capace con la spada, egli sta spaccando la legna con un’ascia, in cambio di un po’ di denaro. Mentre sta vibrando un colpo, gli viene chiesto: “Che ne diresti, invece, di spaccare la testa a una quarantina di briganti?” e questa domanda V lo sbilancia a tal punto da farlo cadere rovinosamente e platealmente. Si tratta di una gestualità che affonda le radici nelle forme teatrali tradizionali del Giappone, e che ha una sua controparte nel disegno, che vede in Hokusai, grande illustratore della prima metà dell’800, il capostipite dei disegnatori Giapponesi moderni. Famoso per opere come la raccolta delle “Trentasei vedute del Monte Fuji”, tra cui la celeberrima “Onda presso la costa di Kanagawa”, icona simbolo del Giappone stesso in tutto il mondo, fu un grande maestro nell’arte della caricatura satirica. Nel suo “Il paese dei topi” vediamo dei topolini antropomorfi dannarsi a svolgere le faccende quotidiane e i mestieri comuni all’epoca. La stessa forma poetica emblematica del Giappone, l’Haiku, era in origine una forma satirica; etimologicamente, infatti, il significato della parola “Haiku” è “versi satirici”. Anticamente, l’Haiku era una sorta di freddura in metrica; solo dopo divenne una forma di poesia dedicata principalmente alla contemplazione della natura, attraverso l’intercessione dei monaci Zen. E a proposito della religiosità, nemmeno questa è immune dall’influsso dell’onnipresente ironia giapponese. Basti pensare che i Koan, ossia i piccoli dilemmi e aneddoti tesi ad aprire la mente dei novizi nel Buddismo Zen, e che hanno in questo contesto la stessa valenza dei Sutra del Buddismo tibetano, hanno spesso carattere ironico. E parlando di radici religiose e antropologiche, persino i miti sulla creazione del mondo, trascritti nel Kojiki (“Cronache delle cose antiche”) attorno all’anno 600 ma di origine molto più antica, non sono esenti da una sottile ironia che spunta, evidente, in diversi episodi fondamentali. Il falso mito della serietà austera della cultura Giapponese ha spesso colpito anche i traduttori. A loro discolpa dobbiamo dire che i Giapponesi stessi si sono spesso cullati in questo mito. Persino un traduttore scrupoloso, che avesse studiato approfonditamente i testi originali fino al punto di trasferirsi in Giappone per essere più vicino alle fonti primarie, e assorbirne la cultura e la quotidianità, avrebbe potuto trovarsi in difficoltà nel VI cogliere questi aspetti. Timidi per natura, i Giapponesi avrebbero difficilmente reso partecipe lo straniero delle loro “facezie” quotidiane, e “arrotondare gli spigoli” delle ironie più grossolane o taglienti dei testi da tradurre sarebbe stata una fortissima tentazione per chi avesse dovuto assistere il traduttore occidentale nel suo compito2. Quindi, privato del vissuto esperienziale a cui i testi fanno costante riferimento, dal momento che, in sua presenza, i Giapponesi si sarebbero comportati tendenzialmente in modo diverso dall’usuale, e senza la possibilità di accedere in maniera non filtrata al significato sottostante, persino il traduttore più scrupoloso si sarebbe trovato di fronte a difficoltà difficilmente sormontabili. Peggio, si sarebbe trovato di fronte a un testo che avrebbe potuto ritenere di aver tradotto correttamente, senza capire quale fosse il contenuto metalinguistico che lo scrittore locale poteva trasmettere ai suoi contemporanei, e che non era stato colto nella traduzione; senza quindi apprezzare l’entità della perdita. Anzi, senza nemmeno rendersi conto dell’esistenza di tale perdita. Oggi, l’immensa mole di materiale audiovisivo e scritto riversato dai Giapponesi su Internet permette allo studioso un’approfondita analisi dei substrati culturali che veicolano la trasmissione dei valori meta-comunicativi, dei modi di dire, delle espressioni dialettali, dei tic, delle gestualità che i Giapponesi usano nelle loro interrelazioni quotidiane. È un po’ come poter guardare il Giappone dal buco della serratura, senza quei filtri culturali a cui sarebbe sottoposto, ancora oggi, lo studioso straniero in visita. Ma la disponibilità di materiale di studio non si ferma qui; su Internet, sono disponibili dizionari onnicomprensivi, liste di termini dialettali (spesso locali a una singola municipalità), forum di discussione sull’origine di modi di 2 Di questo, sono direttamente testimone. Mi è sempre stato impossibile ottenere una descrizione “franca” dei passaggi che contengono elementi di parlato comune, o addirittura volgare, da parte dei miei corrispondenti in Giappone, a meno di insistere ripetutamente e a lungo sul fatto che certe parole non potevano essere intese come “gentili” in nessuna accezione possibile. VII dire e sul significato e l’etimologia di espressioni che oggi risultano oscure persino ai Giapponesi stessi. E ancora, i poemi antichi in lingua Giapponese e Cinese citati da autori come Souseki sono ora facilmente reperibili in lingua originale, con pochi click. Solo pochi anni or sono, accedere a questa mole di dati, di inestimabile valore per un traduttore, sarebbe potuto costare tempo e risorse ben al di là delle possibilità di qualsiasi studioso. A questo fattore oggettivo va aggiunto che, causa la lontananza delle rispettive aree commerciali, per lungo tempo le fonti primarie attraverso le quali gli studiosi italiani hanno potuto apprezzare la cultura orientale sono state fonti in lingua inglese. In passato, nell’area culturale di lingua inglese si preferiva adattare i testi tradotti alla cultura di destinazione; oggi, invece, si preferisce un approccio più diretto, che permetta di apprezzare esattamente quelle differenze culturali che, precedentemente, si preferiva edulcorare, al fine di ridurre i possibili contrasti fra la cultura originale e quella di destinazione. In più, va detto che il passaggio attraverso l’Inglese priva la traduzione della possibilità di conservare alcune strutture linguistiche: ad esempio, il grado di formalità della frase espresso con componenti del verbo, la possibilità di riordinare i complementi in ordine d’importanza, la possibilità di spostare il verbo in posizione esterna, e altro ancora. Struttura Questo testo è diviso in tre parti. Nella prima, si trova la traduzione dei tredici capitoli del testo originale del Kusamakura. La seconda parte è costituita dall’esegesi dell’opera, capitolo per capitolo, che ha lo scopo di permettere al lettore di comprendere il romanzo nel suo contesto storico e culturale. Oltre a questo, vengono anche introdotte alcune note biografiche sull’autore, che VIII permettono di individuare i paralleli che Souseki disegna fra il protagonista immaginario e sé stesso. Nella terza parte, sempre per ogni capitolo, viene illustrato nel dettaglio il processo di traduzione, e quali scelte siano state operate nel rendere alcuni concetti e riferimenti culturali giapponesi nell’equivalente italiano. In questa parte si trovano anche le poesie in Giapponese e Cinese che punteggiano quest’opera, nella loro forma originale. Nel testo, infatti, ho scelto di cercare di rendere le poesie in una metrica che potesse rendere lo stesso ritmo e la stessa forza emotiva che arrivano all’orecchio dei lettori giapponesi; inevitabilmente, è stato necessario fare qualche piccola concessione alla metrica a scapito della stretta aderenza alla lettera delle poesie originali. Per non privare il lettore italiano della possibilità di comprendere appieno il significato originale, ho scelto di riportare in questa sezione le poesie non tradotte, accanto a una traduzione letterale, parola per parola, che permetta al lettore di comprendere il contenuto letterale delle poesie. Inoltre, chi avesse anche solo un’infarinatura di Giapponese e/o Cinese, potrà apprezzare le poesie nella loro forma originale, avendo l’ausilio di una traduzione letterale che serva come dizionario alle parole in lingua straniera. Il lettore può leggere questo testo come meglio preferisce: può leggere ogni sezione in sequenza, o leggere l’esegesi e le note di traduzione dopo aver letto il capitolo di riferimento, o semplicemente leggere il testo tradotto tralasciando il resto. Nei paragrafi della seconda e terza sezione, sono stato molto attento a non rivelare informazioni che si scoprono nei capitoli successivi dell’opera; quindi, se lo si desidera, è possibile approfondire il significato dei capitoli appena letti facendo riferimento all’esegesi, e quindi alle note di traduzione, per una comprensione ancora più profonda. Ma allo stesso tempo, nessuna informazione fondamentale è demandata alle due sezioni accessorie; quello che è necessario alla comprensione del testo, e non può essere inserito nel corpo della traduzione, è riportato nelle note a piè di IX pagina. Quindi, le due sezioni accessorie costituiscono solo di un approfondimento che sarà gradito ai lettori, o eventualmente ai filologi, che volessero comprendere il significato profondo dell’opera. Note stilistiche e linguistiche Per quanto riguarda l’aspetto tecnico della traduzione, ho scelto di trascrivere i nomi giapponesi con il sistema Kunrei, perché più fedele alla fonetica Giapponse e più semplice da usare sui moderni computer. Il lettore italiano può leggere i nomi così come li vede scritti, facendo attenzione ai gruppi sh e ch che vanno letti come in “sciatore” e “cialtrone”, e al gruppo ou che si legge come una o lunga3. Nella traduzione ho cercato di rispettare sia lo spirito che la lettera del testo originale. La struttura linguistica del Giapponese è piuttosto diversa da quella delle lingue occidentali, ma l’Italiano è abbastanza flessibile da essere spesso in grado di trasmettere gli stessi concetti, e alle volte, con lo stesso ordine con il quale vengono presentati nell’originale. In alcuni casi, nei brani che suonavano più poetici in originale, è stato anche possibile spostare il verbo in fondo alle frasi, così come accade in Giapponese. Soprattutto, ho cercato di riprodurre il ritmo e la sequenza di pensieri e di concetti intessute nelle frasi. Un aspetto molto delicato della traduzione riguarda la gestione delle ripetizioni. Il Giapponese fa un uso “strutturale” delle ripetizioni, che non sono per nulla percepite come ineleganti, tanto che all’uso dei pronomi si preferisce spesso ripetere direttamente il nome. Tuttavia, nel linguaggio poetico e nell’alta prosa, anche il Giapponese tende a evitare le ripetizioni, non tanto per gusto estetico, quanto per ragioni di economia: la 3 X Ad esempio, “Souseki” si trova spesso trascritto come Sōseki, che è la grafia usata nel sistema Hepburn. poetica Giapponese non poggia (in genere) sul suono o sulla metrica degli accenti del componimento, bensì sulla mera sequenza dei concetti, al più intrecciati attraverso “figure retoriche” di contenuto, di sostanza e non di forma. In questo contesto, la ripetizione di una parola toglie spazio alla presentazione dei contenuti, ed è quindi evitata. A Souseki non mancano certo le capacità di gestire con eleganza le ripetizioni; si ha la sensazione che, dove ne rimangono, queste non abbiano il compito strutturale che la grammatica giapponese assegna loro, ma siano propriamente inserite per motivi di ritmo e di insistenza. Per questo, ho cercato di mantenere le ripetizioni con lo stesso ordine e la stessa frequenza del testo originale. Altro aspetto importante della differenza fra la prosa Giapponese e quella Italiana è la costanza del tempo. In Italiano, mantenere invariato il tempo al quale viene narrata una storia è una regola ferrea, mentre in Giapponese, si usa spessissimo il presente-nel-passato. È una tecnica usata anche in Italiano, quando si vuole rendere un brano colloquiale. Ad esempio, “Stamattina sono andato in posta per spedire una lettera, e chi t’incontro? Mio fratello!” Dove possibile e consistente ho cercato di mantenere i cambi di tempo; sebbene la narrazione sia principalmente al passato (si tratta di un racconto di ciò che è successo), il protagonista passa spesso al presente, quasi come se stesse raccontando al lettore ciò che gli era capitato rivivendolo nella narrazione. Ne risulta una narrazione in prima persona e spesso al presente, che ha un sapore piuttosto moderno. Ho cercato di rendere i passaggi dai toni poetici al parlare comune, quando non volgare, e dal registro formale al colloquiale, ogni qual volta era possibile. Come in Italiano, in Giapponese una conversazione che parte formale e finisce colloquiale, magari con passaggi bruschi e temporanei, indica degli ammiccamenti, delle “strizzatine d’occhio” verbali che XI fanno parte del livello metalinguistico, estremamente importante per trasmettere il contenuto di una conversazione. Un’ultima nota riguarda il titolo che ho scelto per la traduzione. Una perdita nel passaggio attraverso l’Inglese della traduzione indiretta dal Giapponese all’Italiano, forse poco rilevante, ma sintomatica, è la differenza fra i nomi composti e i genitivi. Nelle lingue che fanno un forte uso di preposizioni e particelle, come il Giapponese e l’Italiano, l’accostamento diretto di un nome a un altro ha un significato differente che non nelle lingue prive di particelle, o dove queste sono meno importanti, come l’Inglese e il Cinese. In Inglese, l’accostamento di nomi forma un genitivo proprio, un complemento di specificazione “compresso”. Parole come “riverside” (fiume + lato = riva), “daydream” (giorno + sogno = illusione) ecc. sono semplicemente gruppi nominali che generano un nuovo gruppo nominale. In Italiano, parole formate in questo modo hanno spesso un valore verbale: ad esempio “bordocampo” ha in sé un senso di stazionamento, di posizione, di attività: non si indica con la parola “bordocampo” il bordo del campo, ma si indica un’attività svolta in quella posizione (stare a bordocampo, arrivare a bordocampo...). Il Giapponese forma il genitivo e il complemento di specificazione principalmente attraverso la particella “no”, che corrisponde grosso modo al nostro “di”; una parola composta come 草 枕 – kusamakura, il titolo originale di quest’opera, ha più un significato verbale che non nominale. “Kusa” significa erba, e “makura” significa guanciale, ma la loro fusione non significa semplicemente “guanciale d’erba”. Assume un senso di attività, o di stazionarietà, così come altre parole giapponesi formate allo stesso modo. La parola kusamakura richiama l’atto stesso di fermarsi in un luogo, guardarsi intorno, decidere che non c’è altro posto dove si possa andare prima del calare del sole, e lì, su due piedi, sdraiarsi e avere, per guanciale, erba. XII Per guanciale, erba 1 Mentre risalivo la strada di montagna, pensavo così. Lavorando d’intelletto, è tutto uno spigolo. Facendoti trasportare dai sentimenti, vieni trascinato via. Sforzandoti di essere coerente, ti senti soffocare. Qualsiasi cosa tu faccia, stare al mondo è difficile. Quando la difficoltà si fa più forte, ti vien voglia di rintanarti in qualche posto tranquillo. Quando ti rendi conto che ovunque tu vada è sempre difficile stare al mondo, nasce la poesia e riesci a dipingere. Anche se le cose fatte dagli uomini nel loro mondo non sono divine, non sono nemmeno demoniache. In fondo, essi sono persone simili ai nostri dirimpettai, che a tratti brillano pure. È proprio perché è difficile stare in un mondo costruito da persone comuni che non c’è terra dove andare. Se ci fosse, bisognerebbe andare in una terra senza gente. Ma chissà, stare al mondo in una terra senza gente, magari, sarebbe ancor più difficile. Se, non potendo andare altrove, ci è difficile stare al mondo, le cose che ci risultano più intricate, per quanto possiamo, dobbiamo scioglierle, e in quel poco di vita che ci è dato, per quel poco che riusciamo, dobbiamo renderci lo stare al mondo piacevole. È qui che quelli che si definiscono “poeti” trovano ispirazione, è da qui che quelli che si definiscono “pittori” ricevono la loro missione. Gli artisti di ogni arte, rasserenando il mondo, saziano il cuore degli uomini, pur consacrandolo alla ragione. 1 Sfilando dal mondo in cui è difficile stare gli affanni con cui è difficile convivere, ciò che ritrae da vicino un mondo piacevole è la poesia, e la pittura. E c’è anche la musica, e la scultura. A essere precisi, non c’è bisogno di ritrarlo. Piuttosto, osservandolo da vicino, la poesia nasce, e la musica pulsa. Pur senza lasciar cadere i concetti sulla carta, la mia anima può vibrare del suono del kyousou1. Pur senza un sedere di fronte al cavalletto a stendere la tempera, lo splendore dei cinque colori 2 si forma vivido nella mia mente. Se, osservando in ogni aspetto il mondo in cui viviamo, riusciamo ad avvicinare questa empia e vile vita terrena alla pura bellezza ritratta dalla macchina fotografica posata a fianco dello spirito, questo basta. Per questa ragione, un poeta muto che non ha mai scritto neanche un verso, o un pittore daltonico che non ha mai dipinto neanche un sekken3, considerato il loro punto di vista su ogni esistenza, considerato che sanno liberarsi da ogni vano desiderio, considerato che vanno e vengono da ogni mondo puro, o piuttosto, considerato che sono in grado di plasmare il creato, considerato che spazzano via ogni convenzione egoistica, più di un giovane danaroso, più di un principe, più di ogni persona a cui questo vile mondo possa aver accordato i suoi favori, essi sono felici. Dopo essere stato al mondo per vent’anni, compresi ciò che valeva la pena d’essere vissuto davvero. A venticinque, capii che luce e oscurità sono due facce della stessa medaglia, e che là dove più batte il sole c’è sicuramente ombra. Oggi che ho trent’anni la penso così: nei momenti di gioia profonda v’è tristezza ancor più profonda, e quando aumentano le gioie così fanno i dolori. Il mondo non starebbe in piedi a sistemarlo. Il denaro è 1 Antico strumento a percussione in giada e oro, simile a uno xilofono, che rivestiva nella musica cinese il ruolo che le campane tubolari hanno nella musica occidentale. 2 Si riferisce ai cinque colori di base conosciuti nella pittura cinese: giallo, verde, rosso, bianco e nero. 3 È un quadrato di seta di circa sessanta centimetri di lato che veniva usato come base nella pittura in stile cinese. 2 importante, ma se esageri con le cose troppo importanti, anche quando dovresti dormire, di notte, te ne preoccupi. L’amore è bello, ma più sei felicemente amato, più rimpiangi il tempo in cui ancora non lo eri. Un ministro ha sulle spalle milioni di persone. Sulla sua schiena grava il peso dell’intero creato. È spiacevole non mangiare bene. Se mangi poco, non ti basta. Se mangi troppo, poi stai male... Il mio pensiero si era trascinato fino a qui, quando il mio piede destro si posò su una pietra sconnessa. Per mantenere l’equilibrio, “ahia!”, buttai avanti il piede sinistro, ma mentre stavo per compensare l’errore, andai a sbattere il fianco su un pietrone ben squadrato, alto proprio un metro. La scatola dei colori che avevo in spalla penzolò sotto l’ascella, ma fortunatamente non le successe nulla. Rialzatomi, guardando avanti, vedo che alla sinistra della strada torreggia una collinetta simile a un secchio rovesciato. Non capisco se siano cedri o cipressi, ma nel verde cupo che la ricopre dalla base alla cima, il rosso tenue di un ciliegio di montagna si staglia vivido, e oltre, la foschia è densa al punto di rendere i contorni indistinguibili. In direzione della strada, un colle brullo; si sfila dal gruppo e lotta per farsi vedere. Il fianco calvo, come levato via dall’ascia di un gigante, sprofonda ripido, fino alla base della valle. Quel che si vede sulla cima, che è? Sarà un pino rosso? Si vede chiaramente persino il cielo fra i rami. Vedo la strada procedere per un paio di miglia al massimo, ma su in alto pare esserci come un telo rosso che sbatte; salendo, dovrei finire là, credo. La strada è terribilmente sconnessa. La terra, mettendoci molto impegno, la si può anche addomesticare, ma nella terra ci sono grandi pietre. Pur appiattendo la terra, le pietre non si appiattiscono. E anche sbriciolando le pietre, con i massi non c’è niente da fare. Ergendosi sulla terra plasmata, non hanno nessuna intenzione di fare del paesaggio strada per noi. Se non mi danno retta, e non mi fanno passare su di loro, li dovrò aggirare. Non sono un gran camminatore, nemmeno dove non ci sono massi. Circondato da 3 alture, sprofondato al centro di esse, come inguainato nel vertice di un triangolo, usare un termine come “passare fra le cime” sarebbe criticabile. Più che dire che sto percorrendo una strada, sarebbe adeguato dire che sto guadando il fondo di un fiume. Comunque, era fin dall’inizio un viaggio senza fretta, e richiede un tortuoso ondeggiare. D’improvviso, da sotto i piedi salta fuori il canto di un’allodola. Guardo giù nella valle, ma proprio non si capisce da dove il pianto arrivi. Solo la voce si ode chiaramente. Veemente e irritata, piange ininterrottamente. In quell’aria smossa giusto dalle pulci per chissà quante miglia, in ogni direzione, mi risulta insopportabile. Il suono del pianto di quell’uccello non cede nemmeno un istante. La tranquillità del giorno di primavera dovrebbe affievolire quel pianto, fiaccarlo, e comunque non può nutrirlo, o almeno ho questa sensazione. Sale su ovunque, sale su per sempre. È fuori dubbio che l’allodola morirà fra le nuvole. Magari, quando sarà finalmente giunta al termine della sua salita, fra le nubi che scorrono via, mentre galleggia con esse, la sua forma svanirà, e solo la sua voce rimarrà in cielo. Girando rasente a uno spuntone di roccia, che a esser fiacchi si finirebbe per cadere gambe all’aria, taglio coraggiosamente a destra ed ecco che, guardando in basso, di fianco, i na-no-hana4 occupano l’intera vista. Mi dissi che l’allodola doveva essere caduta là. No, pensai, forse è da quel prato giallo oro che si è levata in volo. Poi pensai che l’allodola che era caduta doveva aver incrociato per caso quella che si librava. E infine pensai che anche mentre cadevano, mentre si libravano e mentre si incrociavano per caso, avrebbero continuato a cantare con tutte le loro forze5. 4 Piccoli, delicati fiori gialli dall’infiorescenza molto compatta; formano prati di un giallo splendente punteggiati del verde dei loro steli, di una bellezza mozzafiato. Sono generalmente conosciuti come “fiori di rapa”, ma questa particolare fioritura è presente solo nelle varietà cinesi e giapponesi. 5 Cita liberamente Mukai Kyorai, poeta e scrittore di haiku vissuto fra il 1651 e il 1704, e in particolare un suo verso: “Senza posa, il pianto delle allodole e il loro 4 In primavera si è sonnacchiosi. I gatti si dimenticano di prendere i topi, e gli uomini si dimenticano dei loro debiti. Alle volte, dimenticandosi di dove sia la loro anima, perdono persino la propria vera natura. Ma basta sbirciare appena i Na-no-hana da lontano per risvegliarsi. Quando si ode il canto dell’allodola, ecco che si certifica la presenza dell’anima. Fra le espressioni dell’anima che emergono alla voce, non ve ne sono altre di così intense. Ah, questa è gioia! Queste emozioni, il provare questa gioia è poesia. Mi sovviene la poesia di Shelley sulle allodole 6; provo a ripeterla ma ne ricordo solo due o tre versi. Fra quei due o tre versi, alcuni fanno così: We look before and after And pine for what is not: Our sincerest laughter With some pain is fraught; Our sweetest songs are those that tell of saddest thought. “Guardiamo avanti, guardiamo indietro, desiderando ciò che non è. Là dov’è la nostra risata più viscerale, deve esserci dolore. Le canzoni di estrema bellezza sono colme di pensieri di estrema tristezza.” Eh già; per quanto i poeti possano essere felici, non possono esserlo quanto l’allodola, che con foga, con tutta se stessa, dimentica di tutto eccetto che dell’attimo, canta la propria gioia. Nella poesia occidentale, e anche in quella cinese, è noto l’abuso del termine “migliaia di lacrime di dolore”. Se per un poeta ci vogliono migliaia di lacrime, un principiante dovrebbe stare a posto con un bicchiere. Cioè, un poeta è più pessimista di una persona normale, e magari ha i nervi almeno due volte più incrociarsi.” 6 Percy Bysshe Shelley (1792-1822), poeta inglese della stessa corrente di Byron. Souseki lo lesse avidamente durante il suo soggiorno in Inghilterra, e lo cita spesso. La poesia alla quale si riferisce è “To a Skylark”. 5 delicati di un tizio qualunque. Deve avere delle gioie pazzesche, ma pure un sacco di profonde tristezze. Beh, se è così, bisognerebbe pensarci due volte prima di fare il poeta. Per un po’, il sentiero si fa piatto, a destra boschi misti, e a sinistra si continuano a vedere i Na-no-hana. Ogni tanto, calpesto un dente di leone. Le loro foglie seghettate proteggono in ogni direzione la gialla gemma al centro. Con l’attenzione rapita dai Na-no-hana, dopo averne calpestati un po’, dispiacendomene, mi volto a guardare. La loro gemma gialla è assisa fra le foglie seghettate, come prima. È cosa da poco. Riprendo il filo del mio pensiero. Magari, la tristezza fa parte dell’essere poeta, ma nel sentimento che si prova ascoltando quell’allodola non v’è il benché minimo dolore. Guardando i Na-no-hana, solo gioia danza nel petto. E pure con i dente di leone è lo stesso, e i ciliegi – i ciliegi! a un certo punto ho smesso di vederne. Quando ci si addentra nelle montagne, venendo a contatto con paesaggi naturali, tutto ciò che si vede e tutto ciò che si ode è interessante. Il solo fatto che sia interessante impedisce che si sviluppi un diverso tipo di dolore. Se v’è dolore, è solo quando i piedi si affaticano, o quando non si può mangiare nulla di buono. Ma mi chiedo, perché non v’è dolore? È semplicemente perché, questo paesaggio, lo vedo come un dipinto in un quadro, lo leggo come una poesia in un rotolo. Al di là del considerarlo un disegno o una poesia, esso non smuove altri interessi, come reclamarne un appezzamento e coltivarlo, o aprirvi una ferrovia su cui lucrare. Deve essere semplicemente perché, questo paesaggio – proprio questo paesaggio che non può darmi il pane quotidiano, che non può pagarmi lo stipendio – è per me un paesaggio che rallegra il cuore, e perciò non lo accompagno ad affanni né a preoccupazioni. Sta in questo la sacralità che riconosco alla forza della natura. Ciò che, in un attimo, eleva le nostre emozioni alla purezza, e ci conduce a uno stato di sublime ispirazione poetica è la natura. 6 La passione sarà pure intrigante, la tenerezza per i figli sarà pure bella, l’amore per la propria terra sarà pure splendido. Solo che, quando poi queste cose toccano a noi, veniamo avviluppati dal turbine dell’interesse personale, e anche di fronte alle cose belle, e anche al cospetto di quelle splendide, gli occhi si appannano. Si è dubbiosi e non si capisce più se in esse vi sia poesia. Per capirlo bisogna porsi nei panni di un terzo, purché esso abbia la facoltà di capire. Quando si è nei panni di un terzo, le recite sono interessanti. Anche i romanzi sono divertenti. Le persone che trovano interessante vedere una recita, e le persone che trovano divertente leggere i romanzi, posano i propri interessi su uno scaffale. Solo per il tempo in cui guardano o leggono, sono poeti. Tuttavia, le normali recite e i normali romanzi non sono dispensati dalle passioni. Ci si soffre, ci si arrabbia, ci si agita, ci si piange. Chi vi assiste, si immedesima e soffre, si arrabbia, si agita e piange. Si potrebbe evidenziare che il loro pregio sta nel non coinvolgere gli egoismi personali, ma è proprio perché non li coinvolgono che le altre passioni sono inutilmente più attive del normale. E questo non mi piace. Soffrire, arrabbiarsi, agitarsi e piangere sono cose che fanno parte dello stare al mondo. Anche io ci sono passato attraverso per trent’anni, e ora non ne posso più. Se, oltre a non poterne più, dovessi subire gli stessi attacchi pure dalle recite e dai romanzi, sarebbe un guaio. La poesia che desidero non è quella che incoraggia le passioni mondane. È quella che, anche per poco, mi fa sentire distaccato dalle voglie meschine di questo lordo mondo. Per quanto siano capolavori, non vi sono recite che sappiano allontanarsi dalle passioni, e i romanzi che si astengono da giudizi morali sono ben pochi. Il non poter uscire dal mondo in alcun modo è la loro caratteristica. In particolare, quando si tratta di poesia occidentale, traendo essa le sue radici proprio dall’esperienza sulla condizione umana, nemmeno i così detti “cantici” più puri sanno come trascendere questo limite. Che sia compassione, o amore, o giustizia, o libertà, usano a 7 profusione cose che si trovano in svendita nel mondo fluttuante7. Per quanto poetiche possano divenire, sono cose che, correndo sulla faccia della terra, non ci permettono di dimenticare nemmeno una fattura da un centesimo. È chiaro come Shelley abbia sospirato udendo le allodole. Menomale che nella poesia orientale c’è qualcosa in grado di trascendere8. Colgo un ciclamino dalla siepe del levante Osservo poi sereno a sud il solo monte Basta questo, ed ecco che ne esce uno scenario dimentico delle brucianti sofferenze del mondo. Non c’è la ragazza della porta accanto che sbircia da dietro la siepe, né un amico partito in missione per la montagna a sud. Ci porta nello stato d’animo sereno e trascendente di chi ha lasciato scorrere via il sudore versato dietro agli affanni dei propri interessi. Siedo solo nel buio fra i bambù Suono l’arpa e ancora canto a lungo Là nel bosco, che dell’uomo non sa più Vien la luna, splendor cui mi congiungo 9 In soli venti caratteri, edifica dolcemente un creato a parte. E la virtù di questo creato non è la virtù de “Il Cuculo” o de “Il Demone Dorato”10. È una virtù simile all’oblio di quando, sfiniti da navi, treni, diritti, doveri, morale e educazione, si cade addormentati. 7 È un riferimento esplicito al movimento letterario e artistico dell’ukiyo, che significa appunto “mondo fluttuante”. 8 Si tratta di un brano di una poesia di Yuangming (365-427), “Venti sorsi di vino”. 9 È una poesia di Wang Wei (699-759), “Il palazzo di bambù” 10 Opere “morali” famose ai tempi di Souseki. “Il Cuculo” è un romanzo di Tokutomi Roka (1868-1927), e “il Demone Dorato” è un romanzo a puntate pubblicato sull’Asahi Shinbun, di Kouyou Osaki (1868-1903). 8 Se, nel ventesimo secolo, abbiamo bisogno di dormire, allora, nel ventesimo secolo, questa poesia di evasione dal mondo è essenziale. Purtroppo, oggi mi sa che sia chi fa poesia che tutti quelli che la leggono, influenzati dall’uomo occidentale, non metterebbero mano a una barchetta giusto per risalire il fiume e vedere da dove arrivano i fiori di pesco portati dalla corrente11. Non ho studiato poesia nello specifico, e non ho la benché minima intenzione di allargare il pubblico a conoscenza di Wang Wei o Yuanming mettendomi a spiegarli. Solo, personalmente li trovo più interessanti che non la recitazione o la danza. Mi gratificano di più essi che non un “Faust”, o un “Amleto”. Ed è proprio per questo che mi ritrovo tutto solo con la mia scatola dei colori e il mio treppiedi in spalla, a camminare mogio mogio su questo primaverile sentiero di montagna. Le atmosfere di Wang Wei e Yuanming assorbono direttamente la natura e, anche se per poco, desidero fluttuare in un luogo inemotivo. È un mio trastullo. Naturalmente, non sono che una particella di umanità, per cui, per quanto lo desideri, non posso rimanere inemotivo a lungo. Wang Wei non se ne stava certo tutto il tempo a rimirare la montagna a sud, e non credo che Yuanming fosse tipo da dormire nel bosco di bambù, che tanto adorava, senza una zanzariera. Mi sa che quel crisantemo sia finito fra le mani di una fioraia, e i germogli di bambù siano stati venduti in una mesticheria. E pure io sono così. Per quanto le allodole e i Na-nohana possano piacermi, l’inemotività non mi attrae abbastanza da farmi andare a vivere accampato su una montagna. Anche in posti come questo si incontrano persone. Un samaritano con una visiera di velo plissettato, una ragazza con una fusciacca rossa... 11 Si riferisce a un poema dell’autore cinese Tao Quiang, “Cronache della sorgente dei peschi”, dove un pescatore risale la corrente per vedere da dove arrivassero i fiori di pesco che galleggiavano sul fiume, trovando un paradiso terrestre di pace e armonia. 9 alle volte, si incontrano persino cavalli col muso più lungo dei loro padroni. Pur circondato da miliardi di cipressi, pur inspirando ed espirando l’aria centinaia di miglia al largo sul mare, questa puzza di uomo non va mai del tutto via. Mah, sarà per questo che la mia meta per stanotte è l’onsen di Nagoi12. Il punto è che le cose cambiano a seconda di come le si guarda. Per dirla con le parole che Leonardo da Vinci rivolse al suo discepolo, “ascolta il suono di quella campana! La campana è una, ma non così il suo suono. Ogni uomo, o ogni donna, lo troverebbe diverso, a seconda del proprio punto di vista13.” e io sono partito in questo viaggio per avere un po’ di inemotività, quindi, se mi metto nell’idea di guardare la gente così, sarà certo meglio di quando vivevo stretto in un buco qualsiasi di un vicolo anonimo del mondo fluttuante. Bene; se proprio non posso separarmi dalle passioni, posso almeno entrare nello stato d’animo leggero di quando si assiste a una recita del Noh. Ci sono passioni anche nel Noh. Pure nel Shichikiochi, o nel Sumidagawa14, mica si può essere certi che non si finirà col piangere! Ma quella roba è per tre parti arte e per sette mestiere. Se ci piace il Noh non è perché esso è capace di riflettere le passioni così come esse davvero sono. È per la tecnica di prendere quelle passioni così come sono e le rivestirle di chissà quanti strati di kimono, per farle agire docilmente, così come non potrebbero mai fare nel mondo reale. Chissà come dev’essere guardare per un po’ quel che mi accadrà in questo viaggio, e le persone che incontrerò, come fossero la trama, i movimenti degli attori di una recita del Noh. Non sarà come gettar via completamente i sentimenti, ma visto 12 Gli onsen sono le sorgenti termali che abbondano in Giappone, e sulle quali vengono costruiti da sempre alberghi più o meno lussuosi. Nagoi è un luogo di fantasia. 13 È una scena tratta da “Leonardo da Vinci” di Dimitri Merejkovski. 14 Sono i nomi di due famose opere del teatro tradizionale Giapponese detto “Noh”. 10 che è un viaggio intrapreso per raggiungere uno stato poetico, allenandomi all’inemotività, voglio provare a esercitare la massima parsimonia possibile. E certo, non c’è dubbio che avrà natura ben diversa dalla montagna a sud o dalla siepe di bambù, e non la potrò nemmeno paragonare alle allodole o ai Na-no-hana, ma voglio provare a osservare la gente dal punto di vista che più si possa avvicinare a questo. Un tizio di nome Bashou 15 riuscì a poetare persino sull’eleganza del pisciare di un cavallo accanto al suo giaciglio! E anche io, gli esseri umani che incontrerò d’ora in avanti – che siano villici, mercanti, impiegati di campagna, nonni, nonne – proverò ad assumere l’ipotesi che siano tutte figure in risalto sul dipinto di un panorama. Beh, essi avranno pose assai più articolate che non la gente su un dipinto. Ma facendo come un qualsiasi scrittore di romanzi, che fruga fra quelle pose articolate, e si addentra nei meccanismi psicologici, ed esamina le tragedie umane, si cadrebbe nella volgarità. Che si muovano pure, non m’importa! Anche se vedessimo la gente muoversi su un dipinto, essa non potrebbe infastidirci. Anche muovendosi sulla superficie del dipinto, le figure umane non potrebbero certo venir fuori. Perché, se dovessero saltar fuori dalla superficie, volendo pensare che si muovano ritualmente come una geisha, sentirsele sbattere addosso, o discutere con noi delle loro faccende, sarebbe una seccatura. Ma per quanto possa essere una seccatura, bisogna vedere tutto questo come pura estèsi. Osservandole distaccatamente, da lontano e dall’alto, farò sì che con le persone che incontrerò d’ora in poi non si accenda la scintilla di un’inutile sentimento reciproco. Facendo così, per quanto gli altri si muovano, semplicemente, non avranno alcuna ragione per finire addosso a questa specie di sacco di patate, insomma, sarà come starsene in piedi davanti a un dipinto a guardare le figure umane che si agitano e si muovono in qua e là sulla sua superficie. Dicendolo 15 Matsuo Bashou (1644-1694), famoso per i suoi haiku (componimenti ermetici in 17 sillabe) a sfondo satirico. 11 con altre parole, dato che non mi lascerò distrarre dalle loro faccende, sforzandomi al massimo, potrò ammirare il loro moto dal punto di vista artistico. Senza altri pensieri, potrò dedicarmi a giudicare se sia bello o meno. Avevo appena preso questa decisione che il tempo si fece incerto. Mi viene da pensare che la nube sulla mia testa sia troppo indefinita, ma all’improvviso si scarica, e da ogni parte, da quello che si può ritenere essere un mare di nubi, la pioggia primaverile, frusciante, mi cade addosso. Passando attraverso i na-no-hana, va rapidamente da cima a cima, ma la pioggia cade in fili talmente fitti da potersi scambiare per nebbia, e non si capisce a quale distanza sia arrivata. A volte soffia il vento, e spazzando via una nuvola dall’alto, mostra il fianco grigio scuro dei monti sulla destra. Pare che, separato dalla vallata, un altro flutto corra sulla cima opposta. In questo canestro di pioggia fitta, cose che parrebbero pini, di tanto in tanto, si fanno vedere. Come penso di vederne uno, subito si nasconde. È la pioggia che si muove, o sono gli alberi, o i sogni... è una sensazione piuttosto strana. La strada si allarga inaspettatamente, e prosegue in piano, e quindi il solo camminare non mi spezza più le ossa, e dato che non ho pensato a portarmi dietro un mantello per la pioggia, mi affretto. Mentre dal cappello cadevano fitte gocce pesanti di pioggia, da una quindicina di metri più avanti arrivò il suono di una campanella, e dall’oscurità emerse un carretto. «Ehi, qui in giro, non c’è un posto dove riposare?» «Se prosegue giusto un miglio, trova una sala da tè. Certo che ti sei proprio bagnato, eh?» Stavo per dire «ancora un miglio?», ma come mi voltai, vidi la forma del carretto, ormai, simile a un’ombra cinese, avvolta dalla pioggia, e poi, nel tempo di un sospiro, sparì. Le gocce che prima parevano sottili come crusca si fanno via via più grosse e lunghe, e ora vengono attorcigliate dal vento, a formare stringhe ininterrotte che mi entrano negli occhi. L’acqua che ha infradiciato il mio cappotto ed è arrivata a bagnare la mia 12 biancheria intima si scalda col calore del mio corpo, tanto da sembrarmi tiepida. È una brutta sensazione, e quindi chino il cappello e procedo deciso. In uno sconfinato mondo grigio-scuro, fra chissà quanti fili d’argento che corrono obliqui, nient’altro che un uomo che, bagnato, cammina... se potessi pensare a me come a un altro in questa situazione, potrei farne poesia, o recitarlo in versi. Quando si riesce a obliare la propria fisicità, e per la prima volta si vede sé stessi come figure di un disegno, si può davvero comprendere lo scenario e la splendida armonia della natura. Però, dispiacendomi della pioggia, nell’attimo in cui mi accorgo dei piedi che, correndo, si stancano, non sono più un uomo in una poesia, né sono più un uomo in un disegno. Non sono altro che quel moccioso di città di sempre. Non ammiro più la magnificenza delle nuvole. Il mio cuore non fluttua più in simpatia per i petali caduti e il canto degli uccelli. E non mi interessa neanche di sapere quanto posso sembrare bello mentre, sbattuto come un arbusto, cammino da solo, sulla montagna in primavera. All’inizio, mi sono messo a camminare inclinando il cappello. Poi ho continuato a camminare semplicemente guardando i piedi muoversi. Alla fine mi sono stretto nelle spalle ed ho camminato spaurito. La pioggia che fa ondeggiare le cime degli alberi a perdita d’occhio preme ancor più su di me, viaggiatore solitario. Beh, adesso mi pare che con l’inemotività stiamo un po’ esagerando… 13 2 «Oi!» ho provato a chiamare, senza risposta. Sbirciando dalla tettoia, un unto pannello scorrevole si para innanzi. Oltre, non si vede nulla. Cinque o sei paia di sandali di paglia, appesi tristemente al soffitto, penzolano svogliati, ondeggiando piano piano. Sotto, una scatola di dolcetti confezionati, ne rimangono giusto tre, e accanto, cinque monete da un centesimo, vecchie di cent’anni, sparpagliate a casaccio. «Oi!» provo a chiamare di nuovo. Su un mortaio appoggiato in un angolo dell’anticamera1, due grassi polli, sorpresi, spalancano gli occhi. «Kukuku, kukuku» rumoreggiano. Sulla parte del forno oltre la soglia che, bagnata dalla pioggia appena caduta, ha cambiato colore, c’è una tazza nera, ma non si capisce se sia di ceramica o d’argento. Per fortuna, il fuoco è acceso. Siccome non rispondeva nessuno, sono entrato sfacciatamente e ho buttato il sedere su una panca. I polli, svolazzando, scendono giù dal mortaio. Adesso, si sono posati sul pavimento. Se il pannello non fosse stato chiuso, può darsi che avrebbero pensato di infilarsi all’interno. Il gallo dice a gran voce «Kokekkokko», e la gallina dice con voce fine «Kekekkokko». Si direbbe proprio che mi abbiano preso per una volpe, o per un cane. Sulla panca poggia tranquillo un braciere da un paio di litri, con dentro una 1 L’anticamera delle case tradizionali giapponesi occupa tutta la lunghezza della stanza retrostante, è profonda circa due terzi, e ha il pavimento a livello del terreno esterno, mentre quello del resto della casa poggia sulle travi di legno portanti, ed è sopraelevato di una trentina di centimetri. 15 spira d’incenso che, incurante del volgere dei giorni, brucia estremamente pigra. La pioggia, progressivamente, smette. Dopo un po’ si sentono dei passi provenire dall’interno, e il pannello si apre cigolando. Da dietro, esce una semplice nonnetta2. Sapevo che prima o poi qualcuno sarebbe venuto fuori. Il fuoco nel forno è acceso. Ci sono delle monete buttate lì, sulla scatola dei dolcetti. L’incenso brucia incurante. Doveva esserci per forza qualcuno. Solo che, vedere qualcuno che non soffre a lasciare incustoditi i propri averi fa un po’ strano, a uno di città. E anche acculacchiarsi su una panca senza permesso, e aspettare chissà quanto, sono cose che non quadrano bene col ventesimo secolo. Essere inemotivi da queste parti sarà uno spasso! E in più, la faccia della nonnetta che è saltata fuori mi piace. Due o tre anni prima avevo assistito al Takasago, al teatro degli Houshou3. Lo trovai uno splendido tableau vivant. Un vecchio muoveva cinque o sei passi sull’hashigakari4, con una scopa in spalla, poi si voltava lentamente fino a incontrare lo sguardo di una vecchia. Ho il volto di quella donna anziana ancora davanti agli occhi. Dal mio posto, avevo il volto della vecchia dritto davanti a me, e così, quando mi dissi «quant’è bella», la sua espressione rimase marchiata a fuoco nella macchina fotografica del mio cuore. Il volto della nonna della sala da tè le assomigliava tanto da sembrare una fotografia in carne e ossa. «Nonna, ho preso un po’ in prestito la panca!» «Oh, bene... non l’avevo sentita...» 2 Fra Giapponesi è normale indicare persone sconosciute con nomi di gradi di parentela corrispondenti alla loro età, seguite dal suffisso di cortesia “san”. Così, una ragazza è una “signora sorella”, una donna di mezza età è una “signora zia” o “signora moglie” e un’anziana è una “signora nonna”. 3 Si tratta di una scuola di attori Noh che Souseki apprezzava in modo particolare; il brano che cita è un classico del teatro Noh. 4 Passaggio tra le quinte e il palcoscenico, che resta in vista degli spettatori. 16 «Certo che ne è venuta giù un sacco, eh?» «Questo tempaccio deve averla messa nei guai, ha fatto bene a sedersi qui... Ooooh, ma ti sei bagnato un sacco. ’Spetta lì, che rintuzzo il fuoco e ti faccio asciugare.» «Basta che lo alzi appena un po’ e mi asciugherò in men che non si dica. Grazie, che a star qui fermo m’è venuto un freddo...» «Sì sì, te lo rintuzzo subito. Dai, prendi una tazza di tè.» dice alzandosi, e fa scendere i polli sibilando loro dietro «sciò, sciò!» «Kokokoko», marito e moglie corrono via, saltando su dal pavimento color tè bruciato, correndo attraverso la scatola di dolcetti, svolazzano fino alla strada maestra. E il gallo ha mollato una merda proprio mentre passava sulla scatola dei dolci. «Su, prendi» dice la vecchia, offrendomi una tazza su un vassoio tirato fuori da chissà dove. Sotto al tè di colore nero bruciato, tre fiori di pesco stilizzati sono incisi con un singolo tratto. «Un dolcetto...» dice, e ora mi porge delle treccine al sesamo, e i bastoncini di farina di riso calpestati dal gallo. Li ho scrutati bene per accertarmi che non ci fosse rimasta attaccata della merda, ma quella è stata lasciata nella scatola. Stringendosi il tasuki5 dietro al kimono smanicato, la nonna si china di fronte al forno. Prendo dalla sacca il mio blocco da disegno e, mentre schizzo il profilo della nonna, attacco a chiacchierare. «Che pace che c’è qui, vero?» «Sì, è un villaggio di montagna, come può vedere...» «E magari ci cantano pure gli usignoli.» «Sì, cantano più o meno tutti i giorni. Da queste parti cantano anche in estate.» 5 Specie di fascia che viene fatta passare sotto le ascelle, dietro la schiena e fra le spalle per tenere fermi gli abiti indossati e impedire che si sporchino o intralcino durante i lavori manuali. 17 «Mi piacerebbe sentirli. Tanto più che fino a ora non li ho sentiti affatto.» «Purtroppo, oggi... la pioggia di prima li ha fatti scappare chissà dove.» A tratti, il forno cantava “pachi pachi”, e una fiamma agitata dal vento sbuffava, soffiando alta un paio di palmi. «Via, vieni più in qui. Deve far freddo...» dice. Guardando il bordo del tetto, il fumo azzurrino, sbattendo e infrangendosi, per un fugace attimo si attorciglia attorno alle tegole. «Ah, che bella sensazione; mi ha fatto rinascere!» «Anche la pioggia ha smesso per bene. Va là, è spuntata pure la rocca del Tengu6.» Nel cielo di primavera, vittorioso sulle resilienti nubi di quella tempesta di montagna soffiata via precipitosamente, che quell’angolo di vallata aveva appena attraversato con violenza, ora rasserenato senza la minima indecisione, quella forma, come una colonna imperfetta, che torreggia nella direzione additata dall’anziana, dev’essere la rocca del Tengu. Io ho osservato dapprima il picco, poi ho osservato il volto della nonna, e quindi li ho guardati in parte entrambi, confrontandoli. Come disegnatore, i volti di donna anziana che esistono nella mia testa sono quella maschera del Takasago e quello della strega di montagna dipinta da Rosetsu7. Quando vidi il suo dipinto, mi dissi che quella era un eccezionale stereotipo di vecchia donna. Pensai che sarebbe dovuta essere posta fra le foglie d’autunno, magari sotto una fredda luna. Ma in seguito, quando ebbi modo di assistere a quella rappresentazione fuori programma della 6 Folletto dal volto rosso, col naso lunghissimo, nere ali e zampe di corvo e maligno per natura. È anche una “maschera” molto tipica della cultura popolare giapponese. 7 Nagasawa Rosetsu (1755-1799), un pittore del medio periodo di Edo, allievo di Ookyo Maruyama. La «Strega di montagna» è un noto dipinto conservato nel tempio dei Itsukushima. 18 scuola Houshou8, mi sorpresi a chiedere a me stesso "Eh già... allora, anche una donna anziana può avere un’espressione tanto gentile...". La maschere usate in quell’occasione dovevano essere state scolpite dalla mano di un vero maestro. Purtroppo non mi sovviene il nome dell’autore, ma ogni volta che appariva un’anziana, era paffuta, tranquilla e amorevole. Sarebbero state adeguate sia che lo scenario fosse stato un drappo d’oro, o il vento di primavera, o un albero di ciliegio. Rispetto alla Roccia del Tengu, quella nonna in una veste smanicata che sporgeva i fianchi, tendeva la mano e indicava un luogo lontano, come spettacolo offerto dalla strada di montagna, mi sembrava assai più caratteristico. Ho sollevato il blocco da disegno, ma dopo un momento che potremmo dire breve, la nonna ha rotto la sua posa. Ci rimango con un palmo di naso, e stendendo il blocco davanti al fuoco per farlo asciugare, «Nonna, certo che sei in forma, eh?» chiedo. «Sì! Grazie al cielo sono ancora in gamba; riesco a cucire, a filare la canapa e a macinare la farina per i dolcetti.» Mi sarebbe piaciuto vedere quella signora lavorare alla macina. Ma non potendo inoltrare una tale richiesta, «Da qui a Nagoi ci sono meno di un paio di miglia, giusto?» provai invece a chiedere. «Sì; sono quasi tre chilometri. Il signore9 si ferma alla stazione termale?» 8 Nel Noh è tradizione inserire una o due rappresentazioni speciali (solo in primavera, o in primavera e autunno) fra le rappresentazioni programmate di mese in mese. Il Takasago a cui l’autore fa riferimento era stato rappresentato in quell’occasione. 9 Da questo momento, la signora passa a un tono leggermente più formale; in realtà usa una forma di cortesia intermedia femminile, usata principalmente dai negozianti con gli avventori, che non mostra affatto distacco, ma piuttosto rispetto. 19 «Se non è troppo affollato, avrei intenzione di soggiornarvi un po’... se il posto mi piace.» «Ma no, da quando è iniziata la guerra non è passato nessuno. È praticamente come se fosse chiuso.» «Che strano. Ma... allora mica mi ci fanno stare!» «Ma no, basta che chieda e la faranno stare quanto vuole.» «C’è solo un ostello, vero?» «Sì, chieda del signor Shihoda e le sapranno subito dire. È il più ricco del villaggio, e lo stabilimento sembra quasi una villa di campagna.» «Ah, e quindi stanno a posto anche se non hanno clienti...» «È la prima volta che il signore passa da queste parti?» «No, tanto tempo fa c’ero già stato.» La conversazione si ferma per un po’. Ho riaperto il blocco e attaccato tranquillamente a schizzare i polli di prima; in fondo alle orecchie ora assuefatte al silenzio ho udito il jaran jaran di un campanaccio da cavallo. Mentre il ritmo di quel suono si fa strada nella mia testa, si formano sensazioni mutevoli. Ho come l’impressione di dormire, e che il fruscìo di un pestello sulla macina cada fin nei miei sogni. Smetto di schizzare i polli, e su un bordo della stessa pagina scrivo Vento di vere e squilla d’un cavallo che giunge ad Izen10 10 20 È un Haiku, componimento ermetico in 5-7-5 sillabe, che deve inoltre sottostare ad alcune regole formali. Souseki si riferisce a Izen Hirose (?-1711), uno scrittore di haiku, allievo di Bashou, che si dice avesse deciso di girare il Giappone negli ultimi anni della sua vita in cerca dell’Illuminazione. Da quando sto salendo sulla montagna, ne ho incontrati cinque o sei. E questi cinque o sei che ho incontrato erano tutti bardati e portavano una campanella. Non parevano proprio cavalli di oggi. Presto, un canto da carrettiere lungo il sentiero di montagna del giorno di primavera che volge al tramonto, rompe il sogno. Vi è serenità in fondo alla tristezza di quella melodia, e non posso che pensare che sia una voce da incidere su un quadro. Canta il carriere e passa Suzuka11 con pioggia di vere mi metto a scrivere, stavolta su un un fianco, ma appena scritti, a rileggerli mi accorgo che non sono versi miei12. «Toh, è arrivato qualcun altro» dice la nonna, in parte a se stessa. È l’unica mulattiera, quindi tutti quelli che vanno e tornano passano qui davanti. Anche per gli altri cinque o sei cavalli, col loro jaran jaran, la nonna avrà detto, di pancia, «toh, è arrivato qualcun altro», per ognuno che risale e per ognuno che discende la montagna. Assieme a questo sentiero solitario, attraversando le primavere antiche e presenti, in questo villaggio che nessuno ci verrebbe a meno di amar tanto i fiori, la nonna chissà da quanti anni conta allo sfinimento questi jaran jaran, tanto che la sua testa s’è fatta bianca. Canti da strada e bianca chioma, passan le primavere. 11 Famosa città del Giappone, il cui nome contiene la parola «Suzu» (campana). Evidentemente, il pensiero corre alla città perché assonante alla campana del cavallo. 12 Un amico di Souseki, Masaoka Shiki (1867-1902) scrisse infatti “Canta il carriere / sopra Suzuka; con lui / pioggia di vere” 21 ho buttato giù sulla pagina successiva, ma mentre osservavo la punta della matita pensavo: «queste parole non finiscono di dire quel che sento, mi pare un testo su cui si può lavorare ancora un po’...» Mentre cercavo in qualche modo di metterci «bianca chioma», «passare», mantenendo il tema dei «canti da strada», e di infilare da qualche parte «primavere», e provavo a trovare una conclusione, tutto in diciassette sillabe... «Ehilà, salve!» il carrettiere in persona si è fermato davanti al negozio e ha chiamato a gran voce. «Ma va, Gen-san13! Scendi ancora giù al castello?» «Se hai bisogno di qualcosa, chiedi pure!» «Beh, allora, se passi per Kaji, fatti dare una tavoletta del tempio Kaigan per mia figlia.» «Va bene, te la compro. Una sola? Certo che Oaki si è proprio sistemata bene; sarà felice. Vero, zia?» «Grazie al cielo, in tempi come questi non c’è da lamentarsi. Mah, potremmo dire che sia stata fortunata.» «Ma dai, che v’è andata proprio bene. Pensa alla quella signora di Nagoi!» «Ah, un vero peccato, eh? Pensare che era così bella. Va meglio, in questo periodo?» «Macché, sta sempre così.» «Che guaio...» dice la nonna tirando un gran sospiro. «Già, che guaio...» dice Gen-san accarezzando il muso del cavallo. Sui rami dei ciliegi di montagna, floridi di foglie e fiori, la pioggia caduta dalle profondità del cielo ancora indugia amorevolmente; ma ecco che il vento, che soffia un momento, le 13 22 “-san” è un suffisso generico per i nomi di persona; lo riportiamo qui perché dal seguito si intuisce che fa parte integrante del soprannome usato da questa signora per rivolgersi a questo personaggio, Genbei. porta via il sostegno, e ormai impaziente, essa abbandona il fugace riparo, e cade rifluendo. Sorpreso, il cavallo agita la lunga criniera in basso e in alto. «Ma porcaccia!» lo sgrida la grossa voce di Gen-san, che assieme al jaran jaran, rompe la mia contemplazione. La nonna dice: «Gen-san, io ho ancora il vestito del giorno che andò in sposa davanti agli occhi. Col kimono dipinto, le larghe maniche, l’alta shimada14, su quel cavallo...» «Ah già, non era una barca. Era un cavallo. Si fermò proprio qui, vero zia?» «Sì, il suo cavallo si fermò proprio sotto a quel ciliegio. Dopo tutta la fatica fatta, l’acconciatura si era un po’ sciupata.» Apro il mio blocco. Farò di questo spettacolo disegno, ne farò poesia. Nel mio cuore fluttua l’immagine della sposa, e immaginandomi il suo volto a quel tempo, Il dì dei fiori varcava la timida sposa a cavallo scrivo d’impulso. Stranamente, l’abito, i capelli, il cavallo e il ciliegio erano come davanti ai miei occhi, ma solo il volto della sposa, per quanto mi sono sforzato, non sono riuscito a figurarmelo. Mentre provavo a metterci quel volto, o quest’altro, mi è apparsa all’improvviso l’immagine dell’Ofelia di Millais 15, e il suo viso si è incastonato perfettamente sotto all’alta shimada. «No, 14 Acconciatura femminile estremamente elaborata che si usa per le occasioni importanti, soprattutto per i matrimoni. È una variante della tipica acconciatura delle geisha. 15 Sir John Everett Millais (1829-1896), famoso ritrattista inglese, fondatore della corrente dei preraffaeliti. Il dipinto a cui si riferisce Souseki ha per soggetto la morte di Ofelia, personaggio femminile dell’Amleto, e la ritrae supina, mentre affiora dall’acqua, con le palme rivolte in alto e l’ampia veste vittoriana che le aleggia intorno, agitata dai fluttui. 23 così non va!» mi dico, e distruggo quell’immagine così faticosamente costruita. Ho ripulito all’istante la veste, i capelli, il cavallo e il ciliegio che avevo usato come sfondo mentale, ma la figura di Ofelia, coi palmi supplicanti che spuntavano dall’acqua che la trascinava via, è rimasta, flebile, in fondo al mio animo, così come non si spazza via il fumo con una scopa di saggina. Questo lascia in me un po’ di preoccupazione, come una cometa che agita la coda nel vuoto. «Beh, allora, con permesso...» si accomiata Gen-san. «Passa di qui quando torni. Temo che la strada sia messa male.» «Già, mi spezzerò un po’ le ossa» risponde Gen-san mettendosi in cammino. Anche il cavallo di Gen-san si mette in cammino. Dietro a un jaran jaran. «Quel tipo è di Naoki?» «Sì, si chiama Genbei, e viene da Naoki16.» «È lo stesso tizio che ha accompagnato la sposa sul cavallo, attraverso il passo?» «Quando la signorina Shihoda andò in sposa giù in città, Genbei la aiutò a salire sul cavallo bardato per la cerimonia, e tenne personalmente le redini. Quanto passa veloce il tempo... sono già cinque anni da allora!» Ci sono persone felici di prendersela con il bianco della testa che vedono riflessa allo specchio. Con le dita che iniziano a incurvarsi, colei che che era stata condotta più vicina ai santi dal flusso lucente dello scorrere del tempo era la nonna, piuttosto. Io risposi così: 16 24 Per i Giapponesi, è usanza comune abbreviare i nomi di coloro a cui si è in confidenza con una sola sillaba, seguita dal suffisso di cortesia adeguato; quindi la signora della sala da tè chiamava Genbei con l’appellativo amichevole di Gensan. È molto probabile che non esista nessun rapporto di parentela reale fra questa signora e Genbei; egli la chiama “zia” perché è più vicino all’età della padrona del negozio rispetto al protagonista. «Deve essere stata davvero stupenda. Sarebbe stato bello vederla.» «Hahaha, ma la può vedere ancora adesso. Se si ferma alla stazione termale, sono certa che verrà a presentarsi.» «Eh? È ancora al villaggio? Beh, sarebbe bello poterla vedere quell’abito dipinto dalle maniche ampie, con i capelli legati in un alta shimada...» «Se glielo chiede sarà lieta di mostrarglielo. Lo indosserà per lei.» See, figuriamoci, mi dissi, ma l’espressione della nonna era incredibilmente seria. Beh, se non mi succedesse qualcosa del genere in questo viaggio di inemotività, che gusto ci sarebbe? La nonna continua. «La signora e la fanciulla di Nagara si somigliano molto.» «In volto?» «No. Per la loro storia.» «Eh? E chi sarebbe questa fanciulla di Nagara?» «Tanto tempo fa, in questo villaggio c’era la Fanciulla di Nagara, la bellissima figlia di un ricco possidente.» «Ma va?» «Ecco, questa fanciulla provava un profondo sentimento per due uomini allo stesso tempo.» «Capisco...» «A volte si diceva che avrebbe scelto Sasada, alle volte si sentiva più attratta da Sasabe17, e per quanto si struggesse non riusciva a dedicare il suo cuore a solo uno di essi. Così, alla fine, recitando questa poesia: 17 Nomi tratti dalla ristampa del 1906 del Manyoushuu, la raccolta di poemi più antica del Giappone, nella sezione 8, “Fanciulla del Lungo Ramo posato Al Sole”. Dalla stessa sezione è tratta la successiva poesia “Verrà l’autunno”. 25 Verrà l’autunno sull’erba la rugiada s’è posata, ma dovrà svanire; così mi vedo, e mi struggo18 Si gettò in un profondo rio, e vi morì.» Non avrei mai nemmeno lontanamente immaginato che, venendo in questo villaggio di montagna, una nonna così, con eleganti, antiche parole, mi avrebbe raccontato questa antica storia. «Scendendo meno di un chilometro da qui, sul bordo della strada c’è una colonnina funeraria. Vada a dare un’occhiata alla tomba della fanciulla di Nagara!» In cuor mio avevo già preso la decisione di andare assolutamente a visitarla. «Anche la signora di Nagoi ha avuto la disgrazia di essere amata da due uomini. Uno lo incontrò che stava partendo per studiare a Kyoto, l’altro era il più ricco del borgo a valle.» «Ah, e la signora chi scelse?» «Lei desiderava ardentemente quello che era andato a Kyoto, ma per tutta una serie di motivi i suoi genitori la costrinsero a prendersi l’uomo di qui.» «Menomale che non ha deciso di sistemare la cosa gettandosi in un profondo rio...» «A ogni modo, magari anche solo per la sua bellezza, il suo sposo deve averla trattata con ogni riguardo, ma siccome era stata costretta contro la sua volontà, le cose non andavano mai bene fra di loro, e i parenti erano molto preoccupati. E poi, in 18 26 Si tratta di un Tanka, componimento poetico principe in cinque versi di 5-7-5-7-7 sillabe, che riveste l’importanza che ha il sonetto nella poesia italiana. seguito a questa guerra, la banca dove era impiegato il marito fallì. Da allora, la signora è tornata a Nagoi. La gente dice che la signora sia stata insensibile, crudele, e quant’altro le dicono dietro! Ha sempre avuto un animo estremamente gentile, ma in questo periodo il suo umore è andato peggiorando, e ogni volta che passa, Genbei mi dice che c’è di che preoccuparsi.» Se vado avanti ad ascoltare questa storia, il mio piano andrà in frantumi. Ho come l’impressione di essere sul punto di diventare un saggio eremita di montagna, ed ecco che qualcuno viene a scocciarmi gridando: «ridammi il mio mantello di piume»! Questo tortuoso cammino che ho intrapreso, e che finalmente mi sono prefigurato, e che ho percorso fino a qui, se mi lascio coinvolgere dalle faccende terrene, l’essere uscito di casa senza una meta precisa sarà stato vano. Se presto attenzione ai pettegolezzi oltre a un certo limite, la puzza di mondo fluttuante si insinuerà da tutti i pori, e il mio corpo sarà così pieno di lordume da esserne appesantito. «Nonna, c’è una sola strada per Nagoi, giusto?» chiedo, e gettando una moneta d’argento sulla panca, mi alzo. «Se scende dal punto dove si trova la colonnina funeraria di Nagara e passa per la tomba sono circa settecento metri. La strada è peggiore, ma magari lei che è giovane preferisce la scorciatoia. — Forse questa è per il tè? — Faccia attenzione!» 27 3 Che strana, ieri sera. Quando ero giunto all’ostello erano le otto di sera, e non ho capito com’era la casa, né da che parte stesse il giardino, anzi, avevo proprio perso l’orientamento. Sembrava tutto diverso dall’ultima volta che c’ero stato. Dopo aver desinato, aver fatto un bagno, essere tornato in camera e aver bevuto un tè, viene ’sta donnina che mi dice: «Via, stendiamo il futon1?» Quel che mi ha fatto strano è stato che ad accogliermi all’arrivo, a prepararmi la cena, a guidarmi alla vasca, a stendermi il letto, insomma, a occuparsi un po’ di tutto era sempre e solo questa donnina. E in più, quasi senza aprir bocca. E non aveva per nulla l’aria di una campagnola. Stretta in una fusciacca rossa priva di malizia, portandosi dietro una vecchia lanterna di carta, mentre mi faceva girare per dei posti tipo corridoi e scale, con la fusciacca e la lanterna sempre uguali, nei corridoi e per le scale sempre uguali, che parevano non giungere in nessun luogo, scendendo chissà quante volte, quando finalmente mi aveva portato alla vasca, avevo avuto come la sensazione di trovarmi a passare per un dipinto. 1 Si riferisce alle tipiche stuoie, e relative coperte, che i Giapponesi usano per dormire in terra. Nell’originale, Souseki esprime una certa sorpresa per il tono informale e diretto usato dalla donna, decisamente inusuale nei confronti di un ospite, e ancora di più nei confronti di un cliente. 29 L’inserviente mi aveva detto: «Dato che in questo periodo non abbiamo clienti, le camere non sono in ordine; dovrai accontentarti di una stanza nella parte padronale». Dopo aver preparato il letto, aveva buttato lì un «buon riposo» abbastanza umano e se n’era andata; quando i suoi passi si erano allontanati lungo i corridoi di cui sopra, svanendo progressivamente verso i piani inferiori, il fatto di non percepire la presenza di nessuno mi aveva preoccupato. Da che sono nato, ho vissuto un’esperienza simile solo un’altra volta. Mi capitò di attraversare il Boushuu, passando oltre Tateyama, camminando lungo la spiaggia da Kazusa a Choushi 2. In quell’occasione, una sera presi alloggio in un posto di quelle parti. Mi sa di aver dimenticato sia il nome del posto che della locanda. E comunque, non sono nemmeno certo che fosse davvero una locanda. Era una casa dal tetto alto e grande, gestita solo da due donne. Quando avevo chiesto se potevo prendere alloggio lì, la più anziana mi aveva risposto «sì», e la più giovane mi aveva detto «prego, da questa parte», guidandomi all’interno, e io l’avevo seguita per chissà quante vaste sale, finché, arrivati a quella più interna, mi aveva guidato al secondo piano. Salendo una terza rampa di scale, appena entrato in una stanza subito sotto il tetto, un fascio di bambù, appoggiato sbilenco dalle assi del soffitto smosso dal vento notturno, mi aveva sfiorato la testa da dietro le spalle, allarmandomi. Le travi stavano marcendo. Commentai «mi sa che l’anno prossimo, questi supporti di bambù finiranno per bucare persino il pavimento», e la giovane donna, senza replicare, se ne uscì ridacchiando. Quella notte, i detti bambù fecero filtrare l’umidità fin nel mio letto, e non potei dormire. Aprendo i pannelli, lasciando correre lo sguardo oltre il giardino, c’era un campo erboso rischiarato dalla luna che, senza steccati né muri, scendeva formando una collinetta. Oltre la collinetta erbosa si apriva immediatamente 2 30 Regione costiera sull’Oceano Pacifico a est di Tokyo; oggi, si trova subito a sudest dell’aeroporto internazionale di Narita. l’oceano, che, “dododon, dododon”, con grandi onde veniva a disturbare il mondo degli uomini. Non riuscendo a prender sonno finché albeggiò, attendendo paziente sotto a una zanzariera dall’aria sospetta, mi parve come di essere finito in un racconto dell’orrore. Da allora ho viaggiato molto, ma una sensazione del genere, prima di venire qui all’ostello di Nagoi, non l’avevo mai più provata. Mentre dormo supino, casualmente apro gli occhi e vedo che nella stanzetta è appeso un disegno in una cornice vermiglia. Pur nel sonno, posso leggere chiaramente i caratteri: L’ombra dei bambù spazza i gradini senza smuovere la polvere3 Si vede anche il sigillo di un certo Daitetsu 4. Io non sono un tipo che si lascia influenzare dalle mode, ma amo la calligrafia di Oshou Kousen della scuola Oubaku 5. Trovo interessanti anche quelle di Ingen, di Sokuhi e di Mokuan, ma i caratteri di Kousen sono i più marcati, e sono dotati di una naturale eleganza. Ora, guardando questo eptasillabo, giudicando come la mano è guidata dal pennello, non posso non pensare che si tratti di Kousen. Però, la firma è di questo Daisetsu, dev’essere qualcun altro. Magari, nella scuola Oubaku c’era pure un monaco chiamato Daisetsu. Però, dal colore, la carta sembrerebbe eccessivamente nuova. Devo pensare che sia un lavoro recente. 3 Nell’originale sono versi in Cinese, tradotti dall’autore in Giapponese. 4 I pittori e i poeti orientali usavano firmare le loro opere con un timbro, generalmente in un inchiostro rosso chiaro, o a volte impresso nella cera lacca. 5 È una delle tre maggiori sette del buddismo Zen del Giappone, introdotta dalla Cina dai monaci che Souseki cita di seguito attorno al 1661. Per la cronaca, si tratta di Shouton Kousen (1633-1695), Ryouki Ingen (1594-1673), Niyoichi Sokuhi (1616-1671) e Shoutou Mokuan (1611-1684). 31 Mi giro su un fianco. Gli occhi si fermano sul dipinto di una gru di Jakuchuu6 appeso in una nicchia. Essendo del mestiere, appena entrato nella stanza mi ero reso subito conto che si trattava di un lavoro pregevole. Di dipinti di Jakuchuu, generalmente in colori tenui, ve ne sono tanti, ma questa gru è tracciata con un unica pennellata imperturbabile al giudizio altrui; sull’unica zampa, poggia un corpo ovale, come senza peso, ricco di personalità, colmo di grazia leggiadra fino alla punta del lungo becco. Accanto alla nicchia c’è un armadietto, del tutto ordinario. Non so cosa ci sia dentro. Scivolo in un sonno profondo. In un sogno. La Fanciulla di Nagara, indossando un kimono dalle maniche ampie, cavalcando un puledro, supera il passo; all’improvviso, l’uomo chiamato Sasada e l’uomo chiamato Sasabe saltano fuori, e la tirano ognuno dalla sua parte. La donna diventa improvvisamente Ofelia, e salendo su d’un ramo di salice piangente, mentre viene trascinata via dalla corrente del fiume, con voce bellissima, canta una canzone. Mi dico che la voglio salvare e tendendo un palo, corro dietro ai flutti. La donna, per nulla addolorata, mentre ride, mentre canta, senza conoscere la propria meta, viene trascinata in basso. Io, col palo in spalla, la chiamo: «Ehi, ehi!» E lì mi svegliai. Ero sudato sotto le ascelle. Stranamente, mi dissi «ma che sogno elegante e volgare assieme». In passato, un certo Daie7, maestro Zen della scuola Sou, disse che dopo aver raggiunto l’illuminazione non v’era più cosa che non procedesse secondo la sua volontà, ma pare che si fosse lamentato a lungo del fatto che solo i sogni lo disturbassero ancora con immagini 6 Illustratore vissuto tra il 1716 e il 1800. I suoi soggetti preferiti furono le scene di caccia e gli animali; mescolando elementi tipici del disegno cinese a uno stile personale, innovò l’illustrazione della fine del periodo Edo. 7 Daie Chikotsu (1089-1163); maestro Zen proveniente dal sud della Cina. È famoso per aver scritto un libro in sei rotoli chiamato “Shoubou Genzou” (Leggi morali da tenere a mente). 32 terrene; eh, già, è proprio così. Chi fa dell’arte la propria vita, rimane disturbato se non sogna qualcosa di almeno un po’ bello. Pensando che di questa roba non posso farne né disegno né poesia, sto per ributtarmi a dormire, ma all’improvviso la luna che colpisce i pannelli proietta di sbieco l’ombra di un paio di rami. È una limpidissima notte di primavera. Magari è un’impressione, ma mi sembra che qualcuno, a bassa voce, stia intonando un canto. Chiedendomi se sia la canzone del sogno che si è infiltrata in questo mondo, oppure se non sia piuttosto una canzone di questo mondo, catturata nel dormiveglia, a raggiungere il lontano regno dei sogni, presto bene orecchio. Sì, c’è proprio qualcuno che canta. È una voce sottile, estremamente bassa, ma senza dubbio c’è qualcuno che ha deciso di non dormire in questa notte di primavera, canta senza sosta, come un effimero raggio argenteo. Quel che è strano è che, beh, quando sento le parole che accompagnano la melodia – che non mi stanno cantando all’orecchio, e che quindi non posso comprendere – è una cosa che non dovrei poter udire, e invece la odo. Verrà l’autunno... sull’erba la rugiada s’è posata, ma dovrà svanire; così mi vedo, e mi struggo; mi sembra la canzone della Fanciulla di Nagara, ripetuta ancora e ancora. All’inizio mi sembrava vicina alle travi del tetto, ma poco a poco si assottiglia e si fa lontana. Le cose che terminano all’improvviso causano una sensazione brusca, ma il dispiacere è lieve. Colui che ascolta chi canta intensamente, capisco, prova a sua volta emozioni intense. Assieme a questo, per così dire, ininterrotto, naturale affievolirsi, sapendo che è destinato a svanire all’improvviso, anche io mi contraggo, mi sfaldo, e l’incertezza del mio cuore incerto si fa incerta. È come un malato che sta quasi, quasi per morire, o una fiamma che sta quasi, quasi per spegnersi – ora smette? ora smette? – mi assillo il cuore dentro a questa canzone, che desidera attrarre a se ogni dispiacere che c’è nel mondo di questa notte di primavera. Finora ho resistito sdraiato sul pavimento ma, attratto dall’allontanarsi della voce, via via più conscio che essa mi sta 33 seducendo, inizio a desiderare d’inseguirla. Quando si fa sottile che più sottile non si può, e sono ormai tutt’orecchi, sento bruciante il desiderio di volarle dietro. In preda alla frenesia, pensando che devo accontentare i miei timpani, prima di un attimo, in un solo movimento sguscio fuori dal futon e, fuori di me, spalanco i pannelli. All’improvviso, la luce della luna mi bagna sotto le ginocchia. L’ombra degli alberi cade ondeggiando anche sul mio giaciglio. Non ci avevo fatto caso quando avevo aperto i pannelli. Quella voce... lasciando correre l’orecchio, e provando a indovinare da dove venisse – stava proprio di fronte. Fosse stato un fiore, sarebbe potuto sembrare il fusto di un’aroina, di schiena, che sosteneva distaccatamente la luce della luna, un’eterea silhouette. Mi viene persino da chiedermi se possa davvero essere così, che prima che la mente riesca a realizzarlo appieno, la cosa nera, calpestando l’ombra dei fiori, fugge sulla destra. L’angolo del muro della stanza in cui mi trovo, muovendosi agilmente, occulta presto l’alta figura di donna. Con la leggera veste datami per la notte, rimasi fisso per un po’, ma alla fine tornai in me, e mi resi conto che la sera di primavera del villaggio di montagna era fredda. Mi venne da pensare che era meglio rinfilarmi nel buco di futon dal quale ero sgusciato. Doveva certo essere un qualche genere di spettro 8. E se non fosse stato uno spettro, allora una persona, e in quel caso, una donna. O forse, poteva essere la Signora di qui. Certo che, se fosse stata la Signora, farsi un giro in piena notte nel giardino aperto sulla montagna sarebbe quanto meno inappropriato. A ogni modo, non riesco a dormire bene. Sento persino lo scricchiolante parlare dell’orologio che ho messo sotto il cuscino. Fino a oggi, non avevo mai fatto caso al rumore dell’orologio da tasca, ma giusto stanotte è come se mi obbligasse, «dai, pensa, 8 34 Souseki usa il termine 妖 – ayakashi – che è un nome generico per tutte le creature sovrannaturali di “livello” inferiore ai kami: include i concetti di spettro, mostro, folletto, ninfa, demone (oni), ecc. pensa!», è come se mi avvisasse, «non dormire, non dormire»! Che affronto! Guardando alle cose spaventose semplicemente nella loro forma spaventosa, se ne fa poesia. E anche le cose impressionanti, separandoci da noi stessi, se le si pensa semplicemente come cose impressionanti, se ne fa disegno. Il fatto che l’amore perduto sia un tema classico dell’arte sta proprio in questo. Dimenticando il dolore dell’amore perduto, quel che v’è di dolce, quel che v’è di compassionevole, quel che v’è di struggente, o andando un poco oltre, proprio quel dolore che sgorga dal perdere un amore, considerandoli semplicemente da un punto di vista oggettivo, dato che sono facilmente evocabili, sono una buona materia prima per la letteratura. Nel produrre amori perduti che non hanno riscontro nel mondo reale, nel disperarsi fortemente per essi, v’è letizia consolatoria. Una persona comune direbbe che è follia, che è finzione. Solo che il piacere di delineare i contorni della nostra sfortuna, mentre portiamo avanti le nostre vite quotidiane, o piuttosto incidere la propria non-esistenza nell’acqua di montagna, raccolta nel vaso che chiamiamo “universo”, dal punto di vista di chi riesce a raggiungere una condizione artistica, dobbiamo dirli uguali. Riguardo a questo punto, i chissà quanti artisti che ci sono al mondo (e non saprei dire neanche quante persone comuni), in quanto artisti, delle persone comuni sono più folli, più falsi. Nel nostro pellegrinaggio quotidiano, da mattina a sera, ci lamentiamo del fatto che soffriamo, soffriamo ma, quando predichiamo agli altri di vivere allegramente, questa sofferenza non la diamo minimamente a vedere. È stato divertente, è stato piacevole – mentiamo, e persino i dispiaceri del passato, in particolare, li trattiamo come farfalle. Questo, non per ingannare noi stessi o mentire al prossimo. È solo che, mentre siamo in viaggio, abbiamo sentimenti da persone comuni, ma quando li rivisitiamo assumiamo un atteggiamento da poeta, e così sorgono queste contraddizioni. Quelli che lo fanno apposta, smussando da 35 questo mondo quadrato l’angolo chiamato “senso comune”, e abitano nei tre angoli rimasti, possiamo anche chiamarli artisti. Per questa ragione, che si tratti di cose naturali o di faccende d’uomini, superando la difficoltà nell’avvicinarsi a tanta volgarità, l’artista conosce innumerevoli gioielli, insuperabili tesori. In gergo, questo è detto “abbellire”. In realtà non è affatto un “abbellire”. Lo splendore variegato, in se’, ha sempre fatto parte dei fenomeni naturali. È solo che... per il fatto che l’abbaglio del riverbero ci vela gli occhi, per il fatto che è difficile separarsi dalla mondanità che ci tiene legati, per il fatto che ci struggiamo continuamente, pressati dalla gloria e dalla vergogna, non capiamo la bellezza di un treno finché non lo vediamo dipinto da Turner9, e non conosciamo la bellezza di un fantasma finché non è disegnato da Oukyou10. Anche la silhouette che ho appena visto, chiunque la vedesse, chiunque ne sentisse parlare, la troverebbe vestita di estrema poesia. Un onsen d’un villaggio solitario... l’ombra dei fiori nella sera primaverile... il flebile canto sotto la luna... le forme soffuse della notte... Sono tutti temi graditi agli artisti. Ma questi temi graditi agli artisti, sbattuti in faccia così, nudi e crudi, con me a fare da spettatore involontario, sono uno sgradevole pungolo. M’ero finalmente trovato una vena di ragionevolezza nell’estèsi, ed ecco che la desiderata eleganza è stata calpestata dal cattivo gusto. Se le cose stanno così, è inutile sostenere l’inemotività. Se non mi applico un po’ di più, non avrò i requisiti per dire in giro che sono un pittore, o un poeta. Ho sentito dire che il pittore italiano Salvator Rosa11, volendo ardentemente compiere ricerche 9 Si riferisce a “Rain, Steam and Speed”, 1844, di Joseph Mallord William Turner (1775-1851). Pare che Souseki fosse rimasto particolarmente colpito da i suoi dipinti durante la sua permanenza nel Regno Unito. 10 Oukyou Maruyama (1733-1795). Disegnatore del periodo Edo famoso per aver introdotto uno stile pittorico occidentale. Il “Fantasma” (yuurei) è conservato presso il Museo del Tesoro Nazionale di Kyoto, ma l’attribuzione a Oukyou non è certa. 11 Salvator Rosa (1615-1673). 36 sulla figura del ladro, si unì a un gruppo di briganti. Pure io, che ho deciso all’improvviso di andarmene da casa infilando nella sacca il blocco da disegno, se non fossi preparato a qualcosa del genere, sarebbe imbarazzante. Quando, in momenti come questo, ti chiedi se riuscirai a tornare su un terreno fermo per un poeta, i tuoi sentimenti, così come sono, basta posarli di fronte a te, allontanarsi di un passo e dar loro forma, lasciando spazio abbastanza da esaminarli come fossimo estranei. I poeti hanno il compito di dissezionare il proprio cadavere per pubblicarne i risultati al mondo. Esistono diversi espedienti a questo scopo, ma, fa quelli più pratici, cercare di sistemare qualsiasi cosa succeda appena possibile in diciassette sillabe12 è il migliore. Poiché i diciassette-sillabe sono la forma di poesia più pratica, vengono facili pure quando ci si lava la faccia, o quando si va in bagno, o quando si viaggia in treno. Dire che i diciassette-sillabe vengono facili è un po’ come dire che diventare poeta è semplice, ma siccome diventare poeta è una specie di illuminazione, non c’è bisogno di scandalizzarsi se dico che sono pratici. Per quanto possano essere pratici, essendo atti creativi, penso che meritino profondo rispetto. Beh, quando mi girano le scatole, ci studio un po’ su. Di quel che me le ha fatte girare, ne faccio subito un diciassette-sillabe. Facendone un diciassettesillabe, il mio giramento diventa come fosse di un altro. Farsele girare, fare un haiku, in genere non funziona all’istante. Verso un po’ di lacrime. Di queste lacrime ne faccio un diciassette-sillabe. Come lo faccio, divento felice. E quando sistemo le lacrime in un diciassette-sillabe, le lacrime di dolore si separano da me, e divento soltanto quel me stesso che prova gioia per essere un uomo ancora capace di piangere. Dato che faccio così di norma, questo è il mio proposito. Dicendomi che, anche stanotte, proverò a realizzare questo mio unico proposito, nel mio giaciglio, detto incidente lo rendo in 12 Si riferisce sia alla forma degli haiku, strutturati in tre versi da 5, 7 e 5 sillabe, che al loro “soprannome”. 37 versi. Se ci riuscissi, senza scrivere mi distrarrei, e siccome si tratta di un allenamento scrupoloso, poso detto blocco da disegno aperto accanto al cuscino. “Nebbia d’aronie / agita e mulina / la folle ombra” attacco a scrivere di botto, e rileggendolo non mi sembra un gran ché, però non è nemmeno malaccio. E poi faccio “ombra di fiori / forse ombra di donna / chissà se sogno?”, ma ci sono troppe ripetizioni 13. Beh, ma chi se ne frega, tanto voglio solo calmarmi e distrarmi. E quindi, “Di nobildonna / assume le sembianze / la vaga luna”, ma che cavolo, sembrava un Kyouku14, e mi pare strano che sia uscito da me. Mi dico che sembra proprio che stia funzionando e la cosa mi piace, quindi attacco a scrivere i versi così come escono. Stelle di vere scese a mezzanotte come un manto. Capelli intrisi e lavati di nebbia e primavera. Primavera e stanotte, un canto che assume forma. Che sia la notte che l’anima d’aronia se n’esce fuori? 13 Nell’originale, l’autore si lamenta del fatto che usa troppe “parole stagionali”. Negli haiku, la regola è quella di avere esattamente una parola riferita alle stagioni. 14 Haiku a sfondo comico o satirico. 38 A tratti odo canti sotto la luna di primavera. Incède lenta l’ombra di primavera oh, quant’è sola! e avanti così a poetare, pian piano, a un certo punto mi viene sonno. Direi che ero in estasi, ma mi chiedo se sia il termine appropriato da usare in questi casi. Quando si è profondamente addormentati, nessuno può avere coscienza di sé. Durante la veglia, è per chiunque impossibile dimenticarsi del mondo esterno. Fra ambo i reami giace un bordo immaginario simile a un filo. Troppo simile a foschia per essere veglia, v’è ancora troppo dello spirito cosciente per essere giudicato sonno. Si dice che sia quello stato in cui le cose di tutti i giorni e quelle dell’altro mondo, come poggiate sul fondo di una bottiglia, stringendo il pennello del poeta, quasi per scherzo, le si rimescolano. Il sogno ora vivido offusca i colori della natura, e anche l’universo così com’è, e ci spinge verso il regno delle nebbie. Prendendo in prestito la malìa del Demone del Sonno, mentre si levigano gli spigoli della realtà nuda e cruda, nel creato ora un po’ più scevro d’angoli, di nostro, si lascia andare la vena giust’appena ottusa. È come fumo che aleggia, e prende il volo pur senza volerlo; questo è l’aspetto dell’anima che lascia il suo involucro. Pur volendo fuggire, esitante, e pur esitante, in fuga, alla fine l’individualità detta anima, che fatica a distinguersi dall’indefinito, per non disciogliere la propria entità nell’invisibile indistinto, si avviluppa al corpo fisico, rivestendolo, adorandolo. Mentre passeggiavo attorno al bordo del sonno, la parete scorrevole si aprì sibilando. Un’ombra di donna apparve come il soffio d’un miraggio. Non mi stupisco. Non mi spavento. La 39 ammiro, semplicemente sereno. Ma la parola “ammiro” è un filo troppo forte. Il miraggio di donna filtra dietro le palpebre chiuse, e giunge senza che io la possa rifiutare. L’apparizione entra quatta quatta nella stanza. Come stesse attraversando la polla delle ninfe, il miraggio non fa rumore mentre passa sul pavimento. Vedo il mondo attraverso le palpebre chiuse, quindi non ne ho la certezza, ma è una donna dall’incarnato chiaro, capelli folti e collo slanciato. Pare una di quelle foto sfumate che vanno di moda adesso. Il miraggio si ferma davanti all’armadio. Apre l’armadio. Il braccio pallido si insinua nell’oscurità. Richiude l’armadio. L’ombra del miraggio riattraversa placida la polla del pavimento. Il pannello dell’ingresso si richiude. Il mio sonno si fa via via più denso. Quando si muore, e non si è ancora rinati come mucca o cavallo, forse si sta così. Non so quanto sono rimasto sospeso fra uomo e cavallo. Quando m’è giunta all’orecchio la risata squillante d’una donna, mi sono svegliato. Provando a guardare, il velo della notte è squarciato via, e da un’orizzonte all’altro, nel creato v’è luce ovunque. Vedendo il radioso giorno primaverile che proietta l’ombra scura della griglia di bambù dalla finestra rotonda, mi sa che al mondo non rimane più nessun posto dove le cose strane possano nascondersi. I misteri devono essere tornati verso la diecimila miliardesima terra, attraversando il fiume Sanzu 15. Con ancora addosso la veste leggera per la notte, scendo ai bagni e mi immergo, lasciando galleggiare la faccia senza pensare a nulla per cinque minuti. Non mi va né di lavarmi né di uscire. Ma perché la prima notte mi sono sentito così? È strano quanto il mondo possa cambiare tanto fra il giorno e la notte. 15 40 Secondo la religione buddista, al di là del fiume Sanzu, oltre diecimila miliardi di terre, giace il Nirvana della pace eterna. Siccome mi secca pure d’asciugarmi, vedo di farmi forza e mi alzo; ancora bagnato, apro la porta della sala dall’interno, ed ecco una nuova sorpresa. «’Giorno. Ti hanno fatto dormire bene?» Queste parole mi giunsero praticamente nello stesso instante in cui aprii la porta. La donna mi aveva salutato mentre non avevo nemmeno idea che potesse esserci qualcuno, quindi non avevo nessuna risposta pronta, e senza aspettarla, «Dai, vestiti.» disse girandomi intorno e appoggiandomi un morbido kimono sulla schiena. Finalmente mi uscì un «grazie per questo...» mentre mi voltavo verso la donna, e nello stesso istante lei indietreggiò di due o tre passi. Da sempre, gli scrittori si misurano sulla loro capacità di tratteggiare i protagonisti. Se mettessimo assieme tutte le descrizioni di bellezze femminili scritte in tutti i luoghi e tempi, potrebbe venirne fuori un compendio più pesante dei Canoni Buddisti. Se dovessi ridurre questa mole agli aggettivi adatti a descrivere questa donna a tre passi da me, appena girata, che guarda di sottecchi lo stupore e costernazione che mi ha provocato, chissà quanti ne rimarrebbero. Comunque, nei trent’anni che ho raggiunto, da quando sono nato, non ho mai conosciuto una simile espressione. Secondo il giudizio degli esteti, l’ideale a cui tendevano le sculture dell’antica Grecia è riassumibile nelle parole “solenne compostezza”. Penso che “solenne compostezza” indichi quella forza vitale negli uomini che ancora non è movimento, ma può diventarlo. Quel che diverrebbe se mai si mettesse in moto, calmi cieli o tuoni e lampi, è lì, nel riverbero sottile che lo sguardo non può cogliere appieno, il denso incanto che ci giunge dopo tante ere. Ogni maestosità e possenza sulla faccia della terra giace nascosta in questa permeante potenzialità. Se si muovessero, si manifesterebbero. Se si manifestassero, sicuramente vi sarebbe 41 quella che arriverebbe prima, seconda, terza... Che siano prima, seconda o terza non v’è certo differenza nella loro potenzialità, ma nel tempo stesso in cui esse si fanno prima, seconda e terza, ogni minima imperfezione è esposta senza più alcun riserbo, e non è più possibile tornare alla loro completa essenza originale. È per questa ragione che ciò che chiamiamo movimento è sempre volgare. L’unico difetto dei due Re Deva di Unkei 16 o dei Manga di Hokusai17 sta proprio nella parola “moto”. Moto o quiete. Questo è il grande dilemma che domina le vite di noi pittori. E anche la forma e la sostanza della bellezza in ogni epoca, generalmente, in ultima analisi è possibile assegnarla a una di queste due grandi categorie. Il punto è che, l’espressione di questa donna, sono in difficoltà nel giudicare se stia nell’una o nell’altra. La bocca, a fissarla con un carattere, “quiete”. Gli occhi dischiusi a metà si muovono senza posa. Il volto rotondo, ovale, florido tanto da acquietare nell’attrarre lo sguardo, ma la fronte stretta, priva di stile, con l’attaccatura dei capelli a triangolo 18, dall’aria un po’ popolare. E inoltre, le sopracciglia premendo da ambo i lati, come se fra di esse fossero cadute chissà quante gocce di menta, si stringono vibrando. Il naso, non frivolamente affilato, ma nemmeno 16 Scultore vissuto a cavallo del 1200; la data di nascita è sconosciuta. Morì nel 1224. Le sue sculture sono caratterizzate da una notevole vivacità, e ricordano da vicino le sculture occidentali per la completezza dei dettagli. Sono però molto più... dinamiche. L’autore qui si riferisce all’opera più famosa di Unkei, Niou “I due Re”, i Deva Guardiani che, secondo la religione buddista, sono a guardia del cancello del nirvana. 17 Hokusai Katsushika (1760-1849). Maestro nelle stampe, Hokusai si allontanò dal movimento dell’Ukiyo-e (disegni del mondo fluttuante) assumendo uno stile sempre più personale e via via più carico d’ironia, e scevro della tristezza decadente che caratterizzava le opere artistiche dei suoi contemporanei. Il suo stile, rapido e immediato, prese il nome di Manga (“disegno compulsivo”), anche se il termine fu coniato da altri autori suoi contemporanei, per descrivere sequenze di disegni (per la prima volta nel 1798). 18 L’autore usa l’espressione “fronte alla Fuji”, che indica una fronte dove l’attaccatura dei capelli scende centrale, formando una punta che sembra la sagoma del monte Fuji rovesciata. 42 scioccamente tondo. Dovrebbe venirne fuori un bel disegno. Nel complesso, ogni elemento, ognuno con una sua diversa peculiarità, giunge alla rinfusa ai miei occhi, e non è poi strano che sia in difficoltà. Una landa che doveva essere in origine serena, di cui un angolo, sconvolto da un disastro, ne ha provocato un movimento involontario, e che resasi conto del movimento compiuto, lavora per tornare alla sua forma originale, ma avendo perso il punto d’equilibrio continua a cercarlo, muovendosi meccanicamente contro la propria volontà, ancora oggi, che pur se muoversi è inutile, star così è peggio – ecco, se esistesse questa situazione, sarebbe perfetta per descrivere l’aspetto e l’animo di questa donna. Eppure, dietro al lieve disdegno, si intravede in qualche modo la volontà di tornare a credere nel prossimo. Alla base di quell’aria canzonatoria si cela una personalità profondamente sensibile. Sotto a quella forza che, lasciando fare ai sensi, potrebbe fare strage di centinaia di ragazzi senza colpo ferire, ribolle inconscio un placido sentimento. La sua è un’espressione senza posa. È un corpo nel quale consapevolezza e dubbio litigano, pur convivendo sotto lo stesso tetto. La mancanza di unità di sentimento sul volto di questa donna è la prova che non v’è unità nemmeno nel suo cuore, e se non v’è unità nel suo cuore, dev’essere perché il mondo di questa donna è senza unità. È un volto che, pur oppresso dalla sfortuna, intende vincerla. È senza dubbio una donna sfortunata. Mentre ripetevo «grazie» feci un breve inchino. «Hohohoho, ti abbiamo sistemato la stanza. Vai a vedere. Mi farò viva...» non finì nemmeno di dire che, ancheggiando appena, già correva noncurante giù per il corridoio. Porta i capelli 43 acconciati a ginkgo19. Si intravede il collo candido sotto la coda. Il fiocco del kimono pare come rivestito di satin nero. 19 44 L’autore usa il termine ichou-gaeshi, una tipica acconciatura giapponese che prende il nome dalle foglie della pianta del ginkgo (in Giapponese ichou), e che permette di formare con i capelli un morbido e ampio chignon o una specie di fiocco (con i capelli stessi a fare da nastro). 4 Torno mogio mogio nella mia stanza; eh già, l’hanno proprio sistemata a puntino. Sono un po’ curioso, così, giusto per precauzione, provo ad aprire l’armadietto. In basso si vede una piccola cassettiera. Dall’alto pende per metà una fascia ricamata alla Yuuzen1, e quindi intuisco che qualcuno deve aver tirato fuori in fretta e furia qualche sorta di vestiario. La parte superiore della fascia si infila fra le vesti, e mi nasconde l’altra estremità. In un angolo, sono stipati un po’ di libri. Più in alto sono allineati l’Orategama del Venerabile Hakuin2 e un volume dell’Ise Monogatari3. Quel che avevo intravisto la notte prima, forse, era realtà, pensai. Mi siedo svogliatamente sulla stuoia del futon, e sul tavolino cinese c’è il solito blocco da disegno, ma è significativamente aperto, con su la matita posata di sbieco. Chiedendomi, i versi scritti di getto nel dormiveglia, al mattino, chissà che aspetto hanno, prendo il blocco in mano. Sotto a “Nebbia d’aronie / agita e mulina / la folle ombra”, qualcuno ha scritto “Nebbia d’aroine / agita e mulina / un corvo all’alba”. È 1 Tipica decorazione fantasia Giapponese, molto sgargiante e variegata, in voga alla fine del periodo Edo. 2 Ekaku Hakuin, alto prelato Zen vissuto dal 1685 al 1768, nel bel mezzo dell’epoca di Edo. Viaggiò in diversi paesi predicando registrando gli avvenimenti storici. Orategama significa La distruzione dell’amor proprio ed è la raccolta, in tre volumi, del pensiero del monaco, stampato nel 1751. 3 È un poema in metrica dell’epoca Heian, risalente al IX secolo. Persino nell’antichissimo Genji Monogatari, quest’opera è citata come antica. 45 scritto a matita, e dal corpo dei caratteri non si capisce bene, ma sono troppo squadrati per essere femminili e troppo morbidi per essere maschili. «Ma che...» mi sorprendo ancora. Guardando il prossimo, sotto a “Ombra di fiori / forse ombra di donna / chissà se sogno?” c’è scritto “L’ombra dei fiori / con l’ombra d’una donna / si fonde assieme”. Sotto a “Di nobildonna / assume le sembianze / la vaga luna” c’è “Di principessa / assume le sembianze / la vaga luna”. Voleva imitarmi? O forse intendeva correggermi? O aggiungere un tocco d’eleganza? O burlarsi... burlarsi di me!?! Involontariamente, piego la testa da un lato. Mi ha detto «Mi farò viva...», vorrà dire che si farà vedere verso l’ora di pranzo. E quando si farà vedere, cercherò di capirci qualcosa. Mi chiedo che ore sono, e guardando l’orologio vedo che sono già passate le undici. Ho fatto una bella dormita. È meglio che aspetti il pranzo per non rovinarmi l’appetito. Aprendo il pannello sulla destra, mi chiedo da che parte siano accadute le cose della notte scorsa e osservo. Per quanto riguarda il mio giudizio sulle aronie, beh, le aronie ci sono, ma il giardino è più piccolo di quanto pensassi. Cinque o sei lastre di pietra affondano in un morbido muschio, che dev’essere gustosamente piacevole calpestare a piedi nudi. Sulla sinistra, sul pendio che prosegue verso la montagna, i pini rossi si ergono di sbieco dalla roccia, puntando in alto, sopra al giardino. Dietro le aronie c’è un piccolo cespuglièto, al cui interno un boschetto di grandi bambù che, sotto al sole di primavera, mostra il proprio rigoglioso verdeggiare. A destra il tetto ostruisce la vista, ma a giudicare dalla topografia, è certo che scenda digradando dolcemente verso le vasche termali. Esaurita la montagna, essa si fa collina, e esaurita la collina, a circa trecento metri essa si fa pianura, e quando la pianura si esaurisce, sprofonda nel mare, e proseguendo oltre, per dieci chilometri, riemerge maestosa a formare il perimetro di quattro chilometri dell’isola di Maya. Questa è la topografia di Nagoi. La stazione termale si abbarbica il più possibile alle pendici della collina, ed essendo una singola costruzione che racchiude per metà il giardino delimitato dalla 46 montagna, la parte anteriore ha due piani, ma dietro diventa un edificio a un piano. Lasciando pendere le gambe, attaccandosi alle travi del tetto, i talloni toccherebbero il muschio. Appunto, tutto quel saliscendi assurdo per le scalinate di ieri sera avrebbe dovuto farmi capire che era una casa fatta in modo particolare. Ora apro la finestra sul lato sinistro. In un avvallamento naturale su di una pietra larga appena tre metri, l’acqua di primavera, ivi raccolta chissà quando, inumidisce placidamente l’ombra dei ciliegi di montagna. Due o tre fusti di bambù adornano un angolo della pietra, e oltre, c’è una siepe che pare d’edera cinese, e al di fuori, di tanto in tanto s’ode qualche voce per il sentiero che risale dalla spiaggia alla collina. Oltre il cammino, lungo la china che digrada dolcemente verso sud crescono dei mandarini, e all’estremità della vallata, di nuovo, c’è un boschetto di bambù che brilla biancheggiando. Era la prima volta che mi rendevo conto che le foglie di bambù, da lontano, brillassero biancheggiando. Sopra al boschetto, sulla montagna ricca pini, fra i rossi tronchi pare di vedere cinque o sei scalini di una gradinata in pietra. Probabilmente ci dev’essere un tempio. Aprendo il pannello dell’ingresso e lasciandosi alle spalle il tetto, un corrimano gira tutt’attorno, e oltre il giardino, da una posizione dalla quale si dovrebbe vedere il mare, si erge il secondo piano della sala principale. Mi incuriosisce il fatto che anche la stanza dove risiedo, a giudicare dal corrimano, debba essere alla stessa altezza del secondo piano di quell’edificio. Le vasche sono sotto terra, il luogo dove risiedo è quindi al di sopra di esse di circa tre piani. La casa è già piuttosto grande, ma le camere di fronte, e quelle che seguono il profilo del corrimano sulla destra, senza cucine né salotti, parrebbero tutte camere per i clienti, dato che sono tutte appiccicate. Di clienti, all’infuori di me non dev’essercene nessuno. La camere chiuse hanno le scuri sprangate pure in pieno giorno, a parte alcune che parrebbero restare aperte anche di notte. Comunque, non si capisce se le porte siano chiuse a chiave 47 o meno. In questo viaggio inemotivo, è un solido luogo che pare sfidarmi. L’orologio è ormai vicino alle dodici, ma qui non tira aria di pappa. La mia pancia vuota si è fatta sentire, tanto che a un certo punto ho pensato di essere come in quella poesia, l’uomo che non si vede sulla montagna spoglia4; il che, a voler essere frugali, non sarebbe male. Non mi va di disegnare, e la sola idea di mettermi a scrivere qualche haiku, con la concentrazione che ci vuole, mi annoia. E se leggessi? Ma non mi va nemmeno di slegare quei due o tre libri che mi son portato dietro, attaccati al cavalletto. In questo giorno più che tiepido di primavera, bollire la schiena sul pavimento del porticato, sonnecchiando assieme alle ombre dei fiori, è la somma gioia del creato. Pensare sarebbe un’eresia. Muoversi, un rischio. Potendo, eviterei anche di far passare l’aria dal naso. Una pianta radicata nel pavimento, così mi piacerebbe provare a passare un paio di settimane. Presto, s’odono passi giù per il corridoio salire i gradini dal basso. Sentendoli avvicinare, si direbbero essere in due. Quando mi pare si fermino davanti alla stanza, uno, senza parlare, se ne torna da dov’è venuto. S’apre il pannello e penso che sia la persona di stamane, e invece è proprio quell’inserviente di ieri sera. Speravo in qualcosa di meglio. «Scusi l’attesa» dice posando il vassoio. E senza nemmeno una scusa per la colazione. Su un letto di verdure c’è del pesce fritto, e sollevando il coperchio della tazza, sotto foglie di felce, una zuppa in cui sono immersi scampi di color rosa pallido. Pensando “ma che bel colore!”, osservo l’interno della tazza. «Non ti piace?», chiede l’inserviente. «Sì sì, me lo pappo subito.» dissi, ma papparmelo lì per lì mi pareva un peccato. Ho letto da qualche parte che Turner, mentre 4 48 Si riferisce a una poesia del già citato Wang Wei, “Il recinto dei cervi”, che inizia pressappoco con questi versi. La poesia è riportata nelle note di traduzione. era seduto durante una cena, osservando le verdure che aveva nel piatto, avesse detto a un tizio che aveva accanto, «Che colore fresco! Questo è il colore che uso io!», ma mi piacerebbe far vedere a Turner il colore di questi scampi fra le felci. Che fra i cibi occidentali, di cose con un bel colore non ce n’è manco una. E se ce n’è, son giusto l’insalata e la carota. Per i valori nutritivi non saprei, ma dal punto di vista di un pittore, è una cucina terribilmente sottosviluppata. Ad andar lì, il menù giapponese, tipo le zuppe, o gli stuzzichini, o il pesce a fettine, deve sembrare proprio bello. Avere davanti un vassoio di portata, pur senza affondarci nemmeno una bacchetta, è un tale nutrimento per gli occhi, che merita da solo un salto a una sala da tè. «In casa c’è un’altra donna, giusto?» buttai lì la domanda mentre sollevavo la tazza. «Già.» «E chi è?» «La padrona di qui.» «Non c’è una signora un po’ più grandicella?» «È venuta a mancare l’anno scorso.» «E lei non aveva un marito?» «Si che c’è l’aveva. La signora è sua figlia.» «Quella donna giovane?» «Già.» «Ci sono altri clienti?» «Non ce ne sono.» «Sono il solo?» «Già.» «E che fa la giovane padrona, tutto il giorno?» «Ricama...» «E poi?» 49 «Suona lo shami5.» Ah, non me l’aspettavo. È interessante, e continuo: «E dopo?» provai a chiedere. «Va al tempio.» dice l’inserviente. Questo me l’aspettavo ancor meno. Il tempio e lo shamisen, che strano. «Va a pregare al tempio?» «No, va a trovare il monaco.» «È il monaco che le insegna lo shamisen?» «No.» «E allora che ci va a fare?» «Va a trovare il signor Daitetsu.» Ah, ecco, questo Daitetzu deve essere per forza il tizio che ha fatto quel dipinto. A giudicare da quei versi, si direbbe un semplice monaco. L’orategama nella credenza dev’essere proprio un oggetto appartenente alla signora. «In questa stanza ci vive abitualmente qualcuno, giusto?» «Normalmente, c’è la Signora.» «E quindi, ieri sera, stava qui finché non sono arrivato io, giusto?» «Sì» «Me ne dispiaccio... Beh, che ci va a fare da Daitetsu?» «Non lo so.» «E che altro fa?» «Nulla.» «Ma a parte quello, farà pur qualcos’altro!» 5 50 Specie di incrocio fra chitarra e banjo, a tre corde, meglio noto come shamisen. «A parte quello... un sacco di cose...» «Un sacco di cose... del tipo?» «Non lo so.» La conversazione si interrompe così. A un certo punto, finisco il pranzo. Venuto il momento di ritirare il carrello, la cameriera, aprendo il pannello d’ingresso, interponendosi alla vegetazione del giardino centrale, appoggiandosi alla ringhiera del secondo piano appena fuori dalla stanza, sostenendo la guancia col palmo da dietro la sua chioma a ginkgo 6, come un Budda Misericordioso appena illuminato, posò lo sguardo in basso. Al contrario della donna di stamane, ha una una posa estremamente tranquilla. Che guardi in basso, dato che il movimento dei suoi occhi vaga altrove, chissà, devo averlo intuito da un qualche evidente cambio di postura. La gente di un tempo usava dire “negli uomini, nulla è più vero delle pupille”; infatti, non ci sono palle, le persone non hanno nessun arnese più vitale degli occhi. Da sotto la ringhiera a croce cinese su cui si è poggiata l’inserviente, due farfalle, sfiorandosi a tratti, si librano. In quell’attimo, spalancai il pannello della mia camera. A quel suono, la donna spostò repentinamente lo sguardo dalle farfalle verso di me. Il suo sguardo attraversava l’aria come una freccia avvelenata, andando a cadere senza convenevoli fra le mie sopracciglia. Nel tempo di pensare “Ah!”, la cameriera, in tutta fretta, serrò il pannello. E dopo, la primavera si fa estremamente tranquilla. Mi risdraiai a sonnecchiare. Quel che mi fluttuava indolente nel cuore … Sadder than is the moon’s lost light, Lost ere the kindling of dawn, To travellers journeying on, 6 Ricordiamo; è la tipica acconciatura femminile che forma una specie di ampio fiocco assieme a uno chignon, che ricordano una di foglia di ginkgo in voga all’epoca, conosciuta col nome di Ichougaeshi; la stessa indossata dalla Signora. 51 The shutting of thy fair face from my sight7. … erano questi versi. Forse, se mi fossi innamorato di quella chioma a ginkgo, e prim’ancora che potessi pensare che sarei anche morto per essa, mi avesse congedato con quello sguardo così come ha fatto, mentre, affascinato e gioioso, avessi provato tanto dispiacere, avrei certamente composto una poesia con dei versi con quel significato. E poi … Might I look on thee in death with bliss I would yield my breath8. … magari avrei persino aggiunto un paio di versi come questi. Fortunatamente, avendo superato i confini di quel che viene chiamato normalmente “passione” o “amore”, anche volendo provare simili dolori, non potrei. Solo, la poesia di quel che è avvenuto in quell’istante mi sembra ben visibile in questi cinque o sei versi. Anche se la relazione fra me e la chioma a ginkgo non ha nulla di amorevole, sovrapporre al nostro rapporto momentaneo questa forma di poesia è divertente. O piuttosto, è piacevole stirare il senso di questi versi sopra alle nostre figure. Fra di noi, un sottile filo di karma, parte delle circostanze espresse nella poesia, fattosi realtà, si è avvolto. Anche se è un filo di karma, se è così sottile non fa male. E poi, non è un filo normale. È un filo di arcobaleno che si staglia in cielo, un filo di foschia che aleggia sui campi, un filo di ragnatela che brilla di rugiada. Sarebbe facile romperlo ma è così bello da guardare. E 7 “Più triste della luce della luna / perduta ora nel brillìo dell’alba / per i viaggiatori che si avventurano oltre / è l’esilio del tuo bel volto dalla mia vista”. Sono versi tratti dal romanzo di George Meredith, "La sbarbatura di Shagpat" (The shaving of Shagpat: an Arabian Entrateinment, 1856). Nel romanzo, è l’attacco di una canzone cantata da un guerriero nel deserto, con cui, pur sapendo di avere le ore contate, corteggia e seduce una damigella che gli si concede. 8 Potessi guardarti mentre muoio / con gioia renderei il respiro. Segue i precedenti versi nella stessa opera di George Meredith. 52 se, per caso, mentre lo guardo, questo filo si facesse spesso come la corda di un pozzo? Non c’è questo pericolo. Io sono un pittore. E lei non è quel genere di donna. All’improvviso, si aprì il pannello. Guardando l’ingresso dal mio dormiveglia, la donna del destino dall’acconciatura a ginko stava in piedi sulla soglia, come uno stelo di porcellana cinese piantato dritto in un vaso. «Ti sei riaddormentato? Stanotte devo averti recato disturbo. Ti ho infastidito più di una volta... hohohoho.» ride. In queste occasioni, mostrarsi timidi, o ritrosi, addirittura vergognosi, non sarebbe affatto strano. È il caso di dire che mi ha lasciato al palo. «Grazie per stamane» ringrazio nuovamente. A pensarci è la terza volta che ringrazio. e ogni volta non ho fatto altro che ripetere gli stessi tre caratteri di “grazie” 9... La donna mi supera rapidamente, per sedersi accanto al mio cuscino. «Beh, allora dormi. Possiamo chiacchierare anche se ti addormenti», dice con voce impostata. E come no, penso, e mi giro sulla pancia, sostenendomi il mento con ambo le mani e poggiando i gomiti a mo’ di colonne sul pavimento. «Ho pensato che ti stessi annoiando, e sono venuta a servirti del tè.» «Grazie» m’è uscito un altro “grazie”. Guardando il piatto dei biscotti, c’è dell’ottima marmellata di fagioli dolci. Fra tutti i dolci, la gelatina di fagioli10 è di gran lunga la mia preferita. Non 9 Il “grazie” a cui si riferisce è il semplice arigatou. Sebbene si scriva quasi universalmente in hiragana (caratteri fonetici), è ancora conosciuta la grafia originaria in tre caratteri, 有難う 10 Il termine originale è youkan; tipico dolce da tè giapponese, dal colore variabile dal blu scurissimo fino al rosa chiaro e al verde intenso, compatto ma traslucido. 53 che abbia una gran voglia di mangiare, ma quella disposizione così fluida, sottile, e poi quell’aspetto traslucente con cui riceve i raggi di luce, sembra proprio un’opera d’arte. In particolare, la parte in cui si stempera sull’azzurrino, come nella giada o nell’alabastro, mentre guardo la sua pellicina, mi fa star bene. E soprattutto, questi dolcetti dalle sfumature azzurre posati su un piatto di porcellana decorata d’azzurro, ammiccano come nati giust’adesso dalla porcellana stessa, ‘sì che mi vien da stendere una mano per accarezzarli. Fra i dolci occidentali, non ce n’è nessuno che mi doni questo piacere. La crema ha un colore un po’ morbido, ma troppo opprimente. La gelatina sembra una gemma, al primo sguardo, ma trema in modo così tremolante, e non ha un gusto intenso come la gelatina di fagioli. E che con zucchero e latte si possa tirar su qualcosa di eccelso è un’idea quantomai balzana. «Sì, sono proprio un bel lavoro.» «Genbei li ha appena portati. E così ho pensato di offrirteli.» È ovvio che Genbei si è fermato giù al castello per la notte. Senza rispondere, osservo i dolcetti. Non m’importa chi e dove li abbia comprati. Basta e avanza che siano belli, tanto che io possa apprezzarli. «La forma di questa porcellana è terribilmente bella. E anche il colore: non sfigura affatto sotto ai dolcetti.» «Huhu» ride la donna. Agli angoli della bocca freme un impulso di sufficienza. Chissà se sta pensando che le mie parole celino dell’ironia. E per essere stizziti, i presupposti ci sono tutti. È quel genere di cosa che agli uomini privi di spirito, quando vogliono celiare a ogni costo, capita spesso di dire. «È cinese?» «Cosa?» risponde lei, come se la porcellana non si riflettesse nei suoi occhi. «Eppure parrebbe cinese...» dico sollevando il piatto per guardarne il fondo. 54 «Se ti piacciono queste cose, te ne posso mostrare altre.» «Sì, per favore.» «A papà piacciono le anticaglie, e abbiamo molti oggetti di questo tipo. Magari potrei parlargliene e farti invitare a prendere un tè insieme.» Sentendo parlare di tè rimasi un po’ interdetto. Al mondo non c’è gente dai modi più boriosi dei cultori della cerimonia del tè. Quelli che imbrigliano artificiosamente l’ampio mondo della poesia in spazi angusti, estremamente pomposi, estremamente pignoli, estremamente puntigliosi, inutilmente proni mentre bevono sontuosamente della schiuma, sono conosciuti col nome di “cultori del tè”. Se fra tali arzigogolate regole v’è dell’eleganza, allora il reggimento di Azabu11 ha eleganza da vendere. I tipi da “fianco-destr” e “avanti-marsc” devono essere tutti grandi maestri della cerimonia del tè. Mercanti e cittadini, sono gente quasi del tutto priva di educazione al gusto, che essendo pressoché incapace di riconoscere lo stile, fagocitando meccanicamente le regole di Rikyuu 12, si dicono che quello sì che era un grande stile, cultori di un arte che si fa beffe di chi lo stile lo conosce davvero. «Quando mi dice tè, intende quel tè che si accompagna a una cerimonia formale13?» 11 Il terzo reggimento della prima divisione di fanteria, la cui caserma era sita in Azabu, un quartiere di Tokyo. Souseki usa questa iperbole non tanto perché il reggimento di Azabu avesse fama di essere particolarmente rude o severo, ma perché il quartiere di Azabu prende il nome da un tessuto grezzo, simile alla raffia, usato per stracci, coperture e pesanti tendaggi. 12 Sen no Rikyuu, 1522-1591. È considerato il “maestro completo” della cerimonia del tè giapponese. Fu costretto al suicidio dopo aver offeso il famoso dignitario Toyotomi no Hideyoshi. 13 Il protagonista passa improvvisamente al tono formale (qui espressa con il “lei”). È una chiara nota di nervosismo che non passa inosservata al lettore giapponese. Dopo la risposta della signora, anche questa un po’ risentita, si torna immediatamente al tono informale di prima. 55 «No, nessuna cerimonia o cose del genere. È un tè che, se lei non dovesse gradire, può anche rifiutare.» «Se è così, allora posso accettare subito!» «Hohohoho. Papà adora mostrare i suoi arnesi, quindi...» «Dovrò lodarlo per forza?» «È un po’ in là con gli anni, per cui, se lo lodi, ne sarà felice!» «Oh, allora vedrò di lodarlo almeno un po’.» «E invece devi lodarmelo tantissimo!» «Hahahaha, a volte non parli affatto come una persona di campagna!» «Perché? Esistono delle persone “di campagna”?» «Sì, anzi, le persone di campagna sono le migliori.» «Beh, allora sono un’autorità in questo campo...» «Però, penso che tu sia stata anche a Tokyo.» «Sì, ci sono stata, e anche a Kyoto. Siccome sono una vagabonda, sono stata qua e là.» «Fra stare qui o in città, cosa preferisci?» «Ma è la stessa cosa!» «Tornare in un posto tranquillo come questo dev’essere piacevole.» «Piacevole, o spiacevole, lo stare al mondo assume il sentimento che si prova. Se ci viene in odio il Paese delle Pulci, trasferirsi nel Paese delle Mosche non aiuta affatto.» «Se si andasse in un Paese senza pulci ne mosche, sarebbe meglio...» «Se esiste un tale Paese, tiralo fuori e fammelo vedere! Su, dai, fammelo vedere!» dice la donna facendosi più vicina. 56 «Se questo è il Vostro desiderio, Ve lo mostrerò 14» dico e prendo il solito blocco da disegno, ci metto una donna a cavallo, mentre guarda un ciliegio di montagna – ovviamente è uno schizzo al volo, non è ancora un disegno completo. Semplicemente, butto giù i sentimenti come mi vengono, «Su, entri qui. Non ci sono pulci né mosche.» e glielo infilo davanti al naso. Che sia sorpresa, o che l’abbia imbarazzata, dalla sua posa non si capisce, ma non credo di averla fatta soffrire, e mentre esamina un po’ il panorama, «Beh, è un mondo stretto, ha solo una dimensione. Ti piacciono questi posti? Proprio come un granchio, eh?» e così dicendo, lo scostò. E io: «Wahahahaha» rido. Vicino alle tegole, un usignolo che aveva iniziato a cantare, spezzando d’improvviso la sua voce, cambia ramo, allontanandosi. Entrambi cessiamo apposta il nostro dialogo, tendendo per un po’ l’orecchio, ma la gola dal doloroso canto non si apre facilmente. «Ieri devi aver incontrato Genbei sulla montagna15.» «Sì» «E hai fatto visita al monumento funerario della Fanciulla di Nagara?» «Sì» «Verrà l’autunno, sull’erba la rugiada s’è posata, ma dovrà svanire; così mi vedo, e mi struggo.» senza spiegarsi, la donna, di seguito e ignorando la metrica dei versi, semplicemente, cantò la poesia. Non so perché. «Questa poesia, l’ho udita alla sala da tè!» 14 Qui il cambio di livello di formalità è assunto in senso scherzoso, dopo che il chiwa della signora si fa più caldo, diretto e perentorio. 15 Il chiwa della Signora si scioglie qui in un tono più caldo diretto. 57 «Te l’ha insegnata la nonna? Era in servizio qui da noi, quando non avevo ancora sposato... » attaccò a dire, per poi guardarmi in faccia; ma io feci finta di non sapere. «Ero giovane, ma quando veniva le raccontavo la storia di Nagara. La poesia era l’unica cosa che non ricordava bene, ascoltandola chissà quante volte, in qualche modo ha finito per impararla a memoria.» «Mi ero chiesto come potesse conoscere versi tanto difficili. – Comunque, è una poesia molto triste, vero?» «Triste, dici? Io non la definirei così. Innanzi tutto, gettarsi nel profondo rio, non è piuttosto una seccatura?» «Eh già, è proprio una seccatura, vero? Al suo posto, tu che avresti fatto?» «Che avrei fatto? Ma non è ovvio? Mi sarei tenuta sia Sasada che Sasabe come amanti!» «Entrambi?» «Sì» «Forte!» «Non è forte, è ovvio!» «Capisco, in questo modo sistemi la cosa anche senza volartene nel Paese delle Pulci, o nel Paese delle Mosche.» «Si può anche vivere senza pensare come granchi...» Hooo, hokekyooo, l’usignolo che avevamo quasi scordato, forse dopo aver recuperato il suo vigore, all’improvviso sollevò spensierato il suo canto. Una volta ripresosi, si vede che il canto esce naturale. Incurvando il corpo, agitando il fondo della gola compressa, semplicemente spalancando il piccolo becco, Hooo, hokekyooo. Hoooooo, hokekyoooooo, insistente, cinguetta. «Quella è la vera poesia.» la donna mi insegnò. 58 5 «Scusi dotto’, ma che per caso è de Tokyo1?» «Si capisce così facile?» «Se se capisce? Dalla prima occhiata, dalla prima parola!» «E sai anche di che parte?» «Embé, Tokyo è grossa ’na cifra. De sicuro, nun è de li quartieri vecchi. Forse de Yamanote. E de preciso, Koujimachi, forse? No? Allora, Koishikawa? E se nun è de llì, sarà de Ushigome, o de Yotsuya.» «Beh, sono circa di quelle parti. Certo che la conosci bene, eh?» «Come vede, so’ anch’io un bimbo de Edo2.» «In effetti, mi sembravi uno verace.» «Ehehehehe. Fino all’osso, grazie, anche se ora so’n po’ sgangherato.» «E com’è che sei finito in un posto di campagna come questo?» «A dotto’, ha detto bbene. Ce so’ proprio finito. Me so’ rovinato, me so’ magnato pure li muri.» «Avevi un negozio di barbiere da qualche parte?» 1 Il personaggio qui introdotto parla in dialetto di Tokyo, che ho reso col Romanesco. 2 L’espressione nell’originale è 江戸っ子 – Edokko – che significa “bambino di Edo”, che è il nome antico della città di Tokyo. A “Edo” (porta della baia), venne assegnato il nome di Tokyo (capitale occidentale) nella seconda metà dell’ottocento. 59 «Nun c’avevo un negozio, ce lavoravo. Eh? N’dove? A Matsunaga, nel rione de Kanda. Pe’ forza nun la conosce dotto’, è un rione lurido, piccolo come la fronte der gatto mio. Là c’èr ponte de Ryuukan. Eh? Nun conosce manco quello? E dire ch’er ponte der Ryuukan è famoso.» «Ehi, ti spiace mettere un altro po’ di sapone, mi fai troppo male.» «Te faccio male? Io so’n professionista, ecco, si nun te faccio er contropelo, così, si nun te scavo li peli da li buchi uno a uno, io nun so’ contento! Che li barbieri d’oggi, a dotto’, mica te radono, te accarezzano. Cerca de sta’ bbono ancora ’n po’.» «E’ già da un bel po’ che sto buono. Per favore, vedi di mettermi un po’ di lozione o di sapone.» Dalla carne in fiamme delle mie guance, svogliatamente, il titolare lasciò la presa, per tirar giù da una mensola un sapone rosso, ormai liso, e come ebbe ritenuto di averlo immerso abbastanza nell’acqua, senza troppe cerimonie mi ci accarezzò, per così dire, il viso. Non mi è capitato molto spesso di essere spalmato direttamente col sapone. E poi, l’idea dei giorni passati da quell’acqua posata lì, non mi riempie di entusiasmo. Ma il colmo è che, dato che qui si lavora coi capelli, come cliente, è mio diritto essere messo di fronte a uno specchio. Tuttavia, è già da un bel po’ che sto pensando di rinunciare a questo diritto. Gli utensili detti specchi sono piatti, e non ve n’è uno che non abbia il dovere di riflettere docilmente il volto delle persone. Appendere uno specchio che non abbia questa caratteristica e forzare chi gli sta di fronte a riflettervisi... è come la malignità che si potrebbe contestare ad chi ci costringa a posare di fronte a un pessimo fotografo che rovina l’aspetto dei suoi soggetti. Potrebbe essere anche una penitenza per allenare il rifiuto alla vanità, ma mostrare a chiunque un volto peggiore del suo e dirgli “questo sei tu” va riconosciuto come un affronto. E questo specchio screanzato che, con spirito di sopportazione, sono costretto a fronteggiare, mi sta evidentemente insultando. 60 Se mi giro a destra, la faccia diventa tutta naso. Se mi sporgo a sinistra, la bocca si apre fin sotto le orecchie. Se guardo in alto sembro un rospo spiaccicato visto di fronte, e se mi chino appena mi spunta una testa come un bimbo di Fukurokuju 3. Mentre uno deve resistere a questo vile specchio, è pure costretto a vedersela con tutti questi mostri. E anche a soprassedere sulla mancanza di artisticità del mio volto riflesso, sarà per la sua fattura, o per le sfumature, o per le crepe sulla superficie riflettente, o per come la luce che lo attraversa restituisce le immagini, ma questo strumento ha la capacità di esaltare la bruttezza. Certo, anche essendo capaci di ignorare le angherie di un qualunque villano, chiunque, se dovesse svolgere la propria attività quotidiana al cospetto di tale villano, finirebbe col risentirne. E inoltre, questo barbiere non è un chiunque qualsiasi. Sbirciandolo da fuori, vedendolo seduto a gambe incrociate, mentre fumava da un lungo beccuccio e soffiava il fumo su una bandierina dell’alleanza anglo-nipponica, mi era parso che avesse un’aria annoiata, e una volta dentro mi sono sorpreso di avergli affidato la mia gola. Ha iniziato a maneggiarla senza ritegno, tanto che mi è venuto da chiedermi se, mentre si viene sbarbati, la gestione della propria gola passi di diritto al barbiere, o piuttosto non ne rimanga una pur minima parte anche a me. Dal momento che il mio collo è ancora ben piantato sulle mie spalle, non posso permettere che la cosa vada avanti a lungo. Appena levato il suo rasoio, aveva perso ogni cognizione delle regole civili. Quando passava sulle guance, si levava un sonoro fruscìo. Dalle parti delle basette mi pulsavano le vene. Quando la sua baionetta aveva aperto le danze, nei pressi del mento s’era levato un tetro gori gori, come il rumore di stille di ghiaccio 3 Uno dei sette dei della fortuna, appartenenti alla mitologia cinese, rappresentato come un vecchio saggio piccoletto dalla fronte altissima, dalla quale, si narra, nascevano bambini molto fortunati. 61 calpestate. E dire che si vanta di avere la mano migliore di tutto il Giappone. E per finire, è pure ubriaco. Quando dice “a dotto’ooh”, fa una strana puzza. A tratti mi soffia uno strano gas lungo il setto nasale. Se, in questo stato, dovesse sbagliare, non ho idea di dove potrebbe volargli il rasoio. Se persino il suo padrone non ne ha una cognizione precisa, non posso certo averla io, che gli ho solo prestato la faccia. Mi ero messo l’anima in pace e gli avevo ceduto la faccia con l’intenzione di non lamentarmi per qualche taglietto, ma all’improvviso ho cambiato idea, che qui finisce che mi apre la trachea. «Der sapone... se ce lo metto, nun se taja bbene, viene mejo senza, ma dotto’, li peli so’ li tua, fa’ m’po’ come te pare.» così dicendo il padrone sollevò il sapone nudo, e così nudo com’era lo gettò verso la mensola, ma il sapone si ribellò all’ordine del padrone e cadde rotolando per terra. «Dotto’, nun me pare d’averla visto in giro, com’è? E’ qui da poco?» «Già, da un paio di giorni...» «Ah sì? E’ndo’ sta?» «Ma dagli Shihoda!» «Ah, è ospite lì. Ce credo. Mo joo dico, che pure io so’ venuto qui grazie a quer vecchio riccone. – Eggià; quanno er vecchio stava a Tokyo, io stavo da que’e parti – eppoi sa com’è, è un’omo de core; m’ha dato ’na mano. L’anno scorso jè morta la moglie, e mo’ nun fa artro che rigirarsse li gingilli – tutta bella robba, ma de quella che nun ce fai niente. Che jo detto, se lli vendi, armeno te fai n’ po de sòrdi...» «Beh, c’ha pure una bella figlola, no?» «Occhio.» «A che?» «A che? – Te l’avranno già detto, ma quella è ’na divorziata.» 62 «Ma va?» «Eh già, ha fatto ’n ber disastro. E dire che se ne sarebbe potuta anna’ de qua. Ma quanno la banca è fallita, lei ’nun poteva fa’ più ’a bella vita, e allora se n’è scappata; che ingrata! Fintanto che c’è er vecchio je va bbene, ma se je dovesse capità quarcosa, quello che ha fatto je torna tutto.» «Mah, sarà...» «E sarà sì! Che cor fratello maggiore4 so’ come cane e gatto.» «Ha pure un fratello?» «Eh sì; sta nella villa sulla collina. Vacce a’ ffa du’ passi, che c’è ’na bella vista.» «Ehi, non è che mi metteresti dell’altro sapone? Che mi stai facendo male di nuovo.» «Certo che c’hai ’na barba che fa male ’na cifra. È che ll’hai lasciata cresce troppo. Con ’na barba come ’a tua, dotto’, bisogna tajialla massimo ogni tre giorni. Che se te fa male er rasoio mio, allora figuramose co’ n’antro!» «D’ora in poi farò così. Anzi, meglio farla ogni giorno.» «Te voi fermà così tanto? Damme retta, lascia perde. Che nun c’hai nulla da guadagnacce. Te vai a ficcà nei guai, manco t’immagini che tte po’ capita’.» «Come mai?» «Dottò, pari ’n tipo che piace alle donne, ce l’hai scritto ’n fronte.» «E quindi?» «E quindi, dottò? La gente der paese dice che quella là è tutta matta...» «Mi sa che questa cosa non è proprio vera.» 4 L’originale è leggermente diverso, anche se trasmette le stesse informazioni. Si veda al riguardo la descrizione nelle note di traduzione. 63 «Guarda che c’ho delle prove de prima mano, statte ’n guardia. Che è pericoloso.» «Io non ho nulla da temere, ma... di che prove si tratta?» «E’ una storia strana, sai? Mah, mettete comodo e famose un tiro de tabacco, che mo’ ta’a racconto. O te lavo la testa?» «La testa, lasciamola stare.» «Te potrei fa’ giusto un massaggio antiforfora...» Il titolare, senza tanti complimenti, allineò le sue dieci unghie ricolme di lordume sulla mia scatola cranica, e sordo a ogni rifiuto, diede il via a un violento moto longitudinale. Queste unghie che spingono via la radice d’ogni singolo capello, infuriano come il rastrello d’un gigante che, fra desolate lande, corresse alla velocità d’un uragano. Non ho idea di quante centinaia di migliaia di capelli io abbia in testa, ma non v’era capello la cui radice non fosse estirpata, e oltre ad arare a maggese le aree sgombre, a rivoltarne le zolle fin giù ai vermi, avendo ancora l’impeto di dissodare il resto, il titolare imperversava sulla mia testa con tanta veemenza da traumatizzarmi il cranio, e finanche la materia grigia. «Che te ne pare, nun è ’na pacchia?» «Hai un tatto... fuori dal comune...» «Eh? Eggià, quanno faccio così, tutti se sentono ringalluziti...» «Mi stai a svitare la testa!» «Ma che sei così moscio pe’ davero? Ma sei proprio spompo. Sarà ’a primavera, che se ’un sei ’n forma te fiacca subbito... – vabbeh – dai, su, viette a fa’ ’na fumatina. – Certo che stare da solo dagli Shihoda dev’esse noioso. Passa de qqua, che se famo du’ chiacchere. Che pe’ n’ bimbo de Tokyo, ce vole n’antro bimbo de Tokio, che sennò nun ce se trova. Che? La signora è già passata a salutatte? Ce ’o sapevo, è una senza ritegno, te vai a ficca’ nei guai.» 64 «La signora... mi stavi accennando qualcosa quando, per levarmi la forfora, quasi mi sviti il collo, giusto?» «Eggià, son’ po’ rintronato, e manco poco, e ogni tanto me perdo er filo der discorso... Dunque, te stavo a di’ che quer bonzo s’è preso ’na sbandata...» «Quel bonzo... quale bonzo?» «Er cellario5 der tempio Kankai, e ’nsomma... » «Guarda che cellario o abate, non avevi tirato fuori nessun bonzo.» «Eggià, sto a coree e nun te fo’ capì. Insomma, era ’n tipo rude, e che me sa che raccattava pure bbene, ma sa com’è, s’era messo in testa che ce doveva provà e le scrisse ’na lettera. – Oh, spetta. Forse era ’na serenata. Naa, ’na lettera. Sì, me sa che era ’na lettera. E poi, be, le cose se so’ intorcinate ’n po... Ah, sì, ecco, appunto. Poi c’è rimasta sorpresa.» «Ma chi si è sorpreso?» «Embeh, la donna.» «Ah, la donna si è sorpresa nel ricevere la lettera, giusto?» «Se fosse ’na donna che se sorprende pe’ na’ lettera, sarebbe già ’na cosa bbona, ma nun s’è mica sorpresa pe’ quello.» «E allora cos’è che l’ha sorpresa?» «La serenata, me sa.» «Non avevi detto che non era una serenata?» «Eggià, giusto. Me so’ sbagliato. Aveva ricevuto una lettera.» «E allora, la donna ha ricevuto questa lettera ed è rimasta sorpresa.» 5 Il termine originale è 納所 – nassho; è un monaco che si occupa della contabilità e/o del magazzino, ed è considerata una carica di basso livello nella gerarchia ufficiale. 65 «Macché, era l’uomo.» «L’uomo, intendi il bonzo?» «Sì, er bonzo.» «E perché il bonzo avrebbe dovuto essere sorpreso?» «Perché? Embeh, mentre teneva er servizio ar tempio coll’abate, questa se n’è entrata all’improvviso e... uhuhuh. Dev’esse tutta matta.» «E che è successo?» «“Se ti piaccio tanto, qui davanti al Budda, dormiamo assieme!”, disse, e se buttò coll’unghie sulla testa de Taian.» «Ma nooo!» «C’ha perso la faccia, Taian. Mandare una lettera a una fori de testa che l’ha svergognato in quel modo, sùbito, quella sera stessa s’è rintanato da quarche parte e poi è morto.» «Morto!?!» «Beh, me sa che è morto. Mica poteva vive così.» «Ma non si può dire!» «Eggià, che se quella è matta, non è che si uno more la cosa se sistema, e allora magari è ancora vivo.» «È una storia piuttosto… buffa.» «Beh, buffa o no, tutti al villaggio se so’ fatti du’ belle risate. Che tanto, quella là è matta fino all’osso e nun je ne po’ frega’ de meno. – Macché, dotto’, manco uno dritto come te la po’ raddrizza’, che quella è fatta così, te pijia ’n giro e te mette ne’ pasticci.» «Mi sa che dovrò stare un po’ attento. Hahahahaha.» Dalla tiepida spiaggia, una brezza primaverile dal sentore salmastro giunge a sbuffi, agitando, sonnacchiosa, la tendina all’ingresso, che si frappone alla vista. Piegando il corpo per passar sotto di essa, la figura d’una rondine, esitante, cade sullo 66 specchio. Nella casa di fronte, un nonno, appena sui sessanta, si incurva in silenzio sotto il tetto spiovente, a rivoltar conchiglie. Tintinnante, la lama del suo temperino ne estrae il frutto rosso e l’occulta nel canestro di bambù. I gusci, rilucendo brillanti, attraversano un metro d’aria increspata. Ciò che va a formare quella collinetta di gusci di conchiglie, chissà se son ostriche, vongole, o cozzaloni. Scivolando, molti finiscon sul fondo d’un ruscello sabbioso, via dalla superficie del mondo fluttuante, sepolte giù verso regioni oscure. E dopo che son sepolte, ecco che, subito, nuove conchiglie s’affrettano là, sotto ai salici 6. Il nonno, senza il tempo di pensare al destino delle conchiglie, semplicemente, le getta attraverso il riverbero. Se immagino il suo canestro senza quel fondo che deve avere, questo suo giorno di primavera mi pare un infinito tesoro di quiete. Il ruscello sabbioso, scorrendo sotto un ponticello di neanche dieci metri, verso la spiaggia, spilla l’acqua di primavera. Laggiù dove l’acqua di primavera s’incontra col mare di primavera, ampie reti stese ad asciugare, tutte diverse, e dev’essere sgusciando fra le loro maglie che la brezza che soffia verso il villaggio continua a portare un tepore che sa di pesce, mi dico. Fra di esse, quel che si vede, simile a un paziente andirivieni capace di sciogliere le lame più ostinate, è il colore del mare. Questo panorama non si armonizza affatto col titolare. Se nella mia mente dovesse rimanere l’impressione del carattere rude di questo padrone a lottare da ogni lato con lo scenario, stare in piedi fra le due parti mi darebbe la sensazione di essere come un tappo tondo per un buco quadrato. Fortunatamente, il titolare non è un combattente valoroso abbastanza. Per quanto faccia il bimbo de edo, per quanto brandisca il suo vernacolo, è incommensurabile all’immagine della completa serenità di questa terra. Celiando col suo turpiloquio viscerale, per quanto si impegni ad infrangere quest’armonia, diviene un rapido atomo 6 L’espressione richiama il luogo comune 柳の下の同様 – yanagi no shita no douyou (come stare sotto ai salici), che indica una posizione particolarmente fortunata. 67 che, nel bagliore del sole primaverile, fluttua. I conflitti sono fenomeni che emergono spontanei quando vengono disposte forze, pesi, intenzioni o necessità impossibili da conciliare, e per di più di simil grado, fra cose ovvero persone che si fronteggiano per la prima volta. Quando le dimensioni che separano gli enti sono incommensurabilmente vaste, questi contrasti si smorzano, anzi, magari le azioni scomposte finiscono col rientrare nell’alveo della forza maggiore. Come braccio del Grande agisce il Sapiente, come giuntura del Sapiente agisce l’Incolto, e a divenire viscere d’Incolto mira l’azione del bestiame. Adesso il titolare, nello scenario del paesaggio di questa smarginata primavera, sta recitando un ruolo grottesco. Egli, che dovrebbe infrangere la sensazione di tranquilla primavera, invece, questa sensazione di tranquilla primavera la esalta meticolosamente. Io, inconsapevole, a un lieve umore più prossimo a questo cielo, con leggiadro celio m’avvicinai. Quest’assai buffo buffone è, al pacioso giorno di primavera, d’un ben più armonioso colore. E siccome mi stavo proprio dicendo che questo padrone poteva essere un uomo adatto a diventare quadro, o poesia, invece che andarmene di filata, piantai lì il culo a cazzeggiare del più e del meno. A un certo punto, da sotto le tendine all’ingresso 7, sguscia la testolina di un bonzo. «La mi scusi, che ch’ha tempo per una scorciatina 8?» dice entrando. Con quel un kimono di cotone grezzo stretto da una cordicella dello stesso materiale, su cui era appoggiato un panno rado come una zanzariera, pareva proprio un allegrissimo bonzetto. 7 Il termine originale noren – sono quelle tipiche tende, per lo più di stoffa pesante e scura, che pendono all’ingresso dei negozi tradizionali giapponesi durante l’orario di esercizio e arrivano a coprire al massimo la metà del busto dei visitatori. 8 Il personaggio parla con uno spiccato accento del Giappone occidentale (Kyoto, Oosaka, Hiroshima). Qui è reso con il Toscano. 68 «Ryounen-san. Come te butta, che te ne stai sempre a penzolatte ’n giro e a spappa’; nun te sgrida er priore?» «Naaa, m’ha lodato.» «Ma come, t’aveva dato ’n ambasciata e te te sei messo a pesca’, e t’ha pure detto: “bravo, hai fatto bbene”!?» «A’voglia, m’ha proprio detto: “Se Ryounen, che incarna la giovinezza, ben si svaga, non possiamo che affermare che ciò è cosa buona e giusta.”» «De solito, te saresti preso ’na coppinata ’n testa. Che ch’ai la testa così bitorzoluta che proprio nun te se po’ rapa’. E armeno oggi, famme ’sta grazia, vedi d’annatte a sistema’ er craino e de torna’ n’antra vorta.» «Se vo’ a sistemarmi il cranio, poi ’un vale mia più la pena d’affidallo a un barbiere punto bravo.» «Hahahaha, la testa ce l’hai tutta ’n bozzo, ma la bocca te scoppia de salute.» «Piuttosto, direi che la su’ mano l’è ritardata, ma col saké la va proprio forte.» «Brutto fio de ’na mignotta, io c’avrei la mano ritardata!?» «E ’un l’ho mia detto io. Ll’ha detto il priore. Ovvìa, ’un s’arrabbi ‘osì. Che le fa male, alla su’ età!» «Guarda che nun fai ride pe’ gnente. Vero dottò?» «Ah no?» «’Sti bonzi stanno tutti a vive ’ncima a ’na scalinata de pietra, tutti spensierati, pe’ forza che poi je viene la lingua affilata! Pure sto bonzetto s’è fatto bello schietto – Ops... china la testa – ma me senti? T’ho detto de china’ la testa! – se non me dai retta va a fini’ che te tajio, ma pe’ davero, te faccio uscì ’r sangue!» «Ahio, mi fa male! O che l’è grullo?» «Se nun te riesce de sopporta’ ’n paio de coppini, me chiedo come fai a diventa’ bonzo.» 69 «Se l’è per ‘odesto, guardi che bonzo lo son di già!» «Si, ma nun sei ancora n’omo! – Approposito, onorevole bonzetto, quer Taian, com’è che è morto?» «Ma Taian-san ’un l’è mia morto!» «Nun’è morto? Strano! Eppure doveva da morì.» «Taian-san, dopo quella volta, ha trovato la vo’azione e ll’è andato presso il tempio di Taibai, nel Rikusen 9, e s’è dato anima e ‘orpo alla meditazione. E pare riuscirà a ottenere la saggezza. L’è proprio una bella ’osa!» «Ma che te stai a ddi’? Persino per un bonzo, scapparsene de notte nun po’ esse ’na bella cosa. E anche tu, devi sta ’n guardia. E comunque, è ’na gran casinara quella là, – e ’ntendo quella matta patentata che a quanto pare... va spesso dar priore?» «’Un ho mai sentito parlare di donne matte patentate.» «Ma sei proprio duro, razza di macina-miso 10... ’nsomma, ce va o non ce va?» «Di matte ’un ne vengon punte, ma viene la signorina Shihoda.» «Il priore pò prega’ quanto je pare, che quella nun c’è verso de guarilla. Mi sa che l’ex-marito ja fatto ’na fattura.» «Quella figliola l’è una gran signora. L’anziano maestro la loda spesso.» «Ce credo, quanno sali quelle scale di pietra, vedi tutto ar contrario. Er priore pò di’ quello che vole, ma un matto resta un matto. – E con questo sei a posto. E mo’ sbrigate e vedi de nun fatte sgridà dar priore.» 9 Il Rikusen è una regione storica che corrisponde grossomodo alla parte settentrionale della prefettura di Fukushima, nell’estremo nord dell’isola principale del Giappone, in pratica agli antipodi rispetto al luogo immaginario di Nagoi. 10 Il miso è una pasta di fagioli di soia molto comune nella dieta giapponese. Essendo uno dei compiti più umili fra quelli assegnati nei templi, il termine macina-miso viene usato per indicare i monaci di basso rango (e basse capacità). 70 «No, me ne andrò ancora un po’ a divertirmi per farmi lodare.» «Fai ’n po’ come te pare, moccioso ’npertinente.» «Pendulocefalo mollis.» «Pendu-che?!» Ma la fresca testa già s’è defilata sotto la tendina, e insieme, il vento di primavera la soffia via. 71 6 Mi volgo al desco della sera. Porte e pannelli son tutti spalancati. Già la gente dell’albergo non abbonda, e poi questa dimora è assai ampia. La stanza che occupo, dal confine dell’agir gentile di quella gente che non abbonda, da chissà quante svolte di corridoi è sì partita, che non un suon di cose, del filo del pensiero, si pone a intralcio. Oggi, è oltremodo silenzioso. Il padrone, la Signora, le inservienti e i camerieri, lasciandomi qui, se ne saranno scappati da qualche parte, mi vien da pensare. E scappati non in un luogo qualsiasi, ma nel Reame delle Foschie, o forse delle Nuvole. O forse là, dove le nuvole con l’acqua naturalmente si sfiorano, su d’un mare sì pigro da prender fino il timone, che il cor non s’accorge di quando inizia la deriva, e giunge dove la bianca vela, dalle nubi e dall’acqua mal si distingue, e poi oltre, là, fin dove la vela stessa, dell’esser distinta dalle nubi più dell’acqua, si compiange – se fuggiti sono, sarà in siffatto estremo luogo, credo. O se così non è, d’improvviso nella primavera svaniti e persi, coi lor primigeni elementi ormai mutati nell’etere dell’immensità del Creato, che anche a rivolgersi al microscopio, non una infima traccia vi resterebbe impressa. O magari, mutandosi in allodole, dopo aver cantato e poi taciuto il giallo dei na-no-hana, saran volati via là, dove il profondo scarlatto del tramonto, ondeggiante, s’attarda. E chissà, forse in moscini, che alla fine del duro lavoro di rendere ancor più lunghi i lunghi giorni, ancora anelanti la dolce rugiada che sui pistilli s’addensa, sotto le camelie distesi, quel mondo, fragrantemente dormono. Beh, insomma, è un sacco tranquillo. 73 Vuota è questa casa che la vuota brezza primaverile attraversa, ma tanto, non l’attraversa col compito di incontrare le persone. Né si offenderebbe se le fosse impedito. Spontanea viene, spontanea va, è l’estrema giustizia dell’alito dell’Universo. E qui, mentre appoggio il mento nel palmo, se anche la mia anima fosse vuota come la stanza in cui albergo, la brezza primaverile, senza bisogno di invito, non esiterebbe ad attraversarla. È anche perché ci rendiamo conto che quel che su cui camminiamo è la terra che può succedere di temere che si squarci. È anche perché ci rendiamo conto che quel che ci sovrasta è il cielo che può succedere di tremare nel terrore d’essere morsi dalla saetta. Senza lotta, fra gli uomini non può emergere il migliore, questo impone il mondo fluttuante, e così è impossibile sfuggire ai dolori di questa valle di lacrime. Vivendo in un universo multipolare, la nostra natura, che ci obbliga a scommettere sui nostri successi, è nemica del vero amore. Le ricchezze innanzi agli occhi sono polvere. Il nome a cui ci aggrappiamo e l’onore di cui ci impossessiamo, mostrati dalle scaltre api che dolcemente li stillano, paion miele ormai scevro d’ogni aculeo. Ma il così detto “piacere”, quando lo si avvicina, è colmo d’ogni sorta di dolore. Solo i poeti, e coloro che sanno diventare artisti, mordendo questo mondo intricato all’estremo, conoscono la purezza intima. Mangiando foschia, bevendo rugiada, mescendo il purpureo, dialogando sul violaceo, arrivati alla morte non se ne dolgono. La loro gioia non è giungere alle cose. È plasmarsi sino a divenire quelle cose. E quando finiscono col divenire quelle cose, anche a estendersi senza ritegno su tutta la terra, non trovano più confini in cui doversi definire. Scegliendo di disfarsi di ogni zavorra, attraverso il loro copricapo da viandante ormai sbrindellato, filtra impetuoso il vento puro. Se compiono questa vana impresa, con sommo terrore dei villani che inseguono il guadagno, non è perché desiderino essere apprezzati. È solo che sono spinti a testimoniare la Buona Novella che seduce gli uomini, la cui esistenza è limitata. A dirla tutta, il reame della poesia, il mondo della pittura, sono alla 74 portata di chiunque, nessuno escluso. Ma venuto il momento in cui si incurvano le dita nel conto delle trascorse stagioni, e si alza il lamento all’incanutirsi della propria testa, riconsiderando l’esistenza, si ispeziona l’ondeggiare dei propri lavori uno a uno, e finalmente la luce filtrerà, pur tenue, foss’anche attraverso un corpo corrotto, così, dimentichi del sé, si potrà reclamare il piacere del plauso. E chi dirà di non poterlo fare, è un uomo la cui esistenza non è degna d’essere vissuta. Eppure, non si può dire che appiattirsi a un disegno, divenire qualcosa di definito sia ciò che interessa al poeta. Alle volte, mutarsi in petalo, a volte mutarsi in coppie di farfalle, alle volte, come Wordsworth1, mutarsi in stuoli di ninfe, e se alle volte è dietro al temporale che il cuore sboccia rigoglioso, altre volte il cuore è rapito dallo scenario sconosciuto che lo avvolge, e altre volte ancora il cuore è sì rapito, ma senza saper dire da cosa. Qualcuno forse dirà d’aver sfiorato il fulgido Spirito del Creato. Qualcuno forse dirà d’aver udito un’arpa senza corde suonare in fondo all’anima. Altri, vagando nelle sconfinate lande dell’intelletto, difficili da sondare, e da spiegare, magari plasmeranno il loro errare in queste terre indistinte. Costoro possono dire qualsiasi cosa, è loro diritto. Per me, è proprio come se, all’improvviso, la scrivania d’ebano si impossessasse dei miei sensi. Io non penso a nulla di definito. E neppure vedo qualcosa di preciso. Sul palcoscenico della mia consapevolezza, ciò che si muove non indossa abiti sgargianti, quindi non posso dire che mi plasmo in una forma certa. Eppur mi muovo. Non mi muovo nel mondo, non mi muovo fuori dal mondo. È solo che mi muovo, in qualche modo. Non mi muovo come un fiore, non mi muovo come un uccello, non mi muovo nemmeno come proprio degli uomini, mi muovo come in trance. 1 Le opere di Willian Wordsworth, poeta inglese dell’età vittoriana, sono ricche di suggestioni neoclassiche e di richiami ai temi della natura personificata nelle divinità e semidivinità greche. 75 Se proprio devo sforzarmi di spiegare, è come se il mio cuore si muovesse assieme alla primavera, oserei dire. Sono tutti i colori della primavera, i venti della primavera, le cose della primavera, le voci della primavera, afferrati, condensanti, distillati in un elisir di lunga vita, poi stemperato nello Spirito di Hōrai 2 e fatto evaporare al sole della Sorgente dei Peschi3, che penetrando all’improvviso nei pori, satura il cuore, inconsapevole, oserei dire. Nell’ordinario plasmarsi vi è un che di compulsivo. È anche per questa compulsione che è piacevole. Ma il mio plasmarmi, non avendo ben chiaro ciò in cui mi plasmo, non porta con se la minima compulsione. Siccome non è compulsivo, vi è un delicato, indefinibile piacere. Non come l’onda che, accarezzata dal vento, si spande fino al cielo più elevato, è cosa ben diversa da una superficiale, grossolana passione come questa. È piuttosto come l’invisibile, immenso fondale degli oceani azzurri che si muovono fra continente e continente, e che sa dare loro forma e consistenza. Solo che io non ho tutta questa forza. Però, quando torno laggiù, vi trovo beatitudine. La manifestazione di questa grandiosa capacità, l’idea che un giorno possa esaurirsi, mi addolora. Nel mio stato normale, non riesco a convivere con una simile preoccupazione. Ma nella condizione attuale, che il cuore è più flebile del solito, non solo posso separarmi dalla tristezza dell’idea che l’impeto di questa capacità possa scemare, ma posso anche liberarmi dei miseri limiti del cuore che, normalmente, si cura del possibile e dell’impossibile. L’essere flebile è, in un certo senso pur difficile da spiegare, non dover temere di essere troppo forti. “Quiete” o “serenità”, nei versi dei poeti, devono essere le parole che più vividamente descrivono questa regione. 2 蓬莱 – Hōrai – è un’isola leggendaria, in qualche modo paragonabile alla nostra Avalon, nominata in una leggenda cinese taoista. Su quest’isola, sperduta da qualche parte nei mari orientali, c’è un altissima montagna su cui vivono dei saggi immortali. Lo Spirito, qui inteso come liquido e come elemento spirituale allo stesso tempo ( 霊 液 – reieki – spirito fluido), è una bevanda mistica di cui si nutrono questi saggi per mantenersi eternamente giovani. 3 Altra leggenda taoista, già intravista nel primo capitolo. 76 Chissà come dev’essere provare a disegnare questo confine, mi chiesi. Certo, è ovvio che è qualcosa che non si può ritrarre in un disegno ordinario. Quel che volgarmente si chiama “disegno” non è nient’altro che la trasposizione sulla tela dei soggetti così come sono, oppure filtrati attraverso il senso estetico. Si pensa che basti che i fiori sembrino fiori, l’acqua rifletta come acqua, le persone assumano l’aria di persone, e sia finita lì. Ma se eccelli, e segui le tue impressioni, le tue ispirazioni così come vengono, goccia a goccia, sulla tela stendi la tua vitalità. Certe particolari ispirazioni, che cogli passando per caso dietro all’unità del tutto, sono molto importanti per gli artisti di questo tipo, e quindi, se gli oggetti delle tue osservazioni non sgorgano con chiarezza dalla punta del pennello, non chiami un disegno “opera”. Queste e quelle cose, che vedi in questo o quel modo, che senti in questo o quest’altro modo, il modo stesso di vedere e sentire, se non li esprimi in un lavoro che, pur sbirciando nella casa dei tuoi predecessori, non si lascia manipolare dalle leggende del passato, ma anzi, che è molto più giusto, molto più bello, allora non lo riconosci come un lavoro tuo. Fra questi due tipi di artigiani vi saranno certo differenze più o meno evidenti, ma nel fatto che entrambi pongono mano ai loro lavori spinti da un impulso reso evidente dal mondo esterno, sono del tutto identici. Ma detto questo, il soggetto che voglio dipingere non è così evidente. Incitando la percezione a cercare l’insospettato, là dove non ha limiti, trovare forme, colori, sfumature e spessore dei tratti si fa arduo. Le mie sensazioni non giungono da fuori, ammesso che giungano, e si poggiano ai bordi del mio campo visivo, senza comporre uno scenario preciso, e non potrei alzare un dito per indicare a chi che sia che, ecco, quella è la fonte. Vi sono cose che sono semplicemente puro sentimento. Questo sentimento, che aspetto potrebbe assumere su un disegno? – no, dare in prestito concretezza a questo sentimento, per quanto possibile, ed essere capaci di modellarlo in un aspetto che sia un punto d’incontro con l’Uomo, questo è il problema. 77 Nei disegni normali, con quelle cose che non richiedono sentimento, si può fare. In secondi disegni, se si mettono insieme cose e sentimenti, si può fare. Siccome, giunti ai terzi disegni, vi trovano luogo solo i sentimenti, bisogna assolutamente scegliere sentimenti che siano soggetti superbi. Tuttavia, questi soggetti non vengono facili. E anche quando vengono facili, non è facile finirli. E anche finendoli, vi sono volte che vengono differenti dalle esperienze del mondo naturale. Visti dalle sospettose persone comuni, non sono persi per disegni. E anche colui che li ha disegnati, non si cura di replicare un dettaglio del mondo naturale, solo che, se di quei sentimenti che gli aggradano in quel momento riesce a trasmetterne una parte, se un po’ di quella forza vitale passa in un umore pur difficile da percepire, allora, in questo grande successo, esso si allieta. Non so se in passato vi siano stati disegnatori che abbiano avuto successo in questa ardua impresa. Nominando chi ha intinto il dito in questo stile, fino a un certo punto, ci sono i bambù di Wen Yuke 4. Ci sono i paesaggi montani di Unkoku5 e dei suoi discepoli. A scendere, ci sono i panorami della bottega di Taiga6. Ci sono i ritratti di Buson7. Venendo ai pittori occidentali, hanno il pallino dei dettagli concreti, e quelli che non adorano il fascino della frugalità sono la maggior parte, quindi coloro che possono 4 Wen Yuke (1018-1079), artista cinese famoso per i disegni a inchiostro diluito, in particolare di bambù e di paesaggi montuosi. 5 Tōgan Unkoku (1547-1618). 6 Ike-no-Taiga (1723-1776), illustratore e scrittore proveniente dal sud del Giappone, imparò a coniugare lo stile della sua regione con l’arte del Giappone settentrionale, creando uno stile unico. 7 Yosa Buson (1716-1783), poeta e pittore della metà del periodo Edo. Il suo stile che fonde disegno e poesia sarà di ispirazione per Hokusai e fornirà i primi modelli per il genere manga, ossia, la rappresentazione di più scene successive in spazi liberi su uno stesso foglio, accompagnate da un testo o da una poesia che racconta la scena o ciò che dice il personaggio rappresentato. Soprattutto negli schizzi di ayakashi (creature fantastiche della cultura popolare, che in occidente potremmo definire “mostri”) la somiglianza con i manga moderni è già evidente. 78 cogliere il valore artistico di questo genere trascendente di acquerelli a inchiostro non devono essere più che pochi. Purtroppo, rispetto all’eleganza dei lavori di gente come Sesshuu8 o Buson, la mia abilità è semplicemente troppo misera. Dal punto di vista dell’uso del pennello, non posso nemmeno aspirare a paragonarmi a simili nomi, e mi basta pensare di provare a disegnare così e già mi sento un po’ confuso. E basta essere confuso, ed ecco che non riesco a più a trasmettere i sentimenti nemmeno su un singolo foglio. Ho anche tolto la mano dalla guancia e incrociato le braccia sul tavolo, ma proprio non vuole venire fuori. Trovare colore, forma e ritmo tali che il cuore dica “ah ecco dov’erano!”, e si riconosca all’istante in essi, così devo disegnare. Come dopo aver cercato un figlio che ci era stato tolto alla nascita, chiedendo in giro per tutte le sessanta regioni9, senza toglierselo dalla testa per un istante, né durante la veglia e nemmeno durante il sonno, ecco che un giorno, trovandolo per caso a un incrocio, quel “toh, era qui!” che ci attraverserebbe più rapido di un lampo, così devo disegnare. Questo è il difficile. Se solo riuscissi a tirar fuori quest’umore, non m’importerebbe cosa potrebbe dirne la gente. Non me ne avrei nemmeno se mi schernissero dicendo che quello non è un disegno. Se la distribuzione dei colori, fosse anche sgraziata, rappresentasse una parte di questo sentimento, se la curvatura delle linee incarnasse una porzione di questo spirito, se la disposizione dei corpi trasmettesse almeno un po’ di quest’atmosfera, qualsiasi fossero le forme che apparissero, fossero anche mucche o cavalli, o persino sia mucche che cavalli, qualunque cosa, non mi dispiacerebbe. Non mi dispiacerebbe, ma non mi viene. Ho sforzato entrambi gli occhi sul blocco poggiato sul tavolo fino a farceli cadere dentro, ma non c’è niente da fare. 8 Sesshū (1420-1506) – illustratore 9 Appellativo cinese che indicava l’antico Giappone. 79 Ho posato la matita e penso. Voler disegnare un interesse così astratto è già un errore di per se’. Le persone non sono poi così diverse fra di loro, e fra tanta gente ci sarà di sicuro qualcuno che sia stato sfiorato dalle stesse ispirazioni, e che queste ispirazioni, in qualche modo, abbia provato a renderle in una forma eterna, immutevole. Ma se ci ha provato, come avrà fatto? All’improvviso mi apparvero davanti agli occhi i due caratteri di “musica”10. Eh già, la musica è la voce della natura, nata dalla pressione del tempo e del bisogno. La musica è qualcosa da ascoltare, da apprendere, mi resi conto per la prima volta ma, sfortunatamente, su questo le mie conoscenze sono praticamente nulle. E forse, dopo ci dovrebbe essere la poesia, così provo ad addentrarmi nel terzo territorio. Mi pare di ricordare che un tipo di nome Lessing11 sostenesse più o meno che la poesia ha la caratteristica di presentare i fatti nell’ordine temporale in cui accadono, e questo la disgiunge in modo fondamentale dal disegno, e a vedere così la poesia, pare che non possa essermi d’aiuto nel trattare quel limite che tanto mi preme esprimere ora. In quella condizione psicologica in cui provo felicità, forse, esiste il tempo, ma privo del contenuto di eventi che, costeggiandone il flusso, si sviluppano in successione. Non è per l’andare di uno, l’arrivo di due, lo svanire di due e con esso la nascita di tre, che sono gioioso. Se sono gioioso è perché questi elementi emergono improvvisi e compresenti. Quando, finalmente, questo emergere compresente, ecco, riesco a tradurlo in parole comuni, ormai non è più necessario dipanare questo materiale in ordine assolutamente cronologico. In effetti, in un disegno li potrei disporre similmente nello spazio figurativo. Solo, quando si riesce davvero ad afferrare ogni passione in poesia, tanto da sciogliere 10 音楽 – ongaku – musica, formata dai caratteri 音 – on – suono e 楽 – gaku – gioia, letizia. 11 Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781). Filosofo illuminista tedesco. 80 d’un tratto il problema di dar forma a queste sconfinate e inconosciute essenze, allora la poesia, fuggendo la definizione di Lessing, ha successo. Forse, se la poesia potesse evocare un certo mood12, questo mood, pur subendo i limiti del tempo, non necessiterebbe dell’appoggio del susseguirsi ordinato dei fatti, e l’essenziale in ciò che sarebbe semplice da esporre negli spazi di un disegno, potrebbe anche essere reso in parole, penso. Ma ora basta con le speculazioni. E poi, ho dimenticato quasi del tutto “Laoconte13” o come si chiama, e ci sta che mi confonda. E comunque, m’è passata la voglia di disegnare, vediamo di far su una poesia, mi dico, e posando la matita sul blocco degli schizzi, lo fisso dondolandomi, avanti e indietro. Per un po’ la punta stette sul posto, sebbene desiderassi muoverla più di ogni altra cosa, ma non bastava questo a muoverla, nemmeno di un pelo. È come quando ti salta in mente il nome di un amico, e sebbene tu abbia l’impressione che stia per uscirti dalla gola, non lo fa. Quando decidi di rinunciare, il nome che non riuscivi a ricordare, alla fine, rimane sigillato in fondo alle tue viscere. Quando si prepara la gelatina, all’inizio, procedendo con gradualità, sulle bacchette non si sente nessuna risposta. Se si persiste, a un certo punto si addensa, e la mano che impasta si fa un po’ più pesante. Se non ci si cura di questo e si va avanti a girare le bacchette senza posa, diviene presto impossibile continuare. Alla fine, la gelatina nella pentola si attacca spontaneamente alla punta delle bacchette, pur fosse riluttante. Poetare è proprio così. 12 Parola che significa grosso modo “umore”, in Inglese nell’originale. 13 “Del Laoconte – dei limiti della pittura e della poesia” è il saggio di Lessing a cui fa riferimento Souseki, da cui estrae la citazione, che precisamente è la seguente: “Si definiscono corpi gli oggetti accostabili l’uno all’altro, come è anche per le loro parti. Perciò i corpi sono gli oggetti specifici della pittura in quanto hanno proprietà visibili. Quelle che si chiamano azioni si susseguono invece una dopo l’altra nel tempo. Le azioni sono gli oggetti specifici della poesia.” 81 Trovando la forza per muovere la matita inerte dopo più o meno una mezz’oretta, La giovinezza è per due, tre mesi Il disìo segue l’aura tanto I fior silvi al prato non fan manto Nell’empia sala l’arpa più non sento La farfalla or si muove a stento D’incenso il fumo s’avvolge lento mi vengono questi sei versi. A rileggerli, son tutti versi che potrebbero essere resi in disegno. E allora, tanto valeva fare un disegno fin da subito, mi dico. Chissà perché, ma mi è venuto più facile poetare che disegnare, mi dico. E se sono riuscito fin qui, il resto dovrebbe venirmi senza troppo affanno. Però, adesso vorrei provare a comporre delle sensazioni non disegnabili. Forse così, o cosà, dopo essermi spremuto ben bene, all’improvviso: Siedo solo, e non levo lamento Or v’è luce a un palmo dal cuore L’affanno delle genti a’ lor beghe Come si fa a quelle dimenticare? Scacciar per un giorno ogni rumore ecco cent’anni d’affanni svanire e di già così lontano son giunto delle nubi la landa senza ore m’è uscito. Provando a rileggere tutto da capo, ha un che di interessante, ma, a ogni modo, se deve riflettere lo stato d’animo in cui mi trovo, è arido e insufficiente. Ma la cosa mi prende, e proprio mentre mi dico di provare a scriverne un altro, stringendo la matita, guardando distrattamente verso l’ingresso, 82 fra i pannelli aperti per non più di non più di un metro, effimera, è appena passata un’ombra graziosa. Ma va!? Quando avevo voltato gli occhi e guardato verso l’ingresso, avevo giusto fatto in tempo a scorgere un qualcosa di grazioso già mezzo nascosto dai pannelli spalancati. Insomma, quella figura doveva essere in moto già prima che io la vedessi, e in un batter d’occhio, doveva essere già passata. Mollo la poesia e sorveglio l’ingresso. Prima che passasse un minuto, l’ombra apparve dall’altra parte, venendo al contrario. Indossando un furisode14, la leggiadra donna, senza far rumore, camminava con aria solitaria sulla balconata opposta, al primo piano15. Lasciando cadere dimenticata la matita, trattenni forte il fiato che il naso aveva iniziato a inspirare. Nell’aria lattiginosa che, da un momento all’altro, dal cielo può far cadere quel tramonto preannunciato eppure improvviso, che si posa sulla ringhiera oltre cui, aggraziata va, aggraziata viene, quell’ombra in furisode, da cui per dieci metri mi separa il giardino, nell’atmosfera pesante, la sua solitudine, ora mostra, e ora nasconde. La donna, naturalmente, non parla. Né il suo sguardo mi sfiora. Nemmeno il suono dello strascico che trascina sulla soglia giunge alle mie orecchie, così silenziosa cammina. Dai fianchi in giù ha un colore sgargiante, ma il disegno dello strascico, da lontano non riesco a capirlo. Vedo solo che, dove la parte semplice e quella lavorata si incontrano, il disegno sfuma, come a ricordare il bordo fra giorno e notte. La donna, naturalmente, sul bordo fra giorno e notte cammina. 14 Kimono in seta dalle larghe maniche. 15 Nel secondo capitolo, l’autore spiega che le camere sono disposte attorno a un giardino centrale: l’edificio principale è alto due piani, ma il pian terreno è ribassato, mentre il primo piano e le camere degli ospiti si trovano al livello del giardino interno. 83 Vestendo questo lungo furisode, quante volte vorrà andare e venire per questo lungo corridoio, io non lo so. Da quanto si comporta così stranamente, per quanto ha intenzione di continuare questa strana passeggiata, io non lo so. Quale sia il suo motivo, naturalmente, io non lo so. Naturalmente non lo so, ma la quella forma così tanto elegante, così tanto serena, così tanto ripetitiva nel suo andare e venire, quando appare davanti all’ingresso per poi svanire, e svanisce per poi apparire, ciò che provo è singolare. Se fosse un gesto per esprimere, che so, il rimpianto per la primavera che va a morire, sarebbe troppo superficiale. E se fosse un gesto per esprimere, che so, qualcosa di superficiale, sarebbe troppo ricercato. Sei colore di primavera che va a oscurarsi, meraviglioso, e ogni tanto si stinge nel miraggio, e mi sveglia, con quel broccato d’oro. Il vividissimo ordito ora va, ora viene nel blu di notte avvolto, e tu, silente, irraggiungibile, mia adorata, che poco a poco svanisci. Sei stella di primavera che va a brillare, vicina all’aurora, là nel profondo indaco del cielo in cui, volgendoti, cadi. Quando il portale del Grande Mistero16 le si spalancò innanzi, e l’immagine vivida veniva risucchiata dal Sigillo del Crepuscolo 17, mi sentii così. Velo dorato alle spalle, luce argentea di fronte, questo spicchio di sera di primavera riccamente, sfrontatamente si oscura, e quell’abbigliamento che è così adatto, non inviso al paesaggio, il suo sfumare fra i Colori del Mondo 18 senza dar segno di lotta, è in un certo senso qualcosa di sovrannaturale. Nell’ombra nera che incombe stilla a stilla, la donna che si intravede, solennemente, senza affanno, senza teme, con lo 16 Il termine usato è 太玄 – taigen – lett. “Grande Mistero”. È l’espressione di origine Taoista per definire lo stato del dell’equilibrio dell’Universo. 17 Il termine è 幽冥 の府 – yuumei no fu – lett. “Sigillo del Crepuscolo”, e si riferisce all’aldilà. 18 La parola usata è 色相世界 – shikisou sekai – “il mondo colorato”, che nella religione buddista indica il mondo fenomenico, la realtà percepita dai sensi. 84 stesso passo, pare reclamare lo steso luogo. Se non conosce la tragedia che sta per abbattersi su di lei, è l’estremo dell’innocenza. E se la conosce, il fatto che non ci pensi è spaventoso. Allora la sua vera residenza sarebbe un luogo oscuro, e lei, un breve miraggio già vòlto a tornare alla sua eterea forma originale, venuto qui per fluttuare un po’ tra l’essenza e l’assenza. Sul furisode indossato dalla donna, là dove l’ordito si sfila, l’inchiostro nero, che s’insinua senza sforzo, ricorda la di lei vera natura. Ebbi quest’altro pensiero. Se una splendida persona, presa in uno splendido sonno, senza nemmeno l’opportunità di svegliarsi, ancora incosciente, dovesse rendere il respiro a questo mondo, noi che la vegliamo per proteggerla dalla malattia, quanto ne soffriremmo! Se dovesse morire dopo aver aggiunto sofferenze alle sofferenze, la stessa persona ormai priva d’una ragion d’essere, e coloro che le restano affettuosi a fianco, forse si arrenderebbero all’idea che la morte sia la cosa più compassionevole. Ma nel fatto che una bimba serenamente addormentata debba morire, c’è qualcosa di profondamente sbagliato. Venire condotti all’aldilà nel sonno, ancora impreparati alla morte, è come porre fine a una vita con uno spregevole inganno. Se proprio dovessi morire, vorrei che mi fosse dato di il tempo di meditare sull’ineluttabilità, di accettarlo, di recitare il Nenbutsu19. Se, ancora impreparati ad accettare la condizione della morte, eppur di fronte alla sua realtà, nel momento in cui si fa evidente, si potesse ottenere una voce capace di risuonare con quella del Budda Amida, con quella voce, «ehi! ehi!», così vorremmo chiamare a noi chi già poggia un piede nell’altro mondo. Per chi si trovasse a passare dal sonno momentaneo a quello eterno senza rendersene conto, l’essere richiamato indietro sarebbe forse come venir dolorosamente intrappolato nella rete degli affanni da cui si era appena liberato. Forse penserebbe: “e dai, è la cosa più compassionevole, non chiamarmi, lasciami dormire in pace”. E ciò nonostante, ci viene voglia di 19 Preghiera buddista che recita l’abbandono dell’Io all’immensità del tutto. 85 richiamarlo. La prossima volta che la donna passerà davanti all’ingresso, la chiamerò, e la salverò dall’oscurità incombente, pensai. Eppure, come in sogno, mentre la forma sfila eterea nel metro fra i pannelli, chissà come, la bocca s’ammuta. «Ma stavolta...» mi faccio cuore, e nel mentre, eterea, passa illesa. Nell’istante in cui mi chiedo «ma perché non riesco dire nulla», la donna passa ancora. Con l’aria di colei che non pone la benché minima attenzione a quella persona che, qui, tanto si strugge, a quella persona che, per lei, tanto freme, passa. Con l’aria di colei che, fin dall’inizio, non vuol far caso a fastidi, o seccature, o a me, passa. «Stavolta... stavolta...» mi dico, ma trattenuti a stento dagli strati di nubi, i fili della preannunciata pioggia, suadenti, scendono, sigillando nel fruscìo la forma della donna. 86 7 Che freddo... tiro giù l’asciugamano e scendo verso la vasca. Butto il kimono verso il tre tatami1 e, gradino a gradino, ne scendo quattro ed esco verso una sala da bagno da otto tatami. A dimostrare che da queste parti non sono a corto di pietra, il pavimento è lastricato di granito, e al centro, scavata per quasi un metro, è sistemata una vasca tipo quelle dei negozi di tōfu2. E anche la vasca stessa, come mi aspettavo, è lastricata in pietra. Oltre ad avere il nome di “sorgente minerale” deve averne anche diverse caratteristiche, ma il colore è cristallino, ed entrarvi è piacevole. Ogni tanto provo a metterla in bocca, ma non ha nessun particolare sapore, o odore. Pare che abbia capacità curative, ma non ho provato a chiedere, quindi non so su quali malattie funzioni. E comunque, non ho nessuna particolare malattia, quindi, al di là del suo uso più evidente, non mi viene in 1 I Giapponesi misurano le stanze in “tatami”, ossia pannelli usati fin dall’antichità come copertura del pavimento, che hanno una dimensione rettangolare standard di circa un metro per due; il lato lungo è esattamente il doppio di quello corto. Una stanza da tre tatami è formata accostando due tatami in verticale a uno, appoggiato per il lato lungo, in orizzontale; una da otto tatami è formata da due tatami al centro appoggiati sul lato lungo in orizzontale, due affiancati in verticale e poi due tatami sopra e due sotto, a formare un quadrato di quattro metri per quattro. 2 È un a pasta vegetale ottenuta dalla fermentazione dei semi di soia, che nella cucina giapponese sostituisce il formaggio. All’epoca della stesura del romanzo, le vasche per la fermentazione erano per lo più incavate nel terreno. 87 mente nessun ulteriore vantaggio. Mi basta entrarci e mi sovvengono i versi di Hakurakuten3: della sorgente quell’acqua levigata scioglie lo sporco Mi basta sentire la parola “sorgente” che, ogni volta, m’immergo in quel piacevole sentimento che appare fra questi versi. E quando non mi viene questo sentimento, allora, mi dico, è una sorgente che non vale nulla. A parte queste considerazioni, a una sorgente non chiedo quasi nient’altro. Mi butto dentro, immergendomi fino al petto. Non so da dove spunti l’acqua, ma la vasca pare sempre ben colma fino all’orlo. La pietra di primavera si bagna senza mai asciugarsi, tepidamente, e i piedi che vi si posano, il cuor docilmente ne gioisce. Nella pioggia che cade, graffiando la notte, v’è vividezza soffusa appena per smaltare la primavera, ma le gocce dei tronchi, via via più costanti, battono d’un battere che mi giunge all’orecchio. È uno scenario di sbuffi di vapore che s’alzano ininterrotti a seppellire tutto fra il pavimento e il soffitto, e se trovassero uno spazio fra le sottigliezze degli anfratti, per nulla riluttanti, correrebbero ad infilarvisi. La nebbia d’autunno, fredda, l’aleggiante foschia, serena, i fumi dei focolari degli uomini che si levano alla sera, azzurri, rendono le loro flebili forme all’immensità del cielo. Hanno ognuno una propria malinconia, ma la nube sorta dalle sorgenti calde nelle notti di primavera, abbracciando morbida la pelle di chi vi si bagna, mi fa sospettare d’essere ancora uomo in un mondo 3 Si tratta in realtà di 白居易 Bai Juyi (772-846), poeta cinese dell’epoca Tang, più noto col suo appellativo di 乐 天 Letian, “paradiso”. È più conosciuto in Giappone con il nome di Haku Rakuten, che è appunto la traduzione in Giapponese di Bai (bianco) e Letian (paradiso). Il suo stile elegante e fluido fu ispirazione di molti poeti giapponesi del periodo Hei’an (792-1175). 88 antico. Non è tanto densa da privare gli occhi del riflesso d’ogni cosa, ma lo è abbastanza che mi scopro, senza provarne dolore, un semplice mortale, e quindi non è nemmeno poi così sottile. E a piegarne un velo, a piegarne due veli, a piegare chissà quanti veli fino a finirli, non s’affaccia nulla che ne venga fuori, così, solo in ogni verso, sono immerso in questo caldo arcobaleno. Si sente dire “fumi dell’alcol”, ma non ho mai sentito un modo di dire tipo “ubriacarsi di fumo”. E se vi fosse, certo non userei “nebbia”, e “foschia” sarebbe un po’ stiracchiata. Solo questo nembo, perfetto a corona dei due caratteri di “notte di primavera4”, mi accorgo, sarebbe finalmente adeguato. Sdraiandomi supino col bordo della vasca a sostenermi la testa, provai, per quanto mi fosse possibile, a lasciar galleggiare il mio corpo leggero nell’acqua cristallina, senza opporre resistenza. Dolcemente, dolcemente, l’anima fluttua come una medusa. Se potessi stare al mondo in questo modo, che bello sarebbe. Aprire il sigillo della dualità, e rimuovere il perno che tiene chiuse le porte dell’attaccamento. Anzi, vorrei proprio, nell’acqua tiepida, in acqua tiepida trasformarmi. A un essere che vive semplicemente fluttuando, il dolore non serve. In un essere che, fluttuando, vedesse anche la sua anima trascinata via, vi sarebbe persino più riconoscenza di quella che provano i Cristiani. A pensarci su, in fondo fu quella l’eleganza di Dozaemon 5. In quella poesia di Swinburne6 di cui mi sfugge il nome, mi pare fosse descritta la gioia di una donna che era andata a vivere sul fondo dell’acqua. Per me, sofferente per questa piatta esistenza, 4 I caratteri sono 春宵 – shunshou – appunto “notte di primavera”. 5 Narusegawa Dozaemon, famoso lottatore di sumo del 18mo secolo. Lo scrittore dell’epoca Santou Kyouden, nel suo “miracoli recenti, tomo 1”, ci riporta l’origine di questo modo di dire: “Il modo di dire, diffuso a Edo, che consiste nell’indicare gli affogati col nome di Dozaemon deriva dal fatto che fu ritrovato il corpo di un affogato che s’era gonfiato tanto da sembrare Narusegawa.” 6 Algernon Charles Swinburne (1837-1909), poeta, scrittore e critico letterario inglese, premio nobel per la letteratura nel 1907 e nel 1909. Le sue tematiche ruotavano attorno alla libertà e alla gioia raggiunta attraverso la liberazione dalle convenzioni del tempo. 89 nell’Ofelia di Millais, a considerarla sotto questa luce, v’è un grande fascino. Fino a ora mi sono sempre chiesto perché avesse scelto un soggetto così infelice, ma a pensarci bene è un gran bel quadro. Galleggiando sull’acqua, ovvero sprofondando nell’acqua, o ancora a volte sprofondando e a volte galleggiando, quella forma che, priva di dolore, viene semplicemente trascinata via è proprio bella. E poi, quegli steli che si alzano sulla riva, il colore del viso che scorre assieme al colore dell’acqua, e si confonde col colore dell’abito, una volta composti in placida armonia, fanno proprio un bel quadro. Certo che l’espressione di quella persona che scivola via, così pacifica, è come una metafora, che so, di una qualche leggenda. Un’espressione spasmodica avrebbe sferzato i nervi, e invece sul suo volto sereno, per niente erotico, non si riflette alcuna passione. Che volto potrei dipingere per riuscirci io? L’Ofelia di Millais può essere un successo, ma dubito che la sua disposizione emotiva fosse come la mia. Millais è Millais, e io sono io, e quindi voglio provare a dipingere qualcosa di significativo per me, l’eleganza del mio Dozaemon. Però, farmi saltare in mente un volto così non è facile come dirlo. Galleggiando nell’acqua tiepida, provo a scrivere il mio Dozaemon. Dovesse cader la pioggia, ti bagneresti. Dovesse scendere il gelo, ti fredderesti. A star giù sotto la terra, t’incupiresti. A galleggiar, dell’onde insopra, ad affondar, dell’onde insotto, foss’acqua delle vere, dolore non avresti. dico, e mentre la rigiro lenta in bocca a bassa voce, sento il suono di uno shamisen venire da chissà dove. È triste a dirsi per un artista quale sono, ma il fatto è che trovo l’abilità in questo strumento oltremodo strana, abbassare un secondo, alzare un terzo, non capisco come si possa così posare quel riverbero che 90 rimane nell’orecchio. Tuttavia, in questa tranquilla notte di primavera che finanche la pioggia attrae l’intento, nella vasca del villaggio di montagna, mentre persino l’anima galleggia in questa rugiada di primavera, udire innocente uno shami da lontano m’è gran gioia. Da lontano, quel che canta, quel che suona, va da sé che non lo capisco. E in questo c’è qualcosa che m’attrae. A giudicare dalla serenità che infonde la melodia, parrebbe una canzone popolare dei tempi dell’antica capitale. Quand’ero bambino, abitavo dirimpetto a una taverna chiamata “le diecimila stanze7”, dove c’era una ragazza chiamata Okura8. Questa Okura, ogni tranquillo pomeriggio di primavera, non mancava mai di rivisitare i canti classici. Quando attaccava, io uscivo in giardino. A parte d’un orticello coltivato a tè, tre pini erano allineati a est del salotto. Questi pini dall’ampio fusto largo oltre trenta centimetri, stranamente, erano la prima cosa che avesse destato in me il gusto del bello. Nel mio cuor di bambino, vedere quei pini mi faceva stare bene. Sotto ai pini, una lanterna da giardino di ferro brunito, su di una pietra rossa di cui non so il nome, ogni volta che la vedevo era assisa come un nonno ostinato. Io adoravo osservare questa lanterna. Attorno a quella lanterna, scavavo a fondo a prendere il muschio, quell’erba di primavera dal nome ignoto, col volto ancora inconscio del vento 9 del mondo fluttuante, e solo, ne assaporavo il profumo, e solo, ne gioivo. Seduto lì, osservare quell’erba che spuntava appena fra le gambe, fisso, era il mio vizio di quel tempo. Sotto a quei tre pini, fissare quella lanterna, assaporare la fragranza di quell’erba, e poi 7 Nella mitologia orientale, gli dei abitano in dimore celesti di questa dimensione. L’accostamento di un concetto così sacro alla taverna, luogo assai mondano se non profano, è piuttosto ironico. 8 Scritto 御 倉 – letteralmente “onorevole granaio”, dove quel “granaio” è etimologicamente usato come metafora di un luogo di abbondanza, e se riferito a una donna, suonava all’epoca come la nostra locuzione “grazie femminili”. 9 “Vento” è qui usato sia in senso fisico, che nel suo valore idiomatico di “moda”, “stile”. 91 ascoltare il canto lontano di Okura, in quei giorni era quella la mia lezione quotidiana. Okura, ormai, avrà già passato il tempo dei nastri rossi 10, e mostrerà a chi entra un volto da brava casalinga. Magari va anche d’accordo col marito. Magari le rondini, tornate di anno in anno, col becco pieno di fango, si danno da fare 11. Rondini e puzza di saké, per quanto provi, nella mia fantasia, non riesco proprio a separarli. Magari i tre pini stanno ancora benone. La lanterna ormai si sarà rotta di sicuro. L’erba di primavera, quel tipo che si acquattava allora, chissà se se lo ricorderà ancora. Dopo tanto tempo, non può certo riconoscere uno con cui neanche aveva scambiato una parola. Dei “sonagli sulla veste da viaggio 12” di Okura, e della voce dei giorni, e del mondo, e di me, non si può dire che ne abbia memoria. Quando quel panorama che il suono dello shamisen aveva steso davanti ai miei occhi, quel nostalgico passato in cui avevo vissuto vent’anni prima, innocente, inconsapevole moccioso, era svanito, all’improvviso si aprì la porta della sala da bagno. Pensando “toh, arriva qualcuno”, lasciai il corpo a galleggiare, riversando nell’ingresso solo lo sguardo. Dato che avevo la testa appoggiata all’estremità del bordo della vasca più lontana dall’ingresso, e i gradini che scendevano alla sala erano distanti una decina di metri, gli occhi penetravano l’inclinazione delle scale. Eppure, sulle mie pupille ora sollevate il più possibile, ancora nulla si rifletteva. Per un po’, s’ode solo il suono delle 10 Le giovani spose fresche di matrimonio usavano intrecciare le loro pettinature con nastri rossi. 11 Come in Italia, in Giappone le rondini sono considerate beneauguranti e avere un nido di rondine sotto al tetto è considerato una benedizione, ma col termine “rondine” si indica anche un giovane maschio che si fa mantenere da una donna attempata. In questo senso va sicuramente interpretata la frase che segue. 12 Uno dei canti classici a cui Souseki fa riferimento (長唄 – nagauta – canto lungo). 92 gocce condensate sulle travi. Lo shamisen ha già smesso da non so quanto. Finalmente, sulla scala qualcosa è apparso. Dato che a illuminare questa grande stanza c’è solo una lanterna portatile, anche a scostare l’aria densa che si frappone, distinguere i dettagli sarebbe difficile. E ancor di più col vapore che preme, levandosi in pioggia spessa, nella sala da bagno di stasera, ove ogni via di fuga è preclusa, determinare chi vi si trovi è oltremodo arduo. Scende un gradino, si appoggia al secondo, presto, senza dar tempo all’ombra di stagliarsi, che sia uomo o donna non accenna nemmeno un saluto. La cosa nera si mosse d’un passo in giù. Come se la pietra che calpesta fosse morbida quanto il velluto, a far ritmo del suono dei passi, si direbbe che non si muove affatto. Ma il profilo un po’ fluttua. Essendo un disegnatore, ho un senso sottile per le strutture dei corpi. Senza sapere altro, quando raggiunse il primo gradino, mi resi conto di trovarmi in questa sala da bagno assieme a una donna. Mi avrà notato, o forse no, pensavo fluttuando, e nel mentre l’ombra di donna, nella sua interezza, apparve di fronte a me. Fra i vividi fumenti in moto, una morbida incarnazione d’un raggio di luce, là, un fondo d’un tepido rosa, i fluenti capelli neri fatti ondeggiare in una nube, il busto ostentato al massimo, si ergeva snella la forma di donna, e quando la vidi, i sentimenti di cortesia, buone maniere, pudore, abbandonarono ogni angolo della mente, e in libertà non pensai altro che: “ne verrà un buon disegno”. Lasciando da parte le sculture dell’antica Grecia, osservando quanto i pittori francesi contemporanei abbiano come unica loro risorsa il nudo, la bellezza della carne fin troppo esposta, si coglie facilmente il segno lasciato dalla voglia di dipingere tutto fino all’estremo, il ché mi dava un senso sottile di mancanza di dignità, ma che fino a ora non mi aveva infastidito. Solo, pur giudicando quell’immediatezza in qualche modo inferiore, il perché fosse inferiore, per qualche ragione, mi sfuggiva, e oggi 93 avevo raggiunto la risposta che mi struggivo di cercare. Se lo si copre con la carne, ciò che c’è di davvero bello viene nascosto. Se, la carne, non la si nasconde, diviene sciatta. Nel nudo contemporaneo non v’è alcuna finezza, se non quella di non nascondere questo sciattume. Nelle forme derubate delle loro vesti, nel riprenderle così come sono, si ha l’impressione che siano incomplete, che cerchino di insinuarsi nel mondo agghindate dalle vesti. Desidererebbero mettersi un abito, ma dimentiche della più normale delle condizioni umane, tentano con la loro nudità di liberarsi delle imposizioni. Quel che già dovrebbe essere bastante, si sforzano di farlo bastantissimo, o bastantissimo tanto, e così all’infinito, che si ha la forte sensazione che dicano: “hai visto quanto sono nudo”?! E quando questa tecnica arriva al culmine è quando tenta di involgarire lo spettatore. Ci sono esempi di cose affascinanti, e ancor più belle, che quando si è volgarmente precipitosi, più erano affascinanti, più, quel fascino, lo perdono. È per questo che si dice che il troppo stroppia. L’abbandono e l’innocenza indicano maestria. La maestria, per quel che riguarda la pittura, la poesia, o anche la letteratura, è un prerequisito indispensabile. La peggiore mancanza degli artisti di oggi, della così detta corrente contemporanea, è cerare di superare, scimmiottandoli, i grandi artisti del passato, attaccandosi spasmodicamente a dettagli insignificanti. I nudi ne sono un buon esempio. In città, si trovano le così dette “geisha”. Vendendo sensualità, fanno dell’attrarre le persone un commercio. E quando si rivolgono ai clienti, più che preoccuparsi di come la loro immagine si rifletta nelle loro pupille, si curano che questo non appaia dalla loro espressione. Sfogliando i cataloghi delle esposizioni, anno dopo anno, sembrano sempre più bellezze nude che assomigliano a delle geisha. Nemmeno per un secondo dimentiche del loro corpo esposto, col prudore di ogni muscolo, lavorano per mostrare la propria totale nudità all’osservatore. 94 Ora, la bellezza che ho d’innanzi, nemmeno di una di queste immondizie che coprono gli occhi si veste. Se dicessi che ha gettato via i panni che avvinghiano la gente comune, fra la gente, subito, ricadrebbe. Come forma divina invocata e scesa dalle nuvole, che mai si sia vestita, né abbia ondeggiato una manica, così è la sua naturalezza. I vapori che inondano la stanza, e la seppelliscono ancor più in là, sullo sfondo, ribolliscono senza posa. La fiaccola della notte di primavera si sbriciola allargandosi nella semitrasparenza, un mondo iridescente che vibra impercettibilmente nella stanza, e copre i capelli scuri, forse neri, attorno a una forma candida che, dal fondo delle nuvole, poco a poco, viene ondeggiando. Orsù, osserviamo quel profilo. La nuca rotonda poggerà leggera, stretta da ambo i lati, sulla linea che cadrà verso le spalle rilassate, si piegherà rotondamente, e fluirà dividendosi fra le punta delle cinque dita. Sotto i due seni che ondeggiano turgidi, mostrerò la pelle ben tesa che torna morbida più in basso. L’impeto si stempererà volgendosi dietro, e là dove si esaurisce, per salvaguardare l’equilibrio delle carni che si partono, sporgerà un po’ in avanti. Le anche lo riceveranno sostenendolo, e là dove il lungo fluire poggerà sui i talloni, i piedi posati sul piano comporranno ogni discordia, e le caviglie ne saranno il sereno compimento. A questo mondo non c’è armonia così complessa, né armonia così completa. Così naturale, così morbido, così arrendevole, così privo di dolore, un profilo così è introvabile. Sebbene questa forma sia esposta come un nudo qualsiasi, non trafigge i miei occhi. Come un memento d’una specie di spirito che incanta ogni cosa, non fa altro che suggerire una completa, intima bellezza. Gli spazi punteggiati su uno schizzo ad acquaforte sono agghindati di vuoto, calore, vaghezza che, artisticamente e impunemente, vogliono sembrarci un drago, e non i tratti d’un pennello. Se è vero che a essere minuziosi, a disegnare sei a sei le trentasei scaglie di un drago lo si fa buffo, invece le carni nude nude, osservate pure pure, riverberano di 95 una presenza divina. Quando il profilo si posò sui miei occhi, mi apparve come Kouga della Luna 13, quando, fuggita dalla Capitale dei katsura14, inseguendo l’arcobaleno, per un po’ si trasformò in farfalla. Il profilo viene ondeggiando bianco. Nell’istante in cui penso che se muovesse un altro passo, la mia agognata Kouga, apparendo, cadrebbe nel mondo volgare, le punte dei capelli, fendendo l’acqua come la coda di un mostro-tartaruga 15, fluttuanti come steli, sensuali, mi lambirono. Squarciando i fumi vorticanti, la forma bianca vola su per i gradini. “Hohohoho”, ride affilata la voce di donna, rimbombando nel corridoio, mentre si allontana dalla sala da bagno sempre più silente. Bevendo e tossendo, scatto in piedi nella vasca. Le onde, sorprese, mi battono sul petto. Il suono dell’acqua che sborda, piange “saa, saa16”. 13 E’ una leggenda cinese che ha per protagonista Kouga, una sapiente che viveva in un mondo incantato sulla Luna, e che dopo aver rubato la pozione dell’eterna giovinezza, era fuggita sulla Terra, divenendo l’incarnazione dello Spirito della Luna. 14 I katsura sono un albero ornamentale tipico del Giappone (Cercidiphyllum Japonica), che secondo la leggenda ornavano la capitale del Regno della Luna. 15 Il termine originale è 霊亀 – reiki - “spirito tartaruga”. 16 È un’onomatopea dal significato particolare, che indica stupore e derisione. 96 8 Finisco col farmi offrire quel tè. Oltre a me, è ospite un monaco, il priore del tempio Kankai, che si chiama Daitetsu. E un laico, un giovane sui venticinque. La stanza del vecchio è in fondo a un vicolo cieco, ci arrivo tenendo la destra sul mio corridoio e poi girando a sinistra. Sarà circa un sei tatami. Siccome al centro c’è un grande tavolo di sandalo rosso, è più stretta di quanto si direbbe. Quando faccio per sedermi, mi accorgo che, al posto dei cuscini, è steso un tappeto. Va da sé che è cinese. Disposto a esagono, l’ordito mostra strane case e strani peschi. Il bordo è decorato in quadricromia, con un motivo di tazze da tè di un colore azzurro ferreo. Che in Cina lo usino per sedervisi è dubbio, e vederlo impiegato al posto dei cuscini è buffo. È più come un tendaggio indiano, o un arazzo persiano, ma così come c’è del buono nel concedersi qualche libertà, c’è del gusto nell’aver cambiato l’uso di questo tappeto. Non solo il tappeto, tutte le suppellettili sono cinesi. Non ne viene altra impressione se non quella di una civiltà spaventosamente lungimirante. Le guardo e resto imbambolato nell’ammirazione. In Giappone creiamo prodotti d’arte come fossimo borsaioli. In occidente si concentrano sui dettagli, e inoltre inseguono invano le passioni terrene. Assorto in questi pensieri, mi siedo. Il giovane si è infilato al mio fianco e ha monopolizzato il centro del tappeto. Il priore si è seduto su una pelle di tigre. La coda mi passa di fianco alle cosce, e la testa è stesa sotto al sedere del vecchio. Il vecchio, con i capelli che, a parte qualcuno, hanno lasciato la testa come per trasferirsi presso una bianca barba, che cresce 97 rigogliosa dalle guance e dalla gola, allinea gentilmente sul tavolo le tazze accanto alla teiera. «Siccome è tanto che non ricevo ospiti, ho pensato di offrirti del tè...» dice rivolto al bonzo, «Ti ringrazio per l’occasione. Ho oziato troppo, e stavo appunto pensando di venire a farti visita» gli risponde. Il monaco è vicino ai sessanta, col volto tanto tondo da sembrare un Budda scarabocchiato in corsivo. Sembra avere una particolare familiarità col vecchio. «E questa persona, è forse un cliente?» Il vecchio, mentre annuiva, versò due, tre gocce di siero di giada1 dal colore verde-ambrato, da una boccetta di ceramica rossa, sul fondo delle tazze. Una fragranza pura mi assalì impercettibilmente il naso. «Ti sentirai solo, qui in campagna» il priore si rivolge direttamente a me. «Embhé...» rispondo evasivo. Dire che mi sento solo sarebbe un inganno. Dire che non mi sento solo richiederebbe troppe spiegazioni. «Ma va, priore. Questo signore è venuto per dipingere, sarà ben preso!» «Ah, è così, allora va bene. Forse è della Scuola Meridionale?» «No» rispondo stavolta. Anche se gli dicessi che disegno all’occidentale, questo priore non potrebbe capire. «No, è della scuola occidentale, quella là...» il vecchio, prendendo l’iniziativa, mi interrompe. «Hahaha, la scuola occidentale? Allora disegnerà come Kyuuichi... l’ho visto per la prima volta di recente, ma mi è sembrato disegnasse piuttosto bene.» 1 98 È un termine generico che indica un distillato alcolico di altissima qualità, a prescindere da quale tipo di alcolico si tratti. «Ma no, sono negato!» apre finalmente bocca il giovane. «Ehi, hai fatto vedere qualcosa al priore?» chiede il vecchio al giovane. Sia dai termini che dal tono che usa, si direbbe che sono parenti. «Macché, non gli ho fatto vedere nulla, è che il priore mi ha beccato mentre facevo un disegno dal vivo, al Lago dello Specchio.» «Ah sì, eh? … vabbeh, ho versato il tè, beviamocelo» dice il vecchio posandoci le tazze davanti. Di tè ce n’è si e no tre o quattro gocce, ma le tazze sono fin troppo grandi. Sono del colore dei muri freschi, con segni vermigli intensi e gialli sbiaditi a tracciare un disegno, o un intreccio, o forse la maschera di un demone, comunque qualcosa di non ben definito. «È un Mokubei2» spiegò semplicemente il vecchio. «Oh, è interessante» lo lodai con altrettanta semplicità. «Ci sono un sacco di imitazioni di Mokubei – dai un’occhiata al fondo. C’è la sua firma» dice. Sollevandola, la volgo verso i pannelli e la guardo. L’ombra dei sostegni dei pannelli si proietta calda. Provando a sbirciare storcendo il collo, riesco a vedere il carattere “moku” in piccolo. Al di là della buona fattura del timbro, non mi sembra così importante, ma capisco che è qualcosa a cui i collezionisti fanno molto caso. Pienamente dolce, col giusto tepore, è una densa rugiada che lasciar cadere, goccia a goccia, sulla punta della lingua è un piacere raffinato per intenditori. Le persone comuni credono che il tè sia una bevanda, ma questo è un errore. Caricata con veemenza sulla punta della lingua, questa cosa ‘sì pura, non è un liquido da spargere ai quattro venti, per poi farlo cadere giù in gola. È solo il profumo, definizione stessa di fragranza, che si trasmette dall’esofago allo stomaco. Passarlo sui 2 Mokubei Aoki, 1767-1833. Un famoso artigiano di Kyoto, specializzato nella produzione di tazze da tè, ha lasciato anche diversi dipinti e stampe ornamentali. 99 denti è spregevole. L’acqua è fin troppo leggera. Non conosce la pesantezza del Gyokuro3, che mai si direbbe fatto con semplice acqua, duro al punto da stancare il pomo d’Adamo. È una bevanda perfetta. E se mi si dice che non fa dormire, che non si dorma! Io ve lo consiglio lo stesso. Il vecchio, a un certo punto, ha tirato fuori un piatto di pasticcini. In gran quantità, sottilissimi, regolarissimi, penso ci sia da stupirsi della maestria del navigato artigiano. A vederli in controluce, l’ombra del sole di primavera li attraversa, e pur attraversandoli, pare che, incapace di fuggire, perda la strada. «Siccome avete lodato le mie porcellane, oggi ho pensato di mostrarle, e le ho tirate fuori.» «Quali porcellane? – Aaah, la biscottiera, eh? Quella garba anche a me. A proposito, senti un po’, non è che fai i disegni all’occidentale anche sui fusuma? Se lo fai, avrei un favore da chiederti...» Beh, per disegnare, lo disegno anche, ma non ho idea se sia di gradimento di questo monaco. Se devo patire tanto per poi sentirmi dire, scusa, ma un disegno all’occidentale proprio non fa al caso mio, non ne vale la pena. «Mi sa che sui fusuma non starebbero bene.» «Non starebbero bene, eh? Eh già, se sono come quelli di Kyuuichi-san, mi sa che sono un po’ troppo vivaci.» «Ma io sono negato. Quelli erano delle sciocchezzuole» dice con foga il giovane, vergognandosi con modestia. «Quel lago del qualcosa, dove si trova?» chiedo al giovane uomo, giusto per sapere. «Dalle parti della valle appena dietro al tempio Kankai, è un posto appartato. – Mi trovavo un po’ di tempo libero da scuola, 3 100 Tipo di tè particolarmente intenso e apprezzato. me ne avevano parlato e, giusto perché mi annoiavo, sono andato a vedere un po’ com’era.» «E il tempio Kankai...» «Il tempio Kankai è il posto dove sto io. È un bel posto, c’è una bella vista sul mare... beh passa a trovarmi mentre sei qui. Ma va... da qui sarà giusto un paio di chilometri. Dalla fine di quel corridoio già si vedono i gradini!» «E quando potrei passare a disturbarla?» «Ah beh, quando vuoi. Anche la signorina di qui, viene sempre. – A proposito della signorina, oggi Nami-san non s’è fatta vedere – è successo qualcosa, padrone?» «Boh, sarà uscita. Kyuuichi, non è passata dalle tue parti?» «No, non l’ho vista.» «Magari è andata ancora a passeggiare da sola, hahahaha. Namisan ha buone gambe! L’altro giorno, mentre andavo per un impegno a Tonami, dalle parti del ponte di Sugatami, faccio in tempo a pensare: – oh, certo che le somiglia – e mi accorgo che era proprio Nami-san! S’era tirata su il kimono, e aveva infilato gli zouri4 e come mi avvicino – Abate, che ci fate qui, quatto quatto? Hahahaha, m’ha sorpreso! E quando ho provato a chiederle, e tu dove vai, conciata così? Lei mi ha detto, a cogliere del prezzemolo, e mi ha infilato un mazzetto di prezzemolo tutto infangato nella manica. Hahahahaha...» «Scusa...» dice il vecchio con un sorriso amaro, ma alzandosi all’improvviso fa «a dire il vero, volevo mostrarvi questo» e la conversazione torna sugli oggetti. Il vecchio tira giù da una mensola vermiglia, tutto esitante, un vecchio sacco di seta damascata, qualcosa dall’aria pesante. «Abate, ti è mai capitato di vedere qualcosa del genere?» 4 Sandali in paglia, per niente femminili né eleganti, tipicamente usati dai contadini e dai viandanti perché più comodi per i lunghi viaggi. 101 «E che sarà mai?» «È una suzuri5.» «Oh... e che genere di suzuri è?» «Dicono che fosse un oggetto caro a San’you6...» «No... non ne avevo mai visto una così!» «E la scatola è firmata da Shunsui7...» «Oh, questo è interessante. Dove dove?» Il vecchio, rispettosamente, apre il sacchetto damascato, e tira fuori una pietra quadrata di colore brunito, mostrandocela appena di sbieco. «Che bel colore! È di Tankei8?» «Sì, una Tankei con nove occhi di kuyoku9!» «Occhi di che?!?» fa l’Abate, e ci mette una gran enfasi. «E questa scatola è di Shunsui» dice il vecchio, e ci mostra un coperchio sottile e allungato nel sacchetto. Sopra, c’è un poema breve, vergato con la calligrafia di Shunsui. «Ah, vedo. Shunsui scriveva proprio bene. Scriveva bene, ma, dicono che Kyouhei10 fosse più bravo...» «Mah, forse era più bravo...» 5 Pietre levigate usate come calamaio per stemperare e raccogliere l’inchiostro di china usato dai Cinesi, dai Coreani e dai Giapponesi per scrivere e dipingere. 6 San’you Rai (1781-1832), letterato e poeta giapponese. 7 Shunsui Rai (1741-1816), letterato giapponese, padre di San’you. 8 Località della Cina in cui si estrae il materiale più pregiato per produrre le pietrecalamaio. 9 Uccello simile al passero o allo storno diffuso in Asia; ha gli occhi evidenziati da un cerchio di pelle rossa, simile alla pernice. Si noti che una delle letture del numero nove è “Ku”, che forma un assonanza con il nome dell’uccello, quindi le pietre più pregiate sono quelle con nove occhi di Kuyoku. 10 Kyouhei Rei (1756-1834). Poeta e studioso Giapponese, figlio di Shunsui, fratello maggiore di San’you. 102 «Pare che San’you fosse il peggiore di tutti. Il suo talento era tutto rivolto a cose mondane, per niente interessanti.» «Hahaha, sapevo che non San’you non ti piace, Abate, e per questo, oggi ho tolto il suo dipinto e ne ho messo un altro.» «Già» fa l’abate, girandosi indietro. Sulla mensola, col ripiano tirato a lustro come uno specchio, in un vecchio vaso d’ottone lustrato d’ogni ruggine, vive un ramo di magnolia alto tre palmi. Su di un antico broccato ancora rilucente, c’è un grande Bussorai11, in una grande cornice. Non è in seta, e siccome deve aver visto qualche stagione, maestria dei caratteri a parte, il colore sul bordo della carta mostra un bel ritmo. E anche il broccato, non che fosse stato intessuto in modo ammirevole, ma il colore sbiadito, i fili dorati ossidati, le parti più grossolane assopite, quelle più rifinite esaltate, che, penso, com’è adesso sta proprio bene. Il muro sabbiato color tè scuro, i perni di avorio bianco che spuntano da ambo i lati, la magnolia che si protende galleggiando al suo fianco, e in ogni dettaglio, la mensola dà un senso di gran pace, anzi, di malinconia. «Sarà un Sorai...?», dice l’Abate, col collo ancora girato. «Anche Sorai, forse non le piace, ma io lo trovo migliore di San’you.» «Ah beh, Sorai è decisamente migliore. Anche se durante il Kyouho12 avevano un pessimo gusto, c’è qualche bell’oggetto.» «Se ci fosse stato solo Koutaku 13, si sarebbe potuto dire che i talenti Giapponesi erano ben miseri rispetto ai Cinesi, ma con Sorai... giusto, Abate?» 11 Sorai Ogyuu (1666-1728). Calligrafo e letterato del medio periodo Edo. Qui l’autore usa il suo pseudonimo/firma per indicare una sua opera (come noi potremmo dire “appeso alla parete aveva un Monet”). 12 Periodo del medio Edo che va dal 1716 al 1736. 13 Koutaku Sei-i (1658-1735). Letterato, calligrafo e scrittore del medio Edo. 103 «Non so. Non vado tanto orgoglioso di quei caratteri, wahahahaha!» «A proposito, Abate, da chi hai imparato?» «Io? Beh, i bonzi Zen non leggono libri, e manco li copiano...» «Eppure, da qualcuno avrai pure imparato!» «Da giovane, ho praticato un po’ lo stile kousen. Tutto qui. Però, quando me lo chiede qualcuno, scrivo. Wahahahaha. Fammi vedere quella Tankei un momento.» chiede l’abate. Lentamente, la suzuri esce dal sacchetto di seta damascata, e tutti gli sguardi dei convitati si posano su di essa. Lo spessore è circa cinque centimetri, abbastanza ordinario. Anche la dimensione del serbatoio, dodici per diciotto centimetri, si può dire normale. Il coperchio è un ramo di pino lasciato al naturale, le scaglie sulla corteccia ben rifinite, coperto da lacca trasparente, su cui sono incisi due caratteri che non riesco a leggere. «Questo coperchio...» dice il vecchio. «Questo coperchio non è un semplice coperchio, come potete vedere, è certamente un ramo di un pino...» Gli occhi del vecchio si voltano verso di me. Ma a me, che sono un pittore, sfuggiva cosa ci fosse di tanto meraviglioso in un coperchio fatto con un ramo di pino, e così dissi: «Un coperchio di pino mi sembra un po’ banale...» Il vecchio, senza ribattere, sollevandolo fra le mani «Se fosse solo il ramo di un pino sarebbe banale, ma ecco qua. Quando San’you si fermò ad Hiroshima, coltivò personalmente questo pino nel suo giardino, e fu San’you stesso a tagliare questo ramo!» Mentre pensavo, ah, certo, allora questo San’you era proprio un uomo banale, buttai lì senza fare complimenti: «Beh, se l’ha fatto lui stesso è anche peggio. Almeno questo smalto, ritengo sarebbe stato meglio fosse stato meno luccicante!» 104 «Wahahaha. Eh già, questo coperchio ha tutta l’aria di essere una roba da poco.» concluse l’abate, unendosi al mio giudizio. Il giovane, un po’ dispiaciuto, guarda il volto del vecchio. Il vecchio, un po’ contrariato, tolse rispettosamente il coperchio. Sotto di esso, finalmente, compare la suzuri. Se c’è qualcosa di notevole che debba saltare all’occhio in questa suzuri, è la mano dell’artigiano che appare dall’intaglio della superficie. Nel mezzo, un’incisione tonda come un orologio da taschino, alta proprio quanto i bordi, a foggia di una schiena di ragno. Seguendole con lo sguardo, le otto zampe si stendono in ogni direzione dal centro, e in punta a ognuna si trova un occhio di kuyoku. L’ultimo occhio sembra come una goccia di colore giallo, stesa a stingere la schiena del ragno. La parte rimasta fra schiena, zampe e bordi è incavata di circa tre centimetri. Il posto dove si raccoglie l’inchiostro non può essere il fondo di questo scolo. A versarci anche un bicchiere d’acqua, non basterebbe a riempirlo. E a pensarci, la schiena del ragno è simile a un cucchiaino da una goccia, e qualsiasi quantità utile di inchiostro sborderebbe. Se fosse così, sarebbe una suzuri solo di nome, ma in realtà non sarebbe nient’altro che un oggetto ornamentale. Il vecchio parla quasi come se stesse per sbavare. «Osservate questa grana, e questi occhi.» Già, è un colore che più lo guardo, più mi piace. Mi fa pensare che, se provassi ad alitare sulla superficie dalla patina appena visibile, ne nascerebbero subito aggraziate nuvole. Ma quel che è più notevole è il colore degli occhi. Ma più del colore stesso, è il fatto che là dove gli occhi e lo sfondo si incontrano, progressivamente, il colore cambia e cambia ancora al punto tale che non si saprebbe dire dove inizi la pupilla. E passando alla forma, sono come fagioli rossi, visibili in trasparenza, appena sotto la superficie di un dolcetto di gelatina. Le suzuri con uno o due di questi occhi sono già considerate molto preziose. Ma addirittura nove, la rendono un oggetto praticamente unico. E poi, questi nove sono posizionati in modo ordinato, equidistanti, 105 tanto da far pensare che sia una creazione dell’uomo, dato che la natura non può produrre una cosa tanto perfetta. «Ecco, è proprio ottima. E non solo è una gioia guardarla. Sfiorala, così, è un piacere» dico, passando la suzuri al giovane accanto a me. «Kyuuichi, tu ne capisci?» prova a chiedere il vecchio, ridendo. E Kyuuichi-kun, un po’ depresso: «Non ne capisco niente.» buttò lì, come volesse prenderne le distanze, ma posò la suzuri che non capiva di fronte a se’, e la osservò con l’aria di chi pensa sia uno spreco, per poi sollevarla e restituirmela. Io, rispettosamente, l’accarezzai tutta ancora una volta, e la passai piano, un po’ controvoglia, al monaco Zen. Il monaco Zen la osserva tenendola lontana sul palmo della mano, e con l’aria di chi non si stancherebbe mai di farlo, strofina il dorso del ragno con la manica del suo Kimono di cotone grezzo, ammirando la lucentezza che ne ricava. «Padrone, questo colore è proprio bello. L’hai mai usata?» «No, non le uso quasi mai, e questa è come quando l’ho comprata.» «Eh già. Questa roba dev’essere rara persino in Cina, padrone.» «Esatto.» «Ne vorrei una anche io. Beh, potrei chiederlo a Kyuuichi. Che ne dici, me ne compreresti una?» «Hehehehe, mi sa che morirò prima di trovare una suzuri.» «Già, non è il caso di perdere tempo per una suzuri. A proposito, quando parti?» «Partirò fra due o tre giorni.» «Padrone, accompagnalo fino a Yoshida.» «Normalmente, alla mia eta, lo saluterei da qui, ma dato che può darsi che non ci si riveda più, pensavo di accompagnarlo.» «Non c’è bisogno che il nonno mi accompagni.» 106 Il giovane deve essere il nipote del vecchio. Già, mi sembrava si assomigliassero un po’... «Ma va, lascia che ti accompagni. Col battello non c’è problema. Giusto padrone?» «Sì, attraversare i monti sarebbe difficile, ma in nave, anche se si allunga un po’...» Stavolta, il giovane non rifiuta. Tace e basta. «Parte per la Cina?» provai a chiedere. «Già.» Le tre lettere di “già” mi sembravano un po’ poco, ma non c’era bisogno di scavare oltre, quindi mi astenni. Guadando i pannelli vedo che l’ombra della magnolia è un po’ cambiata. «Dai, che ti prende? Questa guerra... ha firmato come volontario, e alla fine l’hanno chiamato.» Il vecchio, al suo posto, mi raccontò del destino di questo giovane, inviato a giorni al fronte, verso le distese della Manciuria. Credere che nel tempo sognante di questo villaggio in primavera, a piangere siano gli uccelli, a cadere siano i fiori, a scorrere siano gli onsen, è un errore. Il mondo reale, scavalcando le montagne, scavalcando i mari, giunge fino ai villaggi in cui si erano nascosti i discendenti dei Taira 14. Potrebbe giungere il tempo in cui questo giovane verserà una delle decine di migliaia 14 Il clan Taira è protagonista di una delle pagine più cupe della storia del Giappone. Scontratosi col clan Minamoto per la contesa del potere perso dalla corte imperiale alla fine dell’epoca Kamakura, nella seconda metà del 1300, ne esce perdente. Per la prima volta in Giappone, i Minamoto mettono in pratica quello che oggi andrebbe sotto il nome di pulizia etnica, sterminando sistematicamente tutti i membri del clan avverso, e coloro che avevano dato loro appoggio. Una pratica che sarebbe poi stata ripetuta molte volte durante le guerre civili che si aprono con questo scontro, e che sarebbero terminate solo con l’avvento dei Tokugawa nel 1615. L’epopea dei Taira è narrata nel classico della letteratura giapponese, l’Heike monogatari, dove si immaginano i superstiti scampati allo sterminio vivere in comunità segrete, sulle montagne del sud del Giappone. 107 di parti di sangue che tingeranno le brughiere sterminate dell’estremo nord. La punta della lunga spada che già pende dal fianco di questo giovane, potrebbe prendere un fiato fattosi fumo. Eppure, questo giovane siede accanto a un pittore, che non ha altro merito nella vita se non quello di sognare. Gli siede tanto vicino che, a tendere l’orecchio, potrei sentire il palpito del suo cuore. In questo palpito, forse, già risuona la rugiada che avvolge le lande lontane centinaia di leghe. Il destino, all’improvviso, ha unito questi due sotto un tetto, senza null’altro dire. 108 9 «È interessante?» mi chiede la donna. Io, tornato nella stanza, mi ero messo a leggere qualcosa tirato giù dal mio treppiede. «Entri. Non mi disturba.» La donna, senza nemmeno far finta di fare complimenti, entra baldanzosa. Dal semplice bordo del kimono, il bel colore del suo collo, prepotentemente, spunta fuori. Quando la donna si è seduta davanti a me, il contrasto fra il kimono e il suo collo è la prima cosa che mi è saltata all’occhio. «È un libro occidentale? Dev’esserci scritta roba difficile, eh?» «Ma va’.» «Beh, e allora che c’è scritto?» «Dunque... a dire il vero, anche io non ci sto capendo molto.» «Hohohoho. E allora come fa a essere interessante?» «Non è che debba esserlo. L’ho solo appoggiato sul tavolino, così, e ho iniziato a leggere piacevolmente lì dove s’è aperto.» «E così è divertente?» «È proprio così che è divertente.» «Perché» «Uhm... perché... un romanzo è più divertente se si legge così.» «È un modo assai strano.» «Sì, è un po’ strano.» «Insomma, che c’è di male a leggerlo dall’inizio?» 109 «Beh, se si comincia a leggerlo dall’inizio, va a finire che bisogna leggerlo fino in fondo.» «Mi sembra una ragione peculiare. Non è bello leggerli fino in fondo?» «Ovviamente, non è che sia brutto. Se voglio seguire la trama, anche io faccio così.» «E se non segui la trama, che c’è da seguire? C’è altro da leggere, oltre alla trama?» «Le piacciono i romanzi?» «A me?» si fermò la donna, e poi «Dunque...» rispose senza fare chiarezza. Pare che non le piacciano più di tanto. «I romanzi, li leggo, così, ogni tanto...» dice, ma nelle sue pupille è come se non riconoscesse nemmeno l’esistenza dei romanzi. «Beh allora, leggerli dall’inizio, o leggerli fino alla fine, o leggerli piacevolmente in qualche parte che si trova piacevole, non sono tutti modi buoni? Non c’è bisogno di vederlo strano come lo vuole vedere lei.» «Beh, allora siamo diversi.» «In cosa?» chiedo, trovandomi sulle pupille della donna. Pensai che mi stesse mettendo sotto esame, ma gli occhi della donna restano assolutamente immobili. «Hohohoho, non lo capisci?» «Eppure, da giovane deve avere letto molto» decido di rinunciare a un approccio diretto, e provo ad aggirarla. «Ma guarda che io penso di essere ancora giovane. Miseramente» il falco ha spiccato il volo. Devo stare attento a non abbassare la guardia. «Se arriva a parlare così davanti a un uomo, vuol dire che qualche anno l’ha passato» finalmente la catturo. 110 «Se parli così, anche tu, non hai forse qualche anno sulle spalle? E alla tua età, trovi ancora divertente leggere di amori, cuori infranti e spuntare di brufoli?» «Oh sì, è divertente e lo sarà finché campo.» «Appunto. E mi sa che è per questo che sei un artista, vero?» «Mi sa che è proprio così. È proprio perché sono un artista che non ho bisogno di leggere i romanzi dall’inizio alla fine. Però, qualsiasi parte legga, mi piacciono. E anche parlare con lei mi piace. Tanto da desiderare di chiacchierare così tutti i giorni, finché soggiornerò qui. E non mi dispiacerebbe nemmeno innamorarmi di lei. Sarebbe interessante. Però, per quanto potrei innamorarmi di lei, non ci sarebbe bisogno di sposarci. Avere bisogno di sposarsi è come aver bisogno di leggere un romanzo dall’inizio alla fine.» «E così, essere artisti significa innamorarsi in modo nonemotivo, eh?» «Non è non-emotivo. È innamorarsi in modo inemotivo. È perché leggo i romanzi in modo inemotivo che non m’importa della trama. Così, un po’ come leggere i fondi del caffè, è proprio aprire un libro a caso e cominciare a leggere quel che esce che è divertente.» «Ah beh, capisco, è divertente! Allora, parlami un po’ di quel che stai leggendo adesso. Mi piacerebbe sapere quel che c’è di divertente.» «Non si può parlarne. Tipo, anche un dipinto, provare a spiegarlo non rende nemmeno un po’, giusto?» «Hohohoho, allora leggimelo.» «In Inglese?» «Ma no, in Giapponese!» «Uh, leggere l’Inglese in Giapponese è difficile...» «Eddai, fallo inemotivamente.» 111 Mi dissi che poteva esserci qualcosa di intrigante nel farlo, così accontentai i desideri della donna e mi misi a leggere il libro, pian pianino, in Giapponese. Se c’è al mondo un modo inemotivo di leggere, dev’essere questo. E poi, anche la donna che mi ascolta, mi sta ascoltando inemotivamente. «Un’aria romantica soffia dalla donna. Soffia dalla sua voce, dai suoi occhi, dalla sua pelle. La donna, aiutata dall’uomo, va verso poppa, forse per guardare Venezia al tramonto, o forse per assaggiare il sangue che l’uomo fa saettare nelle sue vene – siccome è inemotivo, lo faccio un po’ come viene. Qua e là potrei saltare qualcosa.» «Ah, sia pur così. ’Ché, date le circostanze, foss’anche manchevole, non v’è di che dogliarsi.» «La donna, affiancandosi all’uomo, si appoggia alla murata. Lì dove stanno, il vento che soffia è più sottile di un nastro di raso. La donna dice che le piacerebbe correre fino a Venezia con l’uomo. Il palazzo dei Dogi, come un secondo tramonto, si va tingendo di vermiglio.» «Cosa sono i Dogi?» «Non ha importanza. È il nome degli antichi governanti di Venezia. E mi sa che lo sono stati a lungo... quel palazzo si trova ancora a Venezia.» «E poi, chi sono quest’uomo e questa donna?» «Chi siano non lo so nemmeno io. Ed è per questo che è divertente. Adesso non importa quale sia la loro relazione. Proprio come tu ed io, stanno insieme così, ed è questo che li rende interessanti.» «Ah beh, sì, certo. E sembra siano su una nave.» «Una nave o una collina; basta seguire quanto è scritto. Che se si inizia a chiedersi il perché, si finisce per fare gli investigatori.» «Hohohoho, allora non bisogna fare domande.» 112 «Con i romanzi normali, ci comportiamo tutti un po’ da investigatori. Ma siccome non c’è inemotività, la cosa non mi attrae.» «E allora, proseguiamo la nostra indagine in modo inemotivo! E adesso?» «Venezia affonda e affonda ancora, fino a stirarsi in un’unica linea nel cielo. La linea si spezza. Spezzandosi, si fa punteggiata. Nel cielo marmoreo, solo una colonna rotonda, là, si erge orgogliosa. Alla fine, anche il torrione che più alto si staglia, affonda. È affondato, dice la donna. Il cuore della donna che corre a Venezia è libero come il vento che corre in cielo. Alla Venezia così nascosta, un giorno, potrò tornare, questo è dolorosamente inciso nel cuore della donna. L’uomo e la donna riversano il loro sguardo nella laguna scura. Le stelle si accendono una a una. Il mare che ondeggia morbidamente, agita suoi flutti. L’uomo prende la mano della donna. In lei sente come un violino che non smette di piangere.» «Non è poi così inemotivo, eh?» «Ma va, a me pare proprio inemotivo. Ma se non ti piace, magari potrei accorciarlo...» «No no, a me va bene così.» «E a me va anche meglio che a te. – E adesso, dunque... si fa un po’ complicato. È difficile da tradurre... anzi, da leggere.» «Se è difficile da leggere, fammi il riassunto.» «Va beh, lo faccio come viene. – È solo per stanotte, dice la donna. Stanotte? Chiede l’uomo. Una sola notte non può bastare, che siano almeno molte, dice.» «Lo dice la donna o l’uomo?» «Lo dice l’uomo! La donna non vuole tornare a Venezia, giusto? E queste sono le parole che lui usa per consolarla. – A notte fonda, sul ponte, con le vele a fargli da cuscino, i ricordi dell’uomo, in quell’attimo, quell’attimo simile a una goccia di 113 sangue bollente, quell’attimo in cui aveva stretto forte la mano della donna, affiorano come marea. Mentre guardava nella notte oscura, da quel matrimonio forzato, imposto alla donna, decise che l’avrebbe salvata. E così risoluto, l’uomo chiuse gli occhi. – » «E la donna?» «La donna è indecisa sulla sua strada, tanto da non sapere nemmeno più dov’è. Come chi è rapito dal vento, ha solo infinite domande – da qui si fa un po’ difficile da leggere. Non riesco a trovare una parola – avere infinite domande – chissà se c’è un verbo...?» «E c’è bisogno di un verbo? Mi sembra già assai così.» «Ma che...!?!» «Goo» piangono tutti gli alberi della montagna. Nell’attimo in cui i nostri volti si incontrano, la camelia appoggiata nel vaso sul tavolo ondeggia vibrando. «Il terremoto!» grida a bassa voce la donna, e cercando di alzarsi, si appoggia al mio tavolo. I nostri corpi si muovono sfiorandosi. Kikii, con uno stridente stormire d’ali, un fagiano fra i cespugli spicca il volo. «Un fagiano!» dico guardando fuori dalla finestra. «Dove?» la donna, caduta, avvicina il suo copro al mio. Il mio volto e il volto della donna si avvicinano tanto da sfiorarsi. Il respiro che esce dalle sue sottili narici accarezza la mia barba. «Sei così inemotivo...» dice la donna, severa, ricomponendo la sua seduta. «Ovviamente» risposi tagliando corto. L’acqua di primavera raccolta nell’incavo delle pietre, sorpresa, si muove ondeggiando pigramente. Il riverbero sul suolo, siccome le onde si muovono dal profondo, e si stendono sulla superficie prive di impedimento, non vi è parte in cui si interrompa. Se esistesse una parola per descrivere un movimento intimo e totale, la si dovrebbe usare in occasioni come questa. La loro ombra tranquilla, i gocciolanti ciliegi di montagna, assieme 114 all’acqua, allungano e ritraggono, contorcono e distendono. Eppure, per quanto la loro forma muti, il fatto che difendano manifestamente l’aspetto di ciliegio, è estremamente interessante. «Questo è piacevole. È stato un bel cambiamento. Senza movimenti come questi, non è divertente.» «Ah, se fossero le persone a muoversi così, per quanto si muovessero, andrebbe bene.» «Ma senza l’inemovitità, non ci si può muovere così.» «Hohohoho, sembra proprio che l’inemotività ti piaccia un sacco!» «Ma che dice?» «Anche a te, non deve dispiacere poi tanto. L’abito che indossavi ieri...» come inizio a dirlo, «Ah, voglio un premio!» dice svelta la donna, capricciosa. «E perché?» «Avevi detto che ti sarebbe piaciuto vederlo, e allora, non te l’ho indossato apposta per mostratelo?» «A me?» «Un certo rinomato pittore aveva esplicitamente chiesto alla nonna della casa da tè oltre la collina di poterlo vedere...» Non trovai nessuna risposta che andasse bene. E la donna, impietosa: «A un uomo così smemorato, per quanti fatti gli si possano mostrare, non c’è proprio verso, eh?» un po’ sarcastica, e un po’ caustica, scoccò dritta una seconda freccia letale. La situazione si fa seria, e anche se ci fosse un modo di ribaltare il risultato, dopo aver incassato un colpo così, è assai difficile trovare un’apertura. «Allora, l’altra sera nella vasca, era anche quella giusto una visita di cortesia, eh?» mi rialzo appena prima di finire al tappeto. La donna tace. 115 «Mi scusi. Le offrirò un pegno della mia gratitudine.» cerco di portarmi vantaggio il più possibile. Ma il mio approccio non ha alcun effetto. La donna non ha l’aria di bersela, e osserva il dipinto dell’abate Daitetzu. Finalmente: «L’ombra dei bambù spazza i gradini senza smuovere la polvere» le vidi pronunciare con la bocca in silenzio, e poi, si rivolese verso di me, ma come se si fosse appena ricordata che ero lì: «Come dici?» mi fa udire, a voce appositamente alta. Ma non me la dà a bere. «Ho appena incontrato quel bonzo» mostro una reazione placida come quella del lago appena scosso dal terremoto. «L’abate del tempio Kankai? Sarà ingrassato...» «Mi ha chiesto di fargli una decorazione all’occidentale. I bonzi Zen hanno uno strano senso dell’umorismo, eh?» «Dev’essere per quello che sono così tondetti.» «E ho incontrato anche un giovane...» «Kyuuichi, giusto?» «Sì. Kyuuichi-kun.» «Lei ha un sacco di conoscenze!» «Ma va, conosco solo Kyuuichi-kun. E non so molto nemmeno di lui. È un tipo a cui non piace parlare.» «Ma no, è solo timido. È ancora un bambino...» «Bambino?! Ma non ha più o meno la tua età?» «Hohohoho, dici? È mio cugino. Siccome parte per la guerra, è venuto a farci visita.» «E alloggia qui?» «No, a casa di mio fratello.» «Ah, e quindi è venuto apposta a bere il tè.» «Preferisce l’acqua calda al tè. Anche se avrebbe preferito che il babbo l’abbozzasse, è venuto giù perché l’ha chiamato. E chi lo 116 smuove, il vecchio? Però ho incontrato Kyuuichi mentre tornava su...» «Già, e tu dov’eri finita? Che l’abate se l’è chiesto, e ha detto che magari ti eri andata a fare di nuovo una passeggiata da sola...» «Infatti, mi sono fatta un giro al Lago dello Specchio.» «Al Lago dello Specchio... vorrei farci un salto anch’io...» «Sì sì, te lo consiglio.» «È un bel posto per dipingere?» «È un bel posto per affogarsi.» «...Non che abbia una gran voglia di affogarmi, al momento...» «Io, mi sa che uno di questi giorni mi ci butto.» Pensai che la donna scherzasse, così alzai il volto sbuffando. Ma la donna è senza dubbio seria. «Io che mi getto e fluttuo – non mentre soffro – mentre abbandono la vita tranquilla, fluttuando – ecco, ritraimi così.» «Eh?» «Te l’ho fatta! Te l’ho fatta! Te l’ho proprio fatta, eh?!» La donna si alza con grazia. Accostasi alla soglia in appena tre passi, voltandosi, mi sorrise teneramente. Per lunghi attimi di totale stupore. 117 10 Faccio un salto al Lago dello Specchio. La strada che scende da dietro il tempio Kankai, dalla radura fra I cedri fin giù nella valle, fermandosi senza risalire sulla montagna opposta, si apre in due, diventando essa stessa il perimetro del Lago dello Specchio. Sui bordi del lago, ci sono un sacco di cespugli di kumasaza1. In certi posti sono così fitti che sarebbe impossibile attraversarli senza fare rumore. Guardando fra gli arbusti, si vede l’acqua del lago, ma dove inizi e dove finisca, senza farci un giro intorno, proprio non si capisce. Camminando, vedo che è più piccolo di quanto pensassi. Non può essere più di trecento metri. Solo, ha una forma estremamente irregolare, con le rocce sdraiate così, lambite dall’acqua un po’ dove capita. E anche la profondità del bordo, quasi volesse tener fede alla sua forma, là dove battono le onde, si scopre in fogge sempre diverse, senza una regola. Girando attorno al lago, ci sono un sacco di alberi. A centinaia. E molti stanno germogliando. E in parecchi posti dove i rami non si intrecciano, prendendosi il limpido sole primaverile, veemente, cresce rigoglioso il sottobosco. Timidamente, in quegli spazi si affaccia l’ombra esile delle violette selvatiche. Le viole giapponesi sembrano addormentate. Non s’addice loro quel verso in cui un’occidentale le ritrae come “divinamente ispirate”. Come lo penso, per un attimo il mio piede si ferma. E 1 Una pianta erbacea della famiglia dei bambù, dalle foglie lunghe e appuntite, in genere di colore verde scuro, dal caratteristico bordo bianco latte. Forma cespugli molto fitti, normalmente bassi (arrivano al ginocchio, o alla vita). 119 quando si ferma, rimango lì finché non mi va più. Sono una persona fortunata a poterlo fare. Se ci provi a Tokyo, ti tira sotto il tram. E se non ti ammazza il tram, un piedipiatti ti fa sloggiare. La città è un posto dove i comuni cittadini vengono trattati da accattoni, mentre quei furfanti dei poliziotti vengono pagati profumatamente. Posai il mio sedere da comune cittadino su un tappeto d’erba. Qui, se me ne stessi fermo così anche per cinque o sei giorni, non dovrei preoccuparmi di recare disturbo a nessuno. Questo è il bello della natura. In casi estremi può essere spietata, ma non fa nessun favoritismo. Puoi anche essere un Iwasaki o un Mitsui 2, non le importa nulla. È nelle proprietà della natura l’essere indifferente all’autorità degli imperatori di ogni epoca. La saggezza della natura, alta, trascendendo questo mondo corrotto, eterna, erige un’assoluta imparzialità. Piuttosto che occuparmi delle vanità terrene, e attirare così gli strali di Timone, preferisco coltivare e vivere dietro a nove giardini di fiori di loto, e cento acri di kei3. Si dice che il bene comune sorpassa l’interesse privato. Fosse vero almeno un po’, ogni giorno, mille piccoli aguzzini dovrebbero andare a far da concime ai prati in fiore. Mi ero stancato di cadere nei ragionamenti. Non si può venire apposta qui al Lago Specchio per snocciolare queste opinioni da scolaretto. Sfilo una sigaretta dalla tasca, e shhht, sfrego un cerino. L’ho sentito accendersi, ma non vedo il fuoco. Avvicinandolo alla mia Shikishima4 e provando ad aspirare, dal naso è uscito il fumo. Eh già, mi sono accorto di essere riuscito ad accenderla. Gettato il cerino nell’erba corta, per un po’ si è sollevato un fumo sottile, come un mulinello, per poi svanire subito. Provo a 2 Due famiglie molto influenti nel Giappone dell’epoca, la prima a capo della Mitsubishi, la seconda a capo della Mitsui. 3 Miscanthus sinensis. Erba dall’alto stelo tipica della Cina, a dalla grande infiorescenza bianca-argentata. Dove abbonda, costruisce veri e propri muri d’erba. È anche estremamente profumata. 4 Prima marca di sigarette prodotta in Giappone. 120 scivolare fuori dal mio posto. Dove il tappeto scivola nel lago, sul bordo dove, mi dico, basterebbe allungare i piedi per raggiungere l’acqua tiepida, mi fermo. Provo a sbirciare l’acqua. Fin dove giunge lo sguardo non si direbbe sia profondo. Sul fondo, sottili, lunghi steli d’erba palustre se ne stanno moribondi. Non saprei che altra parola usare per descriverli, a parte “moribondi”. Le susuki5 sulle colline “ondeggiano”. Le alghe attendono languide l’invito delle onde. Ma anche attendere cento anni, immobili, quest’erba sommersa sul fondo dell’acqua, come appostata, pronta a muoversi tutta, dall’alba al tramonto, nell’attimo in cui fosse sfiorata, attendendo l’oscurità, attendendo la luce, addensando sulle punte dei suoi steli le passioni di chissà quante ere, immobili nell’attesa dell’attimo della loro fine, non del tutto morte, sembrano vivere così. Mi alzo e, dall’erba, raccolgo un paio di pietre, le prime che capitano. Pensando di fare un’opera buona, ne lancio una dritto davanti a me. Gorgogliando, fluttuano due bolle, che svaniscono subito. Svaniscono subito, ripeto nella mente. In trasparenza, languidamente, capelli lunghi come alghe attaccano a ondeggiare. Non il tempo di poter dire che li intravedo, che l’acqua torbida va a nasconderli sul fondo. Buddha Amida, ora pro nobis. Mettendocela tutta, stavolta, tiro nel mezzo. Ha fatto un flebile blup. È improbo tentar di farsi notare da cosa ’sì silente. Mi passa la voglia di tirare altro. Mollo lì cappello e attrezzi, e giro verso destra. M’inerpico su per un viottolino. Con la testa coperta da grandi alberi, il mio corpo si fa improvvisamente freddo. Nei luoghi in ombra sull’altra riva, le camelie sono in fiore. I bordi delle foglie delle camelie sono troppo abbassati; anche in pieno giorno, anche se sono baciate dal sole, non danno l’idea di essere serene. Soprattutto quelle camelie che si spingono per qualche metro negli anfratti fra i massi, in luoghi tanto solitari che, non vi 5 Erba a basso stelo. 121 fossero i fiori, non ci sogneremmo nemmeno di pensare che possa esserci qualcosa, si stringono le une sulle altre. Quei fiori! Tanti che, a contarli tutto il giorno, non si finirebbe di contarli. Ma, al solo guardarli, sono così vividi che mi verrebbe proprio da contarli. Ma dico “vividi”, eppure non sembrano affatto allegri. Fiammeggiano così veementi che, inconscio, il mio animo ne è rapito, e solo dopo ne sono stupefatto. Nessun altro fiore è così ingannevole. Ogni volta che vedo le camelie di montagna, mi ricordano sempre una fattucchiera. Attraendo lo sguardo degli uomini sui suoi occhi neri, senza che possano rendersene conto, insinua nelle vene un dolcissimo veleno. E quando si realizza di essere stati ingannati, ormai è tardi. Quando le camelie sull’altro lato mi sono entrate negli occhi, io, sì, avrei preferito non vederle, mi sono detto. Il colore di quel fiore non è un semplice rosso. In una sgargianza che può spalancare gli occhi, nascondono un sentimento tanto sommerso da essere inesprimibile. Nel dimesso appassire sotto la pioggia dei fiori di pesco, si prova solo commiserazione. Nel freddo risplendere sotto la luna delle aronie, l’unico sentimento è la tenerezza. Quel che è sommerso nelle camelie è del tutto diverso. Annerito, malevole, temibile è l’umore che le ammanta. Tenendo questo umore sul fondo, quel che lascia emerge è il suo aspetto infinitamente sgargiante. E poi, scevra di ammiccamenti per gli uomini, il suo invitare è ancor più invisibile. Sboccia d’improvviso e appassisce piano, appassisce piano e sboccia d’improvviso, per ere di centinaia d’anni, fra crepe di monti ove l’occhio della gente non si posa, passa serenamente la sua esistenza. Basta uno sguardo ed è la fine. Chi la vede, per l’eternità non potrà sfuggire al suo fascino. Quel colore non è un semplice rosso. È come il sangue dei prigionieri sterminati, che chiama a sé gli sguardi della gente, e che intristisce con sé il cuore della gente; è quel tipo di rosso. Mentre li guardavo, uno di quei cosi rossi è caduto tuffandosi sull’acqua. L’unica cosa che si muove nella silenziosa primavera è questa corolla. Dopo un po’, ancora tuffandosi, ne cade un altro. 122 Quei fiori non appassiscono affatto. Più che distruggersi, lasciano il ramo quando sono forti abbastanza. Quando lasciano il ramo, lo fanno tutto d’un tratto, e per questo sembrano privi di rimpianto, ma il fatto che cadano ancora così forti è un po’ odioso. Ancora ne cade uno, tuffandosi. Beh, se continuano a cadere così, l’acqua del lago si farà rossa, mi dico. Lì dove i fiori galleggiano silenti, mi sembra che l’acqua sia già un po’ rossa. Ne cade un altro. Sarà finito sulla terra o sull’acqua? È così silenzioso che non riesco a capire. Ne cade un altro. Quello dev’essersi immerso, penso. Anno dopo anno, chissà quante migliaia di corolle di camelie sono finite col cadere, e giunte sull’acqua hanno sciolto il loro colore, marcendo nel fango, una volta giunte sul fondo. Fra chissà quante migliaia di anni, questo vecchio lago, senza che nessuno lo sappia, vissuto per seppellire le camelie cadute, tornerà a essere una radura. Ancora uno grosso, tinto di sangue, cade come un’anima. Ne cade un altro. Cadono tuffandosi. Cadono sconfinatamente. E se dipingessi una bella donna che fluttua verso questo posto, mi chiedo mentre torno al posto di prima, fumando un’altra sigaretta, sovrappensiero. Le parole rivoltemi ieri per scherzo dall’onorevole Nami-san, signora dell’onsen, come cerchi nell’acqua, si posano sul mio umile ricordo. Il cuore sale su grandi onde e fluttua come un velo di legno 6. Faccio di quel volto un seme che, fluttuando sotto le camelie, fa cadere chissà quante corolle. Le corolle che cadono a lungo, la donna che fluttua a lungo, cerco di evocare questo sentimento, ma chissà se potrei disegnarlo. Come per quel Laconte... ma lasciamo perdere il Laoconte. Che volti le spalle alla ragione o meno, l’ispirazione non esce. Ma, pur restando umani, far uscire un sentimento eterno e sovrumano non è cosa facile. È il volto ciò che mi 6 In Giapponese, “grandi onde” si pronuncia Oo-nami, quasi come “Onorevole Nami”. Inoltre, un proverbio marinaresco giapponese recita che “un velo (appena un po’) sotto i legni, c’è l’inferno”. 123 preoccupa di più. Anche se prendessi a prestito quel volto, quell’espressione non va. La vittoria di quel dolore devasterebbe tutto. Però, anche un volto sereno a forza sarebbe un guaio. E se provassi con qualche altro volto? Questo, o forse quello, provo a contarli sulle dita, ma non mi viene. Mi sa proprio che il volto dell’onorevole Nami-san è il più adatto. Eppure, manca qualcosa. Mi rendo conto che manca qualcosa, ma cosa sia ciò che manca non mi è affatto chiaro. E non posso mettermi al lavoro facendo finta di nulla, mentre diffido di me stesso. Se le aggiungessi della gelosia? Con la gelosia c’è troppa ansia. Allora, forse l’odio? L’odio è troppo veemente. E l’ira? L’ira rompe completamente l’armonia. Risentimento? Se si parla di una poetica amarezza è un’altra cosa, ma un mero risentimento sarebbe troppo volgare. Dopo averci pensato un bel po’, finalmente arrivai a questa conclusione. Mi ero scordato dell’esistenza del carattere “struggimento”7. Lo struggimento è un sentimento sconosciuto agli dèi, eppure è il sentimento di coloro che, agli dèi, sono più vicini. Nell’espressione dell’onorevole Nami-san non appare la minima traccia di questo struggimento. Ecco cosa manca. Nell’attimo in cui, con un palpito repentino, quest’emozione si aprisse fra le sopracciglia del volto di quella donna, potrei farne un disegno perfetto. Purtroppo, non so quando potrei vederla. Quel che colma il volto di quella donna è sempre un sorriso di derisione, le sopracciglia a formare un tratteggio che grida vincerò, vincerò io! E quindi, mi sa che non se ne fa nulla. Frusciando frusciando, si sentono dei passi. Il mio disegno mentale si è rotto per due terzi. Guardo e vedo un tizio che indossa un corto kimono, con una fascina spalla, fra i bambù, che se ne va in direzione del tempio Kankai. Dev’essere sceso dal monte vicino. «Che bella giornata, eh?» mi saluta sfilandosi la fascia dalla testa. Nell’istante in cui si erge, la falce lunga tre palmi che pende dalla 7 124 Il termine originale è 憐れ – aware – struggimento, pena. cintura ha brillato sfavillante. È un vigoroso uomo sui quaranta. Mi sembra d’averlo già visto. Mi parla in tono confidenziale, come se mi conoscesse. «Dotto’, dipingi anche tu?» la mia attrezzatura da disegno era aperta. «Già. Avevo pensato di dipingere questo lago, ma è un posto triste, eh? Non passa nessuno...» «Sì sì. Proprio fra i monti. Dottò, certo dev’essere stata dura scendere giù dal quel picco.» «Eh? Ah, sei quel carrettiere, giusto?» «Sì sì. Vede, faccio le fascine e le porto giù in paese.» dice Genbei tirando giù la fascina e posandoci il sedere. Tira fuori il portasigarette. È una roba vecchia. Non capisco nemmeno se è di carta o di pelle. Gli allungo un cerino. «Fare questo giro tutti i giorni dev’essere una seccatura.» «Ma no, ci sono abituato – e poi non lo faccio mica tutti i giorni. Solo una volta ogni tre.» «Sarebbe una seccatura anche una volta ogni quattro.» «Ahahaha. Se mi prendo pena per il cavallo, allora vedrò di farlo ogni quattro.» «Ah beh, allora... tieni più al cavallo che a te stesso, eh? Hahahaha» «Beh, dai, non proprio...» «A proposito, questo lago è piuttosto vecchio, giusto? Più o meno, quanto?» «Tanto.» «Tanto? Ma, da quanto?» «Beh, che domande, da un sacco tanto. » «Da un sacco tanto... capisco.» «Sicuramente, da prima che ci si buttasse la signorina Shihoda.» 125 «Gli Shihoda, quelli delle terme?» «Sì sì.» «La signorina Shihoda ci si è buttata?... ma se è ancora viva!?!» «Ma no! Non quella signorina. Una di tanto tempo fa.» «Una di tanto tempo fa? E quando è successo?» «Beh, dunque... tanto tempo fa.» «E questa signorina di tanto tempo fa, perché ci si è buttata?» «Dunque, quella signorina di tanto tempo fa, dicono fosse bella come quella di adesso, dotto’!» «Ah.» «Un giorno passò quel boronji...» «Boronji? Un monaco errante col cesto in testa?» «Sì sì. Uno di quei boronji che suonano il flauto. Questo boronji aveva chiesto ospitalità al capo villaggio, uno Shihoda, e quella bella signorina, a furia di avere quel boronji sotto gli occhi – sarà stato per il suo karma, ma diceva che voleva stare con lui e piangeva.» «Piangeva. Uhm...» «Il punto è che il capo non ne voleva sapere. Diceva che non voleva un boronji per genero. E così lo buttò fuori.» «Il monaco errante?» «Sì sì. Allora, la signorina lo inseguì fino a qui – si buttò proprio dove c’è quel pino – e successe un gran casino. Si dice che avesse con sé uno specchio. Per questo, questo lago, ancora oggi, si chiama “Lago dello Specchio”.» «Ah sì? Allora, qualcuno ci si è già buttato...» «Già, una vera disgrazia.» «Però è una cosa di tanto tempo fa. Giusto?» 126 «Proprio una roba di un sacco di tempo fa, dicono. E poi – beh, è quasi tutto qui, dottò.» «Quasi?» «Quegli Shihoda diventano sempre più matti.» «Come come?» «Dev’essere una maledizione. Anche la signorina di adesso, di recente dicono che è un po’ strana, è sulla bocca di tutti.» «Hahahaha, non credo proprio.» «Magari no, chissà. Però, i suoi vecchi sono davvero strani.» «Dici quello nella casa?» «No, quella morta l’anno scorso.» «Ah...» dissi mentre guardavo salire un fumo sottile dalla cicca, e chiusi la bocca. Genbei si rimette la fascina in spalla e se ne va. Ma tu guarda; sono venuto qui a dipingere, e pensando a queste cose, prestando orecchio a queste storie, sono giorni che non mi viene manco uno schizzo. Ho fatto la fatica di tirare fuori gli attrezzi, insomma, oggi, fosse anche uno scarabocchio, voglio riuscire a finire qualcosa. Per fortuna, il panorama che ho di fronte merita. Anche solo a prenderlo come scusa, vediamo di disegnare un po’. Una roccia verde scuro alta appena tre metri spunta dritta dal fondo del lago, e là dove spezza l’acqua densa, ben dritti alla sua destra, i kumasasa di prima, da sopra la sua punta fin sotto al pelo dell’acqua, crescono rigogliosi senza lasciare nemmeno un palmo vuoto. Sopra, un pino largo tre braccia, col tronco avvolto da giovani edere, protendendosi di sbieco, sovrasta per più di metà la superficie dell’acqua. Forse, la donna con lo specchio in tasca si buttò proprio da quella roccia. Posando il culo sul treppiede, osservo il materiale che devo infilare nella tela. Ci sono il pino, i bambù, la roccia e l’acqua, ma l’acqua non so proprio fin dove farla. La roccia è alta tre metri, dovrei fare pure l’ombra di tre metri. I kumasasa non si fermano 127 sulla superficie, si riflettono tanto vividi che mi viene il dubbio che stiano crescendo pure nell’acqua. Per quanto riguarda il pino, torreggia in tutta la sua altezza fino al cielo, ma l’ombra che proietta è estremamente lunga e sottile. A occhio, non saprei misurarla. Magari, potrebbe essere interessante lasciar perdere gli oggetti e disegnare solo le ombre. Disegnando l’acqua, disegnando le ombre nell’acqua, e poi, mostrarlo alla gente dicendo “questo è il dipinto”, dovrebbe sorprenderli. Però, sorprendere e basta è noioso. Eh già, sorprendere è il minimo, per un quadro. Come potrei organizzarlo, mi chiedo, e osservo intensamente la superficie del lago. Contrariamente alle mie speranze, studiare le ombre non mi basta per fare un buon quadro. Mi vien voglia di provare organizzarlo mettendole in contrasto con gli oggetti reali. Muovendo gli occhi dalla superficie del lago, sposto lo sguardo piano piano verso l’alto. Dalla roccia alta tre metri, alla punta dell’ombra, a dove si congiunge alla superficie, e da lì esco progressivamente dall’acqua. Da dove l’aspetto è lucido, risalgo ispezionando minuziosamente la trama che si fa via via increspata. E alla fine della risalita, con i miei occhi ora fermi là, sulla ripida sommità della roccia, rimasi come una rana di fronte a un serpente, tanto che mi cadde il pennello di mano. Alle spalle del sole che passa fra i verdi rami, tingendo la roccia verde scura, desiderosa di sbiadire nella sera di primavera, vividamente in contrasto sull’ordito, un volto di donna – che mi ha sorpreso fra i fiori, che mi ha sorpreso nel dormiveglia, che mi ha sorpreso nel furisode, che mi ha sorpreso nella vasca, è quel volto di donna. Io, lo sguardo come inchiodato su quel pallido volto di donna, sono immobile. Anche la donna, la sua figura flessuosa tesa al massimo, sopra all’alta roccia, si erge senza muovere nemmeno un dito. Che attimo! Senza rendermene conto, mi sono alzato. La donna, leggiadra, ruota il corpo. Nella cintura, ha sparso qualcosa di rosso come i 128 fiori di camelia, e come l’ho notato, è scesa svelta dall’altra parte. Il sole del tramonto, sfiorando la chioma, tinge appena il tronco del pino. I kumasasa si fanno via via più verdi. Mi ha sorpreso un’altra volta. 129 11 Cammino distratto, aggrappato alla luna nebbiosa del villaggio di montagna. Mentre salivo sui gradini di pietra del tempio Kankai, contavo ad alta voce le stelle di primavera, una, due, tre, e così via. Non che abbia in programma d’incontrare l’abate. E se l’incontrassi, non mi andrebbe di chiacchierare. È che sono uscito dal mio ostello così, a caso, e lasciando fare ai piedi, placido placido, è andata a finire che mi sono trovato in fondo a questa scala. Sono rimasto un po’ in piedi ad accarezzare una pietra con sopra scritto “è vietato entrare nel cancello sulla montagna a ovest”, ma all’improvviso mi sono sentito felice, e mi son messo a salire. Quell’opera... “Tristram Shandy”... non c’è opera più intrisa di spirito divino. Il primo paragrafo l’ha scritto l’autore di suo pugno. Per il resto, affidandosi a Dio, ha lasciato fare alla sua penna. Ovviamente, non sapeva quel che scriveva. Chi scrive è lui, ma chi detta è Dio. Come se l’autore non avesse la responsabilità di decidere. E anche la mia passeggiata, che aderisce a questa scuola, è una passeggiata irresponsabile. Anzi, dato che non mi affido a un dio, è ancora più irresponsabile. Quando Stan ha abdicato la sua responsabilità, allo stesso tempo l’ha demandata al Dio che sta nei Cieli. Io, che non ho un dio che se la prenda, l’ho gettata in questo stagno. Una scala come questa può essere massacrante. Chi non ce la fa, deve ritirarsi. Salire il primo gradino è un piacere. Quindi, sali il secondo. Al secondo gradino, vien voglia di poetare. Ti prende l’ispirazione, e vedi la vita a colori. Il terzo gradino è così 131 squadrato da essere strano. E proprio perché è strano, sali ancora. Inizi a mirare al cielo su di te. Dalle profondità assopite, piccole stelle brillano vivide. Potrei tirarci fuori una poesia, ti dici, e continui a salire. E così, pian piano, io riuscii ad arrivare in cima. In cima alla scala, ricordo. Una volta, quando ero in viaggio di piacere dalle parti di Kamakura, girando quelli che passavano per templi maggiori, mi pare fosse il Santuario di Enkaku, proprio mentre salivo mogio mogio una scala tipo questa, da oltre il cancello, se n’era uscito un bonzo dalla pelata piatta, con su un saio giallo. Io salgo, il monaco scende. Quando ci incrociammo, il monaco mi chiese con voce tagliente: “Dove te ne vai”? Come risposi “a venerare il tempio”, fermandomi sul posto, il bonzo, mi apostrofò subito: “Lì non c’è proprio nulla!”, e continuò a scendere svelto svelto. Con la sensazione di essere stato trattato un po’ male, tanto franco era stato il commento, rimasi lì, fermo sul gradino, e quando mi voltai a guardare il bonzo, e la sua testa dall’ampia pelata, barcollando barcollando, se ne sparì nel boschetto. E senza girarsi nemmeno una volta. Beh, i monaci Zen sono proprio buffi. Salito pian piano, entrato mogio mogio nel cancello di montagna, guardandomi attorno, l’ampio cortile, e la sala principale, erano vuoti; di gente, neanche l’ombra. In quel momento, mi sentii felice fin nel profondo del cuore. Al pensiero che al mondo ci sono persone tanto franche, che possono trattarti così francamente, in qualche modo mi sentii sollevato. E non perché avessi raggiunto l’illuminazione Zen. Dello Zen, so appena che inizia per “ze”. È solo che quel bonzo dall’ampia pelata mi era diventato simpatico. Il mondo è ottuso, rancoroso, puntiglioso, e pure sfrontato, ed è strapieno di gentaglia. Anzi, c’è persino gente che ha una faccia che non si capisce che ci stia a fare al mondo. E magari è pure una faccia grande. Hanno un gran posto nella moda del mondo fluttuante, e ne fanno una specie di vanto. Si appiccicano al culo di qualcuno per cinque, dieci anni, e stanno lì a contare le scoregge, e pensano che l’umanità stia solo in questo. E poi ti si piazzano 132 davanti e dicono a tutti, guardate che quello ha scoreggiato così, ah, un’altra, e ora ha scoreggiato cosà, senza che nessuno gliel’abbia chiesto. Se dici loro di levarsi dai piedi, non lo fanno, ma prendono appunti e ti girano dietro, e gridano guardate, un’altra, e siamo a tot, e ancora, e siamo a tot. Se dici loro che danno fastidio, si mettono a strillare. Se dici loro di piantarla, non la smettono più. Anche se dici, vabbeh, ho capito, continuano, ha già fatto tot scoregge, eccone un’altra, e ancora una! E inoltre, dicono che questo è l’obiettivo di essere letterati. Di obiettivi, ognuno ha i suoi. E io preferisco gli obiettivi che se ne stanno lì buoni e zitti, e che non ti dicono fai così e cosà. Gli obiettivi che si mettono in mezzo e depistano la gente sono una scocciatura. E blaterando che se gli obiettivi non si mettono in mezzo, non servono a nulla, vengono anche da me a contarmi le scoregge, e a obiettivare. Stando così le cose, il Giappone è spacciato. E così, in questa notte di primavera, camminare senza obiettivi fra le scatole è un vero piacere. Del venire, fare un obiettivo. Dell’andare, fare un obiettivo. Là dove si poeta, trovare un obiettivo. Là dove non si può più poetare, trovare un obiettivo. E soprattutto, senza dar noia a nessuno. Questi sono sani obiettivi! Contare le scoregge per attaccare gli altri come obiettivo, trattenere le scoregge per autodifesa come obiettivo, sono tutti obiettivi che finiscono lì dove inizia il suolo del tempio Kankai. Recitando uno, due, tre, mentre conto le stelle di primavera che mi sovrastano, salendo le scale in pietra, il mare di primavera che brillava fra le foschie mi apparve come la fascia di un kimono. Entro nel cancello di montagna. D’intessere versi sublimi, m’era passata la voglia. D’improvviso, mi pongo l’obiettivo di smetterla. Alla destra di un viottolino che passa sul lastricato della canonica, una siepe fiancheggia la collina, e oltre la siepe, immagino, un cimitero. Sulla sinistra, il tempio principale. Là dove è più alto, il tetto brilla. È proprio come se, su migliaia di tegole, fossero cadute migliaia di lune, mi dico ammirandolo. Da 133 qualche parte m’arriva chiaro il tubare di colombi. Sembra che abitino sotto al cornicione. Forse me l’immagino, ma mi sembra che le travi siano punteggiate di bianco. Magari è merda. Dove cadono le gocce di pioggia, si allineano strane ombre. Non di alberi, e certo, nemmeno d’erba. Mi danno l’idea dei demoni disegnati da Iwasa Matabei1, che stanchi di recitare il nenbutsu, si mettono a danzare. Da un estremo all’altro del tempio principale, ballano in una fila ben ordinata. E anche quelle ombre, da un estremo all’altro del tempio principale, ballano in una fila ben ordinata. Evocate in questa aura lattiginosa, invitate dalle campane, dai sonagli e magari anche da qualche preghiera buttata lì, pur riluttanti, se ne saranno venute a danzare in questo tempio di montagna. Sporgendomi, vedo un grande cactus. Sarà alto un paio di metri, verde come un cocomero acerbo, coi rami piatti come palette che, girate verso il basso, cercano di andare sempre più su. Per quante palette siano spuntate, sembra non vogliano smettere mai. Pare quasi che, stanotte stessa, rompendo le tegole, siano capaci di trapassare il tetto. Se si lascia a quelle palette il loro tempo, prima di rendersene conto, potrebbero andarsene da sole, e persino spiccare il volo. Non si riesce a credere che dalle palette vecchie nascano le palette nuove, e che quelle piccole palette, in lunghi anni, si facciano via via più grandi. Questa sequenza di paletta in paletta è fenomenale. Di alberi così buffi non ce ne sono tanti. E poi è così superbo! Pare che ci sia stato un bonzo che, quando gli hanno chiesto cosa fosse Buddha, avesse risposto che era la quercia2 nel giardino di fronte, ma se mi facessero la 1 Iwasa Matabei (1578–1650): Disegnatore ritenuto capostipite dei moderni illustratori giapponesi, come Hokusai. Ad ogni modo, i disegni a cui si riferisce l’autore erano stati erroneamente attribuiti a lui; si tratta in realtà di disegni popolari raccolti nel tempio di Ootsu, tempio da cui l’omonimo stile prende il nome. 2 È un riferimento al mito “fondante” dello Zen, anzi della sua corrente originaria cinese detta “Chan”. È quello che viene considerato un koan fondamentale, e ha questa forma: un monaco chiese al maestro Chao-chou “perché il Bodhidharma 134 stessa domanda a bruciapelo, senza nemmeno pensarci su, risponderei che è questo cactus sotto la luna. In gioventù ho letto il diario di viaggio di un tizio chiamato Chao Buji3, e ancora ricordo questi versi a memoria. Settembre è’l tempo dell’alto cielo, e di rugiada puri, dei vuoti monti, e belli, e chiari, che a guardar su, le stelle tutte brillan grande come a star sull’uomo, che lor luce spande. Di là da la finestra di giunchi dieci tronchi, a battagliar l’un l’altro, cui voce è rotta e fratta nel fregarsi sempre contro. Di là dai giunchi, peschi: fantasmi impressionanti, se’n stanno soli in parte con le basette ritte e nient’affatto corte. Due, tre saranno ma ancora fan stupore, ’che l’animo agitato non riesce a prender sonno. Ed ecco l’alba, e tutto è già passato. provai a ripetere a bassa voce, e mi venne da ridere senza che me ne rendessi conto. Anche questo cactus, nel posto e nel momento giusto, potrebbe agitare il mio animo, e apparirmi tanto impressionante da farmi cadere giù dalla montagna. venne in Cina?” e lui rispose “guarda il cipresso nel cortile”. Stranamente, Souseki, che conosce bene lo Zen, parla di una quercia, e non di un cipresso, ma anche il resto della citazione sembra essere volutamente imprecisa. 3 Chao Buji (1053-1110): Scrittore e poeta mandarino. Il brano è tratto dalle “cronache del viaggio in nuove città oltre le montagne a nord”, dove “montagne a nord” è un epiteto per la catena del monte Mang, che indica la regione di Luoyang. 135 Provando a sfiorarne gli aculei con le mani, mi ferisco spiacevolmente le dita. Il sentiero lastricato si esaurisce piegando sulla sinistra, ed esce sulla canonica. Davanti alla canonica, c’è una grande magnolia. Quasi non riuscirei a cingerla. In altezza, supera il tetto. Guardando in alto, sulla testa ci sono i suoi rami. E anche sopra ai rami, ci sono altri rami. E così via, da ramo in ramo, sopra a tutti c’è la luna. Normalmente, quando ci sono rami intrecciati in questo modo, da sotto non si vede il cielo. E se ci sono dei fiori, nemmeno quelli. Ma i rami della magnolia, per quanto intrecciati, negli spazi fra ramo e ramo, aprono fessure assai larghe. La magnolia, a modo suo, stende i sottili rami tanto che quasi disturba chi sta sotto. Persino i fiori sono ben evidenti. A guardarlo da qui sotto, placidissimo, un fiore si staglia netto, proprio come un fiore. E quel fiore, da quanto se la spassi, o da quanto sia fiorito, proprio non lo so. E ciò nonostante, un fiore dopo l’altro, nello spazio tra fiore e fiore, un cielo appena tinto di blu fa capolino, e si fa desiderare. Il colore dei fiori, naturalmente, non è bianco. Il bianco esplicito è troppo freddo. Più il bianco è sfrontato, più dà l’impressione di voler rubare le pupille della gente. Il colore della magnolia non è quello. Evitando apposta il bianco più puro, assumendo un giallo appena accennato, eppure tiepido, consideratamente, si ammanta di modestia. In piedi su questo sentiero in pietra, ammirando languidamente, smisuratamente questi onesti fiori, per un po’, rimasi incantato. Quel che cade nei miei occhi sono solo fiori. Non una singola foglia. Guardo il cielo fattosi tutto fiori di magnolia Mi vennero questi versi. Da qualche parte, una colomba m’accompagnò col dolce canto. 136 Entro nella canonica. La canonica è spalancata. Come se fosse in un regno senza ladri. E senza cani ad abbaiare. «È permesso?» chiedo. Nessuna risposta, come nel folto di una foresta. «Per favore...» cerco ancora una guida. S’ode kuu-kuu, la voce di una colomba. «Per favoooooore!» chiamo a gran voce. «Ooooooo!» è la risposta che giunge da molto lontano. Entrando in casa di qualcuno, non m’era mai capitato di ricevere una risposta come questa. Finalmente, assieme al risuonare di passi lungo il corridoio, dall’altra parte avanzò l’ombra di una lanterna di carta. Compare un giovane bonzo. Era Ryounen. «C’è per caso l’abate?» «Sì. Che ti serve?» «Sono venuto a portare il disegno che mi aveva chiesto quand’era venuto all’onsen.» «Ah, sei il pittore. Su, entra.» «Non ho un appuntamento, va bene lo stesso?» «Nessun problema.» Mi levo gli zoccoli e salgo dentro. «Ma che pittore maleducato che sei!» «Perché?» «Sistema gli zoccoli, così. Ecco, guarda qui.» mi dice puntando la lanterna. Su di una colonna nera, a un metro e mezzo da terra, sta appuntato un foglietto squadrato male, con su scritto qualcosa. «Ecco. Leggi. Dice di guardare giù.» «Capisco.» dico, e allineo i miei zoccoli agli altri. 137 La stanza dell’abate è in parte al corridoio, accanto alla sala principale del tempio. Scostando rispettosamente il pannello, dopo essersi inchinato rispettosamente, «Ehm, è venuto a trovarla il pittore che sta dagli Shihoda.» «Ah, avanti!» Entro al posto di Ryounen. La stanza è tanto piccola da essere opprimente. Nel mezzo c’è un focolare, e sopra un bollitore che borbotta. L’abate stava leggendo. «Dai, accomodati!» dice levandosi gli occhiali e mettendo da parte quel che stava leggendo. «Ryounen. Ryoooo-neeen!» «Sìiiii?» «Non ci porteresti un cuscino?» «Sìiiii!» risponde Ryounen da lontano. «Allora, sei venuto. A quanto pare ti annoiavi, eh?» «Mah, è che la luna era così bella che, girovagando, sono finito qui.» «Già, proprio una bella luna, eh?» dice, aprendo il pannello. Oltre un giardino senza nient’altro che due massi e un pino, c’è subito la scogliera, e sotto ai miei occhi, nella foschia notturna, si apre improvviso il mare. Mi sento come se d’improvviso il mio spirito si fosse allargato. Sembra come se le lampare, disperse laggiù, dove l’estremo orizzonte entra nel cielo, si fossero tramutate in stelle. «Questo è proprio un bel panorama. Abate, tenere chiusi gli scuri non è un peccato?» «Eh già. Ma sai, lo vedo tutte le notti...» «Per quante notti lo si veda è sempre bello, un panorama così. Io non dormirei per guardarlo.» «Hahahaha. Certo, tu sei un pittore, per me è un po’ diverso.» 138 «Anche lei, abate, mentre pensa che è bello, sta dipingendo.» «Ah, beh, hai ragione. In fondo, anche io dipingo Daruma 4. Ecco, lì appeso, ho messo su quel disegno del mio predecessore, non è poi così male, eh?» Infatti, su di una piccola mensola c’è appeso un disegno di Daruma. Anche se, come disegno, è impreciso e brutto. Ma almeno, non è volgare. Non c’è nessun tentativo di coprire i propri errori. È un disegno innocente. Questo predecessore doveva essere uno a cui vanno bene anche disegni così. «È un disegno innocente, vero?» «Per quel che ne facciamo noi, è già un gran lavoro. Basta che si intuisca il senso...» «È assai meglio dei lavori buoni, ma volgari.» «Hahahaha, beh, lo prendo come un complimento. A proposito, ho sentito che al giorno d’oggi ci si laurea anche in pittura.» «No, non c’è la laurea in pittura.» «Ah no? Di recente, mi pare di aver incontrato laureati più o meno in tutto.» «Ah sì?» «Un laureato è una persona notevole, giusto?» «Sì. Piuttosto notevole.» «Eppure, secondo me la pittura dovrebbe essere materia di laurea. Chissà perché non c’è.» «Beh, piuttosto, sarebbe opportuna una laurea per gli abati.» 4 Bodhidarma, Fondatore del culto buddista Chan, poi trasmesso nel Giappone come Zen. È il “monaco per antonomasia”, e veniva stilizzato in icona, già all’epoca di Souseki e anche prima, al punto da essere quasi l’antesignano degli “emoji”. 139 «Hahahah, beh, addirittura – Parlando di persone che si incontrano di questi tempi – pare che tutti abbiano un biglietto da visita.» «Che si incontrano dove? Tipo a Tokyo?» «No no, anche qui, che a Tokyo saranno vent’anni che non ci vado. Recentemente, ho sentito che hanno fatto un tram, o qualcosa così, e mi piacerebbe provarlo, almeno credo.» «È una cosa noiosa. Al punto da stuccare.» «Mah, davvero? Mah, sarò come i cani di Shu, che abbaiano al sole, o i buoi di Wu, che muggiscono alla luna 5; da campagnolo che sono, forse finirei col trovarli una seccatura.» «Non sono un seccatura... ma di certo, sono noiosi.» «Eh già, già...» Dal beccuccio del bollitore sbuffa copioso il vapore. L’abate prende delle tazze dal loro armadietto e versa il tè. «Eccoti un po’ di tè. Anche se non sarà buono come quello del vecchio Shihoda.» «Va bene lo stesso.» «Suppongo tu vada così in giro per trovare l’ispirazione per i tuoi quadri, giusto?» «Sì. Mi porto dietro l’attrezzatura, ma anche se non dipingo non importa.» «Ah, allora lo fai un po’ anche per piacere.» «Eh sì. Spero di non deluderla, ma... non mi va che mi si contino le scoregge.» 5 140 Si tramanda che nel regno di Shu, incuneato fra le montagne, ci fossero così tante nuvole che i cani non fossero abituati a vedere il sole, e che nel regno di Wu facesse tanto caldo che, di notte, la luna potesse essere scambiata per il sole. Per questo, quelle rare volte che si vedeva il sole a Shu, i cani, spaventati, abbaiavano, e a Wu, nelle notti calde, i buoi abituati a un clima più mite muggivano contro alla luna. Per quanto sia un monaco Zen, sembra che almeno questo discorso non l’abbia afferrato al volo. «Il... conto delle scoregge...?» «Se resti a lungo a Tokyo, ti contano ogni scoreggia.» «Davvero?» «Hahahahaha, te le contassero e basta sarebbe già buono. Invece analizzano ogni scoreggia, e guardano se hai il buco del culo a triangolo, o se è quadrato, e si perdono in queste cazzate.» «Mah, forse è per motivi di igiene...» «L’igiene non c’entra niente. È per motivi di indagine.» «Indagine? Ah, capisco, allora si tratta di polizia. Ma a cosa serve che la polizia indaghi su queste cose? Devono farlo per forza?» «Il punto è che questo non aiuta molto la pittura...» «Non aiuterebbe molto neanche me! Non ho mai fatto niente di tanto male che dovesse essere indagato.» «Immagino...» «Ad ogni modo, non m’importa che la polizia mi conti le scoregge. Contenti loro... finché non faccio niente di male, polizia o no, nessuno deve aver niente da ridire!» «E poi, le scoregge le fanno tutti, insomma...» «Quand’ero un giovane bonzo, il mio predecessore mi disse questo: la gente dovrebbe studiare tanto da non aver vergogna nemmeno di mostrare le proprie interiora nel bel mezzo del Nihonbashi6. Anche tu, studia tanto! E così, non dovrai nemmeno viaggiare.» «Per i veri pittori, è sempre così.» «E allora, diventa un vero pittore.» «È che se mi contano le scoregge, non ci riesco bene...» 6 Ponte al centro di Tokyo, che da nome all’omonimo quartiere. 141 «Hahahaha! Guardala così. Insomma, anche la signorina Nami degli Shihoda, lì dove alloggi tu, s’è sposata e poi se n’è tornata qui, e deve avere avuto tante preoccupazioni, e difficoltà, che alla fine è venuta qui a sentire i miei sermoni. E insomma, di recente se la passa molto meglio, ecco, vedi... adesso è una donna così in gamba!» «Uhm... beh, in effetti sospettavo che fosse una donna fuori dall’ordinario...» «Eh già, è una donna piuttosto acuta – Anche quel giovane bonzo che era venuto qui a studiare, quel Taian, grazie a lei ha capito che le cose che aveva accantonato erano importanti, e ha incontrato il suo vero destino, – forse adesso è molto più saggio.» Nel giardino silenzioso, cade l’ombra di un pino, e il mare lontano, come a rispondere alla luce del cielo, come a voler dare una risposta a tutti i costi, svelto e flebile, luccica. Le lampare si spengono. «Guarda l’ombra di quel pino.» «Bella, vero?» «Solo bella?» «Sì.» «Oltre a essere bella, non si cura di dove soffia il vento.» Finisco il tè rimasto nella tazza, e dopo averla appoggiata a testa in giù sul vassoio, mi alzo. «Ti accompagno fino al cancello. Ryoooooo-neeeeen! L’ospite sta andando via!» Mentre, scortato, esco dalla canonica, una colomba piange kuukuu. «Non c’è niente di più carino delle colombe. Quando batto le mani, volano tutte qui da me! Ti faccio vedere?» La luna si fa via via più luminosa. Silenziosa, la magnolia offre al cielo innumerevoli nubi fiorite. Nel mezzo di questa perfettissima 142 notte di primavera, l’abate batte le mani. Il suono se ne va a morire nel vento, senza che sia scesa una singola colomba. «Non vengono? Eppure, in genere scendono...» Ryonen mi guardò e accennò un sorriso. Forse l’abate crede che i colombi vedano al buio. Che tenerezza! Arrivati al cancello, mi separo da loro. Quando mi volto a guardarli, vedo una grande ombra tonda, e una piccola ombra tonda, cadere sul selciato e andare a svanire nella canonica, l’una dopo l’altra. 143 12 Cristo fu colui che usò con perfetta maestria la massima vena artistica, spiega e ricorda Oscar Wilde. Cristo, non saprei. Ma nel caso dell’abate del tempio Kankai, penso che abbia esattamente questo carattere. Non mi riferisco ai suoi interessi. E nemmeno al fatto che trascende le mode. È che riesce ad appendere un ritratto del Daruma che si fa assai fatica a chiamare quadro, e a dire che è un lavoro venuto bene. Crede che ci sia una laurea in disegno. Pensa che gli occhi delle colombe vedano anche di notte. E ciò nonostante, ha il carattere dell’artista. Il suo cuore è come un sacco senza fondo. Non trattiene nulla. Supera ogni ostacolo, va oltre ogni desiderio, senza traccia di scorie rimaste sul suo fondo. Forse, se gli si può trovare un singolo vizio, è quello di lasciarsi assimilare da ogni luogo in cui si rechi, al punto che, pur stesse pisciando o cagando, assurge alla massima artisticità. E invece io, con gli ispettori che valutano il conto delle mie scoregge, non riesco a essere pittore. Posso sedermi di fronte al cavalletto. Posso fare qualche schizzo. Ma non certo dipingere. A questo punto, invece che venirsene in un anonimo villaggio di montagna a cercare i nascosti colori della primavera, sarebbe stato meglio prima prepararsi artisticamente a fondo. Quando entro in questo mondo, la bellezza del creato torna in me. Anche senza imbrattare una tela, senza tingere nemmeno un fazzoletto, sono fra i più grandi pittori di prima classe. La mia tecnica, rifinita come quella di Michelangelo, precisa come quella dell’eccelso Raffaello, dal punto di vista artistico, segue i passi dei grandi maestri di ieri e oggi, e non si può scorgere alcuna inadeguatezza nel mio pennello. Da quando sono arrivato 145 all’onsen, non ho disegnato ancora nulla. Mi sembra quasi di essermi portato dietro la scatola degli attrezzi per puro sollazzo. “Ma che è un pittore quello?” riderà la gente chiedendoselo. Ridano quanto vogliono, adesso sono un vero pittore. Un pittore come si deve. Questo reame non ha niente a che vedere col dipingere quadri famosi. Anche se, chi dipinge quadri famosi deve per forza conoscere questo reame. Fatta colazione e fumata placidamente una Shikishima, termino le mie riflessioni. Il sole si solleva, staccandosi alto dalle nebbie. Aprendo i pannelli e ammirando la montagna sul retro, vidi gli alberi verdi insolitamente limpidi, freschi come mai prima. Penso costantemente che lo studio fra la relazione tra atmosfera, oggetti e colori, sia l’argomento più interessante del mondo. Concentrarsi sui colori per trasmettere l’atmosfera, o concentrarsi sulle cose per delineare l’atmosfera? O ancora, concentrarsi sull’atmosfera, e contemporaneamente lasciar trasparire cose e colori, intrecciandoli? Anche solo un po’ di enfasi basta a cambiare il senso di un quadro. Questo senso finisce col differire da quello che preferirebbe il pittore. Questo è ovvio, ed è naturale che dipenda dal tempo, dal luogo, e anche dalle inclinazioni personali. Nei dipinti dei paesaggi degli Inglesi, non c’è nulla di luminoso. Forse, odiano i dipinti luminosi, ma anche se li amassero, con quell’atmosfera, proprio non vengono. Eppure, Goodall1, sebbene Inglese, fa un uso dei colori assai diverso. E diverso, dovrebbe esserlo. Pur essendo Inglese, non ha mai dipinto un paesaggio dell’Inghilterra. Il soggetto dei suoi disegni non è la sua terra natale. Invece del suo paese d’origine, sceglie l’Egitto, o la Persia, dalle atmosfere naturalmente trasparenti e luminose. Chiunque veda un suo dipinto per la prima volta si sorprende. Sono fatti così bene che viene da 1 146 Friederik Goodall (1822-1904). Pittore Inglese romantico, famoso per le sue opere che ritraggono l’Egitto, non solo paesaggisticamente, ma focalizzandosi anche sui personaggi ordinari e occupazioni quotidiane, come sui miti del passato. chiedersi se è possibile che esistano Inglesi capaci di disegnare tanta luce. Non è tanto una questione di gusti. È semplicemente che, se dobbiamo concentrarci sulle ambientazioni del Giappone, allora dobbiamo anche far risaltare l’aria e i colori tipici del Giappone. Per quanto i pittori francesi siano bravi, e riescano a ritrarre i colori così come sono, non possiamo dire che quello sia un paesaggio giapponese. Insomma, più che prendere la natura in superficie, bisogna studiare lo spirito sottile, e quando si pensa ecco, è quel colore lì, bisogna subito mettersi in spalla il treppiede e alzare i tacchi. I colori sono effimeri. Persa l’unica occasione, lo stesso colore non si poserà più così facilmente sulle pupille. Il picco del monte che sto ammirando adesso è tinto di un colore così bello che da queste parti non si vede quasi mai. Ho fatto tanto per arrivare qui, e lasciarmelo scappare sarebbe un peccato. Proviamo un po’ a ritrarlo. Facendo scorrere la porta, esco sul cortile, e di fronte, appoggiata ai pannelli del secondo piano, trovo Nami, in piedi. Il mento sepolto nel bavero, non vedo nient’altro che il suo profilo. Nell’istante in cui penso di salutarla, la donna, lasciando giù la mano sinistra, aveva mosso la mano destra come fosse vento. Brilla come un lampo, scorre scivolando nella seconda, o forse terza piega del kimono, all’altezza del petto, e con un sonoro scatto, il brillìo scompare. Nella mano sinistra della donna resta una shirasaia2 lunga tre palmi. La sua figura si sfila, andando a nascondersi dietro il pannello. Con la sensazione di aver spiato un attore del kabuki al mattino presto, esco dall’ostello. 2 Lo shirasaya (白鞘) è un tipo particolare di fodero di legno morbido (e bianco, in genere acero, da qui il nome che significa “fodero bianco”). Viene usato per tenere le lame a riposo, essendo particolarmente adatto ad assorbire l’umidità. Quello che ha fatto Nami è rimuovere un pugnale dal fodero di “riposo”, e inguainarlo nel fodero adatto all’uso, in un gesto che è l’equivalente giapponese del “dissotterrare l’ascia di guerra”. 147 Uscendo dal cancello, tagliando a sinistra, si prosegue su un viottolino aggrappato alla montagna. Qua e là, piangono gli usignoli. La sinistra dà su una stretta valle, in cui crescono compatti i mandarini. A destra si allineano due colline per niente alte, che mi ricordano che i mandarini crescono anche lì. Sono già stato in questa terra, una volta, tanti anni fa. Non mi va nemmeno di mettermi a contare quanti. Era in un freddo inverno. Allora vidi per la prima volta i mandarini crescere sui monti. Chiesi a un tipo, sono venuto a prendere dei mandarini, me ne venda un ramo, ma ne prenda pure quanti ne vuole, si accomodi, mi rispose dall’alto dei rami, e si mise a canticchiare una strana melodia. E pensare che, a Tokyo, devi andare in drogheria anche solo per comprare le scorze dei mandarini. A sera, udii distinto un suono di campanelli. Quando chiesi cosa fossero, sono i cacciatori che vanno a caccia di anatre, mi fu risposto. Allora, passai di qui senza conoscere nemmeno i caratteri per scrivere Nami. Se quella donna fosse un’attrice, potrebbe essere un’eccellente interprete del ruolo femminile 3. In genere, gli attori mettono a frutto la loro arte quando vanno in scena. Quella donna, in casa, recita col suo semplice esistere. E non sembra nemmeno che reciti. Recita con la naturalezza di un genio. Si potrebbe dire che abbia “il bel vivere” 4. Grazie a quella donna, ho un ottimo materiale di studio per il disegno. Non passa giorno che, finché non assisto alla danza recitata da quella donna, non mi senta un velo a disagio. Che lo faccia per dovere o per passione, o che sia un semplice ferro del mestiere, 3 Durante lo shogunato dei Tokugawa, alle donne era vietato recitare in pubblico. I ruoli femminili erano coperti da attori maschi specializzati. Nell’era Meiji, questa legge venne abrogata, ma era ancora comune che i ruoli femminili fossero coperti da uomini. 4 Si riferisce a un breve essay del critico letterario Chogyuu Takayama (1871-1902), 美的生活を論ず– biteki seikatsu wo ronzu – “dialogare del bel vivere”, in cui tratta dell’estetica esistenziale, da raggiungere attraverso l’edonismo e l’individualismo. 148 se mi mettessi a studiare quella donna dal punto di vista di uno scrittore qualunque, la troverei troppo provocante, e ne sarei presto nauseato. Stando nel mondo reale, se dovesse crescere quel seme di relazione intrecciato nello spazio fra me e lei, forse, le parole per raccontarne il mio dolore non finirebbero mai. Nel corso di questo mio viaggio, sono concentrato sul separarmi dalle emozioni volgari, per diventare un pittore professionista, e quindi, tutto quello che mi passa davanti agli occhi, devo vederlo come fosse proprio un dipinto. Noh o kabuki che sia, devo osservare tutto come fosse il personaggio di una poesia. Sbirciando quella donna da dietro questi occhiali, quella donna danzerà una danza molto più bella di qualsiasi donna abbia mai visto fino a ora. Molto più bella della danza di qualsiasi attore che non se la senta di dire, guardate quant’è bella la mia arte! Non fraintendete questi miei pensieri. Anch’io, come membro della società civile, la ritengo inappropriata, anzi, persino ribelle. Ma la retta via è piena di curve, la virtù non è acqua, l’integrità non la vendono un tanto al chilo e la moralità non è mai valsa una vita. Farsene una ragione, per molte persone, è doloroso. Per opporsi a questo dolore, bisogna aver sepolto da qualche parte il piacere di sconfiggerlo. Che la si chiami pittura, poesia o danza, questi sono solo differenti nomi dati al piacere che si cela nel dramma. Se si riesce a gustarsela così, la recitazione diventa un atto eroico, persino sublime, e sconfiggendo qualsiasi avversità, colma il nostro petto con l’aspirazione massima. Dimentico dei dolori della carne, senza stare a pensare alla scomodità della cosa, praticando l’ascetismo, se fosse per il bene dell’umanità, troverei divertente anche bollire in pentola. E se dovessi trovarmi in piedi, in uno stretto angolo che si fa emotivo, a ridefinire cosa sia l’arte, direi che l’arte è la cosa sopita nei nostri cuori di gentiluomini istruiti, che evitano la malvagità per abbracciare la giustizia, rifiutano le deviazioni per seguire la retta via, scampano la debolezza per assumere forza, e quando proprio arrivano a non farcela più, la cristallizzano in quell’unica scintilla di determinazione, riflettendone finalmente l’abbacinante splendore. 149 Molti ridono degli atteggiamenti teatrali altrui. Ridono della passione di chi compie sacrifici non necessari pur di realizzare le proprie aspirazioni. Ridono dell’ossessione di chi si forza a ogni modo di sviluppare il proprio talento, senza aspettare l’occasione in cui si manifesta spontaneo. Ridere di chi riesce davvero a comprendere sé stesso vale il fiato della risata. Ci sono certi villani volgari che non hanno la più pallida idea di cosa sia il buon gusto, che per non rovinarmi l’umore, non mi spreco neanche a disprezzarli. C’era un giovane che lasciò il suo lamento sulla sommità di una cascata alta cento metri, e si gettò nel precipizio. Per come la vedo io, è una vita inestimabile gettata per una splendida lettera. Certo, affrontare la morte è un atto eroico, solo che è difficile capire i motivi che possono spingere al suicidio. E per quanto sia difficile provare sulla pelle l’eroismo di affrontare la morte, non si può ridere del gesto del giovane Fujimura. Coloro che, non potendo assaggiare l’arte dell’affinare l’ultimo coraggio, nemmeno se giustamente speso, sostengono che quest’ultimo coraggio non si dovrebbe affinare mai, sono gente assai più squallida del giovane Fujimura, e non hanno alcun diritto di deriderlo. Io sono un pittore. E anche in quanto pittore, sono un uomo di buon gusto e, anche se il mondo emotivo mi considererà troppo essenziale, assai più raffinato dei pragmatici di ogni latitudine. Come membro della società, mi ritrovo nella posizione di un educatore. Più di chi non sa poetare, di chi non sa dipingere, di chi non ha un briciolo di arte, posso recitare con grazia. Nel mondo emotivo, l’agire con grazia ha la sua forma, le sue regole, il suo messaggio. Quel che si esprime con forma, regole e messaggio è l’esempio seguito da ogni gente sotto al cielo. Io, che mi sono allontanato dal mondo emotivo per un po’, in questo viaggio, non ho il minimo bisogno di tornarvi. Se lo avessi, questo viaggio lungamente atteso sarebbe vano. Non posso lasciare che il mondo emotivo nasconda questa splendida pepita sotto la frusciante sabbia che sto sfiorando. Non mi obbligherò a tenere fede alle responsabilità di membro della 150 società. Come mero specialista della pittura, anche se solo per me stesso, tagliando le trame che mi tengono attanagliato alle necessità quotidiane, potrò realizzare facilmente i miei disegni. In men che non si dica monti, fiumi e gente! E anche il comportamento artificioso di Nami-san, non farò altro che guardarlo e ricopiarlo così com’è. Salendo un centinaio di metri, di fronte si vede un muro bianco. Ah, c’è chi vive fra i mandarini, mi dico. La strada, senza preavviso, si divide in due. Quando vedo il muro bianco piegare sul fianco sinistro, girandomi, dal basso sale una ragazza che porta una gonna rossa. Da sotto il bordo della gonna spuntano caviglie color tè. Le caviglie finiscono nei sandali, e i sandali si muovono svelti e vengono in qua. Sulla testa, quasi cadono i ciliegi di montagna. Sulle spalle, porta il mare luccicante. Risalendo sul sentiero che si inerpica aggrappato al fianco della montagna, sono finito su un pianoro. A nord, un picco tappezzato di erbe di primavera, così verdi che mi chiedo se non l’abbiano coperto giusto stamane. A sud, degli appezzamenti che si direbbero essere stati appena ripuliti dalle sterpaglie, bruciandole, e che si estendono per mezzo miglio, fino ad arrivare al fianco scosceso della roccia. Il mandarineto si protende ora dal monte, e seguendo il villaggio con lo sguardo, quel che entra negli occhi è, manco a dirlo, l’azzurro mare. Di strade ce ne sono a milioni, eppure, incontrandosi e lasciandosi, lasciandosi e incontrandosi, chissà quante sono considerate davvero importanti. Alcune non sono nemmeno strade, ne fanno solo le veci. Una traccia bruna sull’erba, visibile a tratti, che non lascia intuire cosa unisca, è intrigante proprio per questo. Senza acculacchiarmi da nessuna parte, vago qua e là sull’erba. E anche questo panorama, che a guardarlo da fuori potrebbe essere un bel quadro, penso, quando vengo al dunque non riesco a fissarlo. Anche i colori cambiano ogni istante. E a furia di 151 sbirciare l’erba, a un certo punto m’è anche passata la voglia di dipingere. E se non dipingo, non m’importa dove sto, e ovunque mi sieda è casa mia. Il sole di primavera che si insinua fin nelle radici più profonde dell’erba, quando si pianta il culo da qualche parte, sembra come di calpestarne il miraggio invisibile. Il mare brilla sotto ai piedi. Il sole di primavera, senza nemmeno un filo di nube a fargli ombra, splende su ogni acqua, sì tèpido che mi figuro il calore, sopito sul fondo, filtrare risalendo. Il colore, un blu profondo che si sposta a chiazze, fa da tappeto a pesciolini argentei che si muovono sottili. Il sole di primavera brilla sotto un cielo smarginato, e sotto al cielo, veste smarginata l’acqua, e fra loro, una bianca vela si scorge come l’unghia del mignolo. Una vela che, peraltro, non si muove affatto. I velieri che arrivavano da lontano tanto tempo fa dovevano sembrare proprio come quella. E di tutto il mondo secolare, il resto è, al più, quel mondo illuminato dal sole, quel mondo riflesso dal mare. Mi appisolo rannicchiandomi. Calandomi il cappello sulla fronte, sono sereno come un Buddha Amida. A tratti, spuntano dall’erba rigogliosi cespugli di cotogno5 alti fino ai fianchi. Ho proprio posato la faccia davanti a uno di questi. Il cotogno ha dei fiori intriganti. I rami ostinati non si piegano mai. Non che siano poi davvero così dritti. È che da un corto ramo dritto si stacca un altro corto ramo dritto, ad angoli sempre netti, e l’intero corpo prende forma così. Lì, fiori rossi, oppure bianchi, tranquillamente fioriscono. E anche qualche morbida foglia spunta qua e là. A ben vedere, fra i fiori del cotogno ce ne sono di così folli che, si direbbe, abbiano ottenuto l’illuminazione. Al mondo ci sono quelli che, l’idiozia, la coltivano. Sono quelli che, nell’aldilà, si 5 152 Il termine originale è 木 瓜 – boke – detto “cotogno giapponese”, dal nome scientifico Chaenomeles japonica. È un arbusto spinoso appartenente alla famiglia delle rosacee, simile ai cotogni europei ma con infiorescenze più ricche e colorate, generalmente rosso vivo, e con un fogliame più robusto, simile alle foglie del biancospino, ma più piccole e rotonde. reincarneranno in un cotogno. Anch’io vorrei diventare un cotogno. Quand’ero bambino e i cotogni erano in fiore e pieni di foglie, mi era capitato di divertirmi a tagliarne e intrecciarne i rami. Con i miei acquerelli da quattro soldi, giocavo a ritrarne le bianche gemme seminascoste fra fiori e le foglie stese sul tavolo. Un giorno, il cotogno dormiva leggiadro. Un altro giorno, come svegliato controvoglia, di soprassalto, proprio mentre passavo davanti al tavolo, coi fiori grinziti e le foglie secche, solo le gemme avevano la luce di prima. Una cosa tanto bella, com’è che può appassire così, nel giro di una sera, mi ero detto, dilemma che, all’epoca, non sapevo sopportare. A ripensarci ora, a quel tempo, ero assai più mondano. Mentre sonnecchio un po’ controvoglia, il cotogno mi ricorda della mia infanzia, vent’anni fa. Più lo osservo, più mi appisolo, ed è una sensazione piacevole. E ancora, la poesia affiora. Penso nel sonno. Compongo un verso alla volta, e lo fisso sul libro dei miei pensieri. In breve, è tutto fatto. Provo a rileggerli dall’inizio. Son’ora fuor dall’uscio, e già penso molto. Il verreo vento le vesti soffia in alto. Selva l’erba cresce ne’ solchi sulla strada. Nel sol sentiero fine scende la rugiada. Fermo la verga, sugl’occhi la man posata, mi bagna la brillante luce sfaccettata. Odo tosto lo stormir d’allegri uccelli, vedo petali scender liberi e libelli, e gialli fiori di là dal fin della via, e l’entro d’un tempio con su una poesia. 153 Contemplo il bordo delle nuvole alte Nell’ampio cielo, le cicogne tornan svelte Ma quant’è dolce questo filo di cuore! Lo spirto ebbro m’oblia d’ogni dovere. Ho trent’anni ma di ere ne vidi tante e c’è una cosa che dico chiaramente nel viaggio eterno verso l’ultima meta degno di questi petali, sarò asceta. Ecco, ce l’ho fatta, ce l’ho fatta! Con questo, ce l’ho fatta. Guardando i cotogni nel sonno, dimentico dello stare al mondo, ce l’ho proprio fatta. Senza stare a tirar fuori i cotogni, senza stare a tirar fuori il mare, tirar fuori il sentimento basta e avanza. Mentre mi dicevo così, annuendo e congratulandomi con me stesso, udii un “ehm ehm” di chi si schiarisce la voce. Che sorpresa! Svegliandomi e guardando là da dove arrivava il suono, da dietro la montagna, uscendo dal boschetto ceduo, è spuntato un uomo. Ha addosso un kimono color tè. Il kimono è assai sformato, e sotto le pieghe del bavero si intravedono dei buchi, tipo occhi. Che forma abbiano gli occhi non si capisce bene, ma di certo si guardano intorno guardinghi! Con una cintura blu che gli gira dietro al culo, e i piedi nudi infilati negli zoccoli, non ha nulla che sia in ordine. E basterebbe la barba incolta per farlo passare per un brigante. L’uomo si ritrasse, come se stesse decidendo se scendere per il fianco scosceso o girare dall’altra parte. Tanto che mi chiesi se la strada per cui ero venuto fosse sparita, ma non era così. Alla fine, riprende il passo verso me. Non ci dev’essere poi tanta gente che va a passeggio sulla stradina che passa in questa radura. E poi, ha l’aria di uno che passeggia? Non mi sembra nemmeno uno dei 154 tipi che vivono da queste parti. Ogni tanto, l’uomo si ferma. Si allunga sulla strada. Oppure si guarda intorno. E sembra anche molto assorto. Ha l’aria di aspettare qualcuno. Non capisco proprio. Non riuscivo a distogliere i miei occhi da questo uomo volgare. Non che facesse paura, ma non si può nemmeno dire che mi andasse di dipingerlo. Semplicemente, non potevo girare lo sguardo. Da destra a sinistra, da sinistra a destra, mentre seguivo l’uomo che faceva muovere i miei occhi, l’uomo si fermò. E allo stesso tempo, un’altra persona si infilò nel mio campo visivo. I due, come per accertarsi a vicenda di chi siano, si avvicinano a turno l’uno all’altro. Io stringo pian piano il campo visivo, che si concentra sul piccolo suolo al centro esatto della piccola radura. I due, con la montagna di primavera alle spalle, e in fronte il mare di primavera, si rivolgono improvvisamente l’uno verso l’altra. L’uomo è di certo un brigante. E chi gli sta di fronte? Chi gli sta di fronte è una donna. È Nami-san. Appena ho riconosciuto Nami-san, mi è subito corso il pensiero al pugnale di stamane. Come mi sono chiesto, non l’avrà ancora sotto le vesti, in me, che finalmente ero riuscito a essere inemotivo, è corso un brivido. L’uomo e la donna, rivolti l’uno verso l’altra, per un po’ stanno in piedi con lo stesso piglio. Non mostrano di volersi muovere. Non so nemmeno se stanno muovendo la bocca, ma non li sento parlare. A un certo punto, l’uomo piega il collo. La donna si gira verso il monte. Il volto entra nei miei occhi. Sul monte, un usignolo piange. Riesco a vedere che la donna gli presta orecchio. Dopo un po’, l’uomo alza di scatto il collo piegato, e fa per girare i tacchi. Senza dare l’idea di voler accomiatarsi. La donna aggiusta la sua posa rivolgendosi al mare. Dalla fascia che usa per cintura, quel che spunta sembra essere l’elsa di un pugnale. L’uomo ha uno scatto d’orgoglio mentre si avvia. La donna gli concede giusto due passi, e inizia a seguirlo. Lei indossa dei sandali di paglia. L’uomo si ferma, sarà forse 155 perché lei lo ha chiamato? Nell’istante in cui si volta, la mano di lei scende verso la fascia. Attento! Quello che sfila lentamente non è il coltello di trenta centimetri che avevo in mente, ma un sacchetto, un portasoldi. Sotto alla bianca mano tesa, un lungo filo 6 ondeggia indolente nel vento di primavera. Appena sporto innanzi, tenuto giusto sopra i fianchi dalla sinistra, bianca, il cui polso spunta appena, il drappo vermiglio. Ecco, questo è un aspetto che potrei disegnare. Quest’uomo, coperto per appena un palmo dal vermiglio che gli si frappone, il suo esitare nel voltarsi del tutto, lo comprendo bene. Pur senza esserne coinvolto, penso alle parole che ben potrebbero dar forma a questo istante. È la forma di una donna che tende ad avanzare, e di un uomo che tende a ritrarsi. Ma in realtà non avanzano, né si ritraggono. Il confine che li separa inizia all’improvviso là, dove finisce il filo del sacchetto. Mentre mi chiedevo come preservare la strana armonia delle forme di quei due, mi resi conto del contrasto fra i loro volti, e fra le loro vesti, e la voglia di ritrarli andò crescendo. La schiena corta ma solida, la sottile barba nera, il volto affilato, il collo lungo, le spalle spioventi, in complesso, un aspetto delicato. Un contrasto evidente con gli zoccoli adatti a sostenere il corpo di un brigante, e la veste dimessa, di seta grezza, tirata fino a coprire appena la vita. L’uomo tende la mano e prende il sacchetto. La posa che permetteva di apprezzare la diversità di chi tira e chi è tirato si sbriciola all’istante. La donna non tira più, e l’uomo non sembra più tirato. Nonostante sia un pittore, non mi era mai capitato prima di voler, più che rendere in disegno l’aspetto psicologico, ritrarre l’impressione lasciata. 6 156 Il termine usato per la parola “filo”, 紐 – himo – si usa anche, o soprattutto, per riferirsi a un uomo che sfrutta una donna per farsi mantenere. I due si lasciano andando in direzioni opposte. Di loro non resta traccia, e quindi ritrarli è impensabile. Mentre entrava nel boschetto ceduo, l’uomo si era girato una volta. La donna, invece, non si era voltata. Lenta lenta, cammina in questa direzione. E, finalmente, giunta di fronte a me: «Maestro, maestro!» mi chiamò con queste due parole. E se aveva fatto così, chissà da quando mi aveva visto. Con un «che c’è?», tiro fuori la faccia dai cotogni. Mentre mi cade il cappello sull’erba. «Che ci fai laggiù?» «Dormivo poetando.» «Non dire balle. Hai visto quel che è successo, giusto?» «Quel che è successo? Quel che è successo... intendi quello? Beh, sì. Ho assistito un poco.» «Hohohoho, altro che poco, sarebbe stato meglio tu avessi visto molto.» «A dire il vero, ho assistito molto.» «Ecco, vieni a vedere. Dai, vieni qui. Salta fuori dai cotogni.» Approvando l’idea, salto fuori dai cotogni. «Hai ancora qualcosa da fare fra i cotogni?» «Non più. Stavo giusto pensando di rientrare.» «E allora, rientriamo insieme?» «Sì.» Approvando nuovamente, ritraendomi dai cotogni, rimettendomi il cappello, sistemando l’attrezzatura, mi metto a camminare assieme a Nami-san. 157 «Vostra Grazia è forse riuscito a dipingere7?» «Ci ho rinunciato.» «Da quando sei qui non hai ancora disegnato nulla, o sbaglio?» «Già.» «Però, dopo aver fatto tanto per venire qui, sarebbe un peccato non dipingere almeno qualcosina, eh?» «Macché.» «Ah no?... E perché?» «Beh, ecco, perché porto tutto con me. Che disegni o no, porto via le stesse cose.» «Ah, ma così non vale, hohohoho sei assai spensierato, eh?» «Proprio perché sono venuto in un posto come questo, se non fossi spensierato, non sarebbe una disgrazia?» «Ma che dici, ovunque tu sia, vivere spensierati non è mai una disgrazia. ad esempio, anche se qualcuno mi vedesse nella situazione di poco fa, penso che non me ne vergognerei per niente.» «Non bisognerebbe pensarlo.» «Dici? Il tipo di prima, chi diamine pensi che fosse, Vostra Grazia?» «Non saprei. Di sicuro, non era un riccone.» «Hohoho, ci hai preso in pieno. Devi essere un grande indovino! Quello lì è un poveraccio, e siccome dice che non si può stare in Giappone senza soldi, viene a chiederli in prestito a me.» «Ah... e da dove viene?» «Dalla città.» 7 158 Nami alza di alcuni gradi la formalità del discorso, per un paio di frasi. La veloce escursione nel tono super-formale sembra un po’ scherzosa. «Assai lontano... e poi, dove va?» «Mi sa che finirà in Manciuria.» «E che ci va a fare?» «E che ci va a fare... a raccattare un po’ di soldi, o a morire, chi lo sa.» A questo punto spalancai gli occhi e guardai un po’ il volto della donna. Ora, le labbra sono tese in un’ombra di sorriso che sta svanendo. Non ne capisco il motivo. «Quello è mio marito.» Più improvvisa di un tuono arrivato prima del lampo, la donna mi tirò questa sciabolata. E io accusai il colpo inatteso. Ovviamente, non mi andava di sapere altro, e va da sé che la donna non pensava nemmeno di spiegare oltre. «E allora? La cosa dovrebbe sorprenderti.» «Già, mi ha un po’ sorpreso.» «Non è il mio attuale marito; siamo divorziati.» «Capisco... e quindi...» «E quindi niente.» «Beh, allora... – C’è una casa nel mandarineto, con quei bei muri bianchi. È proprio una bella posizione, mi chiedo chi ci abiti.» «È casa di mio fratello. Devo fare una piccola deviazione per di lì, prima di rientrare.» «Hai qualche affare da sbrigare?» «Sì, mi hanno chiesto di fare una piccola commissione.» «Ti accompagno.» Girando per il viottolo che sale fuori dal villaggio, e subito piega a destra, dopo essere saliti ancora per circa mezzo chilometro, c’è un cancello. Senza indugiare sulla soglia, ci addentriamo nel giardino. La donna deve conoscerlo bene, e procede sicura, quindi anche io procedo sicuro come un conoscente. Nel 159 giardino che guarda a sud ci sono tre o quattro palme, e oltre il muro a secco c’è un mandarineto. La donna poggia il sedere presso un’aiuola e dice: «Che bel panorama. Guarda!» «Davvero, è proprio bello!» Da oltre i pannelli tutto tace, si direbbe non ci sia nessuno. Anche la donna, non ha l’aria di voler fare alcun rumore. Stiamo semplicemente acculacchiati lì, guardando dall’alto il mandarineto, in pace. Mi sembrò strano. Chissà cos’era questa commissione. Siccome non c’era niente da dire, ce ne stavamo entrambi muti a fissare il mandarineto. Il sole, che si va posando nel meriggio, bagna il fianco dei monti con raggi ancor più tiepidi, e le foglie dei mandarini che indugiano negli occhi, brillano per la foschia che si leva sullo sfondo. E finalmente, i galli in un’aia nascosta cantano il loro chicchirichì. «Ma tu guarda, s’è fatto mezzogiorno, eh? Mi ero dimenticata della mia commissione. Kyuuichi-san, Kyuuichi-san!» La donna, sporgendosi per chiamare, scosta rumorosamente i pannelli chiusi. L’interno è un vuoto spazio di dieci tatami, un drappo su cui sono dipinte scene campestri a decorare inutilmente le assi di primavera. «Kyuuichi-san!» Dall’interno viene finalmente una risposta. Il rumore di passi si ferma oltre il pannello interno, che si apre rumorosamente, forse troppo in fretta, e il pugnale che stamane era inguainato nella shirasaia, rotola sul tatami. «Eccoti il regalo di commiato del nonno!» Non mi ero accorto nemmeno che avesse infilato la mano nella fascia. Il pugnale rimbalza due o tre volte, per correre sul tatami, silenzioso, ai piedi di di Kyuuichi. Il fodero doveva essere un po’ largo, poiché, rilucendo, qualcosa lungo un dito, freddo, brillò. 160 13 Accompagno Kyuuichi-san in battello, fino alla stazione di Fukuta. Quelli che siedono in barca sono l’accompagnato Kyuuichi-san, l’accompagnatore nonno, Nami-san, il fratello maggiore di Nami-san, il facchino Genbei e poi io. Che, ovviamente, sono stato invitato per cortesia. E se mi invitano per cortesia, accetto. Accetto anche se non ne capisco il senso. In un viaggio inemotivo, non si fanno complimenti. Il battello è piatto come una zattera con un parapetto. Il vecchio sta in mezzo, Nami-san e io siamo stati messi a poppa, e Kyuuichi-san e il fratello maggiore siedono a prua. Genbei sta da solo con i bagagli. «Kyuuichi-san, ti piace combattere1?» chiede Nami-san. «E che ne so, finché non provo... Sicuramente sarà dura, ma potrebbe esserci anche qualcosa di piacevole.» dice Kyuuichi-san, che non sa nulla della guerra. «Per quanto sia dura, è per la patria.» dice il vecchio. «Adesso hai un pugnale, non ti viene voglia di andare in guerra?» la donna chiede questa strana cosa. E Kyuuichi: «Eh già.» risponde inclinando leggermente il capo. Il vecchio ride accarezzandosi la barbetta. Il fratello fa finta di niente. 1 Nami abbandona il suo usuale stile femminile nel parlare, detto chiwa, e si rivolge a Kyuuichi come farebbe un uomo. 161 «E pensi che combattere sia una cosa tanto facile?» risponde la donna a Kyuuichi-san, e incurante della forma, gli pianta il viso tinto di bianco in faccia. Kyuuichi-san scambia un veloce sguardo col fratello di lei. «Se Nami-san fosse un soldato, sarebbe assai forte.» sono le prime parole che il fratello rivolge alla sua sorella minore. A giudicare dal tono di voce, non si direbbe stia solo scherzando. «Io? Io un soldato? Già, sarebbe meglio fossi diventata un soldato. Così, adesso, sarei già morta. Kyuuichi-san. Anche tu, sarebbe meglio tu morissi. Tornare vivi alimenta brutte dicerie.» «Ma che ti salta in testa... su, su, torna vittorioso! Che non si serve la patria solo da morti. Anch’io ho intenzione di vivere altri due o tre anni. Ci rivedremo.» Quando il vecchio allunga la coda delle parole, la loro fine si fa sottile e si perde in un filo di lacrime. Ma da uomo, non lascia emergere oltre il suo dolore. Kyuuichi-san, senza dire nulla, voltandosi da una parte, guardò verso la riva. Sulla riva ci sono dei grandi salici. Sotto, c’è legata una barchetta, e un tizio che guarda intento la lenza. Quando la nave della nostra compagnia, tirandosi dietro le onde, gli passò davanti, l’uomo alzò distrattamente il volto, incontrando lo sguardo di Kyuuichi-san. Fra i due che si scambiano lo sguardo, non scocca nessuna scintilla. L’uomo pensa solo ai pesci. Nella testa di Kyuuichi-san non c’è posto nemmeno per un’alborella. La nave della nostra compagnia sfila oltre a Tai Koubou 2. 2 162 太 公 望 – Tai Koubou – in Cinese Tai Gongwang – Personaggio leggendario, si narra che passasse tutto il tempo a pescare in riva al fiume, certo che, un giorno, avrebbe avuto una gran fortuna. E un giorno, un re che passava di lì col suo seguito, si fermò a discutere con lui di politica e di filosofia, restando talmente impressionato da quell’uomo che lo volle assumere come suo ministro. Chissà quante centinaia di persone passano per il Nihonbashi 3 ogni minuto. Se, stando in piedi sulla cuspide del ponte, si potesse ascoltare ogni singola angustia che si annida nei loro cuori, il mondo fluttuante difficilmente potrebbe continuare a vivere assorto. È proprio perché si incontrano persone sconosciute, e persone sconosciute si lasciano alle spalle, che alla fine, sul ponte, spunta sempre qualche candidato a sventolare la bandiera del tram4. Tai Koubou, il volto di Kyuuichi, sul punto di piangere, non cerca nemmeno di spiegarselo, e questa è la sua fortuna. Quando mi volto a guardarlo, osserva le onde tornate tranquille. Mi sa che ha intenzione di continuare a osservarle finché dura la guerra sino-giapponese. L’argine non è particolarmente ampio. Il fondale è basso. La corrente è placida. Seguendo gli argini, scivolando sull’acqua, mi chiedo fin dove andremo, là dove si esaurisce la primavera, dove la gente schiamazza, desiderosa di ribollire assieme. Il flebile sentore di una goccia di sangue segna lo spazio fra le sopracciglia di questo giovane che, sfrontatamente, trascina la nostra compagnia. Il filo del destino trascina questo giovane verso un lontano, oscuro, spaventoso Paese del nord, e per questo, il fato di un certo giorno, un certo mese, un certo anno, che ci attorciglia a questo giovane, ci costringerà a seguirlo fino a che, questo fato, non si esaurirà. E quando il fato si esaurirà, con uno sbuffo nello spazio che lo separa da noi, senza chiederci il permesso, lo riconsegnerà nelle mani del destino. E anche noi che rimaniamo, dovremo rimanere senza che ci sia chiesto il permesso. Che lo desideriamo, o che lo aborriamo, non potremo che essere trascinati. 3 Letteralmente “Ponte del Sol Levante”, era il ponte al centro della città di Edo, poi Tokyo, che connetteva tutte le strade più importanti del Paese. 4 Sui primi tram a trazione elettrica, un addetto sventolava una bandiera per chiedere strada ai passanti. Qui sta a significare che c’è sempre chi, pur non avendo alcun reale potere, si agita per mostrare quell’unica briciola di autorità che gli è stata concessa, scaricandola su chi, incolpevole, gli sta di fronte. 163 La nave scivola stranamente placida. Eh sì, su ambo le sponde crescono le canne. Sopra ai terrapieni si vedono molti salici. Fra di essi, spuntano basse case dai tetti di paglia. E spuntano finestre sporche. E alle volte, spunta qualche anatra bianca. Le anatre cantano gaa, gaa, e vanno fino in mezzo al fiume. Quelli che rilucono abbaglianti a tratti fra i salici, devono essere albicocchi. Si sente tonkan, tonkan, il battere dei telai. Nelle pause fra i tonkan, il canto delle donne, haai, iyooo, risuona sull’acqua. Ma cosa cantino, proprio non lo capisco. «Maestro, la prego, mi ritragga!» mi chiede Nami-san. Kyuuichisan e il fratello parlano fitto dell’esercito. Il vecchio ha iniziato a sonnecchiare. «Scriverò per lei.» rispondo tirando fuori il blocco da disegno, Che firma porta il vento satinato di primavera? provo a scrivere. Ridendo, la donna: «Una pennellata come questa non basta di certo! La invito a ritrarre le mie sfumature con maggiore attenzione.» «Anch’io vorrei farlo... ma il suo volto non basta per farne un disegno.» «Oh, ma quale franchezza! E allora come posso fare per farmi ritrarre?» «Beh, potrei ritrarla anche subito, sa... il fatto è che manca qualcosa. Disegnarla fintanto che non esce, sarebbe un peccato.» «Manca qualcosa? Beh, mi spiace, ma sa, con questa faccia ci sono nata...» «Il volto con cui si è nati può variare molto.» «A proprio piacimento?» «Già.» 164 «Ma sì, trattami da scema giusto perché sono donna!» «È proprio perché sei una donna che dici queste scemenze.» «Ah, è così, eh? E allora fammi vedere quanto varia il tuo volto.» «Il mio volto cambia tutti i giorni, anche troppo.» La donna tace e si gira dall’altra parte. Alle sponde, titubanti, giungono i campi che, a perdita d’occhio, si fanno via via più uniformi. Qua e là gocce scarlatte, come sciolte dalla pioggia nel mare di fiori, si stingono nella foschia, allargandosi indefinitamente, e nel vuoto che le sovrasta, si staglia la punta di un picco che soffia appena le nubi di primavera. «Tu sei passato da quella montagna.» dice la donna, tendendo la mano bianca oltre il parapetto a indicare quel sogno di montagna in primavera. «La Roccia del Tengu è da quelle parti?» «Dev’essere sotto a quel folto verde, dove si vede un po’ di rossiccio.» «Quel posto in ombra?» «Ma sarà un’ombra? Mi sembra che sia solo spoglio.» «Ma va, è una rientranza. Fosse spoglio, si vedrebbe assai più marrone.» «Ah, davvero? a ogni modo, penso sia là dietro.» «Allora, Sette Curve è un po’ sulla sinistra, giusto?» «Sette Curve è di fronte, molto più lontano. Dopo quel monte, è l’altro monte ancora.» «Ah, vedo, vedo. Allora, occhio e croce, dev’essere là, sotto quella sottile nuvola.» «Sì, la direzione è circa quella.» Il vecchio appisolato si sveglia sussultando, quando il suo gomito scivola oltre la ringhiera. 165 «Non siamo ancora arrivati?» e si stiracchia tirando fuori il petto, il gomito della destra indietro, e stendendo la sinistra dritto di fronte, sembra fare come un arciere. La donna ride, hohoho. «Oh, scusate, è una mia abitudine...» «Le piace tirare con l’arco?» chiedo sorridendo. «Da giovane tiravo con l’arco lungo 5. Ancora adesso, anche se non si direbbe, non me la cavo niente male.» dice battendosi la spalla sinistra. A prua ferve un consiglio di guerra. La nave entra in un’area che dev’essere già città. Si vede una trattoria con su scritto “aperitivi” sui pannelli. Si vede una tendina di corde vecchio stile. Si vede una legnaia. Ogni tanto si sente perfino il suono di qualche risciò. Le rondini volano pigolando e girando sulla pancia. Le paperelle piangono gaa, gaa. Abbandonando la nave, la nostra compagnia si dirige alla stazione. Finalmente, sono stato ritrascinato nel secolo corrente. E chiamo “secolo corrente” il posto da cui si può vedere il treno. Il treno a vapore è certo la cosa più rappresentativa del ventesimo secolo. Centinaia di persone stipate in una scatola e trasportate. Senza compassione. La gente stipata... tutta con la stessa velocità, tutta verso la stessa stazione, tutta egualmente allietata con lo stesso vapore. Si dice che le persone salgono sul treno. Io dico che sono ammucchiate. Si dice che le persone vanno in treno. Io dico che sono caricate. Non c’è nulla irrispettoso per la personalità quanto il treno. La civiltà esalta il singolo come mai prima, e come mai prima, cerca di calpestare la personalità in ogni modo possibile. Quel che ci dona un fazzoletto di terra, e ci dà la libertà di dormirci o starci svegli è la civiltà moderna. Ma, 5 166 Cita esplicitamente l’arco più grande e pesante fra quelli usati tradizionalmente in Giappone: 七分五厘 (sette bun/cinque ri), un arco lungo circa un metro e mezzo e dalla sezione di oltre due centimetri. allo stesso tempo, quel che ci costruisce attorno uno straccio di ringhiera, e ci minaccia di non fare un passo oltre, è sempre la civiltà odierna. I miserevoli cittadini della civiltà, giorno e notte, mordendo questa gabbia, ruggiscono. La civiltà, dopo aver dato a tutti tanta libertà da renderli fieri come tigri, li getta in una gabbia, per preservare la pace nel mondo. Ma questa pace non è una vera pace. È come la pace della tigre che guarda con odio i visitatori dello zoo, mentre pisola. E se si sfilasse anche solo una sbarra... il mondo finirebbe a scatafascio. Ci sarebbe una seconda rivoluzione francese. La rivoluzione personale va avanti giorno e notte. Il grande occidentale Ibsen usò sé stesso come esempio dettagliato. Quando guardo la feroce corsa del treno a vapore, che, senza distinzione, tiene in animo le persone come tutte uguali, e considero i singoli stipati su ogni ruota, quelle ruote di ferro che non pongono un millimetro di attenzione ai sentimenti di ognuno... qui va a finire male. Penso che se non stiamo attenti, finiremo nei guai. La società moderna è colma fin sopra ai capelli di questi pericoli. Il treno che corre alla cieca, dritto nell’oscurità, ne è una metafora. Ho pensato alla teoria del treno mentre mi guardo attorno, con le chiappe posate nella sala da tè di fronte alla stazione. Non vale nemmeno la pena di fissarla sul mio blocco, quindi mangio i dolcetti e bevo il tè in silenzio. Una coppia se ne sta seduta al tavolinetto dall’altra parte. Indossano entrambi sandali di paglia e pantaloni da lavoro, il primo di color mattone, e l’altro, che li indossa di color paglierino, si sfiora lì dove gli arrivano ai fianchi. «Mi sa che sono messo proprio male.» «Mi sa di sì.» «Sarebbe bello avere due stomaci, come le vacche.» «Già, se ne avessimo due, e uno si rompe, si potrebbe tagliare via e saresti a posto.» 167 Pare che questo contadino sia malato di stomaco. Questi due non conoscono che odore ha il vento che soffia in Manciuria. Non si rendono conto di quali danni porti la civiltà moderna. Non sapranno nemmeno con che caratteri si scrive “rivoluzione”. Anzi, non sanno nemmeno se hanno uno o due stomaci. Tirai fuori il blocco da disegno, e ritrassi la forma di quei due. Suona la campanella, tintillando. Il biglietto, già lo abbiamo comprato. «Via, andiamo» Nami-san si alza. «Agl’ordini!» si alza anche il vecchio. La compagnia si trasferisce in blocco sulla banchina. La campanella suona insistente. Ruggendo “goo”, sui binari che luccicano di bianco, il serpentone della civiltà arriva strisciando. Il serpentone della civiltà, dalla bocca, sputa fumo nero. «E quindi, ci separiamo.» dice il vecchio. «Beh, abbiate cura di voi.» risponde Kyuuichi, chinando il capo. «Mi raccomando, muori un pochettino!» ripete Nami-san. «Ma le valigie che fine hanno fatto?» chiede il fratello. Il serpente si ferma davanti a noi. Le porte sui fianchi si spalancano. La gente esce, e poi entra. Kyuuichi è salito. Il vecchio, il fratello, Nami-san e pure io stiamo lì in piedi. Quando le ruote si muoveranno appena, Kyuuichi non sarà più del nostro mondo. Andrà in un mondo lontano lontano. In quel mondo, gli uomini si muovono nell’olezzo della polvere da sparo. Rotolano scivolando su qualcosa di rosso. Il cielo grida forte dodon, dodon. Mentre, sul treno che lo porterà in un luogo così, Kyuuichi sta in piedi e tace, noi lo osserviamo. Noi, trascinati giù dalla montagna con Kyuuichi, rompiamo qui il destino che ci ha trascinati. Appena oltre le porte e i finestrini del treno, appena ci guardiamo in volto, appena si frappone giusto un metro fra le 168 persone che vanno e quelle che restano, il destino già inizia a sfilacciarsi. I controllori chiudono frettolosamente le porte del treno, correndo verso di noi. Mano a mano che le porte si chiudono, la distanza fra le persone che vanno e quelle che restano si fa lontana. Alla fine, anche la porta della carrozza di Kyuuichi viene chiusa frettolosamente. Inconsapevolmente, il vecchio allunga il collo verso il finestrino. Il giovane tira il collo fuori dal finestrino. «Attenzione! Si parte!» dice una voce dal basso, e il treno, insensibile, con le ruote sferraglianti, inizia a muoversi. I finestrini ci passano davanti uno a uno. Mentre il volto di Kyuuichi si fa piccolo, quando l’ultima carrozza della terza classe mi passava davanti, un altro volto uscì dal finestrino. Sotto un berretto consunto color tè, un brigante dalla barba incolta e dall’aria affranta allungò il collo. In quel momento, Nami-san e il brigante, sovrappensiero, incrociarono lo sguardo. Le ruote di ferro procedono sferragliando. Il volto del brigante scomparve. Nami-san guarda incantata il treno che si allontana. E in quell’incanto, stranamente, affiorò un’espressione di “struggimento”, che non avevo mai visto prima. «Ecco! Ecco! Ora che è emersa, posso ritrarti!» battendo la spalla di Nami-san, dico a bassa voce. Poiché, l’immagine che avevo nella mente, in quell’istante improvviso, si fece completa. 169 Esegesi 1 Il primo capitolo introduce il piano dell’opera, sia esplicitamente, con l’autore-protagonista che ci racconta il suo progetto, che implicitamente, attraverso la narrazione degli eventi. Fin da subito, sappiamo che il viaggio non è fine a sé stesso, e non è nemmeno intrapreso al fine di raffinare la propria arte e trovare nuovi soggetti da dipingere. È un viaggio di crescita personale, alla ricerca non tanto di una vita migliore, ma di un migliore modo di vivere. L’ipotesi è che, epurando le emozioni dalla necessità di vivere, anzi, studiandole come un osservatore, come un tecnico che, le emozioni, non le vive, ma le analizza, le gusta, le assapora raffinandole senza subirle, ma semplicemente guardandole passare, senza trepidazione nell’attesa, e senza rimpianto nell’abbandono, si raggiunga uno stato d’animo perfetto, una felicità non effimera, ma eterna. Ma, già nella teoria tratteggiata nell’introduzione, il protagonista non si nasconde le difficoltà che incontrerà nel provare la sua ipotesi. Infatti, nella seconda parte del capitolo, nella narrazione degli eventi, vediamo il protagonista che, queste emozioni che potrebbero anche risultare poetiche, se sublimate, le subisce senza alcuna possibilità di estraniarsi. La realtà fenomenica, indifferente ai suoi desideri, non si piega a essere ridotta a un mero fatto estetico, e lo colpisce in tutta la sua forza. Il tema richiama la filosofia Zen, per la quale riconoscere la vacuità della realtà percepita dai nostri sensi è il primo passo per l’illuminazione. Facile in teoria, difficilissimo nella pratica. Del resto, Souseki fu istruito in un monastero Zen durante l’infanzia, e studiò questi principi filosofici approfonditamente. Ma al concetto di illuminazione, Souseki sostituisce un concetto più mondano, quello dell’estèsi, ossia della bellezza intrinseca, fine a sé stessa e autosufficiente, che non ha bisogno di essere stimata, 173 valutata e confrontata. Esiste come principio assoluto, e può solo essere riconosciuta, o trovata, se cercata a fondo. Altro tema che sarà caro a Souseki per tutto il resto dell’opera è il confronto fra l’arte occidentale e quella orientale. Anche qui, l’artificio di aver scelto un artista, e in particolare un pittore, come protagonista, torna molto utile: il protagonista è libero di criticare gli altri artisti, in genere, sul piano meramente estetico, ma alle volte con piglio e competenza tecnica. In un opera che si prefigge lo scopo nemmeno tanto velato di cambiare il paradigma letterario dominante all’epoca, la possibilità di scendere sul tecnico, se necessario, deve aver molto allettato l’autore. Ma, contrariamente a quanto colto da molti critici occidentali, e persino da molti traduttori, Souseki non critica l’arte occidentale. Non l’ammira, anche se possiamo intendere che non la trova affatto deludente, ma il suo obiettivo sono i suoi colleghi connazionali contemporanei. Allo scopo di colpirli, alle volte, sembra quasi attaccare l’arte tutta, senza risparmiare quella occidentale, ma in realtà si tratta di un artificio retorico, chiaro per i suoi lettori, un po’ meno per gli occidentali. Souseki accusa direttamente i suoi colleghi-avversari del movimento dell’ukiyo, e lo fa rivolgendosi direttamente al “mondo fluttuante”, senza mai riconoscergli la dignità di “movimento”, o nemmeno di “stile”. Tratta la parola ukiyo come tratta qualsiasi altro termine composto di “mondo” (come in “stare al mondo”, o “il mondo della gente” ecc.), quasi come se volesse far finta che il lettore distratto possa non accorgersi dei riferimenti diretti ai suoi avversari, quasi come fingesse di aver nascosto il vero significato con delle metafore, che in realtà non sono mai abbastanza sottili da poter essere fraintese, nemmeno dai suoi lettori contemporanei meno preparati. Tutto il passaggio che inizia dalla poesia in Inglese e finisce con “Menomale che nella poesia orientale c’è qualcosa in grado di trascendere”, parrebbe quasi una critica all’arte occidentale, ma proprio verso la fine, ecco la stoccata, doppia, che fa cadere tutto 174 il discorso sui poeti giapponesi: l’uso del termine “詩歌” – shika – per indicare la poesia: si tratta di una parola che si riferisce esclusivamente a un certo tipo di poesie scritte in Giapponese. Sarebbe come se, lanciandosi in una critica della poesia in generale, magari dopo aver citato qualche verso di Shakespeare, si chiudesse il discorso con qualcosa come: “e quindi, fra i sonetti non ce n’è nessuno che meriti”. La parola “sonetto” riferebbe tutto il discorso, che l’autore aveva finto essere generico, alla poesia italiana. Se questo non bastasse, ecco il “mondo fluttuante” citato immediatamente dopo. Per il lettore Giapponese, la seconda conferma che la critica non era rivolta alla letteratura occidentale, e nemmeno alla letteratura in generale, è come il colpo di grazia. Tanto più che Souseki affonda su un corpo ormai esanime il suo “Menomale che nella poesia orientale c’è qualcosa in grado di trascendere”, seguito da una poesia in Cinese nel testo originale. Quell’ “orientale”, quindi, non era certo da intendersi come “giapponese”, caso mai fosse venuto il dubbio. Un dubbio difficile da farsi venire, a dire il vero, dato che un Giapponese dell’epoca avrebbe sicuramente usato termini più diretti, se avesse inteso parlare dell’arte dei suoi connazionali: mentre, per un lettore occidentale, oggi, l’aggettivo “orientale” include certamente anche il concetto di “giapponese”, per un lettore giapponese dell’epoca lo stesso aggettivo usato in quel contesto, avrebbe sicuramente comunicato un senso di “tutti gli asiatici meno che noi”. La ricerca dell’estèsi, la critica dell’ambiente artistico giapponese contemporaneo e la presentazione della nuova tecnica narrativa, da considerarsi preferibile per raccontare il secolo entrante, sono i tre temi centrali dell’opera. Certo, come ogni grande scrittore, Souseki non si limita a questo; tocca altri temi, anche importanti, come la situazione politica, la cronaca del tempo, il rapporto fra il mondo rurale e quello cittadino, il rapporto fra il Giappone feudale e la modernizzazione a tappe forzate, e certo, anche il 175 rapporto fra uomini e donne. In questo romanzo c’è spazio anche per l’amore. Solo un cenno, appena una pennellata di acqua di mare stinta sul rossetto prelevato dalle labbra di lei, come quella dipinta dal pittore di Baricco, ma c’è. Una pennellata tanto sottile che, a molti traduttori, è sfuggita. E tutto questo, avvolto in un sottile umorismo esistenziale, che ti fa appena piegare l’angolo della bocca, che alleggerisce tutto del peso di appena una piuma, ma anche il peso di una piuma, moltiplicato per il tutto che alleggerisce, diventa qualcosa di molto importante. 2 Questo capitolo descrive il protagonista intento ad iniziare il suo percorso di allenamento all’inemotività. Il capitolo è diviso in tre parti (senza però un confine netto); nella prima, il protagonista riguadagna un luogo asciutto e passa dallo stato d’animo sconfortato della fine del primo capitolo, dove subisce la natura, a uno stato sereno, nel quale riprende il suo proposito di ammirare il mondo come se fosse un quadro. Nella seconda parte, il protagonista dialoga con la proprietaria della sala da tè, la disegna, prova a mettere in poesia la sua attuale esperienza. Nella terza parte viene introdotto l’altro personaggio principale del romanzo, la signora di Nagoi. Qui vediamo introdotto per la prima volta l’haiku, la poesia ermetica in diciassette sillabe caratteristica del Giappone. Il protagonista spiegherà in seguito la funzione degli haiku, ma già qui possiamo vederne la dimensione ludica, oltre a quella poetica. Infatti, a tratti, le brevi poesie sono solo un modo per ingannare l’attesa; altre volte, le vediamo impiegate per cercare di catturare una scintilla di eternità. Nel caso di “Canta il carriere / e passa Suzuka con / pioggia di vere” c’è un piccolo e struggente messaggio segreto, rivolto a quei lettori che avevano conosciuto Shiki Masaoka, uno dei rari amici di Souseki, venuto a mancare meno 176 di quattro anni prima; un messaggio sottolineato dal brevissimo inciso: “ma a rileggerli, mi accorgo che non sono versi miei”. Non è questo l’unico punto in cui Souseki si approprierà dell’inchiostro sul quale sono scritte le parole di questo romanzo per il suo fine privato: raggiungere il lettore con un suo pensiero, e non con il pensiero dei suoi personaggi. Qui, Souseki rompe per la prima volta la quarta dimensione del testo, ed entra in contatto col pubblico, non come narratore, ma come protagonista della propria storia. Eppure, questi tocchi di pura emozione, nei quali lo scrittore si mette a nudo di fronte a tutti suoi lettori, sono anche essi parte del progetto letterario di Souseki, della sua tecnica e del suo manifesto. Così come l’attore che guarda in camera, lo scrittore rompe una regola ferrea della letteratura che lo ha preceduto, e così facendo, ci regala un frammento di sé, un frammento d’anima trasparente, brillante ed eterno come il diamante. Souseki vuole dimostrare che questo dovrà essere il modo di fare letteratura, d’ora in poi; e lo fa mostrandocene l’effetto in pratica. Lo splendido tanka “Verrà l’Autunno” è tratto dal Man’youshuu (“Raccolta di Diecimila Foglie”), e si tratta di un componimento classico. Il tanka riveste nella letteratura giapponese l’importanza che il sonetto ha in quella italiana, e quelli nel Man’you-shuu, raccolti da tempi antichi fino al 1600, sono considerati i più degni di essere tramandati ai posteri. L’accostamento di questa poesia classica alla nuova forma di narrazione, che infrange tutte le convenzioni del passato, non è casuale. La sua presenza (e vedremo, centralità) in questo che è un romanzo di rottura, rappresenta la continuità dello spirito letterario, pur quando la forma deve necessariamente cambiare in modo così drastico. Non il verbo, ma quell’essenza poetica totale, rappresentata in sole trentun sillabe pure, proprio quella, rimane e trasmigra nel romanzo moderno, anzi, futuristico, che la ospita. L’anima dell’autrice di queste parole è accolta dallo scrittore moderno, che ne riconosce la bellezza, e la esalta grazie a uno stile nuovo, come fosse una pietra preziosa ed eterna, nata nel 177 ventre della terra per la naturale necessità delle forze fisiche, e poi incastonata in un anello semplice, essenziale, chiaramente forgiato dalle mani di un orefice odierno, ma ciò nonostante, perfettamente degno di riceverla, e per questo, capace di esaltarla. Ecco, non nel contrappunto fra passato e futuro, ma nella loro continuità, è lì che Souseki inserisce il suo manifesto, ed è su questo percorso che ci accompagna nel resto dell’opera. 3 Il terzo capitolo è forse uno dei lavori di letteratura più densi di ogni tempo. La scena è totalmente introspettiva, onirica. Persino il racconto del precedente arrivo alla locanda viene reso quando il protagonista si sta già appisolando, e ciò che accade al mattino, dopo il risveglio, è ancora lasciato nella sfera onirica e introspettiva dall’indolenza mattutina, che l’autore ci racconta esplicitamente. Questo permette a Sosueki di giocare con i tempi e i luoghi, e di lasciar correre il pennello libero da vincoli di unità logiche e sceniche, usando anche una grammatica più vaga, meno dettagliata. Spesso l’autore ricorre a frasi nominali, o a “doppie frasi”, dove due (e anche più) soggetti e periodi differenti si susseguono nella stessa frase, senza vincoli di subordinazione. I riferimenti storici e culturali abbondano a profusione, e mettono spesso in difficoltà anche i commentatori giapponesi più esperti. Il costante riferimento a terminologie, personaggi e suggestioni che affondano le radici nella religione buddista Zen è sicuramente parte della caratterizzazione del personaggio. Egli infatti conosce a fondo il Noh, ma non parla mai del Kabuki, conosce lo Zen ben oltre il livello di un semplice curioso ma non parla mai dei Kami dello Shinto, legge correntemente il Cinese ma non accenna mai alle opere della Corte Imperiale giapponese, come ad esempio il Genji Monogatari. Tutto questo indica che il pittore appartiene a un’elite culturale esterofila e estranea al 178 movimento nazionalista che si radicalizzò in Giappone a partire dalla restaurazione del potere imperiale nel 1868, e che iniziò a cristallizzarsi come forza politica totalitaria e intransigente, anche dal punto di vista culturale, proprio a partire dai primi del ’900 fino al culmine dell’ingresso nella seconda guerra mondiale. L’abbondanza di riferimenti vuole probabilmente servire sia come rafforzativo che come semplice indicatore delle inclinazioni del protagonista, ma ha anche il ruolo di permettere ai lettori contemporanei che non avessero le chiavi per apprezzare alcuni dei riferimenti la possibilità di comprenderne altri. Tornando al capitolo, esso è privo di una struttura, al contrario dei precedenti, e risulta una amalgama costantemente mutevole di profonde introspezioni e considerazioni più frivole (in numero minore, a dire il vero, ma sempre importanti). Assistiamo al lavoro interiore di questo artista, e riconosciamo nei suoi discorsi i pensieri che passano per la testa prima di dormire, o durante una notte di sonno leggero. Comunque, al di là della struttura assente, i temi principali trattati nel capitolo sono l’introspezione, il rapporto fra la realtà e la poesia, il ruolo edonistico e terapeutico degli Haiku e l’incontro con la protagonista femminile, per ora chiamata solo “la Signora”. Scendiamo con ordine nei dettagli là dove il lettore moderno e occidentale non può coglierli. La “donnina” che apre il capitolo introduce una serie di eventi che il protagonista non si aspetta. Le poche frasi che rivolge a esso sono in tono del tutto informale, e questo lascia il protagonista un poco spiazzato. Il villaggio di montagna che lo accoglie nelle sembianze di questa cameriera non nutre per lui la deferenza che si era aspettato. L’episodio seguente, quello della casa dalle travi marce, spiega il motivo del suo disagio; il “libro illustrato” di cui il protagonista dichiara di essersi sentito parte è un kusazoushi, l’antenato dei moderni fumetti; si tratta di un formato letterario popolare, usato per raccontare storie fantastiche e leggende che in genere assumevano i contorni di fiabe oscure. Case isolate, abitate da donne sole, fanno spesso da 179 sfondo alle storie più macabre (forse perché il contrasto fra la grazia femminile e i personaggi terribili impersonati da esse è più marcato). La risata sghignazzante della giovane donna che aveva abbandonato il viaggiatore nella stanza più isolata, e visibilmente malconcia, ben si concilia con questo genere di storie, e si capisce che le circostanze abbiano potuto inquietare il protagonista al punto da non farlo dormire. Il protagonista passa quindi in rassegna gli oggetti lasciati nella stanza padronale che era stata adattata alla sua permanenza, lodandone il gusto. Viene poi il sogno. Non è un gran ché come sogno, e appunto il protagonista se ne risente. Il lamentarsi del protagonista richiama la tematica di fondo, che per quanto egli si sforzi di essere inemotivo, persone assai più illuminate di lui hanno continuato ad avere un inconscio incontrollabile. L’emotività è parte della condizione umana, e i sogni ne sono l’aspetto rappresentativo più forte. Il protagonista, per volere dell’autore, fallisce nel cogliere questo aspetto, pur avendolo davanti agli occhi in quel momento. Quindi ecco il primo vero incontro con la Signora. E inizia con la canzone della Fanciulla di Nagara; il bisogno bruciante di seguire quella voce è la prova che il protagonista è ben più lontano dal raggiungere i propri scopi di quanto non voglia ammettere. Stavolta, però, la dimostrazione è più evidente, e il protagonista capisce di essere in pericolo. Infatti, l’incontro col poetico si fa “reale”, e qui Souseki approfondisce la tematica del rapporto fra il reale vissuto e il poetico costruito 6. La frase finale di questo paragrafo, 6 180 Si noti qui la tecnica di descrivere il movimento della figura vista dal protagonista attraverso il movimento degli oggetti circostanti; è l’angolo della casa che, muovendosi, nasconde l’immagine alla vista. Essa rimane ferma al centro del campo visivo, con gli occhi e il volto che la seguono perfettamente, tanto da farla sembrare immobile. Quelli che lo fanno apposta, smussando da questo mondo quadrato l’angolo chiamato “senso comune”, e abitano nei tre angoli rimasti, possiamo anche chiamarli artisti è talmente evocativa che, per molti anni, la traduzione ufficiale del Kusamakura in Inglese ha preso il nome de “il mondo triangolare”. Certo, la tematica del modo “artistico” di affrontare la realtà è una componente importante di quest’opera, ma rimane un componente di sfondo, sebbene “visivamente” in primo piano; indica, sottintende il tema, ma non vuole esserlo. Il tema risiede nella bellezza della vita pur quando è amara, nella poesia del reale al di là delle smussature che qualsiasi artista può costruire artificiosamente. Il protagonista è un’artista, e questo permette all’autore di rendere più evidente, più esplicito quel processo di estraneazione, di mistificazione della realtà che avrebbe dovuto essere implicito se la scelta fosse caduta su un altro tipo di protagonista. È il protagonista stesso a dire che anche le persone comuni spesso si comportano come gli artisti; la volontà di “abbellire” è in tutti, solo che negli artisti si manifesta consapevolmente, ed ecco che il dialogo fra il protagonista e il lettore può ora contenere riferimenti diretti al tema che Souseki vuole affrontare. Il protagonista-artista lavora su questo aspetto coscientemente; qualsiasi altra categoria di persone non avrebbe potuto, o se lo avesse fatto, sarebbe sembrata una forzatura. L’incontro con l’ombra nel giardino svela l’inganno della poesia umana, pallido specchio della poesia del reale, e ricorda al protagonista quanto queste emozioni vere siano, da un lato, inevitabili perché parte della nostra natura, e dall’altro, splendide, per lo stesso motivo. Insomma, il protagonista rischia di perdere il proprio assetto mentale, basato su una bellezza costruita più che percepita. Per scampare a questo pericolo, egli usa la sua tecnica preferita; ricorrere alla poesia ermetica per allontanarsi da se stesso e ricostruire a suo piacere il proprio vissuto. Qui vediamo Souseki giocare con la poesia, e mostrarci, attraverso il suo protagonista, ma in parte direttamente, l’aspetto edonistico degli haiku. Del resto, gli haiku nascono come 181 freddura in metrica, mantenendone il significato etimologico (versi satirici), ed emergono dal substrato culturale Giapponese che dà il massimo risalto e conferisce la massima dignità all’ironia. E allora, ecco il poeta scendere di registro e diventare colloquiale. Souseki ci spiega che gli Haiku non sono necessariamente e sempre una cosa terribilmente seria. Possono anche essere un gioco, quasi un esercizio di enigmistica, e non per questo sono meno degni di considerazione. Anzi, lo stesso esercizio di poetare per gioco racchiude in sé una scintilla di illuminazione, che sta proprio nello rimettere nella giusta prospettiva la realtà; in fondo, solo una nostra percezione. In alcuni haiku, Souseki impiega termini estremamente antichi, precedenti al ’400 se non risalenti a prima dell’anno 1000 (il linguaggio del Man’yoshuu), in altri usa un linguaggio comune nel periodo Meiji, in alcuni rispetta la metrica, in altri si limita a stare nelle diciassette sillabe; alcuni di questi haiku sono pregevoli, altri sono relativamente banali. Tutto questo per simulare il processo creativo istintivo del protagonista nella situazione descritta. Comunque la cura fa il suo effetto, tanto che quando il “fantasma” riappare, stavolta assai più vicino, il protagonista l’osserva tranquillo dal suo stato di dormiveglia. Ecco che la poesia trionfa sulla realtà; è più che ovvio che la donna che entra nella stanza è, molto probabilmente, l’usuale occupante, eppure l’idea non sfiora nemmeno il protagonista. Essa è un’apparizione ammantata di poesia, e in quanto tale, non reca il minimo disturbo. Va e viene dal mondo dei sogni, e dei pensieri, come se non fosse reale. Della parte del risveglio penso sia più interessante parlare di ciò che Souseki non dice che commentare ciò che dice. Questo non perché ciò che è detto non sia interessante, tutt’altro, solo che la perfezione stilistica e comunicativa di Souseki raggiunge qui il suo apice; aggiungere qualcosa alla scena del risveglio, o alla descrizione del principio di solenne compostezza, o piuttosto alla metafora della terra sconvolta da una tragedia, sarebbe ozioso e pretenzioso. Sono parole perfette così come sono. 182 Tuttavia, come spesso accade nella letteratura orientale, il non detto è importante almeno quanto il detto; e in questo Souseki è maestro. Sebbene non detti, arrivano chiaramente o inconsciamente tutta una serie di messaggi che l’autore nasconde abilmente sotto la soglia di attenzione. La Signora che stava portando un kimono a uso accappatoio per il suo cliente, avrebbe potuto lasciarlo nell’antibagno. Ma essa ha visto il protagonista la notte precedente, prima da lontano, poi da vicino, mentre dormiva. Forse è solo curiosa, ma la risposta pronta quando il protagonista apre la porta della sala da bagno dice molte cose. Dice che lei era lì già da tempo e che probabilmente ha osservato lungamente il giovane artista. Dice anche che desiderava farsi trovare dietro la porta; avrebbe potuto infatti allontanarsi mentre lui si avvicinava. Il protagonista ci racconta che si sentiva troppo pigro per asciugarsi; questo significa che quando aveva aperto la porta non si era potuto coprire nemmeno con un asciugamano. Il giovane osserva lungamente la Signora; quanto tempo non lo sappiamo, ma sappiamo che analizzare con precisione ogni tratto del suo volto deve aver richiesto un lungo attimo imbarazzante. Per tutto questo tempo, il protagonista è nudo, immobile, con solo un kimono sulle spalle, e osserva in modo molto insistente la donna che ha di fronte, la quale si era certamente divertita a sorprenderlo in questa posizione, ma che non si aspettava certo una reazione tanto... composta. Mettendosi nei suoi panni non sembra affatto strano che, come il giovane si era girato verso di lei, (interessante il particolare, giusto accennato dal protagonista, che lei stessa gli avesse posato il kimono sulle spalle, dopo essergli girata attorno, come a volerlo guardare da ogni lato) lei fosse indietreggiata di tre passi, e stesse guardando compostamente e nervosamente al tempo stesso l’uomo che aveva di fronte. La tensione nelle sopracciglia e il movimento degli occhi trovano una spiegazione piuttosto naturale. Il secondo “grazie” con tanto di inchino spezza quello che per lei deve essere stato un momento carico di una notevole tensione, e le comunica che il giovane non solo non era 183 imbarazzato, ma non aveva minimamente fatto caso alla situazione; in un certo senso, aveva ignorato l’approccio assai diretto della Signora. L’aveva considerata quasi... un soprammobile (dal punto di vista di lei). Ecco il motivo della risata in “ho” e delle parole di commiato. Nella letteratura e nella cultura giapponese, la vocalizzazione della risata ha significati particolari a seconda della vocale usata. La risata in “hi” indica un sottile divertimento, adeguato a una fanciulla timorosa. La risata in “he” è vagamente sardonica ma non necessariamente sarcastica. La risata in “ha” è sincera, “di pancia”. La risata in “hu” è fortemente derisoria. Di tutte, la risata in “ho” è quella meno adatta a un personaggio femminile, e indica anche un certo “sforzo”, una risata decisamente non “naturale”. È come se la Signora prendesse l’occasione di quella frase per chiudere una situazione imbarazzante che essa stessa aveva creato e che non stava andando come pensava. Il resto della frase, buttato lì mentre già aveva oltrepassato il protagonista, tornando verso il corridoio (cosa assai inusuale nei rapporti fra estranei nel Giappone dell’epoca) rafforza l’effetto della risata, così mascolina, quasi a dire: “Ma sì, ma tanto mica sono una donna, io, e che t’importa se sto lì a guardarti nudo... e prenditi pure il tempo di rivestirti, visto che ci metti tanto...”. Insomma, il tutto indica un malcelato nervosismo risentito, dovuto alla reazione composta, anzi statica, del protagonista. Un risentimento che, seppur malcelato, il protagonista non sa cogliere (ma il lettore sì). Le tre frasi con le quali si chiudono il capitolo, indicano che la signora si era anche preparata accuratamente per l’incontro. La fascia del kimono rivestita di satin e l’acconciatura estremamente elaborata (che lascia intravedere la nuca, considerata civettuola nella cultura giapponese) richiedono un certo tempo per la preparazione, e sebbene fosse d’uopo per una padrona di casa prendersi questo tempo per accogliere gli ospiti, nel complesso il tutto sembra un po’ studiato, anche in considerazione del fatto che il kimono a uso accappatoio lo avrebbe potuto portare la cameriera... 184 4 In questo capitolo viene mostrata in tutta la sua completezza la tematica fondamentale del Kusamakura. Il protagonista, artista, con la sua ricerca dell’estèsi, si crea un mondo nel quale fuggire, un mondo perfetto senza pulci né mosche, un mondo di emozioni belle perché controllate, misurate, statiche, dipinte. Come un granchio, si ritira in questo mondo piatto, “monodimensionale” (il fatto che, geometricamente, un foglio abbia due dimensioni non è rilevante ai fini della poetica del concetto). La Signora, donna, creatrice di forza vitale, confuta questa visione con la sovrapposizione della realtà. Non solo; questa ideale estèsi non l’attira affatto; come per la poesia della fanciulla di Nagara, più che sentimentale, la trova noiosa, seccante. Se non si può vivere in un Paese senza pulci né mosche, si può almeno vivere al meglio il nostro tempo e il nostro luogo... e non è detto che la cosa non si riveli interessante. E comunque, la donna insegna al poeta che la vera poesia è il canto di un usignolo. Nessun’opera d’arte potrà mai essere bella quanto la semplice bellezza della natura. È tutto qui, scritto quasi per esteso. Ora non ci resta che vedere e l’evolversi della situazione, e scoprire, o decidere, chi dei due ha ragione. Oltre all’introduzione della tematica fondamentale scritta quasi in chiaro, nel capitolo viene introdotta la personalità vitale della protagonista (il cui nome è ancora celato), le sue franche aperture propositive al giovane artista, l’immensità della sfida del rimanere inemotivi in quel luogo e in quella situazione. E ancora, il contrasto fra la Signora, così straordinariamente intraprendente, e le donne “normali”, rappresentate dalla cameriera, chiuse, se non ritrose, non solo a una relazione, ma persino alla possibilità di condividere, per un attimo, l’ammirazione per la bellezza di un’idea di amore, seppur ideale e irreale. 185 I tre oggetti che appartengono alla Signora che ci vengono mostrati all’inizio del capitolo sono molto significativi: una fusciacca per il Kimono sgargiante e civettuola; l’Ise Monogatari (uno dei più antichi scritti del Giappone e certamente una lettura per palati raffinatissimi); l’Otegama, summa dei principi morali Zen, datole da un monaco sulla cui frequentazione il protagonista accenna qualche sospetto, ma comunque segno di un impegno morale e trascendentale non comune. Una donna quindi viva e forse “facile”, ma colta, raffinata e intelligente. Tanto da migliorare, e non di poco, gli Haiku scritti dal protagonista la notte prima. Quasi a voler ribadire, e in anticipo, che vena artistica e forza vitale non sono necessariamente in contraddizione. 5 Il quinto capitolo è estremamente complesso sia dal punto di vista delle problematiche legate alla traduzione, sia per quanto riguarda il livello semantico dei concetti che vengono lasciati passare sotto traccia al lettore che costituiva l’audience medio di quest’opera, al tempo della sua stesura. Per questo, invito il lettore interessato a leggere anche le note alla traduzione di questo capitolo, che contengono informazioni abbastanza importanti per la comprensione della sottotraccia del testo. Per quanto riguarda il contenuto di alto livello, possiamo distinguere principalmente tre temi che vengono intrecciati a più riprese: • La peculiarità e l’eccezionalità del personaggio della Signora (il suo nome viene svelato nell’ottavo capitolo) • 186 Il fatto che la sua eccezionalità è al di là della comprensione dei suoi compaesani. • La lotta fra il protagonista e il mondo fenomenico, nella ricerca dell’estèsi. La storia di Taian e della sua relazione con la Signora è molto simile al racconto Zen di Eshun. Si narra che una monaca di nome Eshun, nonostante gli abiti dimessi e la testa rasata, fosse molto bella, e che molti giovani monaci si fossero innamorati di lei. Un giorno, uno dei suoi spasimanti le scrisse, invitandola a un incontro segreto. Eshun non rispose, ma il giorno dopo, al termine della lezione del maestro, si alzò in piedi e rivolgendosi al monaco che le aveva scritto, davanti a tutti disse: «Se veramente mi ami tanto, vieni qui e prendimi subito tra le tue braccia». La morale della storia è che lo Zen è immediatezza, e quindi, se ami, devi amare apertamente. La Signora non aveva fatto altro che mettere in pratica gli insegnamenti dei suoi precettori. Probabilmente, l’amore di Taian non le era sembrato abbastanza sincero, o forse aveva pensato che si trattasse di un’infatuazione che avrebbe finito col rovinare la sua vocazione, e che, in futuro, Taian avrebbe rimpianto di aver ceduto a una passione futile e mondana. L’accenno di Ryounen al fatto che ora Taian sarebbe stato sulla via per l’illuminazione, ci fa capire che il gesto della Signora aveva ottenuto l’effetto desiderato, o quantomeno, un effetto desiderabile. Tanto più che dopo la “scenata” pubblica, invece di essere allontanata dal tempio, la Signora si era guadagnata il rispetto e le lodi dei monaci. Ma, come indicato a più riprese dal barbiere, dall’alto dei gradini di un tempio, il mondo si vede alla rovescia; quel che vedono gli istruiti monaci con cristallina chiarezza è invisibile ai popolani, e viceversa. Vale la pena ricordare che Souseki passò la sua infanzia presso un monastero buddista. Nato molto tardi in una famiglia di piccolissima borghesia di Tokyo nel 1868, quando suo padre aveva 50 anni e sua madre 40, venne affidato ancora in fasce a una famiglia di conoscenti, dai quali pare fosse particolarmente 187 amato, ma di un amore persino eccessivo e morboso, tanto che, ancora giovanissimo, Souseki lo descrive come terribilmente soffocante. Al giovane Kinnosuke (questo era il suo nome di battesimo) non era mai stata nascosta la sua condizione di figlio “in prestito”, anzi aveva regolari rapporti sia con i suoi veri genitori che con i suoi fratelli. Questa situazione doveva evidentemente pesare su di lui, al punto da rendergli inviso persino l’amore dimostrato dai genitori adottivi. Recalcitrante ad accettare l’affetto della casa d’adozione, Kinnosuke venne allontanato all’età di sette anni e affidato a un convento di monaci fino alla prima adolescenza. Nonostante l’austerità del luogo, la relativa libertà, sopratutto emotiva e intellettuale, che doveva aver provato per la prima volta, avrebbero costruito molto del suo carattere; in molte opere Souseki mostra una riconoscenza e una considerazione verso i monaci e la religione buddista che è assai meno marcata nei suoi contemporanei (anche per motivi di opportunità politica; i monaci buddisti erano invisi all’elite dominante di fede shintoista). Per quel che riguarda la ricerca dell’estèsi, il protagonista si trova ancora ad inseguire il proprio proposito di vedere il mondo come uno spettatore davanti a un quadro, o alla peggio, a teatro. Prova a rendere il titolare come una delle sue figure di cartapesta, e proprio quando crede di esserci riuscito, ecco che senza neanche rendersene conto, entra nella sua stessa creazione e si mette a chiacchierare, non solo facendosi coinvolgere, ma addirittura cercando attivamente il coinvolgimento. La curiosità nei confronti della Signora è troppa, ma il brano ci lascia intuire che il protagonista cede non davanti al fascino del personaggio femminile, ma addirittura alla semplice lusinga della prospettiva di una chiacchierata spensierata con un personaggio divertente. L’ascesi verso l’estèsi dovrà attendere un momento migliore; qui va in fumo al primo alito di vento. Oltre ad avere il ruolo di chiarire anche al lettore meno attento l’eccezionalità del personaggio della Signora, Ryounen ha qui anche il ruolo di fare da contraltare e contrappeso sia alla 188 volgarità del barbiere che al “tentativo” di serietà del protagonista. È divertente quanto e più del barbiere, tanto che l’anziano maestro ne loda questa sua caratteristica, ma non è costretto a ricorrere alla grettezza popolana per raggiungere questo scopo; la sua è una simpatia naturale, innata. Sta seguendo una Via, un percorso di vita, ma è allo stesso tempo tanto leggero che il vento di primavera lo soffia via; quanta differenza rispetto al protagonista, e all’autore, che cerca una Via, la via dell’estèsi, ma è gravato da dubbi e indecisioni. Ryounen non si chiede se sta facendo la cosa giusta; la fa e basta. Il protagonista non solo non riesce a incamminarsi sulla via che si è scelto, ma forse inconsciamente, è ancora indeciso sulla vera natura, e sui veri benefici di questa via. A parole si dice convinto che sarebbe il modo migliore di vivere, ma c’è la figura della Signora a insinuare in lui il dubbio, o forse solo a ricordargli che non è mai stato convinto, che in fondo ci siano altri modi, magari migliori, di vivere la vita. E forse è per questo che non riesce a imboccare la Via dell’estèsi. Forse non ci riesce proprio perché teme che, una volta imboccata, la Via non porti in quel luogo in cui il protagonista vorrebbe essere condotto. E invece Ryounen non ha dubbi. Ma non è privo di dubbi dopo averli vittoriosamente sopiti; semplicemente ha raggiunto una condizione in cui i dubbi non sono più parte dell’esistenza, come l’acqua sulla luna o come la materia in un buco nero. Quella di Ryounen non è Fede, poiché egli è oltre; non ha bisogno di credere. Egli, semplicemente, è; ed è completo nel suo essere. Se è tanto leggero da essere portato via dal vento di primavera, allora è già un essere illuminato. 6 In questo breve capitolo, Souseki si confessa al lettore e si racconta come mai avrebbe potuto fare in mille pagine di un’autobiografia. Ci racconta il suo mondo interiore, ci racconta come egli vede il suo processo creativo, che è probabilmente la 189 parte più intima della sua personalità, direttamente e senza pudore; anzi, con una punta di orgoglio, ma certamente con l’intenzione di accompagnarci nel suo mondo e di renderci partecipi. Il capitolo è diviso in tre parti; la prima è una breve introduzione, composta dei primi due paragrafi. È uno degli esercizi di stile più raffinati dell’intera opera, ma non si ferma a questo. Il primo paragrafo paragona, non senza una sottilissima ironia, gli occupanti della casa a insetti fastidiosi, eppure si sforza di trovare un’estèsi anche in questa immagine poco lusinghiera. Il paragrafo si chiude con un brusco e momentaneo ritorno al colloquiale: “Beh, insomma, è un sacco tranquillo”. Questa chiusura “fuori tono” è tipica delle rappresentazioni teatrali e letterarie popolari, e fa in un certo senso parte del retaggio culturale ancestrale Giapponese. È una tecnica per scaricare la tensione ironica accumulata nella lunga sequenza di formalismi che la precedono. I paragoni che precedono questo punto sono evidentemente troppo carichi; l’autore esalta deliberatamente fino all’iperbole, e oltre, il concetto che gli inservienti, e in generale il mondo esterno, fastidioso, è come scomparso. Il passaggio al colloquiale è un po’ come dire al lettore: “sì, so che stavi sorridendo a bocca chiusa. Adesso puoi mostrare i denti”. È impossibile non collegare il secondo paragrafo alla chiusura del quinto capitolo. Ryounen portato via dal vento è l’immagine della serenità dell’illuminazione, e qui il vento passa libero animando l’universo, ma non può passare attraverso l’autore che non sa come accoglierlo. La sua Via è la ricerca dell’estèsi, ma c’è ancora quest’ansia, inconscia (perché percepibile, seppur inespressa), che possa non essere la via giusta. L’autore, o forse il suo personaggio, percepiscono che l’illuminazione è il Vuoto dello Zen, ma solo a livello subliminale. Nella parte centrale del capitolo, Souseki getta la maschera. Non è più il personaggio, il pittore senza nome a parlarci, è Souseki stesso, che ci racconta le sue esperienze, le sue speranze, le sue aspirazioni. Questa parte è talmente chiara e diretta da non 190 richiedere commenti esplicativi, ma c’è un passaggio talmente interessante che merita di essere notato: Non come l’onda che, accarezzata dal vento, si spande fino al cielo più elevato, è cosa ben diversa da una superficiale, grossolana passione come questa. È piuttosto come l’invisibile, immenso fondale degli oceani azzurri che si muovono fra continente e continente, e che sa dare loro forma e consistenza. Spesso Souseki critica i suoi contemporanei, e la prima frase accumula tre figure retoriche usate a profusione dagli autori della corrente dell’ukiyo (il “mondo fluttuante”), che Souseki considerava decadente e, appunto, superficiale. 風に 揉ま れ – kaze ni momare – accarezzati, sollevati, rapiti dal vento; 上の空 – uwa no sora – il cielo superiore e 波を起こす – nami wo okosu – generare onde, sono le tre figure retoriche che Souseki usa per comporre un unica frase di senso compiuto e che, nel suo riprendere queste tre, risulta persino ironica. Soprattutto la prima espressione è spesso usata ancora oggi nei testi delle canzoni più … melense, potremmo dire; se dovessimo tentare di rendere la stessa ironia in Italiano, potrebbe venire qualcosa come: “Sentirsi al settimo cielo per quell’apostrofo rosa fra le parole scusa se t’amo”. Parte dell’ironia si perderebbe con il passare del tempo, essendo diretta ai contemporanei dello scrivente: i lettori fra cento anni potrebbero non cogliere il riferimento ai melensi titoli di un noto autore di quest’epoca, ma l’effetto sul pubblico immediato sarebbe certo. Souseki è felice che il suo stile sia concreto, e se ne compiace; come autore, gli piace compararsi a un fondale oceanico, invisibile, ma solido e capace di dare forma a quei continenti, a quelle “terre emerse” che sono le sue storie, i suoi personaggi. Persino nelle opere più astratte e fantasiose, come “Io sono un gatto” o i racconti onirici delle “dieci notti”, con pochi, sapienti, vividi, cinematografici tocchi, Souseki riesce dare corpo a personaggi che i suoi contemporanei lasciano avvolti 191 nell’indefinito e nella nebbia del mondo fluttuante. Non riesco a non fare un parallelo fra questa frase e la descrizione del paese di Nagoi, dove si svolge il romanzo, nel quarto capitolo: Esaurita la montagna, essa si fa collina, e esaurita la collina, a circa trecento metri essa si fa pianura, e quando la pianura si esaurisce sprofonda nel mare, e proseguendo oltre per dieci chilometri, riemerge maestosa a formare il perimetro di quattro chilometri dell’isola di Maya. Questa è la topografia di Nagoi. Questo “fondale” cui l’autore accenna, senza nominarlo, nella descrizione così “tettonica” di questo luogo, gli da una solidità, una concretezza che non troviamo nei romanzi dell’epoca di Edo, e la descrizione che Souseki fa del suo stesso modo di scrivere risuona in modo persino evidente nelle “terre emerse” che fanno da pilastro al passaggio. Terminato il paragrafo, l’autore riprende la sua maschera, e ci ricorda che stiamo partecipando al suo gioco: “Chissà come dev’essere provare a disegnare questo confine, mi chiesi.” Souseki sa di aver parlato di se’, e non lo nasconde; semplicemente invita il lettore a continuare a giocare, a far finta che il protagonista non sia lo scrittore, ma il pittore in cerca della Via dell’Estèsi. Il gioco continua per un po’ e include il passaggio dove cita di sfuggita il ruolo predominante della musica. Devo ammettere in tutta onestà che ho trovato questo inciso il peggio strutturato dell’intero romanzo; un’illuminazione così “abbagliante”, qualcosa di così importante come la considerazione che esiste un’arte che potrebbe dare forma alla tensione espressiva che l’autore/protagonista esprime con tanta veemenza proprio in queste righe, non dovrebbe essere liquidata come “materia sconosciuta”. Se è sconosciuta non potrebbe suscitare una tale ispirazione, se e se la suscita, un personaggio alla così disperata ricerca della Via dell’estèsi non l’accantonerebbe per concentrarsi su un “second best”, o addirittura un “third best” (pittura, e poi poesia) come avviene qui. Ma non mi sento di infierire oltre su questo dettaglio; solo 192 che nella perfezione stilistica e nella bellezza del capitolo, risalta fastidiosamente. Giunto al paragrafo che introduce la poesia, Souseki scosta nuovamente la maschera del suo personaggio: Alla fine, la gelatina nella pentola si attacca spontaneamente alla punta delle bacchette, pur fosse riluttante. Poetare è proprio così. Un commento da poeta, quale Souseki è, non da pittore; e infatti segue una sua poesia, già edita da otto anni, al momento della stesura dell’opera. L’idea che Souseki fosse a corto di poesie non è da prendere nemmeno in considerazione, nemmeno alla luce del fatto che egli stesso la critica nel paragrafo successivo. Direi che l’autore contava sul fatto che il lettore la conoscesse, e potesse quindi comprendere che la poesia segna un altro punto dove Souseki torna a parlare direttamente, senza il tramite del suo personaggio. Infatti, il passaggio allo stile autobiografico ha un significato profondo, nell’ingresso alla terza parte del capitolo. La conclusione è tutta dedicata alla Signora e al suo comportamento “strano”, che mesmerizza, ipnotizza il protagonista; ma forse, come abbiamo intuito, è l’autore stesso a presentarsi al lettore come spettatore di questa scena onirica. E del resto, mai l’autore indica chiaramente che la figura di donna è la “Signora”. È un messaggio in codice per una lettrice speciale; forse per sua moglie, verso la quale non ha mai saputo dimostrare affetto e devozione, che pure stimava e, in cuor suo, amava, senza sapere bene come fare. Le prime biografie di Natsume Souseki dipingono sua moglie, Kyouko come una persona instabile e malata di nervi, tanto da causare una profonda depressione nell’autore, che si sarebbe riverberata in tutta la sua produzione artistica; infatti, nessuna delle storie d’amore descritta nei suoi romanzi si conclude felicemente. Il suo stesso viaggiare come studioso di letteratura sarebbe stato un tentativo di allontanarsi dagli spazi familiari, e lasciarsi alle spalle questa situazione incresciosa. Ma 193 recentemente, anche in base alle testimonianze dirette dei figli e dei nipoti di Souseki, molti critici sono giunti alla conclusione che le cose fossero molto differenti. Il periodo della restaurazione Meiji era un periodo marziale, fascista, e giungeva dopo oltre 300 anni di plutocrazia assoluta, nella quale l’antico retaggio matriarcale della civiltà Giapponese era stato quasi completamente cancellato. Era prassi consuetudinaria quella di imputare alle mogli i difetti dei mariti; anzi, era segno di grande devozione, per le mogli, caricarsi dei fardelli dei mariti. Un gioco delle parti doloroso e falso, ma essendo noto a tutti i partecipanti, non diversamente dalle forme di cortesia nella grammatica giapponese, risultava spesso essere semplicemente una schermatura superficiale. Una “menzogna formale”, un po’ come è d’uopo rispondere “Bene, grazie” alla domanda retorica “Salve, come sta?” pur se si è malati. Souseki e Kyouko si erano conosciuti tramite una così detta “visita di matrimonio” che precludono ai “matrimoni combinati”, ma all’epoca queste visite erano un modo più che comune per conoscersi, un po’ come oggi ci si conosce in discoteca. Si erano piaciuti da subito, e Souseki era rimasto colpito dalle capacità di Kyouko, che lodava spesso. Probabilmente, Kyouko non era riuscita a curare Souseki dai dolori della vita precedente, e Souseki non era riuscito a lasciarseli alle spalle come aveva sperato di poter fare grazie a lei. È certo che Souseki si sentisse in colpa per questo; le figure femminili nei suoi romanzi, in qualche modo, sono sempre superiori agli uomini a cui sono contrapposte; c’è sempre qualcosa di grandioso in loro, che le rende distanti, irraggiungibili; non ideali come le donne del dolce stil novo, non astratte, bensì vere e desiderabili, eppure ancora irraggiungibili. Ma è anche certo che Kyouko si sentisse responsabile per il senso di colpa che, suo malgrado, aveva ispirato nel marito. Se poi restasse qualche dubbio, questa splendida poesia in prosa lo chiarisce: 194 Sei colore di primavera che va a oscurarsi, meraviglioso, e ogni tanto si stinge nel miraggio, e mi sveglia, con quel broccato d’oro. Il vividissimo ordito ora va, ora viene nel blu della notte avvolto, e tu silente, irraggiungibile mia adorata, a poco a poco, svanisci. Sei stella di primavera che va a brillare, vicina all’aurora, là nel profondo indaco del cielo in cui, volgendoti, cadi. Le parole usate in Giapponese non lasciano dubbi sul fatto che l’io parlante si rivolga direttamente a un ascoltatore ideale. Mai, in nessuna parte del romanzo, e credo di poter dire, in nessun lavoro di Souseki, c’è una resa così evidente e totale al fascino femminile, una confessione d’amore così diretta, struggente ma allo stesso tempo alta e carica di profondo rispetto. Né il protagonista sembra pronto per questo; anzi, sia nel finale che nel resto dell’opera, l’innamoramento è sottile, subliminale, e lascia sempre nel lettore l’idea che in realtà di innamoramento non si tratti, ma di semplice curiosità. Qui, e solo qui, no. In questo passaggio, io leggo Souseki che vede sua moglie tormentarsi per ciò che non è in grado di fare, e lui stesso tormentarsi per lei. Nel resto del romanzo, la Signora non è una proiezione di Kyouko; ma qui, in questo passaggio, Souseki ha gettato la maschera. È sé stesso che parla di sé, e della donna che ha di fronte, che vorrebbe chiamare senza riuscirci, a cui anela parlare, invisibile e tormentato nel vedere il di lei tormento. È mia profonda convinzione che questi non siano il protagonista senza nome e la Signora della stazione termale: questi sono Souseki e Kyouko. 7 Il settimo è un breve capitolo introspettivo, che però lancia l’ultima parte del romanzo, dove assistiamo alla maturazione del protagonista. Nel passaggio introdotto da “Per me, sofferente per questa piatta esistenza, nell’Ofelia di Millais, a considerarla sotto questa luce, v’è un grande fascino”, quasi inconsciamente, l’autore scrive direttamente 195 ai suoi lettori, così come è accaduto nel sesto capitolo. C’è un lamento, una confessione che ci sembrano molto veri, molto diretti, e risuonano esplicitamente nella sua biografia. È la confessione di un autore che vive l’avventura solo nei suoi romanzi. All’epoca in cui scrive, è già una persona di grande fama e successo, ha una vita sicura, una famiglia tradizionale e solida, una posizione sociale di prim’ordine, ha visto il mondo e visitato altri continenti in un epoca in cui questo privilegio era veramente per pochi, eppure sente la sua esistenza “piatta”. È questo, sicuramente, che lo spinge nei suoi frequenti viaggi, anche nel viaggio a Tensui, nella prefettura di Kumamoto, da cui nascerà quest’opera. Quanto ci sia di autobiografico nella descrizione di Okura è difficile saperlo; se da bambino Souseki è stato allevato prima in una casa della media borghesia, e poi in un tempio buddista, l’avanzata età dei genitori e il successo precoce nella carriera scolastica gli consentirono un notevole grado di libertà personale già nella seconda pubertà, verso i sedici-diciassette anni. Non sarebbe sorprendente che, già a quell’età, Souseki avesse avuto la possibilità di muoversi liberamente in città, solo o accompagnato (se non condotto) dal fratello maggiore, in quei locali e in quelle situazioni tendenzialmente rivolte a un pubblico più adulto. L’aver intrattenuto questo genere di rapporti in età precoce, visto il suo animo già predisposto alla poesia, può giustificare quello strano miscuglio di idealizzazione ingenua e cinico disprezzo verso le situazioni ambigue che vediamo in questo capitolo. È però opportuno porre l’attenzione su un fatto che può sfuggire al lettore occidentale. L’attività delle geisha non si sovrappone alla prostituzione. Nella società giapponese, le geisha svolgevano il ruolo di dame di compagnia, che avrebbero dovuto intrattenere i loro ospiti con conversazioni erudite, canti e balli. Le regole che riguardavano la possibilità di offrire favori sessuali ai propri clienti variavano a seconda delle varie scuole, ma in generale non solo era vietato il commercio di sesso, ma anche solo un rapporto consensuale fra una geisha e un suo cliente. Per 196 questo, nell’immaginario collettivo giapponese, conquistare una geisha rappresentava la massima espressione del fascino maschile: per far innamorare una donna colta, intelligente, autonoma, ricca, che conosce la psicologia e i segreti più intimi di molti uomini potenti, e che ha tutto da perdere e nulla da guadagnare da una relazione con un uomo, stabile o occasionale che sia, era necessario possedere un fascino davvero irresistibile. Al contrario, le intrattenitrici da taverna, come sembra essere questa Okura, i mendicanti e le prostitute, erano considerati “hinin”, non-umani, il gradino più basso della scala sociale Giapponese. Alla luce di questa considerazione, è interessantissima e molto significativa l’inversione di scale di valore che ci offre Souseki. Le geisha sono disprezzate al punto che in realtà Souseki si riferisce a loro con una perifrasi (il termine che usa è 芸妓 – geiji – donna che sfrutta le arti, e non 芸者 – geisha – persona d’arte), mentre Okura, intrattenitrice da taverna e chissà, forse prostituta, è idealizzata e ricordata con affetto. Per un Giapponese, soprattutto nell’epoca di Edo, il messaggio è chiaro, e risuona con il giudizio fortemente negativo che Souseki continua a profondere per la decadenza espressa dalla corrente letteraria dell’ukiyo, il mondo fluttuante. Anzi, forse inconsciamente, o forse con estrema maestria, l’autore indica con precisione che, a suo giudizio, la causa di questa decadenza sta esattamente nel commercio delle emozioni sottili, nella svendita non del sesso, ma della sensualità. Non è tanto con le geisha che Souseki se la prende; le usa come simbolo, per personificare quella corruzione, quel mercimonio di sentimenti un tanto al chilo che lui vede nelle tematiche, e nelle opere, dell’ukiyo, le quali, in effetti, hanno spesso delle geisha come protagoniste o coprotagoniste iconiche. Dal punto di vista dello stile, va fatto notare che tutto il capitolo è scritto in tono abbastanza colloquiale, tranne la descrizione dell’intrusione della Signora nella sala da bagno. Qui il tono sale parecchio, e Souseki ricorre al Giapponese classico per 197 accompagnare il lettore nel mondo della sua visione idealizzata. La caduta allo stile piano dell’ultimo paragrafo, assieme al ritmo dei periodi, che diventano corti e definiti, sono fulminei e notevolissimi, ed estremamente significativi. La tematica centrale dell’opera si abbatte con violenza nel finale; per quanto il protagonista si sforzi di idealizzarlo, il mondo delle emozioni, il mondo reale, lo seduce con forza, anzi, si fa beffe della poeticità dei suoi intendimenti. La Signora non ha nessuna voglia di assecondare le fantasie eteree del protagonista, e nell’attimo in cui diventa reale, assume le sembianze non più di una visione divina, ma di un’apparizione demoniaca, o comunque aliena: il reiki, lo spirito-tartaruga del taoismo. La risata in “ho”, di cui abbiamo già parlato, diventa “affilata” nonostante la vocale usata sia la più tonda, perché evidentemente incide in profondità i nervi del protagonista. Il rumore delle onde che sbordano dalla vasca, “saa saa”, è un’onomatopea che ricorda il suono delle onde sulla battigia, ma in Giapponese è anche un’espressione che indica stupore o esortazione. Se usata in tono affermativo come interiezione, “saa” è un’esortazione che significa “suvvia”, “orsù”, “dai”. Se usata in tono interrogativo, in risposta a una domanda, “saa?” significa letteralmente “e chi lo sa?”. Ecco quindi che le onde, sorprese, comunicano al protagonista la loro perplessità, in un graziosissimo cammeo di umanizzazione, che è tanto cara a Souseki. 8 Il tema centrale dell’opera, l’impossibilità del raggiungimento dell’estèsi, qui si fonde con l’attualità del tempo di Souseki. Il giovane Kyuuichi, aspirante pittore, si è offerto volontario per la guerra di Manciuria, ma questo lo scopriamo solo nelle ultime righe. La scena che si apre davanti ai nostri occhi è quella di quattro persone che discutono amabilmente del più e del meno, senza 198 preoccupazione alcuna, e valutano con attenzione, e perizia, le qualità di oggetti del tutto superflui. Si parla della firma dell’artigiano come si parla del sesso degli angeli. Ma l’autore non si accontenta di mostrarci delle persone dedite a esprimere giudizi estetici su oggetti, scrittori e persino correnti letterarie e artistiche. Il protagonista del capitolo è la suzuri, utensile di uso comune, come un pennello, che può diventare oggetto d’arte, e in questo caso lo diventa al punto tale che perde la sua funzione originaria. È il trionfo dell’estèsi, della bellezza fine a se stessa sulla funzione, sull’uso. Se il protagonista senza nome non era mai riuscito a creare una condizione estetica, a generare un’opera che egli stesso potesse apprezzare come puramente artistica, qui, finalmente, la bellezza dell’estèsi fa la sua comparsa in tutta la sua potenza. E anche il tè, che compare prima della suzuri, è un oggetto svuotato dalla sua funzione primaria; non una bevanda, ma bellezza in forma liquida, capace di comunicare l’estèsi attraverso i sensi del gusto e dell’olfatto. Ma così come l’estèsi si mostra qui più forte che mai, più brusca che mai è la caduta verso il mondo reale, qui per la prima volta citato esplicitamente (現実世界 – genjitsu sekai – il mondo della realtà). Souseki esprime la sua contrarietà alla politica plutocratica del governo Giapponese dell’epoca prima ancora di citare la guerra. In questo capitolo, tutto ciò che c’è di bello viene dalla Cina. Non nazione sottosviluppata e terra di conquista, ma culla della civiltà e fonte della cultura a cui il Giappone deve molto, se non tutto. Souseki arriva a esprimere questo giudizio esplicitamente, quando il padrone indica Sorai come unica rivincita sulla superiorità della cultura cinese, mentre l’abate zen ribatte che nemmeno lui era poi tanto valido. E il giudizio si fa ancora più netto in chiusura del capitolo. Il giovane Kyuuichi non è un eroe. È un ragazzo spaventato, quasi 199 paralizzato dalla paura, dalla rugiada di quelle lande lontane che già riecheggia nel palpito del suo cuore. Eppure, nonostante la paura, non fugge dal suo destino. Souseki disprezza la guerra, e non trova nulla di romantico né di glorioso nella figura del guerriero, moderno o tradizionale che sia. Ma a questo giovane, che ha firmato allegramente la sua condanna a morte sotto la pressione della propaganda militaristica del regime imperiale Giapponese dei primi del ’900, riconosce il coraggio di accettare il proprio destino, e gli rivolge il sentimento di fratellanza e di compassione per una persona che sa di andare a morire. Su un piatto della bilancia, un Souseki aspirante artista, la cui arte è buona solo per sé stesso, sull’altro un ragazzo che non ha alcun merito, o colpa, se non quello di aver creduto ciecamente nella gloria a buon mercato vendutagli dal suo governo. Souseki non ci dice da quale parte pende l’ago del suo giudizio, ma una cosa è certa. Non per la guerra, non per il guerriero, non per la politica, ma per l’uomo, per il ragazzo che ha di fronte, anzi, di fianco; per quello, Souseki prova rispetto. In questo capitolo, scopriamo anche il nome della Signora: Nami. E non è un caso che non sia lei a rivelarlo, ma che lo scopriamo, ascoltando, da intrusi, una conversazione che la riguarda. 9 In questo capitolo, i protagonisti del romanzo giocano a carte scoperte. Nami si fa intraprendente, e il protagonista senza nome rivela la sua intenzione di innamorarsi, inemotivamente, si intende. Nami cerca il contatto fisico. Si propone come persona concreta, di carne e sangue, si offre con passione, anche se solo per gioco, senza impegno. A questo approccio, il protagonista risponde offrendo la sua versione di passione: un amore 200 platonico, intrattenuto per il gusto dell’estèsi dell’amore in sé. Per amore dell’amore, più che non della persona amata. Anzi, nemmeno per quello: per mera curiosità intellettuale, per poter apprezzare l’amore da vicino, ma ancora come osservatore, pure se quell’amore è il proprio. Ovviamente, è un offerta che a Nami non può interessare. Tuttavia, per cercare di intrigare Nami nel suo gioco, il protagonista cerca di proiettare loro due come protagonisti di un romanzo; ma, Nami ha già affermato che a lei, i romanzi non piacciono più di tanto. È quasi fin troppo ovvio il gioco dello scrittore, che sfrutta il livello di astrazione evocato dal protagonista per creare un terzo livello. L’uomo e la donna in fuga da Venezia sono il romanzo nel romanzo, il primo livello. Nami e il protagonista sono il secondo livello. Ma in realtà, essi non sono proiettati per gioco in un romanzo; l’essenza reale della loro esistenza è che essi sono davvero protagonisti di un romanzo. Da un lato, Souseki, molto “avanti” e “cinematografico” nei suoi romanzi, usa questo stratagemma per rappresentare una scenografia, una situazione che è essa stessa protagonista, così come potrebbe essere stato rappresentato, molto dopo, in un film del cinema neorealista francese. Dall’altro, ci invita a scoprire quale sia questo terzo livello di astrazione, e ci dà alcuni indizi. Perché Nami chiude il capitolo dichiarando che ha pensato più volte al suicidio? Perché invita il protagonista a “dipingerla così”? Perché esce dalla stanza divertita, soddisfatta della sorpresa che ha causato, e della vittoria sull’inemovitività del protagonista? Al livello del romanzo, lo scrittore ci lascia nell’ambiguità di non sapere se Nami stesse completamente scherzando, fosse assolutamente seria o se la realtà stesse da qualche parte nel mezzo. Da un lato abbiamo lo sguardo serio di Nami quando pronuncia il suo proposito, ma dall’altro abbiamo il sorriso tenero sulla soglia. 201 La mia lettura è che, in realtà, nei momenti più difficili del suo divorzio, a Nami, può essere passata per la mente l’idea di suicidarsi, magari proprio gettandosi in quel lago; che sia un’idea di quelle che, appunto, affiorano nei momenti più bui, lasciando soltanto il ricordo del loro passaggio con lo scorrere del tempo. Nami ha usato quella sua esperienza, quel suo ricordo doloroso, il ricordo dei momenti in cui aveva desiderato gettarsi in quel lago, come arma per scardinare l’inemotività del protagonista. In questo senso, è seria e faceta assieme: è seria, perché è vero che quel pensiero lo ha avuto, ma è faceta, perché adesso è diventato parte del gioco che intrattiene col protagonista; in effetti, è diventato il colpo di grazia. Vuoi l’estesi dell’esistenza? Eccoti un’esistenza su cui essere estetico: prova a disegnarmi così, mentre mi suicido. Riusciresti a essere tanto inemotivo? Il mio essere donna in carne e sangue ti è davvero così indifferente? Questo sembra dire Nami al protagonista, questa sembra essere la sua sfida. Una sfida che, ovviamente, il protagonista non può raccogliere. Come ogni altro capitolo, anche questo si chiude con la resa del protagonista alla realtà dell’esistenza, all’impossibilità di accedere all’estèsi. Ma c’è ancora un altro livello di lettura, per accedere al quale dobbiamo conoscere la biografia di Souseki. Nel 1898, Souseki e sua moglie Kyouko, all’epoca in gravidanza, si trasferirono a Igawafuchi, in una casa che si trovava in riva a un canale. Kyouko cadde nel canale, probabilmente a causa di un giramento di capo dovuto alla gravidanza, e venne salvata allo stremo delle forze da un pescatore che si trovava lì per caso. Secondo alcuni biografi, Kyouko si era gettata di proposito nel canale con l’intento di suicidarsi; è credibile la tesi secondo la quale potrebbe aver avuto uno scompenso emotivo dovuto alla gravidanza e all’allontanamento dalla sua città natale, tuttavia, le circostanze dell’evento portano a pensare che si sia trattato di un mero incidente. 202 Anche se tutto si risolse per il meglio, e Kyouko poté portare felicemente a termine la gravidanza, il fatto lasciò sicuramente un’impressione profonda su Souseki, al punto da convincerlo a trasferirsi nuovamente con sua moglie, sebbene fosse appena giunto in quella città. È anche notevole il fatto che Kyouko ( 鏡 子 ) si scriva con lo stesso ideogramma di specchio ( 鏡 ). Certo, “Specchio” è un nome plausibile per un lago, ma è indubbio che qui abbiamo un altro messaggio che Souseki ha voluto inviare a sua moglie. A mio avviso, il senso è il seguente: all’epoca, Souseki era un giovane professore universitario eppure già un famoso scrittore. Il suo principale interesse era la letteratura, come arte ma anche come scienza, ossia, come studio scientifico delle opere letterarie. Completamente assorbito da questo interesse, aveva perso di vista gli affetti più cari, e in particolare, sua moglie. Quell’evento, quell’atto, lo hanno riportato alla realtà, e gli hanno ricordato l’importanza di ciò che è concreto. Il tenero sorriso di Nami per il protagonista deve essere stato il tenero sorriso che Kyouko deve aver rivolto a Souseki quando ha ripreso conoscenza, dopo essere stata tratta in salvo. 10 In questo capitolo, Souseki si concede il lusso di sferrare una critica diretta alla società cittadina del suo tempo; tuttavia, la critica non è fine a se stessa, e serve per indirizzare il lettore, per dargli un’indizio subliminale su come decifrare una critica ben più profonda e aricolata, che si cela sotto l’allegoria delle camelie di montagna. La critica superficiale è uno sfogo sincero; Souseki mal sopporta la gente banale, gretta, materiale, e non si trattiene dal criticarla aspramente. Qui, arriva a dire che, se ci fosse giustizia al mondo, ogni giorno mille aguzzini andrebbero a ingrassare la terra. Per 203 Souseki, ci sono persone che potrebbero migliorare il loro contributo all’umanità e al mondo se avessero il buon senso di usare sé stessi come concime; e già quello, per loro, sarebbe un onore. Souseki non si vergogna di pensarlo e di scriverlo, ma questo suo disprezzo viscerale non è rivolto alle persone umili, o a quelli che non rispondono al suo senso di morale. È rivolto a coloro che, approfittando della briciola di autorità che è stata data loro, opprimono chi non ha avuto la stessa fortuna. Invece di mettersi al servizio della gente, come sarebbe loro richiesto, asservono la gente alla loro grettezza, e così facendo, la peggiorano. È questo che l’autore addita, e disprezza senza riserve e senza vergogna. Da qui, dall’esplicito, il filo del disprezzo prosegue verso le camelie di montagna. Perché prendersela tanto con un semplice fiore? È fin troppo ovvio che, nel cadere infinito delle camelie, che andranno a tingere di rosso il fondo del lago, e poi a marcire nel suo fango, c’è una metafora. Potrebbero rappresentare l’umanità nella sua interezza, e nel triste destino che l’attende; ma ci sono alcuni dettagli che rendono la metafora più precisa. Lo sguardo è attratto dalle camelie come da una fattucchiera. Basta uno sguardo, ed ecco che questa fattucchiera ci insinua nelle vene un dolcissimo veleno. E il rosso delle camelie di montagna è quello del sangue dei condannati. L’accumularsi di tutte queste metafore, accostato al disprezzo appena mostrato per l’abuso dell’autorità, risuona come un velato richiamo al tema della guerra di Manciuria, e alla guerra in generale. Le camelie che si gettano sul fondo del lago, a tingerlo di rosso e a marcire, ancora fiorite, quasi avessero volontà propria, sono i soldati che partono volontari. Non è la loro vista che disturba l’autore; è semplicemente il sapere che esistono coloro che, di propria iniziativa, si gettano verso una morte sicura e addirittura ingloriosa, ciò che affascina e inorridisce allo stesso tempo. Chi contempla questo aspetto dell’umanità, ne rimane 204 sconvolto, al punto di non poter più distogliere lo sguardo, al punto di perdere sé stesso. L’incontro con Genbei rappresenta un temporaneo ritorno alla realtà; l’idillio del paesaggio incontaminato, che permette all’autore di spaziare nelle profondità dei propri pensieri, e dei propri giudizi, è rotto dall’incontro con un uomo comune, che fa un lavoro comune. Eppure, quest’uomo ci porta in un’altra dimensione fantastica: il racconto del suicidio dell’antenata di Nami ricorda molto le leggende popolari diffuse in Giappone; storie che hanno spesso tinte romantiche e macabre insieme. Proprio nell’epoca di Souseki, si andava formando un genere di letteratura popolare detto ero-guro, abbreviazioni delle parole inglesi erotic e grottesque. Sebbene nuovo come genere letterario, l’ero-guro si muove sulle orme delle leggende popolari giapponesi, che a loro volta affondano le radici negli antichi miti fondanti, trascritti (solo in parte, si pensa) nel Kojiki. Souseki fa pochissime concessioni a questo genere. Se ne trovano tracce nelle sue dieci notti, ma l’ero che piace a Souseki è solo quello dei sentimenti. O, come nel caso della descrizione di Nami nell’onsen, quello estremamente raffinato, quello del nudo che non ha nulla di impudico, perché simbolo ed espressione di purezza e libertà, talmente naturale da non portare con sé nemmeno il ricordo, nemmeno l’ombra dei desideri della carne. E il guro di Souseki si limita al disagio, o allo struggimento per la dimensione cosmica della tragedia umana. Nella storia dell’antenata che si getta nel lago, risuonano le suggestioni del mito della Fanciulla di Nagara, e ancora, l’impressione per la scampata morte della moglie Kyouko (si veda l’esegesi del capitolo 9). E, come evocata da queste suggestioni, nella descrizione della natura che circonda questo luogo sereno e tetro assieme, ecco apparire Nami. Ancora, più spirito che donna, più idea che persona, incarna e focalizza la descrizione del luogo che si va formando nella mente del pittore. Quando la descrizione si fa dettagliata e visuale, ecco che si impone la presenza eterea di Nami, anche qui, mai nominata direttamente, 205 proprio a sottolinearne l’aspetto iconico in questa rappresentazione, che passa dal concreto all’onirico. È il volto di donna che ha sorpreso il protagonista nel sonno, all’onsen, e adesso qui. Appare sulla roccia, in alto, contro al sole, sopra l’estèsi che il pittore cerca di costruire nella sua mente per farne disegno. È una figura talmente immersa nella descrizione del paesaggio, e allo stesso tempo talmente distinta, che ci resta il dubbio che non sia reale, che sia il pittore, inconsciamente ossessionato da quella donna, ad immaginarsela come somma e punto focale di questo luogo naturale, sereno e tetro assieme. Solo l’ultima frase, la corta chiusura “mi ha sorpreso un’altra volta”, certifica che si trattava di un’evento reale, che Nami, in carne e ossa, era lì davvero. 11 Questo capitolo, almeno in apparenza, diverge dal tema generale del romanzo, e si concentra su una critica diretta agli intellettuali “avversari” di Souseki: gli esponenti della corrente artistica nota col nome di ukiyo, il “mondo fluttuante”. Non è la prima critica che Souseki rivolge loro, ma è certamente la più dura. La critica si articola su due livelli logici e due livelli tecnici. Dal punto di vista logico, Souseki lamenta l’invadenza degli esponenti dell’ukiyo, e la loro propensione a giudicare l’altrui lavoro secondo il loro metro, da un lato, e il loro puntiglio nel dettare le linee guida che l’arte giapponese dovrebbe seguire, dall’altro. Souseki si ribella sia alla prima che alla seconda imposizione, e lo fa clamorosamente, con le sue opere e dentro le sue opere. Dal punto di vista tecnico, Souseki usa, con l’esperienza di un maestro, il registro volgare, rivolgendolo contro coloro che meno lo possono sopportare, per poi spostarsi sul registro poetico ed eccellere sopra alle possibilità dei suoi contemporanei. La fusione di questi quattro livelli, due logici e due tecnici, genera una sinergia che scardina l’impianto piatto e monotono dell’ukiyo, e ne sigilla la sconfitta. 206 Mi preme ricordare che Souseki usa la metafora dell’esponente della corrente dell’ukiyo che si mette a dire a tutti “ecco, ne ha fatta un’altra”, non solo perché è una similitudine diretta del loro comportamento, ma anche perché questo è il comportamento che, nell’immaginario collettivo giapponese, è tipico dei bambini petulanti e maleducati. Quasi per antonomasia, questo è il gretto divertimento dei bimbi dell’asilo, che dovrebbero sedere composti e attenti, ma gridano ridendo e additando colui a cui scappa una scoreggia. Ma sotto la superficie evidente della critica all’ukiyo, corre un altro tema, che è quello della via dell’artista. La metafora della scalinata del tempio, a inizio capitolo, rappresenta chiaramente la carriera dell’artista, e in particolare dello scrittore. Qui, Souseki usa un tono informale e diretto, che, come all’inizio del primo capitolo, ho tradotto con il “tu” impersonale. A un lettore giapponese, il brano suona come narrato parzialmente in prima persona, ma con una sfumatura di “assolutismo”, di validità generale, che permette di immedesimarsi nell’io narrante; l’invito dell’autore è quindi reso molto bene con il “tu”. Il primo gradino è quello dell’amatore, dell’hobbista, di colui che si avvicina all’arte per il proprio piacere; fra questi c’è chi si appassiona tanto che, invece di essere mero fruitore, prova a scrivere, dipingere o suonare qualcosa. Viene voglia di costruire qualcosa di proprio (il termine usato da Souseki è proprio 作る – tsukuru – costruire). Ma ecco il terzo gradino, quello squadrato in modo strano: per progredire, bisogna apprendere la tecnica, con le sue regole che non sono apparenti ai non iniziati, anzi, che il saper nascondere fino a renderle invisibili distingue il grande artista dal principiante. E saliti sul terzo gradino, si sogna di poter arrivare fino in cielo; è a partire da lì che è possibile sondare le profondità più oscure, nascoste dell’animo umano, e di sé stessi, da dove è possibile trarre quelle stelle che possono risplendere nel firmamento dell’arte. Ma quando arrivi in cima, diventa un atto così naturale che puoi voltarti indietro, e guardare il tuo 207 percorso freddamente, e alla fine, pensare che di tutto questo, della stessa voglia di essere artista, puoi farne arte, puoi farne un racconto. Solo ora, Souseki dice “io”, e ci confessa che questo è esattamente ciò che sta facendo. L’artista deve essere capace di mostrare il proprio animo senza vergogna, così come suggerisce l’abate. All’inizio, non comprende la brusca metafora del protagonista, e serve da contrappeso comico alla scrittura viscerale e volgare che ha caratterizzato alcune parti del capitolo, ma poi, da acuto monaco Zen, afferra il senso generale delle lamentele del pittore che ha di fronte, e riesce a buttare lì un eccellente consiglio: come il monaco Zen, l’artista deve studiare tanto da potersi spogliare (anzi, mostrare persino le viscere) sul Nihonbashi, il ponte che dà il nome all’omonimo quartiere di Tokyo, uno dei più affollati, dove tutti passano, senza provare la minima vergogna. Ma il protagonista ancora non è pronto, ed è per questo che viaggia. Anche Souseki aveva viaggiato molto, in Giappone ma soprattutto fuori, alla ricerca delle origini della letteratura, in vari continenti. Nei suoi viaggi, deve aver scoperto che il vero viaggio da compiere è quello dentro di sé, alla ricerca di quel luogo ove, quando si giunge, non si ha più timore di mostrarsi per quel che si è. Il cactus che si incontra alla sommità della scalinata del tempio ha una funzione metaforica. Il ripetersi delle “palette”, che nascono le une dalle altre, partendo dal basso e salendo sempre più in alto, tanto che sembra possano arrivare ovunque, fino in cielo, sono una metafora delle opere dell’artista. Dalle prime, più umili e semplici, nascono lavori che poggiano sui precedenti, per certi versi simili, e tutte riconducibili allo stesso tronco, eppure, di paletta in paletta, di opera in opera, si crea un corpus grandioso, che sembra poter non finire mai. A questo punto, l’autore introduce la poesia di Chou Buji; Souseki la associa al fluire delle sue idee per l’impressione degli alberi oltre la foresta di bambù, che sembrano spaventosi come 208 spettri; anche questo cactus potrebbe sembrare spaventoso: il lavoro di grandi artisti, così imponente, in altri momenti avrebbe potuto intimidire lo scrittore, tanto da farlo scappare giù da quella montagna su cui è salito, attraverso la scalinata della tecnica e dello studio. Ma al di là dell’uso funzionale a questa metafora, la poesia è un cammeo interessante in sé, e accarezza in modo subliminale un’altra delle tematiche care a Souseki: la sua avversione per le politiche militaristiche giapponesi. Ma è un excursus breve, giusto un accenno, e subito torniamo alla tematica principale del capitolo, attraverso la metafora più potente fin’ora introdotta: la magnolia, albero umile eppure bellissimo, è la metafora del lavoro dello scrittore migliore: egli non copre con le foglie quel che sta dietro, anzi, sopra. Stende solo sottili rami, su cui si posano fiori ben evidenti, nitidi, pudici nel loro giallo tenue, ma di chiara bellezza; e dietro ai sottili rami fioriti, dietro all’intreccio, si intravede il cielo chiaro. Un cielo chiaro che è una metafora per l’anima dell’artista, che si intravede oltre la trama che egli intesse, ma anche per la realtà che fa da sfondo all’intreccio, non nascosta, ma anzi, evidenziata, esaltata. E in effetti, questo è ciò che Souseki sta facendo in questa opera. Dietro alla trama, appena tratteggiata, dell’artista viaggiatore e della donna divorziata, che accennano appena l’idea di un intreccio amoroso, si vede chiaramente, anzi, addirittura esaltato, sia l’animo di Souseki, i suoi pensieri più intimi, i suoi giudizi di merito e di valore, i suoi stessi processi creativi, sia la realtà che egli vive, di un mondo in equilibrio instabile fra un passato stantio, ma rassicurante e un futuro inquietante, eppure promettente, che arriva con la forza dei treni a vapore, e dei tram elettrici. Ecco quindi che anche questo capitolo rientra nel piano generale dell’opera, che consiste nella ricerca dell’estesi, e forse la risolve, o quanto meno, propone una possibile soluzione: l’estèsi, la bellezza dell’arte, non è da cercare in regole formali, come quelle proposte dall’ukiyo. Certo, trovarla richiede studio, impegno e tecnica, ma quando la tecnica è consolidata, il risultato 209 finale consiste nel riuscire a esaltare la realtà, e soprattutto la realtà del proprio stesso animo, così com’è, senza complessi e paure. Perché, è questo ciò che muove il lettore, o l’osservatore, o l’ascoltatore, più di ogni altra cosa: riconoscere ciò che sa, ciò che è vero, ciò che è reale, e sentirselo spiegato senza inganni, direttamente, così che risuoni con la sua stessa anima. 12 Il capitolo dodici è una parte cruciale dell’opera, per diversi motivi e a diversi livelli. A livello superficiale, abbiamo uno sviluppo consistente nella trama, e nella relazione fra Nami e il protagonista, che prepara alla chiusura. A livello intermedio, viene sviluppato con forza il tema della ricerca dell’estèsi, del fallimento del protagonista e del successo di Nami. Ma l’aspetto più interessante, dal punto di vista letterario, è l’aspetto più profondo: qui Souseki presenta il suo manifesto artistico, prima descritto e poi magistralmente esemplificato. Leggendo altri scritti contemporanei a Souseki, il salto fra lo stile del capitolo dodici rispetto al resto dalla letteratura di inizio ’900 è massimamente stridente. Nelle parti finali, a parte qualche parola e ideogramma oggi desueti, il Kusamakura sembra scritto ieri mattina. Anzi, rispetto ad alcuni autori moderni, anche molto famosi, il suo stile visuale e immediato è persino più evoluto! Invece, i suoi contemporanei cercano di imitare gli stili del passato, e più vanno a pescare forme verbali e termini seisettecenteschi, più sono valutati come abili letterati. Ma procediamo con ordine, partendo proprio dall’aspetto più interessante. “Nonostante sia un pittore, non mi era mai capitato prima di volere, più che rendere in disegno l’aspetto psicologico, ritrarre l’impressione lasciata.” 210 Su questa frase, pensata dall’autore nel mezzo della scena madre del capitolo, si concentrano tutte le considerazioni fatte fino a quel momento sull’arte, e sul modo di ritrarre le cose. Una volta risolta l’ovvia metafora del pittore con lo scrittore, e del disegno col romanzo, ecco il piano della letteratura di Souseki: non descrivere le cose come sono, nemmeno dal punto di vista interiore, nemmeno riportando i pensieri dei personaggi, bensì trasmettere le sensazioni, le impressioni ingenerate da una storia. La trama non come fine, ma come mezzo per creare uno stato d’animo nel lettore. E come ottenere questo risultato? “Penso costantemente che lo studio fra la relazione tra atmosfera, oggetti e colori, sia l’argomento più interessante del mondo. Concentrarsi sui colori per trasmettere l’atmosfera, o concentrarsi sulle cose per delineare l’atmosfera? O ancora, concentrarsi sull’atmosfera, e contemporaneamente lasciar trasparire cose e colori, intrecciandoli?” Anche qui, risolvendo la facile metafora dei colori, che rappresentano i ferri del mestiere dello scrittore, come le figure retoriche, il ritmo, il registro e così via, Souseki si chiede quanta tecnica impiegare, quanto far risaltare le descrizioni rispetto alle sensazioni. E la sua soluzione è: “Insomma, più che prendere la natura in superficie, bisogna studiare lo spirito sottile, e quando si pensa ecco, è quel colore lì, bisogna subito mettersi in spalla il treppiede e alzare i tacchi.” Studiare lo spirito sottile. Souseki è maestro del non detto, del dito che indica la luna, del tratteggiare con poche parole un’intera scena, e con la scena tratteggiata, sottintendere a un tema ancora più vasto. E, una volta afferrato lo spirito sottile, bisogna resistere alla tentazione di approfondire, spiegare, dettagliare, perché a quel punto si rompe l’equilibrio magico che ha permesso, con quelle esatte parole, di creare quell’esatta sensazione. Molti scrittori indulgono nel tema, cadono nella tentazione di spiegare meglio, perché temono che il lettore non immagini 211 esattamente quello che desiderano che egli immagini. E aggiungono parole, frasi, o interi capitoli non solo superflui, ma dannosi. Ma, esattamente, qual’è l’artificio tecnico che permette di rendere lo spirito sottile delle cose? Secondo Souseki, non esiste un preciso “qualcosa”. Per scrivere così, bisogna che la propria essenza di scrittore sia capace di cogliere questo spirito sottile, come risuonando, come riverberando con l’emozione che si vuole comprendere, e poi ricreare. O con le sue parole: “E se dovessi trovarmi in piedi, in uno stretto angolo che si fa emotivo, a ridefinire cosa sia l’arte, direi che l’arte è la cosa sopita nei nostri cuori di gentiluomini istruiti che evitano la malvagità per abbracciare la giustizia, rifiutano le deviazioni per seguire la retta via, scampano la debolezza per assumere forza, e quando proprio arrivano a non farcela più, la cristallizzano in quell’unica scintilla di determinazione, riflettendone finalmente l’abbacinante splendore.” Non una tecnica, ma un bagliore, il bagliore di una cosa pulita, smussata, lucidata: il cuore del poeta. Souseki senza voler definire la tecnica in cui eccelle, ce ne dà un esempio, affinché questo serva proprio come un manuale per seguire il percorso di purificazione artistica a cui allude. Più che un indizio, ci da una vera e propria indicazione, quando scrive “Proviamo un po’ a ritrarlo” alla fine del paragrafo in cui si chiede se sia meglio ritrarre l’atmosfera, o piuttosto gli oggetti – nella scena successiva, il suo protagonista non dipinge, ma scrive quella scena che è la prima delle rappresentazioni, delle fasi teatrali descritte in questo capitolo; e non sono le immagini che si fermano nella mente. Le immagini che Souseki ritrae servono esattamente a creare quell’atmosfera che trascende la descrizione, e diviene un rarefatto stato d’animo nella mente del lettore. Attorno alla frase centrale, si svolge la scena dell’incontro tra Nami e suo marito. Non viene detto nulla sul loro passato, almeno non qui, anzi, nemmeno che si tratta del marito di Nami. 212 Addirittura, Nami viene quasi sempre indicata con l’epiteto “la donna”, a indicare che la sua personalità è puramente incidentale. Eppure, anche se non conosciamo i protagonisti della scena, i pochi gesti, gli atteggiamenti, così come seccamente descritti da Souseki, ci bastano a ricreare l’intera storia passata fra di loro, senza bisogno di raccontarla. L’autore la conosce, e la condensa in quei gesti e in quegli atteggiamenti, tanto potenti da ricreare in noi non tanto la stessa identica storia, ma la stessa sensazione che il conoscere quella storia deve generare. Nell’avvicinarsi all’era moderna, gli scrittori hanno abbandonato lo stile narrativo e hanno abbracciato allo stile descrittivo/visuale. Souseki non è solo un precursore di questo stile, ma lo porta già alle estreme conseguenze, lo porta già al punto in qui nemmeno la descrizione in sé è importante, bensì è solo un mezzo per permettere al lettore di raggiungere uno stato d’animo. E ci lascia anche un manifesto, un manuale per seguire i suoi passi. Tutto questo è superbamente intrecciato al tema fondamentale del romanzo: la ricerca dell’estèsi. Ecco che l’autore ci rivela esplicitamente quello che ci aveva suggerito fino a ora: “Quella donna, in casa, recita col suo semplice esistere. E non sembra nemmeno che reciti. Recita con la naturalezza di un genio. Si potrebbe dire che abbia “il bel vivere”. Grazie a quella donna, ho un ottimo materiale di studio per il disegno.” È lei che ha il dono dell’estesi, non l’autore, che lo cerca. L’impossibilità di trovare l’illuminazione cercandola in modo grossolano e diretto è un tema centrale del buddismo Zen, e Souseki, qui, si arrende all’evidenza che la “vita estetica” non si può raggiungere imponendosi una disciplina, bensì accettando con naturalezza la “vita reale”, e muovendosi leggiadri in essa, come sa fare Nami. Una conclusione che si può applicare anche alla tecnica dello scrittore, che per diventare sublime deve trascendere la disciplina e sgorgare naturalmente dall’animo. Nel capitolo, riaffiora prepotente anche l’aspra diatriba tra il modernismo di Souseki e quella che lui ritiene una stolida e 213 cocciuta arretratezza culturale dei suoi connazionali. La sottile critica verso la politica espansionista dell’Impero Giapponese emerge dall’allusione nascosta fra l’ambiente culturale e quello militare. In particolare, la storia del giovane Fujimura suicidatosi affinché le sue parole, incise sulla roccia sulla cima di una cascata, fossero ricordate, è un’accusa doppia, rivolta contemporaneamente ai letterati e ai militari. Coinvolgendo implicitamente i militari in questo inciso, Souseki li “traina” in tutte le critiche precedenti e successive, assieme al suo bersaglio diretto, che sono i suoi colleghi letterati. Si deve notare anche che l’atto stesso di includere episodi specifici di cronaca contemporanea nel racconto fa parte delle innovazioni che Souskei propone al suo pubblico. Nel movimento del mondo fluttuante non c’era spazio per la realtà contemporanea; al limite, le si poteva alludere, ma non certo includerla direttamente. Anche nominare direttamente un autore del passato, o un artista contemporaneo, avrebbe rotto la finzione del romanzo. Nominare elementi del mondo “reale” aveva nell’ukiyo lo stesso significato, e la stessa stigma, che il “guardare in camera” aveva nel cinema delle origini: avrebbe coinvolto il pubblico in maniera attiva, e i primi registi, così come gli autori dell’ukiyo, immaginavano il pubblico come un ente passivo, che assisteva a uno spettacolo senza esserne direttamente coinvolto. Con lo sguardo in camera, così come con la narrazione in prima persona e con l’inserimento di elementi di cronaca, si chiama il pubblico a partecipare attivamente alla finzione della narrazione. Questo fa esattamente parte del manifesto di Souseki, che desidera non solo coinvolgere il lettore, ma trasmettergli sensazioni ed emozioni che lo rendano totalmente partecipe della storia, non come un osservatore, ma come un protagonista della sua narrazione. Ma in questo capitolo, Souseki non si accontenta di descrivere il suo manifesto e di esemplificarlo; non si accontenta di attaccare il mondo fluttante con la cronaca dopo aver creato un ambiente etereo, fatto di pura emozione che trascende la descrizione stessa 214 degli oggetti che compongono le scene. L’autore intreccia sapientemente a tutto questo alcune metafore, come quella del cotogno: gli acquerelli da quattro soldi dell’infanzia pittore senza nome erano gli strumenti ancora poco affilati del Souseki giovane scrittore. O della ragazza vestita con un kimono rosso, e le caviglie color tè: un abbigliamento impossibile all’epoca. Quello rosso era un kimono dedicato alle feste, occasione in cui chiunque avesse potuto indossarlo, avrebbe anche indossato calze di seta bianca. La ragazza che ci viene incontro portando sulle spalle il bagliore del mare rappresenta la libertà del nuovo secolo, libertà di essere ciò che si vuole, senza timore del giudizio altrui. 13 La gravità del momento in cui un giovane parte per la guerra, senza sapere se farà ritorno, è immersa in un racconto che, a tratti, si fa persino ironico. Ancora, è un carattere tipico della narrazione popolare giapponese, che ama mescolare sentimenti diversi nella stessa storia. Ancora oggi, nei film drammatici, o persino nei film horror, non manca mai qualche scenetta divertente, che possa far sorridere, o persino ridere. Lo stridente contrasto fra la gravità del tema e il modo di raccontarlo diventa esplicito negli atteggiamenti di Nami. Souseki vuole che lo notiamo, poiché ha due funzioni ben precise. La prima è quella di farci apprezzare l’assurdità della vita, ma soprattutto della morte sul campo di battaglia. L’ironia di Souseki è qui l’ironia del destino, che deride l’atteggiamento umano di cercare un senso, di dare una forma, una dignità a quello che, suo malgrado, gli succede. La seconda è quella di attaccare direttamente gli scrittori e gli artisti suoi contemporanei, che ignoravano le forme di arte popolare giapponese per chiudersi in un elitismo che aveva dato vita al movimento del “mondo fluttuante”. Quello che Souseki 215 attacca direttamente è il tono neutro, fastidiosamente costante delle loro opere, più rigide nella costanza del tono di quanto le opere greche lo fossero nel rispetto delle unità aristoteliche. Souseki usa la narrazione popolare come strumento per portare in scena sia la tragedia di un uomo, di un ragazzo che va in guerra, che la tragedia umana tutta. Nel successo di questo esperimento, c’è il colpo di grazia al decadente mondo fluttuante. Ma questa considerazione, per quanto vasta, è assai lontana dall’esaurire l’esegesi del brano, da dividersi in due parti: la chiarificazione del significato meta-linguistico e culturale di alcuni passaggi, persi a distanza di oltre cento anni, che permettono di meglio apprezzare la veloce narrazione di questo capitolo, e le considerazioni più ampie sul significato generale del capitolo, e dell’opera che chiude. Il capitolo si apre col protagonista che racconta il perché stia accompagnando Kyuuichi in quello che potrebbe essere il suo ultimo viaggio: lo hanno invitato, per mera cortesia, e probabilmente non aspettandosi che accettasse (anzi, si intuisce, aspettandosi che non accettasse). Ma il protagonista accetta lo stesso, e chi lo ha invitato ora non può esimersi dal portarlo con sé. Ovviamente, è un artificio narrativo che ci consente di vivere la scena, ma è anche la conseguenza naturale dell’atteggiamento del protagonista, che quasi a giustificarsi, ci ricorda che “in un viaggio inemotivo, non c’è bisogno di fare complimenti”. In questo suo ultimo tentativo, vuole assistere alle scene struggenti che seguiranno come fosse uno spettatore. Stavolta, per davvero. La domanda di Nami, “Adesso hai un pugnale, non ti viene voglia di andare in guerra?”, fa eco alla controversia culturale della ri-militarizzazione del Giappone nei primi anni del ventesimo Secolo. La restaurazione Meiji aveva abolito la classe dei Samurai, e vietato a chiunque di indossare armi. Prima, indossare due spade era l’unico simbolo di riconoscimento della casta dei Samurai, e il segno tangibile del loro potere effettivo. Con questo atto, il nuovo Governo imperiale voleva rendere esplicita la volontà di privare i Samurai del loro potere, ma 216 soprattutto sancire un principio egalitaristico, almeno formalmente, che fosse ben visibile alla larga parte del popolo, reduce da centinaia di anni di soprusi e sottomissione alla classe militare. Adesso, in nome di una politica espansionistica e di un militarismo di stampo fascista che si andava formando in quegli anni, ai nuovi guerrieri era di nuovo consentito indossare armi. E, avere un’arma provoca la tentazione di usarla, che si sia semplici uomini o interi stati. Il dialogo fra i personaggi è leggero, persino il nonno, che sembra essere molto triste, sorride quando il protagonista gli chiede della sua passione del tiro con l’arco. È capitato a tutti noi; anche nelle occasioni più tristi, anche quando perdiamo una persona cara, è impossibile mantenere l’umore assolutamente costante e concentrato sul sentimento dominante. Alle volte, ci scappa una risata persino a un funerale. E quando succede, ce ne dispiaciamo, come se, osservando la nostra emozione che emerge spontanea, in contrasto non solo con l’umore generale, ma persino con il nostro stesso stato d’animo, ci chiedessimo, ma come, non dovrei essere triste? Non è un sacrilegio, o non è almeno un po’ strano ridere mentre sto provando un dolore tanto grande? È semplicemente che l’emotività non si piega di fronte alla ragione. Souseki descrive questa spontaneità, lontana da una scelta razionale del proprio stato emotivo, proprio mentre descrive il ritorno del protagonista alla città, a quel luogo di attività quotidiana dal quale era fuggito, per intraprendere la sua ricerca dell’estèsi. È in questa normalità che la sua ricerca si esaurisce. L’altro tema centrale dell’opera, la critica alla corrente letteraria del mondo fluttuante, qui si fonde con la struttura stessa della narrazione. Un taglio “verista”, con descrizioni di oggetti concreti, dialoghi rapidi e superficiali, sequenze temporali, impressioni visuali; il tutto è esattamente la realizzazione pratica 217 della teoria tratteggiata lungo tutta l’opera. Questa realizzazione, la pratica del verismo alla Souseki, è l’affondo finale al mondo fluttuante che, ormai, l’autore ritiene definitivamente sconfitto, anzi, superato. Altro aspetto appena sfiorato è la critica alla modernità. Souseki è in realtà un convinto modernista, e nel suo quotidiano abbraccia con convinzione l'innovazione tecnologica e sociale che si accompagna al ventesimo secolo. Ma qui, si permette non tanto una critica, quanto un’analisi attenta dei pericoli che la modernità porta. Al singolo vengono date potenzialità senza precedenti, ma questo si accompagna alla difficoltà di realizzare queste potenzialità, e alla frustrazione nell’insuccesso. È un tema sempre nuovo, perché fin dall’inizio del ventesimo secolo, a ogni generazione le potenzialità del singolo sono andate aumentando, rendendo quelle dei propri genitori pallide, al confronto. Souseki, da grande autore quale è, riesce ad individuare una tendenza che si ripeterà costante, una tensione fondamentale nello sviluppo sociale di una civiltà basata sul progresso tecnologico. Ma qui, a Souseki non interessa trovare una soluzione. Il suo sfogo non vuole essere né una critica, né tanto meno una soluzione al problema. Solo, se fino a ora ha lottato con i suoi colleghi contemporanei, dimostrando la necessità di superare la letteratura del passato (e superare non solo nel senso di “andare oltre”, ma anche e soprattutto nel senso di “essere migliore”), proprio nel momento del suo ultimo successo, della vittoria suggellata dalla perfetta narrazione verista, vuole mettere in guardia chi decida di seguire le sue orme da quanto di distruttivo, di nevrotico e di disumanizzante esista nel modernismo estremo. È come se ci dicesse, sì, superiamo il passato, e di slancio; ma ricordiamoci di restare umani – al più, inemotivi, ma pur sempre umani. Tre sono i cammei pregevoli su cui voglio porgere l’attenzione. In ordine cronologico, per primo la secca chiusura del dialogo fra il protagonista e Nami: «Ma sì, trattami da scema giusto perché sono donna!» 218 «È proprio perché sei una donna che dici queste scemenze.» «Ah, è così, eh? E allora fammi vedere quanto varia il tuo volto.» «Il mio volto cambia tutti i giorni, anche troppo.» Nami abbassa improvvisamente il registro, stizzita, pensando che il pittore si stia celiando di lei. Ma il suo scatto non va nel senso che potrebbe essere inteso da una sensibilità occidentale moderna, ossia, una reazione all’essere trattata con sufficienza solo perché donna; è l’esatto contrario. Qui Nami teme di essere stata appiattita al ruolo dell’uomo, teme che che il pittore la tratti non da donna, ma da amico. Il pittore risponde che l’idea sciocca di essere trattata diversamente, e quindi di liquidare le sue parole come se fossero uno scherzo da commilitoni, proprio in quanto donna. Lei si ritrae sulla difensiva, ed è per questo che crede che l’idea che il volto possa cambiare a piacimento sia solo uno scherzo, ed è questo che il protagonista stigmatizza. Ma il pittore è serio: il volto cambia davvero di giorno in giorno. Ad esempio la lunghezza della barba, lo scavarsi delle rughe agli angoli della bocca, l’assumere un atteggiamento serioso, piuttosto che rivolgere uno sguardo neutro, o un sorriso sereno a qualsiasi cosa, a seconda del proprio umore... Il pescatore sul fiume che incrocia gli occhi di Kyuuichi, è uno dei particolari che fanno parte del verismo che caratterizza questo capitolo. Una figura di nessuna importanza, che non interagisce con i personaggi; anzi, importante proprio in quanto li ignora. Ironicamente, Souseki lo paragona a Tai Gongwang, un saggio dell’antica Cina che diventa consigliere di un re, mentre è solo un pescatore che si ostina a ignorare il mondo che lo circonda. I due avventori della sala da tè di fronte alla stazione sono ancora elementi totalmente ininfluenti nel romanzo, e importanti proprio per questo. Ancora, sono elementi che uno scrittore della corrente dell’ukiyo non avrebbe mai inserito. Eppure, sebbene irrilevanti, Souseki riesce a dirci molto di loro: contadini, fuori 219 luogo in città, probabilmente sono venuti per vedere un dottore, che non ha potuto curare quello di loro che sta male. Per quanto riguarda la scelta del soggetto, penso possa trattarsi di un cenno autobiografico, come ce ne sono altri sparsi nelle pagine del romanzo. Infatti, Souseki soffriva di ulcera, e ne morì nel 1916. Probabilmente, iniziava a provare dolore già nel 1906, mentre stendeva questo romanzo. Quasi come se il dolore che stava provando gli avesse dato l’ispirazione di inserire questi due personaggi là, dove aveva deciso di scrivere di un soggetto fuori tema, ininfluente nella trama del romanzo, seppur importante nel piano generale dell’opera, in quanto sinergico alla formazione del quadro verista. Ciò che chiude l’opera è il completamento del quadro mentale che il protagonista cercava di formare. Come ogni altro aspetto di questo romanzo, si tratta di una chiusura che agisce su più livelli. Da un lato, abbiamo il ritorno dell’artista nella realtà cittadina, sigillata con un racconto verista degli eventi mondani che lo circondano; dall’altro abbiamo il completamento della personalità di Nami. Lei, artista perfetta, in quanto capace di trasmettere la sua arte senza recitare, mostra una gamma completa di emozioni, ma la sua interiorità è chiusa al mondo esterno. La danza composta, seppur naturale, che inscena per il protagonista è incompleta, perché manca quella scintilla di essenza, di anima diretta, non mediata; manca quella scintilla raffinata nel cristallo che significa l’anima stessa dell’artista, di cui Souseki parla quando arriva a definire l’arte. Lo struggimento che Nami prova mentre guarda per l’ultima volta l’uomo che era stato suo marito è un sentimento puro, che non vuole essere mostrato, che lei non può indossare come un abito, e che non può interpretare come una danza. È un sentimento solo suo, intimo, che emerge perché non può fare altro che emergere. Nami aveva interpretato la sua vita, e i suoi sentimenti, vivendoli con consapevolezza e naturalezza, e l’artista in cerca di una via di estèsi era rimasto affascinato da questa danza, dai sentimenti che Nami indossava, consapevole e con naturalezza. 220 Questo sentimento, e questo solo, Nami lo prova inconsciamente, incontrollatamente. Non lo guarda passare, non lo vive, non lo subisce, non lo indossa. Semplicemente, il sentimento nasce in lei, ma non per lei. Viene al mondo attraverso di lei, ma non grazie a lei. Ed ecco che il quadro si completa. Adesso Nami non è solo colei che vive consapevole del suo vivere, non ha solo raggiunto l’estèsi cercata dall’artista; incarna la perfetta naturalezza del vivere, incarna l’emozione pura che non può essere razionalizzata, incarna la sorpresa di scoprirsi sconosciuti, e incarna l’essere oltre il bisogno di assaporare questa sorpresa. Ed ecco che l’autore e il protagonista, tornati nel mondo reale dopo il loro viaggio, trovano l’arte totale nella normalità di un sentimento puro. Un koan Zen recita: il novizio non vede la via; il monaco segue la via; il maestro non vede la via. All’inizio del viaggio in quest’opera, la via verso l’estèsi era indefinita. Poi, si traccia il sentiero dell’artista, che apprende la tecnica, ma intravede l’obiettivo che la trascende: è la naturalezza di Nami, che indossa le proprie emozioni senza doverle studiare. E alla fine, ecco l’atto del maestro, di Nami, che consiste nell’essere presa da un’emozione che non può indossare, e nemmeno vivere; semplicemente, Nami e la sua emozione coesistono, come in una persona qualsiasi, come il maestro che non vede la via, esattamente come l’allievo; ma non vederla più dopo averla percorsa, non vederla perché ora il maestro stesso è la via, è qualcosa di completamente diverso. Questa era l’illuminazione estetica che il protagonista e l’autore cercavano. In questo momento, nel raggiungimento, nel riconoscimento di quell’emozione che giunge oltre la possibilità di essere vissuta, si realizza l’estèsi totale, e lo scopo finale del viaggio. 221 Note di traduzione 1 In questo primo paragrafo delle note di traduzione, è necessario introdurre anche la descrizione delle scelte che hanno condotto alla traduzione di alcuni termini chiave che, presentati nel primo capitolo, accompagneranno il lettore in tutta l’opera. 世 の 中 – yo no naka, vuol dire letteralmente “in mezzo al mondo”, ed è una semplice espressione idiomatica che indica lo stato delle cose, la realtà pratica opposta alla vuota teorizzazione. Ho scelto il termine “stare al mondo” per tradurre l’uso che il protagonista fa di questo termine. Il protagonista fa anche un largo uso di termini che contengono la radice 人 – nin – umano. La parola “umano”, in Italiano, richiama una volontà di estraneazione, di astrazione dalla condizione terrena che, sebbene confacente al protagonista, non è invece letteralmente presente in alcuni di questi termini. ad esempio 人間 – ningen – è letteralmente “genere umano”, ma è un termine di uso talmente comune da assumere semplicemente il significato di “persona”, o “persone”, in un registro giust’appena formale. Allo stesso modo, 人 情 – ninjou, che letteralmente vuol dire emozioni umane, non ha un senso di opposizione o di distinzione dell’emotività così come usualmente vissuta; è un semplice termine di uso comune che indica i sentimenti, anche qui in un registro velatamente formale. Ho usato il termine “umano”, che in Italiano ha forti connotazioni metalinguistiche, solo per tradurre parole specificatamente appartenenti all’area scientifica o filosofica, come 人類 – jinrui – razza umana e 人物 – jinbutzu – “uomo-cosa”, uomo visto nella sua fisicità di animale. 225 Fra questi termini, assume particolare importanza la parola 非人 情 – hininjou – letteralmente “anti/uomo/passione”. Si tratta di un neologismo coniato da Souseki per l’occasione, ed ho voluto tradurlo con un neologismo che potesse avere la stessa valenza in Italiano: “inemotività”. Sono stato fortemente tentato dal termine “disumanizzazione”, che avrebbe dato un taglio più moderno alla parola. Ma sebbene questa parola fosse attraente, e sebbene sarebbe stata perfetta nella battuta finale del primo capitolo (provate a rileggerla sostituendo la parola “inemotività” con “disumanizzazione”), non rendeva il carattere di “emotivo, passionale” che la parola originale aveva. Il tono e la forma impersonale colloquiale in “tu” che ho adottato nell’incipit cerca di rendere l’originale, decisamente informale, che ha il chiaro scopo di coinvolgere attivamente il lettore nel monologo del protagonista, al punto da farne quasi un dialogo fra il protagonista e il lettore. Sebbene la forma scelta dall’autore sia grammaticalmente una forma impersonale, Souseki tinge sapientemente diversi dei termini nell’incipit di caratteristici tocchi “volitivi” e personali. L’impressione che se ne riceve è quella di ascoltare un narratore che parla in tono diretto, schietto e assertivo di argomenti che esso presenta come verità universali, sulla base dell’estensione della propria esperienza vissuta, passando dal particolare al generale. Questo modo di presentare la propria esperienza attraverso forme impersonali è piuttosto comune in Giapponese, e rappresenta una normale modalità comunicativa. Ho ritenuto che il modo più diretto di tradurre questa forma espressiva, sia per tono che per connotati metalinguistici, fosse il “tu” impersonale, usato spesso in Italiano nelle conversazioni informali. Ad esempio, “lo stare al mondo è difficile” è nell’originale とか くに人の世は住みにくい – tokaku ni hito no yo wa suminikui – che costituisce una modalità di comunicazione estremamente diretta e informale. 226 Nella frase “dopo essere stato al mondo per vent’anni, compresi ciò che valeva la pena d’essere vissuto davvero”, lascio cadere la ripetizione di “mondo” nell’originale: 世に住むこと二十年に して、住むに甲斐ある世と知った – yo ni sumu koto nijuunen ni shite, sumu ni kai aru sekai to shitta 7 – che letteralmente vuol dire “dopo aver vissuto nel mondo per ven’tanni, seppi che c’era un mondo in cui valeva la pena vivere”. È impossibile non notare l’allitterazione con rima interna in “sumu ni kai aru sekai” dell’originale, e non potendo renderla in Italiano, mi è sembrato inutile mantenere la ripetizione che, evidentemente, verteva su questo effetto. La frase “...considerato che sono in grado di plasmare il creato...” traduce またこの不同不二の乾坤を建立こんりゅ う し 得 る の 点 に お い て – mata kono fudoufuji no kenkon wo konryuu shieru no ten ni oite – letteralmente, “… e ancora, riguardo al punto che sono in grado di erigere un universo non-unitario e non-duale”. Il concetto di universo non-unitario e non-duale è un termine taoista, che ha una forte connotazione filosofico/religiosa. Qui, l’autore non sembra avere alcun interesse per il significato letterale del termine, fra l’altro di difficile comprensione per i suoi contemporanei; piuttosto, sembra interessato a tirare in ballo, in questo contesto, un termine facilmente riconoscibile come avente una precisa connotazione filosofica; uno scrittore occidentale avrebbe potuto ricorrere alla “causa prima” aristotelica, o alla “quintessenza” della materia. Qui ho ripiegato su “creato”, che ha una connotazione più filosofica e religiosa della parola dal suono scientifico “universo”. Nella scena dove il protagonista inciampa e cade su una pietra alta circa un metro, è difficile rendere il ritmo crescente e il 7 La pronuncia “ufficiale” degli ideogrammi è diversa da quella esplicitamente indicata dall’autore, che la scrive sopra di essi, in una tecnica nota come ateji. 227 decrescente livello di registro. Praticamente, subito prima del “fatto”, il protagonista sta cadendo nei suoi pensieri, tanto che l’ultima frase è in tono colloquiale, pressoché dialettale. Con quella gestualità che caratterizza le opere teatrali, e poi cinematografiche e figurative giapponesi, il protagonista finisce col pensare “tanto forte” da “colpirsi da solo”, e cadere. Non solo; la pietra alta proprio un metro, e un tempo indefinito prima che il personaggio si rialzi, ci suggerisce, senza dirlo, che la caduta è stata particolarmente dolorosa… Il frammento della poesia di Shelley sulle allodole che inizia con “We look before and after...” è tradotto in Giapponese dall’autore nell’originale, all’interno del testo, in prosa, così come appare in questa traduzione. L’inciso “è cosa da poco”, nella scena in cui il protagonista calpesta i dente di leone, cerca di mantiene l’ambiguità presente nel testo originale fra il riferimento al comportamento dei fiori, che ignorano il passante, e il comportamento del protagonista, che si è preso pena per qualcosa per cui non c’era bisogno di preoccuparsi. In “Se prosegue giusto un miglio, trova una sala da tè. Certo che ti sei proprio bagnato, eh?” il passaggio dal tono formale a quello colloquiale nella seconda frase è nell’originale. Nella battuta che riguarda i cavalli dalla “faccia più lunga dei loro padroni” ho colto un forte richiamo alla letteratura inglese. Il modo di dire “avere la faccia lunga” per indicare un’espressione triste è presente sia nella cultura Italiana che in quella Inglese, mentre è assente in quella Giapponese. Con “faccia lunga”, in Giapponese si intende esattamente un volto lungo, sproporzionato, quindi sgraziato, opposto al volto ovale che incarna l’ideale di bellezza orientale. Tuttavia, Souseki visse per tre anni in Inghilterra, e sarà certamente venuto in contatto con questo modo di dire. La traduzione del passaggio è pressoché letterale, e leggendolo non ho potuto scacciare l’idea 228 che Souseki avesse voluto strizzare l’occhio a quei pochi connazionali che sarebbero stati in grado di capire la battuta. Poesie nel capitolo A parte la poesia di Shelley, in Inglese, in questo capitolo Soueseki cita due brevi passaggi da poemi cinesi. Il primo è un brano in 5-5 sillabe, a rima baciata con assonanza interna, del poeta cinese Yuangming, tratto dal componimento “Venti sorsi di vino”. Souseki ne propone una traduzione in Giapponese, annotando gli ideogrammi nel manoscritto originale; si tratta di una traduzione in prosa, che non cerca di rendere il ritmo o la metrica originale. Qui, la traduzione letterale dal Cinese: 採菊東籬下 colgo crisantemi sotto la siepe a est 悠然見南山 sovrappensiero guardo la montagna a sud Il secondo è invece in quattro versi di cinque sillabe a rima alternata, tratto dal “Palazzo di Bambù” di Wang Wei. Anche in questo caso, la traduzione in prosa giapponese è nell’originale, e traduce letteralmente la poesia cinese: 独坐幽篁裏 sedendo da solo fra i bambù 弾琴復長嘯 suono l’arpa e, di nuovo, canto a lungo 深林人不知 il bosco profondo non conosce l’uomo 明月来相照 arriva la luce della luna a splendere [assieme a me 229 2 Il termine “anticamera” traduce 土 間 – doma – letteralmente “stanza in terra”, fungeva da l’anticamera, o ingresso, nelle case giapponesi e soprattutto nei negozi. Era costituito da un’ampia area, spesso larga quanto tutta la casa e lunga anche un paio di metri, dove gli ospiti (o gli avventori) lasciavano gli zoccoli ed eventualmente i soprabiti. Si potrebbe pensare quasi come una veranda chiusa più che a una stanza vera e propria; il suo nome deriva dal fatto che anticamente, e in alcuni casi anche all’epoca di Souseki, il pavimento della doma era in terra battuta. Nell’incipit, perdo una splendida espressione che riguarda il braciere posato sulla panca. L’espressione “incurante dello scorrere del tempo” traduce in realtà una frase molto ricercata: 日 の移るのを知らぬ顔で – Hi no utsuru no wo shiranu kao de – letteralmente “con la faccia di uno che non conosce il passare dei giorni”. Tradurlo mantenendo anche solo una parte dell’aspetto letterale sarebbe stato impossibile, perché, in Italiano, tutte le espressioni simili appartengono a un registro colloquiale, mentre la frase suona molto poetica in Giapponese. Ho scelto quindi di usare il senso di “personalizzazione” che aveva l’espressione originale attraverso l’avverbio “incurante”, che è proprio di cosa animata. Infatti, in tutto il brano iniziale, Souseki cerca di dare una caratterizzazione vitale, quasi consapevole agli oggetti che lo circondano. I polli pensano, il braciere è tranquillo, l’incenso fa la faccia indifferente... L’espressione “fa un po’ strano” traduce una locuzione estremamente colloquiale e “moderna”, per l’epoca in cui era scritta. Per rendere questo senso attraverso questa locuzione, ho leggermente girato il senso della frase, che in originale era qualcosa di simile a “la scena che sto vedendo di una persona che non soffre a lasciare incustoditi i propri averi è un po’ diversa che in città”, ma la frase sfrutta due idiomatici e sia il senso che il 230 tono complessivo risultano più vicini alla traduzione nel capitolo che non al senso letterale. La frase “Essere inemotivi da queste parti sarà uno spasso” è la chiave di lettura del capitolo. Va detto che si tratta di una frase grammaticalmente ambigua, perché letta allo stesso modo, ma con un “taglio” differente, potrebbe anche significare “questi luoghi sono interessanti/divertenti per la loro inemotività”, ma mi sento di escludere con decisione questa seconda lettura; il tono enfatico del resto della frase da un lato, e il contesto in cui il protagonista sta illustrando un luogo “umanizzato”, opposto alle città fredde e guardinghe, rendono questa lettura decisamente improbabile. Anche in questo caso, il termine di basso registro “spasso” è stato scelto in base al tono dell’originale. Nell’espressione “vedere qualcuno che non non soffre a lasciare incustoditi i propri averi fa un po’ strano”, Souseki usa un elegantissimo ateji, ossia, una composizione di ideogrammi a cui viene dato un suono diverso per significare un concetto intermedio. La parola qui usata, – mise – vuol dire “negozio”, ma gli ideogrammi usati sono 見世 – vedere + mondo – col senso “quanto vediamo del (nostro) mondo”. Il senso medio sono gli “averi”, con riferimento anche all’attività commerciale. Nel capitolo, ci sono due momenti in cui il tono e il registro salgono costantemente, fino a raggiungere un picco di estasi poetica che avvicina la prosa alla poesia; raggiunto l’apice, l’incantesimo si rompe e il protagonista rimane contrariato, disturbato dall’aver quasi afferrato l’effimero per un istante, e non esservi riuscito per quelle scomposte pose dei protagonisti del suo dipinto mentale, a cui accennava nel primo capitolo, e che, secondo i suoi piani, avrebbero dovuto anch’esse far parte dell’estèsi. Il primo è quando l’anziana signora indica la roccia del Tengu; appena il tempo aprire il blocco da disegno, e il protagonista rimane “con un palmo di naso” (l’espressione usata dall’autore – temochi busata – non è molto dissimile da questo significato). 231 Il secondo è quando Gen-san impreca al suo cavallo, probabilmente per averlo schizzato con l’acqua appena caduta. Nell’originale, l’imprecazione è コ ラ ッ – kora – non proprio volgare ma nemmeno elegantissimo, direi meno formale di interiezioni come “insomma!” o “allora!”. Ma la scritta in katakana e l’aggiunta di un piccolo tsu finale aggiungono una sfumatura più popolana, e un “porcaccia” ci sta proprio bene. Si noti anche lo scambio di battute fra i due personaggi; la conclusione “che guaio...”, che è piuttosto tipica di un certo modo di dialogare stereotipato, richiama l’idea che il protagonista vuole avere delle persone che avrebbe incontrato nel viaggio, che si sarebbero dovute comportare come attori in una recita. Ecco la recita, che precede il momento di estasi poetica, e che dura assai poco. Trovo adorabile l’uso dell’onomatopea pura jaran jaran per descrivere il rumore dei campanelli, e la sua ripetizione a mo’ di tormentone. Fa molto “giapponese in vena di sorridere”. Nell’originale, quando viene usata per l’ultima volta (mentre Gen-san si allontana), ho tradotto con “Dietro ad un jaran jaran” il semplice じ ゃ ら ん じ ゃ ら ん と – jaran jaran to. Il to finale esprime un complemento di citazione e/o di accompagnamento. Significa contemporaneamente “con un jaran jaran” e “dicendo (facendo) jaran jaran”. Il fatto che stia da solo in una frase ci da il senso di “aggiunta”, “p.s.”, “e anche...”, che funziona proprio come nella traduzione in Italiano. Tuttaiva, ho preferito arricchire con “Dietro ad un...”, invece del più semplice “con un...” o “facendo...”, perché l’uso del to in quella posizione è comunissimo in Giapponese, mentre sarebbe suonato un po’ monco in Italiano. Il termine “rio”, sul finire del capitolo, traduce 白川 – shirakawa – letteralmente “fiume bianco”. Oltre a essere un toponimico (famosa località della provincia di Kumamoto, dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco), è un termine piuttosto 232 desueto, usato nei poemi classici, che indica un generico torrente. L’autore insiste sull’uso di questo termine, una volta introdotto dalla signora anziana, quasi “agganciandosi” ad esso, un po’ scherzosamente, come a voler enfatizzare l’uso di questa parola, sicuramente preso da qualcuno dei poemi che la nonna sembra ripetere senza comprendere a pieno. Poesie nel capitolo Mi sono preso la libertà di tradurre gli haiku e il tanka mantenendo la metrica 5-7-5(-7-7). Ho cercato nel contempo di rispettare il senso, la lettera e la struttura degli originali. A questo scopo, ho preso la licenza poetica di sostituire “primavera” con “vera”, e il complemento “della primavera” con l’aggettivo “verreo”. Stesso discorso per “carriere” al posto di “carrettiere”. Per chi desidera approfondire, ecco gli originali e la loro traduzione letterale: 春風や haru kaze ya – vento di primavera e 惟然が耳に Izen ga mimi ni – Izen, al cui orecchio 馬の鈴 uma no suzu – campana di cavallo 馬子唄の mago uta no – canzone da carrettiere 鈴鹿越ゆるや suzuka koyuru ya – passa oltre Suzuka e 春の雨 haru no ame – pioggia di primavera 馬子唄や mago uta ya – [con] canzoni da carrettiere e 白髪も染めで shirogami mo some de – [persino] il tingersi a [bianco dei capelli 233 暮るる春 kururu haru – vivere le primavere 花の頃を hana no koro wo – il tempo dei fiori 越えてかしこし koete kashikoshi – supera timidamente 馬に嫁 uma ni yome – una sposa a cavallo Il tanka “Verrà l’autunno” è esattamente il brano n.1564, nella sezione 8 del Man’you-shuu, attribuito ad una poetessa dell’epoca di Nara conosciuta solo con l’epiteto “Dama Heki dei Lunghi Rami”. In prosa, i versi significano più o meno, “Soffro perché so di essere come la rugiada, che si posa sugli steli d’erba, ma che, in autunno, è destinata a svanire”. È stato scritto intorno all’anno 800, quando la scrittura cinese era stata da poco importata e non ancora completamente adattata al Giapponese. Si tratta di un Giapponese talmente antico da essere pressoché inintelligibile oggi, a parte alcuni punti fermi che permettono, a un Giapponese ben istruito, di comprendere il senso generale. Questo è l’originale: 秋付者 尾花我上尓 置露乃 應消毛吾者 所念香聞 Souseki usa una ricostruzione principalmente fonetica di quello che doveva essere il suono dei caratteri, tratta da uno studio praticamente contemporaneo alla stesura del romanzo: あきづけば/をばなが上に/置く露の、/けぬべくもわは、 /おもほゆるかも Io ho preferito basarmi su uno studio più moderno, che mantiene i caratteri ideografici che non hanno cambiato significato né pronuncia, e aggiunge l’uso di alcuni ideogrammi che entrarono a far parte del Giapponse in un momento 234 successivo, e riassumono il suono espresso nella versione precedente. Questa è la traduzione letterale: 秋づけば aki-zukeba – quando arriverà l’autunno 尾花が上に wobana ga uhe ni – sugli steli d’erba8 置く露の oku tsuyu no – la rugiada posata 消ぬべくも吾は kenubeku mo waha – dovrà svanire, e [così io 思ほゆるかも omohoyuru kamo – penso dolorosamente Secondo le analisi filologiche più diffuse, l’io parlante nella poesia pensa a se stesso come a rugiada che dovrà svanire e se ne dispiace. Questa è probabilmente l’interpretazione che aveva più presente Souseki, essendo molto adatta a rappresentare le ultime parole di una donna che si suicida per amore. Si tratta anche dell’interpretazione molto autorevole presentata da Kouichi Satou nel suo “Introduzione al Man’youshuu” (Man’youshuu nyuukan, Bungeisha), secondo la quale il “kamo” finale sarebbe una particella esclamativa rafforzativa (una specie di “ahimè”). 3 Il testo originale dell’incipit del capitolo è 昨夕は妙な気持ち が し た – yuube wa myou na kimochi ga shita. L’espressione è estremamente semplice e colloquiale, ma renderla direttamente in Italiano è molto difficile. Letteralmente vuol dire: “L’altra sera mi ha fatto una emozione strana”. L’uso dell’idiomatico strutturale “x ga shita” (mi ha fatto... mi ha dato) richiede l’applicazione di un idiomatico strutturale che possa avere la stessa significanza per il 8 Wobana – si tratta di un tipo particolare di erba selvatica ad alto stelo, tipica del Giappone. 235 lettore italiano. Qualsiasi traduzione rispettosa sia del senso che della lettera della frase, come ad esempio “La sera scorsa mi ha dato strane emozioni”, perde il tono dell’originale, rendendolo troppo asettico. Soprattutto, si perde una certo coinvolgimento, calore, condivisione che l’autore vuole richiamare nel lettore. Ho preferito allora perdere la lettera di “emozione” (kimochi), per tradurre più l’atmosfera della frase che non la sua struttura. Ecco quindi che la scelta cade su: “Che strana, ieri sera”, una frase che mantiene il senso dell’originale e recupera il sottile invito alla partecipazione e alla condivisione, pur sacrificando la struttura e la lettera. Va inoltre detto che è importante il richiamo di poche righe dopo: “Quel che mi ha fatto strano...” che permette di riprendere un concetto di “stranezza” generale, dato dalla “sera” nel suo complesso, e che in questo rispetta lo stesso richiamo (e anche lo stesso tono colloquiale) presente nell’originale. Il termine “donnina” traduce gli ideogrammi 小 女 (ko-onna, piccola + donna). Questo termine veniva usato all’epoca di Souseki per indicare le inservienti, ma solo quelle effettivamente giovani. Si tratta quindi di una descrizione letterale (piccola donna) che diventa un idiomatico per “inserviente” in modo del tutto incidentale. Il significato che passa nella mente del lettore giapponese è “una piccola donna, quindi inserviente”. Questo uso può essere compreso “naturalmente” anche da un lettore Italiano, quindi ho preferito tradurre letteralmente il termine originale. L’inciso “e l’incertezza del mio cuore incerto si fa incerta” traduce in modo abbastanza letterale 心細さの細さが細る – kokorobososa no hososa ga hosoru – la sottigliezza del mio cuor sottile si assottiglia. “Cuore sottile” è un’idiomatico che significa ansioso, incerto (non nel senso di indeciso, ma nel senso di malfermo). Qui, forse, il concetto di “ansia” spiegherebbe meglio l’originale, ma si perderebbe il gioco di parole, e “incertezza” è comunque una traduzione abbastanza adeguata. 236 La frase “…e abitano nei tre angoli rimasti, possiamo anche chiamarli artisti” merita un piccolo approfondimento. Intanto, va detto che ci perdiamo l’accostamento del verbo “vivere” con il concetto di “casa” in 三角のうちに住むのを芸術家– sankaku no uchi ni sumu no wo geijutsu-ka – [quelli che] vivono in una casa triangolare [si chiamano] artisti. Ma il termine uchi ha una doppia funzione: come nome significa casa, ma come particella singifica “fra”, “all’interno”. In realtà, uchi ha il significato etimologico di “interno, intimo”, e assume quello di “casa” solo per estensione. Qui, piuttosto, il concetto di casa viene fatto... uscire dalla porta dando a uchi il compito di diventare particella/preposizione (fra i tre angoli), e rientra dalla… finestra… in geijutsuka – artista – che letteralmente vuol dire “di casa (di un casato) d’arte”. Si tratta di uno di quei trucchi che Souseki usa spesso per sorprendere il suo lettore. Volendo, si potrebbe anche tradurre sankaku no uchi ni sumu come “vivere in una casa triangolare”, ma l’assenza dell’ideogramma che significa esplicitamente casa, e l’uso delle lettere fonetiche al suo posto, l’uso della parola “tre angoli” (sankaku) al posto dell’aggettivo “triangolare” (sankaku-kei), oltre al significato di “stato in luogo” in detti “tre angoli”, ci fanno propendere per tradurre uchi con “fra”. Piuttosto, si recupera il senso subliminale di “casa” usando il verbo “abitare” al posto di “vivere” (che è comunque uno dei significati estesi di sumu). Nella stessa frase,と呼んでもよかろう– to yonde mo yokarou – ha un forte senso volitivo; il -rou finale corrisponde grosso modo all’inglese “let’s”. Il significato letterale è “facciamo[ci] andare anche bene il [fatto di] chiamarlo così”. Ho usato il termine “giramento di scatole” per tradurre l’espressione hara ga tatsu. Letteralmente, questa espressione significa “si alza (in piedi) la pancia”, e potrebbe essere tradotta in maniera meno letterale con il nostro “dare (o avere) il voltastomaco” – ma non è questo il senso. L’espressione non sottintende un senso di nausea, bensì l’idea di essere scocciati, seccati, di provare un’intrattenibile rabbia viscerale. Inoltre, ha un sapore popolare e sottilmente volgare che, in questo contesto, 237 “avere il voltastomaco” non rendeva. L’intenzione di Souseki era proprio quella di abbassare il registro in modo brusco, pur senza scendere direttamente nello scurrile. Nel testo originale, nella scena in cui il protagonista, uscito dalla vasca da bagno, si trova davanti la Signora, non c’è la parola “donna”. Il fatto che si tratti di una donna lo si capisce dal saluto e da come chiede “dormito bene?”: 御早う。昨夕はよく寝ら れましたか – Ohayou. Yuube wa yoku nemuraremashita ka. Il saluto informale ohayou, seguito dal verbo passivo e reso formale nemuraremashita, e anche il wa dietro alla parola di tempo yuube (ieri sera), marcano la frase come appartenente al registro semiformale detto chiwa, tipicamente di uso femminile. È un po’ come se uno scrittore italiano avesse descritto la stessa scena facendo dire alla Signora: “oh, scusa, sono stata indiscreta”. La parola “indiscreta” ci avrebbe fatto capire che chi parla è una donna, e lo scrittore non avrebbe avuto bisogno di ripeterlo successivamente. Non avendo nessun aggettivo o participio da rendere al femminile, ho dovuto ripiegare per cambiare il successivo hito (persona) in “donna”. La frase di commiato della Signora è 往いって御覧なさい。 いずれ後のちほど – Itte goran nasai. Izure nochihodo. Il verbo iku è normalmente scritto 行く; l’ideogramma 往 è molto insolito. Ricorda 住 – sumu – abitare, stare in un luogo, vivere. Quindi, Souseki ha voluto trasmettere un senso di movimento verso un luogo che sarebbe poi diventato un luogo di soggiorno. L’altra parte della frase, izure nochihodo, significa letteralmente “ad un certo punto, in seguito”. È una di quelle espressioni idiomatiche che sottintendono una parte della frase, lasciata non detta perché nota. In Italiano, sarebbe come dire “tanto va la gatta al lardo...”. Un esempio più comune di questo tipo di costruzione è il saluto o-saki ni… che letteralmente significa “prima di voi”, ma è idiomaticamente legato al concetto “esco dall’ufficio/finisco il 238 lavoro/torno a casa prima di voi”. Qui, nochihodo – “in seguito” è idiomaticamente legato a “vi spiegherò tutto”. Izure è semplicemente un rafforzativo. Quindi, la Signora intende dire che, quando l’ospite si sarà accomodato, si presenterà per “spiegare” qualcosa, probabilmente il prezzo della stanza e le regole dell’albergo. Ho tradotto con “mi farò viva” per mantenere il tono molto informale, e un certo senso di “spiegazione” (“farsi vivo”, in genere, significa dare notizie di sé); inoltre, ho raccolto parte del valore subliminale di 往 , che era nella frase precedente. Poesie nel capitolo Questa è la poesia in Cinese che apre le danze dei componimenti ermetici: 竹影 ombra di bambù 払階 spazza gradini 塵不動 polvere non muove Ecco la sciarada di haiku in versione originale con traduzione letterale: 海棠の kaidau no – delle aronie 露をふるふや tsuyu wo furufuya – la rugiada turbinante 物狂ひ monoguruhi – viene fatta impazzire 花の影、 hana no kage – ombra di fiore 女の影の onna no kage no – dell’ombra di donna 朧かな oboro ka na – è foschia! 239 Souseki critica questo haiku con l’espressione ki ga kasanatteru, ossia, “le stagioni si accumulano”; questo perché una delle regole degli haiku è quella di inserire uno e un solo kigo, ossia una parola di che ha a che vedere con “le stagioni” (in generale, con la natura). In effetti, sia hana (fiore) che oboro (foschia, vaghezza) sono classificate come “kigo di primavera”; ma in realtà l’espressione è una perifrasi per indicare che l’haiku è ridondante. Così come nella traduzione, anche nell’originale l’insistenza in 21-2 sillabe (ombra di fiore / ombra di donna, anche se onna ha una valenza metrica di 3, per o-n-na) e la ripetizione della parola “ombra” sono un poco fastidiose, e in questo passaggio l’autore vuole semplicemente sottolineare che il puntiglio sui dettagli tecnici che emerge comunque nella mente del protagonista è del tutto fuori luogo. 正一位、 shiyau ichiwi – nobile di massimo grado 女に化けて onna ni bakete – trasformata in donna 朧月 oborozuki – la luna velata dalla foschia Shiyau ichiwi, in Giapponese moderno Shou ichi-i, (letteralmente “primissimo grado”) è l’onorificenza maggiore concessa a un personaggio che si sia particolarmente distinto per il proprio servizio alla nazione o devozione all’Imperatore, anche se in alcuni casi è stato concesso per diritto “divino” anche prima della nascita. Il titolo viene anche riferito alle divinità maggiori Shinto, per distinguerle da quelle minori. 春の星 haru no hoshi – stelle di primavera を落して夜半の wo ochite yoha no – cadute, della notte [fonda かざしかな kazashi kana – decorano la volta! In Giapponese arcaico, la parola “kana” che chiude molti haiku indica stupore, stupefazione, ed ha un senso simile al kamo 240 esortativo usato nel tanka del Man’yoshuu visto alla fine del precedente capitolo, traducibile con “oh, quanto...”. 春の夜 haru no yoru – notte di primavera の雲に濡らすや no kumo ni nurasu ya – di cui in una [nube mi bagno, e 洗ひ髪 arahi kami – capelli lavati 春や今宵 haru ya koyohi – primavera e stanotte 歌つかまつる uta tsukamatsuru – assume canzone 御姿 go-sugata – una forma In questo haiku Souseki non rispetta la metrica 5-7-5, ma conta semplicemente 17 sillabe nel complesso. 海棠の kaidau no – delle aronie 精が出てくる sei ga detekuru – lo spirito se ne esce 月夜かな tsukiyo ka na – in questa notte di luna うた折々 uta ori-ori – una canzone, di tanto in [tanto 月下の春を gekka no haru wo – in questa primavera [sotto la luna をちこちす wochikochisu – viene cadendo Anche in questo caso, Souseki si libera della metrica 5-7-5 e opta per un 6-6-5. 241 思ひ切つて omohikitte – con tutta se stessa/col [massimo impegno 更け行く春の fukeyuku haru no – avanza lenta, della [primavera 独りかな hitori kana – una persona sola (!) 4 Mi sono preso la libertà di tradurre in modo non letterale la frase: “In questo viaggio inemotivo, è un solido luogo che pare sfidarmi”. L’originale è 非人情の旅にはもって来いという屈 強な場所だ, letteralmente “in un viaggio inemotivo, è un luogo resistente che mi dice: portamelo!”. Ho lasciato perdere il riferimento al discorso riportato perché, in questo caso, si tratta di una struttura sintattica di base; per quanto abbiano fama di preferire forme indirette, i Giapponesi esprimono attraverso attribuzioni dirette molti concetti che in Italiano vanno perifrasate. Ad esempio, sono comuni le espressioni che letteralmente suonano come “è una situazione che uno dice: scappiamo”, o “sembra una di quelle cose che gridi: Ahhhh!”. L’uso di queste locuzioni di attribuzione diretta è strutturale, tanto che alle volte riesce a suonare anche abbastanza formale, sebbene, in genere, marchi il passaggio a un registro basso. Per quanto riguarda la sfida, non è tanto nel verbo in sé, né nell’imperativo (motte koi = portamelo!), quanto nell’utilizzo di quei due verbi e di quella modalità verbale, che in un discorso diretto e in questo contesto implica più che un ordine, più che un invito perentorio, una vera e propria sfida a fare quanto richiesto. In questo caso, una sfida a essere inemotivi fino in fondo, a portare in questo luogo “resistente” la tanto sospirata inemotività. Da notare che l’espressione kakatte koi (costruita allo stesso modo) equivale esattamente al nostro “fatti sotto!” 242 La frase “Ché fra i cibi occidentali di cose con un bel colore non ce n’è manco una.” traduce un’originale non proprio dialettale, ma dal tono decisamente colloquiale, che quasi strizza l’occhio al lettore, e in tono vagamente esplicativo e famigliare gli “racconta” che, sapete, di cibi occidentali ne so qualcosa, e saranno quel che volete, ma di colori belli, manco l’ombra. Qui, il tono dell’autore si abbassa al livello minimo di familiarità appena al di sopra del dialettale; anche se “manco” è un termine vagamente dialettale in Italiano, penso che l’espressione possa tradurre correttamente il tono originale. Poi prosegue con “l’insalata e quel tubero rossiccio”, che nell’originale è あればサ ラ ド と 赤大根ぐ らいなもの だ . Mentre per l’insalata usa il termine tradotto direttamente dall’Inglese, “sarado”, per le carote finge di dimenticarsi il nome e usa il termine “aka-daikon”, un tubero rosso morfologicamente simile alla carota, sconosciuto in occidente ma comune in oriente. Tutto questo brano è in tono sensibilmente minimo, e invita il lettore al sorriso. Sa un po’ delle nostre barzellette sull’Italiano, il Francese e il Tedesco che fanno leva su luoghi comuni che non hanno molto di vero, ma non importa, tanto fan ridere lo stesso. Avesse voluto essere una cosa seria, Souseki avrebbe avuto a disposizione termini e locuzioni di gran lunga più sofisticati. Il soggetto della frase “al contrario della donna di stamane, ha una una posa estremamente tranquilla” era originariamente “la posa” e non “la donna”; ma esiste una parola in Giapponese che esprime l’insieme di persona e postura (kakkou) che non ha equivalente in Italiano, e usando “posa” come soggetto, nella frase si sottintenderebbe che la posa è diversa, ma la persona è la stessa. Souseki gioca nel contrasto fra le due donne, e per il momento non le chiama per nome; persino la loro acconciatura è la stessa, quindi è molto importante individuare senza ambiguità le due distinte persone. Nel paragrafo dopo il dialogo con la cameriera, ho usato “non ci sono palle” per tradurre un’espressione dialettale in registro 243 popolare talmente antica da essere scritta con un ideogramma non più supportato dai moderni computer, che ha più o meno il senso letterale di “le menzogne sono ben visibili” o “chi mente non non ha nascondigli”. In contrasto, l’espressione che ho usato è piuttosto moderna, ma il detto doveva essere ben comune all’epoca di Souseki (un po’ come le frasi in latino che usiamo ancora oggi), e mi permette di recuperare parte del gioco di significati originale. Infatti l’autore usa questo detto che ha a che fare col campo visivo mentre parla, in un altro senso, del campo visivo della cameriera, e del suo, e l’insistenza si avverte piuttosto forte. Così, fra pupille e occhi, ho pensato di inserire un richiamo idiomatico che abbia lo stesso senso dell’originale, ossia, che la verità è lampante, e che permette di recuperare l’insistenza, seppur focalizzata su un oggetto diverso. Nello stesso passaggio, il termine “arnese” traduce l’originale 道 具 – dougu – che significa esattamente “attrezzo, arnese, suppellettile”. L’uso di questa parola abbassa quindi ancora il registro della costruzione, che sebbene resti molto elegante nella grammatica e nel concetto, diventa piuttosto colloquiale nel tono generale. La frase “Anche se la relazione fra me e la chioma a ginkgo non ha nulla di amorevole...” presenta due interessanti aspetti del Giapponese parlato. Il primo è il ricorso abituale alla meronimia, ossia indicare un oggetto o una persona attraverso un particolare già citato; nel nostro caso è la cameriera, che diventa inesorabilmente “chioma a ginkgo”. Il secondo è quello dell’uso della metonimia, che indica un concetto “globale” attraverso una sua espressione “particolare”. Nell’originale, la “relazione amorevole” è parafrasata con l’espressione setsunai omoi, letteralmente, pensiero doloroso. In poesia (e spesso anche nelle canzoni moderne), l’amore non corrisposto è rappresentato con questa espressione; in questo modo, si indica con una parte (il pensiero doloroso) il tutto (l’amore non corrisposto). L’incrocio di meronimia e metonimia nella stessa frase, sebbene siano figure 244 retoriche comuni nel Giapponese colloquiale, è un piccolo capolavoro. Nella traduzione della frase che introduce la Signora, “In queste occasioni, mostrarsi timidi, o ritrosi, addirittura vergognosi, non sarebbe affatto strano”, ho dovuto necessariamente cassare un’altra parola dal valore ambivalente: keshiki. Normalmente questa parola significa “panorama” o “scenario”, o al limite “veduta”, ma in Giapponese assume anche un valore per estensione e astrazione che in Italiano non ha: indica anche un atteggiamento visibile, uno “spettacolo” dato da qualcuno, ma in senso positivo. Una situazione da vedere, in genere bella. La fusione del concetto fisico di “panorama” e di quello astratto di “situazione” è l’utilizzo che Souseki fa di keshiki, aggiungendolo agli aggettivi “timidi”, “ritrosi” e “vergognosi”. In pratica, significa vedere una persona che dà spettacolo con la sua timidezza, ritrosia e pudicizia, uno spettacolo piacevole da guardare. Il concetto è ben noto a tutti coloro che conoscono i manga e gli anime, con le ragazze inevitabilmente ritratte con le gote rosse, gli occhi tremolanti e le mani intrecciate mentre fanno la loro dichiarazione d’amore. Quello è il genere di “atteggiamento evidente” che ha in mente Souseki quando parla di keshiki. Purtroppo, nella traduzione ho dovuto rinunciare all’insistenza di keshiki, ripetuto tre volte accanto a ogni aggettivo, ma in Italiano non avrei potuto mantenere il ritmo, quindi ho preferito mantenere il significato usando la locuzione “mostrandosi...”. L’idiomatico che segue, “È il caso di dire che mi ha lasciato al palo”, traduce l’espressione sen ni kosareta, letteralmente “mi hanno superato nella fila”. Sarebbe equivalente al nostro “mi sono passati avanti”. In questo caso, il significato in Giapponese è chiaro: la Signora ha “scavalcato” il turno di essere timida, lasciandolo all’artista, e si è portata avanti, in un modo che agli occhi del protagonista, ha del “sopruso”. Tuttavia, applicare lo stesso idiomatico in Italiano, ossia “mi è passata avanti”, avrebbe avuto un risultato incomprensibile. Ho deciso di recuperare lo un 245 significato molto simile attraverso un’altra frase idiomatica, “lasciare al palo”, che in questo caso rende chiaro lo “scatto in avanti” della Signora. Per amor della completezza, anche l’altra metà della frase, “È il caso di dire...”, traduce un idiomatico che sta appunto a significare “siamo in quel tipo di situazione...” Quando Souseki insiste sui tre caratteri di “grazie”, lo fa scrivendoli al contrario. Il generico “grazie” giapponese, arigatou, si scrive normalmente in caratteri fonetici: あ り が と う . La grafia antica è: 有難う. Etimologicamente ha il senso letterale di “d’ora in poi, mi è difficile esistere”, sottintendendo “tanto è il debito di riconoscenza che ho con lei...”. Nell’originale, Souseki scrive invece 難 有 う , indicando la pronuncia a parte, per sottolineare che intende invertire i due ideogrammi di proposito. Probabilmente, l’autore usa questo espediente per attirare l’attenzione sulla grafia della parola, e sull’enfasi posta nel pronunciare ogni carattere. L’altalenarsi di registri formali e informali nel dialogo fra i due protagonisti è un altro piccolo gioiello di Souseki. In Giapponese, la distinzione fra vari registri (di base, se ne distinguono tre: il piano, il medio e l’onorifico) non è netta come nelle lingue neolatine. Se alcune parole, forme verbali e costruzioni appartengono prettamente a un determinato registro, il livello di formalità complessivo è però un continuum dato dalla miscela di parole e forme provenienti da registri differenti. Così, si può usare il verbo “essere” in registro “medio” (desu) senza necessariamente dare del “lei”, magari accompagnandolo a un pronome informale come kimi. Il Giapponese permette quindi spettacolari excursus su tutta la gamma della formalità all’interno di una frase o nelle diverse parti di un dialogo. La formalità del registro permette quindi di trasmettere informazioni metalinguistiche molto difficili da rendere in Italiano. Ho usato il passaggio dal tu al lei quando gli “scatti” erano più evidenti, pur conscio che, in Italiano, non solo non si conviene passare d’improvviso dal “lei” al “tu”, ma nemmeno passare dal “tu” al 246 “lei”. Il lettore è avvisato quindi del fatto che questi passaggi vogliono indicare un simile passaggio che nell’originale ha un significato ben preciso di “demarcazione” di parti del discorso più serie o più scherzose, più poetiche o più “calde”. La Signora usa normalmente un registro femminile chiamato chiwa; sebbene abbia tratti e parole prese dal registro formale medio, si tratta più di un modo di infiorettare e rendere civettuolo il discorso che non un livello di discussione formale. In fatto di termini e strutture utilizzate, sta da qualche parte a metà strada fra il “piano” e il “medio”, ma l’impressione che ne ha l’ascoltatore Giapponese è quello di essere trattato certamente con rispetto, ma anche con calore e partecipazione. Più con calore e partecipazione che non con rispetto. Per questo ho scelto di tradurre le frasi del dialogo in chiwa usando il “tu”, anche se questo mi priva della possibilità di demarcare con chiarezza i passaggi dal chiwa al registro propriamente piano; per quelli ho fatto ricorso alle note. Sarà così anche nel resto della traduzione. Poesie nel capitolo La poesia di Wang Wei citata da Souseki in questo capitolo si intitola “Il recinto dei cervi”. Segue la versione integrale in Cinese: 鹿柴 Il recinto dei cervi 空山不見人 (sul) vuoto monte, non vedo persone 但聞人語響 ma odo parole di persone risuonare 返景入深林 Il sole al tramonto passa nel folto del [bosco 復照青苔上 facendo risplendere il muschio. Seguono nell’ordine gli Haiku con la traduzione letterale così come cambiati: 247 海棠の kaidau no – delle aronie 露をふるふや tsuyu wo furufuya – la rugiada fa [turbinanre 朝鳥 asagarasu – un corvo mattutino – 花の影、 hana no kage – ombra di fiore 女の影を onna no kage no – all’ombra di donna 重ねけり kasanekeri – si va assommando [vicendevolmente – 御曹子 onzoushi – figlia di un nobile casato 女に化けて onna ni bakete – trasformata in donna 朧月 oborozuki – la luna velata dalla foschia Si noti che Onzoushi conta cinque sillabe in Giapponese (o-nzo-u-shi). 5 Le battute del coprotagonista di questo capitolo, il barbiere ubriaco, sono scritte in stretto dialetto di Tokyo. Souseki è attentissimo a non lasciarsi sfuggire nemmeno un possibile termine dialettale; alcuni di questi termini sono talmente “freschi”, all’epoca della stesura che passeranno presto di moda, tanto che oggi è difficile ricostruirne il senso. Uno di questi termini di gran moda all’epoca ma oggi dimenticato è レコ- reko, inversione volontaria delle sillabe di kore (questo). Veniva usato 248 come pronome personale in terza persona con senso spesso dispregiativo, e per estensione, indicava gli amanti, soprattutto a quelli non ufficiali o che avrebbero voluto diventare tali, ma con scarso successo (noi diremmo “il suo lui”). Ho scelto di usare il Romanesco per tradurre le sue battute per tre motivi: primo, Tokyo è la capitale del Giappone così come Roma è la capitale d’Italia; il suo dialetto è riconosciuto ovunque ed è ben caratterizzato. Secondo, il dialetto di Tokyo condivide con il Romanesco la caratteristica di essere fondamentalmente strutturato come la lingua di riferimento, ma di essere usato principalmente per semplificare la pronuncia dei termini e renderli più “amichevoli”; in entrambi i dialetti, sia l’introduzione di termini specifici che la variazione di strutture grammaticali giocano ruoli minori. Terzo, l’effetto complessivo di entrambi i dialetti è quello dare al parlante un’aria bonaria e amichevole, che gli consente di trattare con meno rispetto del dovuto un terzo estraneo, compensando la mancanza di formalità con simpatia e condivisione. Invece, le battute del giovane bonzo a fine capitolo sono scritte nell’originale usando il dialetto del Kansai, la regione di Kyoto e di Osaka. Qui è più difficile capire la provenienza esatta dal mero scritto, anche perché pur essendo il discorso evidentemente connotato come dialettale, l’effetto non è radicale come nelle battute del barbiere. Si ha più l’impressione di un ragazzo di Kyoto che si sforza di parlare il Giapponese medio, mentre nel caso del barbiere si ha l’impressione di un personaggio che voglia ostentare a tutti i costi il proprio dialetto, al punto di rifiutarsi di usare forme non dialettali. Ho scelto il Toscano per rendere le battute del bonzo per analogie non dissimili dal caso del barbiere. Innanzi tutto, il Toscano rimanda inevitabilmente alla culla della cultura moderna italiana, così come il dialetto del Kansai ha molto a che vedere con la fondazione della cultura Giapponese. Così come la Divina Commedia è considerata la base della letteratura italiana, il Genji Monogatari, scritto nell’undicesimo secolo alla corte di Kyoto è considerato la base della letteratura 249 Giapponese. Inoltre, il dialetto del Kansai è associato a un’idea di simpatia e giocosità che ha dei tratti simili al Toscano nell’immaginario collettivo italiano. A dire il vero, nel dialetto del Kansai, questa caratteristica è meno marcata, mentre vi è una certa associazione alla figura di abili commercianti e/o uomini d’affari che noi identificheremmo col dialetto milanese, o forse genovese. Tuttavia, essendo il personaggio evidentemente in vena di scherzare, ho pensato che il Toscano fosse adatto a rendere quella sfumatura di simpatia e celio naturale che l’autore aveva reso tramite alcuni termini specifici del dialetto del Kansai. Venendo al brano, il barbiere chiama il protagonista con il generico appellativo di danna, letteralmente “riverito signore”, ma già all’epoca “declassato” ad appellativo da rivolgere a generici sconosciuti senza particolare segno di distinzione; in questo assomiglia molto al dotto’ usato nella traduzione. In seguito, nel testo originale il termine danna viene usato nuovamente (e già lo si è incontrato in precedenza), ma si adottano altre traduzioni a seconda del contesto e del registro nel quale è usato. Nel passaggio “E poi, questo barbiere non è un chiunque qualsiasi”, ho interpretato liberamente l’originale その上この親方がただの 親方ではない – sono ue kono oyakata ga tada no oyakata de wa nai – e poi, questo padrone non è un semplice padrone. Questo perché il brano precedente, “...chiunque, se dovesse svolgere la propria attività quotidiana al cospetto di tale villano, finirebbe col risentirne”, nell’originale si riferisce evidentemente al padrone, persona “costretta a svolgere la propria attività quotidiana” davanti allo specchio. Il transfert delle caratteristiche dello specchio imbruttente all’uomo che ne subisce gli influssi maligni, che l’autore rende evidente pur in modo sottile, perde di forza nella traduzione e rischia di svanire. L’attacco in Giapponese, “sono ue”, (in più), suggerisce al lettore che si fosse distratto che già da un po’ si sta parlando del barbiere, e non più dello specchio in sé, ma è un’espressione che non mantiene gli stessi tratti metalinguistici se tradotta in Italiano. Lo stratagemma nella 250 traduzione (“non è un chiunque qualsiasi”) consente di recuperare il richiamo, assieme all’ironia dell’originale, e recupera anche l’insistenza della ripetizione nella frase (padrone-padrone), pur in modo differente. Poco più avanti, non ho saputo resistere alla tentazione di lasciare non tradotta l’onomatopea pura “gori gori”, che sta a rappresentare il suono di stille di ghiaccio frantumate sotto i piedi. L’espressione usata poco prima, “Quando la sua baionetta aveva aperto le danze...” traduce un idiomatico dal significato simile (letteralmente, spalancare il tempo) usato nell’originale. A causa del fatto che nella cultura italiana manca il concetto della di 本 家 – honke (casa d’origine), che è molto comune in Giappone, ho dovuto cambiare il senso letterale del seguente scambio di battute: «E sarà sì! Che cor fratello maggiore son come cane e gatto.» «Ha pure un fratello?» «Eh sì; sta nella villa sulla collina. Vacce a’ ffa du’ passi, che c’è ’na bella vista.» In realtà, l’originale è il seguente: 「当り前でさあ。本家の兄(あにき)たあ、仲がわる しさ」 「本家があるのかい」 「本家は岡の上にありまさあ。遊びに行って御覧なさ い。景色のいい所ですよ」 Letteralmente, la traduzione suona come: «Ma è ovvio (dialettale). Col fratello maggiore della casa originale, i rapporti sono cattivi, pure (dialettale)» «C’è anche una casa originale?» 251 «La casa originale è sulla collina. Vai a vedere (imperativo + rispetto) divertendoti a camminare. È pure un posto con un bel panorama.» Purtroppo, nel veloce scambio di battute non è possibile recuperare sia il valore letterale che quello metalinguistico del concetto di 本 家 – honke, “casa principale/originale”. Si tratta dell’abitazione che viene identificata con l’idea stessa di clan familiare. È la casa che costituisce il luogo fisico del “casato”, punto di origine della nobiltà della famiglia, punto di riferimento delle generazioni passate e future. Nel brevissimo scambio di battute passano tre concetti chiari a un Giapponese, ma impossibili da tradurre nel ritmo dello scritto. Primo, che gli Shihoda sono un nobile casato, degno di avere una “honke”, quindi costituiscono un vero e proprio clan familiare. Secondo, che la stazione termale, seppur imponente, non è che una abitazione secondaria, e un luogo di lavoro. La famiglia risiede propriamente in un altro luogo, che deve essere ancora più ricco e maestoso. Terzo, che la casa principale, e quindi la reggenza del casato, andrà al fratello maggiore della Signora, e che quindi essa non è destinata a gestire le sorti, e le fortune, della famiglia. Oltre a questo, riceviamo una quarta informazione, in questo caso esplicita, che ci dice che il futuro reggente del casato e la protagonista femminile non sono in buoni rapporti. Tornando al problema della traduzione di questo passaggio, la potenza del concetto di honke e dei vari valori metalinguistici associati non poteva essere tradotta nel veloce scambio di battute senza perdere il ritmo della narrazione. Si sarebbe potuto cercare di arrotondare il passaggio con termini mediati, come ad esempio “casato”, ma l’autore usa il valore letterale di honke anche come luogo fisico. Anche l’uso delle note, da solo, non era adeguato, perché i termini su cui si sarebbero potuti appoggiare le note (ad 252 esempio, “casa originale” o “villa”) sarebbero stati estranei al flusso del discorso, e le note non avrebbero comunque potuto rendere più sensibile l’uso di termini che al lettore italiano sarebbero sembrati fuori contesto. Considerati questi fattori, ho deciso di ridurre il contenuto informativo del passaggio al solo valore esplicito nel passaggio originale: la protagonista ha un fratello, e i due non sono in buoni rapporti. Inoltre, tramite il contesto, si riesce a recuperare la parte rilevante del contenuto implicito: sarà il fratello a ereditare tutto, e allora, per la protagonista, saranno guai. Pur avendo sacrificato la lettera e parte del valore metalinguistico, penso che ricorrendo al trucco di indicare il fratello maggiore al posto dell’honke, il passaggio abbia comunque mantenuto il significato esplicito e implicito originale. Approfitto della descrizione di questo passaggio per indicare che l’espressione “come cane e gatto” traduce in modo non letterale un idiomatico, declinato con sapore fortemente dialettale: 仲がわるしさ – naka ga waru shi sa, letteralmente “sai, e poi, fra di loro va male”. Il passaggio successivo, “Il padrone, senza tanti complimenti, allineò le sue dieci unghie ricolme di lordume sulla mia scatola cranica...”, cambia improvvisamente registro linguistico. La composizione della frase è incidentale, con due avverbi di modo piazzati nel bel mezzo del discorso; in Giapponese, le frasi incidentali sono rare, e due in un discorso sono quasi introvabili. In più, il passaggio è ricco di nomi appartenenti al registro alto, inconsueti nel linguaggio comune. Il tutto dà una sensazione di stranezza, di “sdegno” che, apposto al fraseggio dialettale appena conclusosi, suona molto ironico. Nel passaggio “Quel che va a formare quella collinetta di gusci di conchiglia, chissà se sono ostriche, vongole, o cozzaloni”, l’uso del termine dialettale “cozzaloni” al posto di “cozze” traduce un gioco di parole dal significato pressoché identico. Nell’originale, si parla di 253 ostriche, vongole e cozze, ma al posto della parola 馬 鹿 貝 – bakakai – vongola – è usato il termine 馬鹿 – baka – idiota. In Italiano, il termine cozza ha assunto il significato di persona di brutto aspetto, e “cozzalone” è una trasformazione del termine facilmente riconoscibile; l’aspetto sgraziato delle cozze ha causato l’applicazione secondaria del loro nome a questa caratteristica umana. In questo caso, nel Giapponese accade il contrario: estendendo il termine baka, lo si è applicato ai frutti di mare che corrispondono alle nostre vongole, che ai Giapponesi dovevano sembrare particolarmente sgraziate o prive di qualità interessanti. a ogni modo, il risultato che si ottiene con i due giochi di parole è lo stesso: con questo trucco, l’autore ci dice sottilmente che sta per compiere un’analogia fra gli uomini e le conchiglie; quelli che sono preziosi (ostriche da perla), quelli che non valgono nulla (baka) e quelli così così. L’analogia delle conchiglie termina con l’espressione 柳の下へ た ま る – yanagi no shita e tamaru, che ho tradotto con “s’affrettano là sotto i salici”. Innanzi tutto, va ricordato (come scritto in nota) che “sotto ai salici” indica idiomaticamente una posizione fortunata. Fra i vari significati del verbo tamaru, in questo contesto il senso più adeguato sarebbe “accumularsi”; ma qui Souseki, sempre generoso nell’uso dei kanji, lascia la parola in hiragana, cosa che ne nasconde il significato esplicito. Fra gli altri sensi del verbo “tamaru” troviamo “scaldarsi”, o “rinnovarsi”, e ancora “sopportare”. Allora, vista l’analogia fra il destino di queste conchiglie e quello degli uomini, ritengo che qui l’autore desiderasse estendere il significato di tamaru al di là del semplice “riunirsi, ammucchiarsi”, e che in questa posizione, in questo contesto e privato del kanji di riferimento, il senso da intendersi sia quello di esistenze che si spingono l’un l’altra alla ricerca di un posto difficile da trovare, un posto che, essendo stretto, le costringe ad ammucchiarsi. Penso che la figura retorica più adatta a rendere questo senso in italiano sia l’estensione del verbo 254 “affrettarsi” riferito all’esistenza umana. Un’ultima nota: ho inserito “là” per dare il senso di movimento e direzione che è qui espresso in Giapponese dalla particella へ – he (verso, in direzione di...). Verso la fine del monologo sul barbiere, la locuzione usata “magari la loro azione rientra nell’alveo della forza maggiore”. è leggermente riadattata. L’originale è かえって大勢力の一部と な っ て 活 動 す る に 至 る か も 知 れ ぬ , letteralmente: “anzi, possono arrivare ad agire come una parte della forza (più) grande”. Tuttavia, l’uso di 大 – dai – grande, davanti a 勢力 – seiryoku – forza, si configura come un “cinesismo”; qui, dai assume un senso più proprio di aggettivo che ha perso in Giapponese9, ma mantiene in Cinese. L’uso di questo aggettivo in senso comparativo ha l’effetto di dare una nuova vita alla parola seiryoku. Ho pensato di rendere questo effetto in Italiano usando la locuzione “forza maggiore”, dove maggiore, normalmente un aggettivo comparativo, entra a far parte del lemma creando un nuovo sostantivo; esattamente lo stesso effetto ottenuto da Souseki attraverso questo sapiente trucco. L’unica differenza è 9 L’ideogramma 大 – dai/tai è molto comune in Giapponese e viene usato anche per formare l’aggettivo 大 き い – ookii (grande); ma il suo uso diretto nei sostantivi, sebbene intenda comunque un senso di grandezza, si lega ad altri ideogrammi formando dei lemmi atomici, dove il senso originario si perde nell’insieme. ad esempio: 大 学 – daigaku (università), 大 使 館 – taishikan (ambasciata), 大人 – otona (adulto), 大当たり – ooatari (bel colpo!) ecc. Trovarlo direttamente apposto a un lemma già completo, in veste di aggettivo e con una sfumatura di comparativo è alieno al Giapponese, ma tipico della lingua cinese. A proposito di otona, si noti l’ateji (cambio di pronuncia) nella frase successiva del testo originale: qui, per la parola 大人 viene esplicitamente indicata la pronuncia taijin, che ci impone di considerare 大 ancora come aggettivo e quindi come cinesismo; questo termine arriva però dal Giapponese classico (e a sua volta dal Cinese) e indica quello che noi definiremmo un “grand’uomo”. 255 che in Italiano forza maggiore è un termine ben noto, e con un contenuto semantico ben definito, mentre il termine usato da Souseki è praticamente un neologismo, ma anche se il lettore giapponese deve lavorare un po’ di più con la fantasia, il senso a cui si arriva è lo stesso. Per quel che riguarda la parola “alveo”, ho scelto di usarla al posto di “attività” sia per alzare il registro del passaggio verso il poetico, sia perché gli ideogrammi coinvolti nel passaggio hanno un senso secondario e subliminale di “flusso”. In particolare, 活 動 – katsudou – attività, è composto dagli ideogrammi 活 (vitalità) e 動 (movimento), e il primo ideogramma, 活 , è composto da una parte sinistra che rappresenta l’acqua, e da una destra che anticamente aveva il senso di lingua nell’atto di emettere suoni (parlare). Usando “alveo”, ho raccolto il senso “fluido” associato al concetto di attività nella parola giapponese, che raccoglie un senso direzionale latente, di forza non statica, ma in movimento in 勢力 seiryoku, presentado al lettore italiano un concetto che richiama il fluire della forza rievocato dall’originale. Il culmine delle riflessioni dell’autore sul padrone si raggiunge con la frase: “Io, inconsapevole, a un lieve umore più prossimo a questo cielo, con leggiadro celio m’avvicinai”. Qui, l’originale si tinge di poesia, e Souseki ricorre ad artifici stilistici come ripetizioni, assonanze e ritmo tipico delle liriche orientali, e ci aggiunge anche un po’ di allitterazioni in stile occidentale. Il gioco “cielo – celio” è nell’originale “弥生半 - 弥次” yayoi naka (primavera) – yaji (burla, celio), due termini troppo inconsueti per passare inosservati. In “...buffo buffone...” diventa ancora più esplicito, con l’originale 安 価 な る 気 炎 家 anka naru kienka, letteralmente “buffone da quattro soldi”. Qui, Souseki usa, al posto di 炎 – en, un ideogramma molto raro, oggi non più utilizzato, probabilmente per essere certo di attirare l’attenzione del lettore sull’assonanza. 256 La frase successiva, “piantai lì il culo a cazzeggiare del più e del meno”, merita una spiegazione approfondita. Innanzitutto, “piantare il culo” è letteralmente nell’originale ( 尻 を 据 え て shiri wo suete – piazzare il sedere). Ho tradotto il termine 四方八 方 の話 – yomoyama no hanashi – chiacchiere senza scopo – con “cazzeggiare” per il tono generale della frase (ci torno dopo), ma anche e soprattutto per la struttura di questo idiomatico. Si tratta infatti di uno dei numerosi “idiomatici ricorsivi” giapponesi, ossia, strutture già usate come idiomatiche che vengono sfruttate per creare nuovi idiomatici del tutto differenti dagli originali. Il termine 四 方 八 方 è un tipico idiomatico di origine cinese, letteralmente quattro-direzioni-otto-direzioni, e significa in ogni direzione, in senso letterale; molto simile al nostro “da tutte le parti”. Il Cinese fa un uso quasi strutturale di questi idiomatici; ad esempio, il termine corrispondente al nostro “cosa” (generico oggetto) è 東西 – dongxi – letteralmente est-ovest. La parola 四 方 八 方 sihou-bahou (quattro direzioni – otto direzioni) è stata importata in Giapponese con la pronuncia shihō-happō, e con lo stesso significato (da tutte le parti, ovunque). Col tempo, si è stratifica un’altra pronuncia, che usa gli antichi numerali giapponesi, e sostituisce la parola hou (direzione) con mo (e poi, inotlre): yomo-yamo, che suona un po’ come “quattro e quattr’otto”, ma assume il senso di “molte cose, ogni cosa, variegato”. Infatti, il numero “otto” (ya) veniva usato anticamente in Giappone per intendere “tanti”, al punto che ancora oggi i negozi che vendono articoli vari, le nostre mesticherie, prendono il nome di 八百屋 – yaoya – negozio di 800 (cose). E’ per questo che il senso originale cinese, limitato alle direzioni geografiche, si è ampliato fino ad includere anche generiche “cose”. Si è poi aggiunta un’altra struttura idiomatica, grazie alla sostituzione dell’ultimo mo con ma, all’inizio forse per mera assonanza: yomoyama. La parola yama indica quasi inequivocabilmente il termine 257 “monte”, e viene usata in Giapponese come in Italiano anche per indicare, idiomaticamente, una quantità spropositata, eccessiva; ad esempio 悪者は山ほどある – warumono wa yama-hodo aru – di gente cattiva ce n’è un monte. Con yama al posto di yamo, il termine ha assunto un senso di qualcosa di eccessivamente variegato, e per questo privo di scopo o di effetto pratico, inconcludente. L’uso si è talmente cristallizzato da avere una trascrizione ideografica propria: 四 方 山 , mantenendo l’ideogramma 方 – hou (direzione), pur perdendo la sua pronuncia, ora sostituita da mo, ma cambiando gli ultimi due ideogrammi (happou, otto direzioni) in yama (monte). Souseki trascrive il termine cinese con i quattro ideogrammi originali, ma indica la lettura esplicita della versione a tre ideogrammi yomoyama. Non mi dilungherò nell’analisi dell’etimologia della parola “cazzeggio”, ma è evidente che, seppure colorita da una sfumatura volgare che non esiste nell’originale, sia il carattere stratificato del valore idiomatico che il senso letterale del termine originale sono mantenuti bene da questa parola come nessun’altra avrebbe potuto fare. Inoltre, da un lato è l’autore stesso ad aver abbassato il tono repentinamente (“cazzeggio” aggiunge ben poco a “piantare il culo” in termini di registro volgare); dall’altro, la parola è ormai sdoganata in Italiano e ha perso la maggior parte del suo connotato scurrile. Sul tono generale della frase, aggiungo solo che è fin dalle prime lettere che Souseki ci fa capire che il tono sta per cambiare. Il Giapponese è pieno di forme che consentono di introdurre elementi del discorso che seguiranno, sia in modo diretto che tramite artefatti metalinguistici (come analizza bene Jay Rubin in “Making Sense of Japanese”, in un paragrafo dal titolo autoesplicativo, “Warning: this language works backwards”, in riferimento ai “warning” di cui il discorso giapponese è ricco). La frase parte secca con こう考えると – kou kangaeru to... – e così pensando – una tipica forma interloquitale che grida al lettore: “adesso arriva 258 la battuta, preparati”. Ci sono altre tre pause come questa, che nelle conversazioni vive sono riempite dai commenti degli ascoltatori, e che formano un dialogo dinamico col lettore e caricano il discorso di un senso di attesa e di anticipazione che culmina nell’ultima parte della frase, “piantai lì il culo a cazzeggiare del più e del meno”. E’ ovvio che si vuole ottenere un effetto esplosivo, e tutto questo mi porta a pensare che se Souseki avesse avuto a disposizione un termine idiomatico come quello italiano, lo avrebbe usato molto volentieri. Ho dovuto ricorrere a uno stratagemma per rendere le ultime due frasi del dialogo fra il bonzo e il barbiere. Dovendo tradurre un termine offensivo usato solo nei testi religiosi buddisti, ho usato un’offesa in latino abbastanza comprensibile per il lettore italiano; per poi rendere meglio l’espressione di sorpresa del barbiere ho usato la ripetizione parziale della parola di difficile comprensione, modalità di risposta comune in Italiano ma assente nell’originale e in Giapponese in generale. Qui il dialogo originale: 「 咄 こ の 乾 尿 蕨 」 (Tokko no kanshiketsu – Pezzo di merda secca!) 「何だと?」(Nan da to? – Che dici?) Fra l’altro, il termine kanshiketsu – escremento secco – è scritto nell’originale con una variante differente e poco nota (l’ultimo ideogramma ha il tratto orizzontale e le due stanghette superiori scritte di fianco a sinistra, in verticale), tanto che non è riproducibile sui moderni computer. Questo termine è comunemente usato nei testi buddisti giapponesi per indicare una condizione impura, anche in senso astratto, come ad esempio una risposta affrettata e priva di valore a una domanda sulla natura del Budda. E’ un termine che un popolano non preparato non avrebbe nemmeno potuto decifrare. Ovviamente il bonzo lo rivolge al barbiere come ulteriore scherno, in aggiunta al valore semantico dell’offesa. La risposta del barbiere certifica il fatto che 259 non ha compreso l’offesa, sebbene il tono secco e perentorio di “nan da to” lasci intendere che aveva intuito che non si trattava di una forma di saluto benaugurate. 6 Il paragrafo introduttivo del sesto capitolo è stilisticamente il brano più interessante e strutturalmente complesso dell’opera, fino a ora. In tutti i passaggi introspettivi, (gran parte del primo e del terzo capitolo, oltre alla parte centrale del quinto) Souseki, maestro dell’anacoluto e della dialisi (spesso usate inseme in singoli periodi, in vari intrecci e combinazioni), ama evocare scenari complessi, spiazzando il lettore con frasi incidentali, spesso cambiando soggetti e argomenti in modo improvviso, per riprendere il tema principale in seguito, o introducendo un tema che poi si scopre essere solo una premessa al vero tema del discorso; ma qui va oltre, e si spinge su un terreno che padroneggia con eleganza e maestria, nonostante sembri essere raro fino a ora: l’enàllage, ossia l’utilizzo creativo e innovativo di forme sintattiche inusuali, allo scopo di dare maggior risalto agli elementi variati. Ad esempio, in questa frase: E chissà, forse in moscini, che alla fine del duro lavoro di rendere ancor più lunghi i lunghi giorni, ancora anelanti la dolce rugiada che sui pistilli s’addensa, sotto le camelie distesi, quel mondo, fragrantemente, dormono. Souseki usa “dormire” in senso transitivo (quel mondo … dormono); inoltre l’avverbio “fragrantemente” è applicato in modo non ambiguo a “dormono”. In Giapponese, come in Italiano, dormire è principalmente intransitivo, e “fragrante” è utilizzato esclusivamente come aggettivo, ma la lingua giapponese consente di marcare ogni elemento del discorso con degli indicatori che rendono esplicita la sua funzione nella frase; in questo modo, l’ambiguità e la difficoltà nel comprendere questi costrutti insoliti sono notevolmente ridotte. Questo è il periodo originale: 260 または永き日を、かつ永くする虻のつとめを果した る後、蕋に凝る甘き露を吸い損ねて、落椿の下に、伏せ られながら、世を香ばしく眠っているかも知れぬ La parte che ho evidenziato corrisponde all’ultima frase 世を香 ばしく眠っているかも知れぬ. La particella を riferita a “世” indica senza ombra di dubbio che il mondo è oggetto diretto del dormire, e 香ばしく眠っている ci dice che “fragrantemente” è un avverbio di modo che insiste su “dormire”. Approfitto del fatto che ho preso questa frase come esempio per porre l’attenzione sulla scelta di tradurre 虻 – abu – tafano, con “moscini” per motivi di tono, assonanza e anche vagamente semantici. In realtà abu viene fatto corrispondere a tutta una serie di insetti fastidiosi, da una specie di grosse zanzare, alle mosche cavalline, fino ai tafani; usare il termine “centrale” sarebbe stato impreciso anche perché non tutti i tipi di abu sono emofagi (e quelli che ha in mente l’autore si nutrono di nettare). Inoltre, il termine non assume lo stesso tono popolano e dispregiativo che ha in Italiano; era quindi opportuno usare un termine che, pur indicando un esplicito senso di fastidio, non variasse il tono poetico della frase, dal momento che questo periodo esprime l’apex della poeticità del passaggio. Moscerini o moscini erano buone scelte; delle due parole ho preferito la seconda perché abu è un termine che potremmo definire “contratto”, dal momento che le forme composte come hanaabu o ushiabu sono più comuni. Una frase poco più avanti pone un serio problema di traduzione: Vivendo in un universo multipolare, la nostra natura, che ci obbliga a scommettere sui nostri successi, è nemica del vero amore. L’originale è il seguente: 東西のある乾坤に住んで、利害の 綱を渡らねばならぬ身には、事実の恋は讎である e si 261 appoggia all’espressione idiomatica 綱を渡る – nawa o wataru – attraversare la corda, che in realtà si riferisce all’azione di prendere un traghetto a corda per passare un guado, ed ha il significato di “prendere un rischio”, o “correre dei rischi”. L’espressione è riferita a 利害 – rigai – interesse (personale), che abbiamo già incontrato spesso, ed è un concetto piuttosto centrale nell’opera, abbastanza da meritare una traduzione diretta; tuttavia, la traduzione diretta è problematica, dal momento che suona come “correre dei rischi per il proprio interesse”. Sebbene la struttura semantica e sintattica nell’originale giapponese renda chiaro che si intende “correre dei rischi al fine di soddisfare i propri interessi, così da volgere il bilancio profitti-perdite a proprio vantaggio”, una traduzione letterale che mantenga al tempo stesso il significato originale e il termine “interesse” (possibilmente associato all’aggettivo “personale”) sarebbe risultata pesante, poco elegante e fuori contesto. La soluzione adottata, “che ci obbliga a scommettere sui nostri successi” consente di mantenere il ritmo e il senso reale dell’originale, sacrificando il termine letterale “interesse”. Sebbene perdiamo un riferimento topico a un termine importante nelle tematiche dell’opera, la traduzione così posta rende più evidente un riferimento autobiografico che è sicuramente nelle intenzioni dell’autore e che sarebbe potuto passare inosservato se si fosse usato il termine, meno denso di carica emotiva, “interesse”. Si tratta infatti di un commento che può essere riferito alla vita dell’autore, e al suo rapporto con sua moglie Kyouko. Il termine “valle di lacrime”, traduce 火宅 – kataku – casa in fiamme, una metafora buddista che ha lo stesso senso e la stessa valenza religiosa della traduzione che ho usato. Uno dei termini chiave del capitolo è 同化する – douka suru – assimilare, quando transitivo, e adeguarsi, quando usato in modo riflessivo. Il senso è difficile da rendere nelle lingue occidentali; 262 letteralmente, il verbo è formato dagli ideogrammi 同 (identico, stesso, manifestazione multipla di un unità), e 化 (trasformazione, cambiamento). La combinazione degli ideogrammi suggerirebbero un’idea di trasformare qualcosa fino a renderlo identico a qualcos’altro. Per via di un velato senso “riflessivo” nell’ideogramma 同 , usato in cinese per la comunissima espressione 同 意 – tong-yi – essere d’accordo, il senso più comunemente utilizzato è quello di “assimilazione”, di trasformazione attiva che si compie su qualcosa per renderlo in qualche modo più compatibile parlante. In particolare, lo si usa in ambito culturale, quando si descrive la situazione in cui una cultura dominante assorbe una meno forte. Per questo motivo, il termine ha oggi un velato senso negativo; all’epoca di Souseki, questo comportamento doveva essere molto meno stigmatizzato e molto meno caratterizzato dal punto di vista sociopolitico; ciò nonostante, non riesco a non pensare che nel passaggio: Nell’ordinario adeguarsi vi è un che di compulsivo. È anche per questa compulsione che è piacevole. che costituisce quasi un inciso nel paragrafo, vi sia nascosta una critica sussurrata nei confronti dei metodi della restaurazione Meiji e del nascente imperialismo giapponese, che opprimeva anche gli artisti imponendo loro un appiattimento sulle posizioni marziali del regime militare. L’espressione topica “Solo i poeti e coloro che sanno diventare artisti, mordendo questo mondo intricato all’estremo, conoscono la purezza intima” fa leva su un idiomatico particolarmente ricco: 徹骨徹髄の清 きを知る – tekkotsu tettsui no aoki wo shiru – conoscere l’azzurro delle ossa e del midollo esposti. Certamente, ossa e midollo non sono azzurri, al limite bianchi e grigi, ma “azzurro” ha in giapponese il senso di puro, o giovane, a seconda del contesto. L’uso dell’aggettivo “azzurro” rende esplicito il fatto che l’immagine piuttosto cruenta di ossa e midolli esposti non è 263 letterale, bensì completamente figurata. La resa in Italiano sarebbe stata piuttosto ardua, così ho optato per un “intimo”, che riassume il senso che l’idiomatico originale vuol dare: qualcosa di usualmente ben nascosto e allo stesso tempo fondamentale, portato alla luce senza essere vittima di pudore. Nel passaggio “e inoltre posso anche liberarmi dei miseri limiti del cuore che, normalmente, si cura del possibile e dell’impossibile”, i concetti di possibile e impossibile sono espressi usando i termini cinesi 可 – ke – e 不可 – buke. Alla fine dello stesso passaggio, il verbo “descrivono” è espresso usando un verbo giapponese: 言い了せる – iiooseru – letteralmente “dire con cetrezza, affermare”. Ma l’ideogramma usato per ooseru (affermare) è l’ideogramma che ha in cinese il valore di particella perfettiva: 了 – le. La lettura che Souseki impone è un ateji, ossia un cambio volontario ed esplicito di lettura. In altre parole, Souseki usa il concetto di “azione perfetta, completa” che questa particella esprime in Cinese, assegnandone il valore a un verbo ausiliario giapponese, che dovrebbe avere un significato simile, per enfatizzarne la forza e “sigillare” il concetto di 言い – ii – dire. In questo modo il verbo diventa qualcosa di simile a “dire perfettamente, dire e affermare una volta per tutte”. È interessante notare che in questi paragrafi, dopo “È anche perché ci rendiamo conto...”, e in particolare in “Chissà come dev’essere provare a disegnare questo confine...”, l’autore indulge molto nell’uso delle desinenze verbali classiche, usate all’inizio del periodo Meiji, nell’ultima parte dell’800. Souseki aveva usato lo stile Meiji per i suoi scritti giovanili e lo usava regolarmente nella corrispondenza privata e nei suoi saggi, ma per i suoi romanzi più famosi (Anima, Il Cancello, Io sono un gatto, ecc.) usa una lingua più moderna ed essenziale. In particolare, nella presente opera sembra voler sfidare il Giapponese a lui contemporaneo a sostenere le strutture grammaticali complesse ed eleganti, la poesia, i termini arcaici e i fraseggi che gli intesse 264 sopra. Souseki usa il Giapponese moderno come una lama affilata per penetrare il mondo della letteratura che, all’epoca, doveva essere certamente ancora ben infiorettato e ricco di arcaicismi, nonostante la modernizzazione a tappe forzate che anche la cultura giapponese stava vivendo. Non lo usa per essere più comprensibile ai suoi contemporanei (piuttosto, lo stesso Souseki si lamenterà nella sua corrispondenza di aver ecceduto nell’enfasi sullo stile, dando a sé stesso l’impressione di aver compiuto un lavoro vuoto di contenuti e incomprensibile nelle forme), bensì come per dimostrare che non era necessario ricorrere ad artifici come l’uso di una lingua formale e desueta, e che il Giapponese contemporaneo, se ben impiegato, poteva essere ricco come e più che in passato. Eppure, in questi paragrafi l’impiego delle desinenze classiche come “-taru”10, “tarazu”, “-ranuba”, “-zareba” è pressoché onnipresente. Fra l’altro, risalta in modo particolare proprio perché il resto della struttura della frase non è tipico dell’800, ma rimane molto moderno; nella traduzione, l’ho quindi reso con Italiano contemporaneo, senza cercare di farlo suonare desueto. Ho la sensazione che l’autore abbia iniziato a usare “-taru”, ancora comune all’epoca ma comunque meno “moderno” rispetto al tenore medio del testo, perché comodo per esprimere un concetto di passato prossimo progressivo, ma allo stesso tempo perfetto, che ben si adattava alla descrizione dell’esperienza mistica dell’autore nell’atto di 10 Il suffisso “-taru” è tutt’oggi usato, sebbene poco comune, per trasformare un nome in un aggettivo di qualità superlativo, in genere applicato a persone. ad esempio, 教師たる人 – kyōshi-taru hito – un a persona perfettamente qualificata come docente, un docente “fatto e finito”. Alle orecchie di un Giapponese suona un po’ come il nostro suffisso -oso, ma invece di indicare una caratteristica parziale (es: un tipo gioc-oso), indica una qualità che caratterizza in modo completo il nome reggente, quasi arrivando a definirlo nel contesto del discorso. Quest’uso però deriva dal più antico suffisso verbale -taru, che applicato a un verbo significava originariamente “appena giunto a completamento”: un’azione continuata nel passato prossimo e che si perfeziona adesso, ed è quindi appena terminata. L’uso verbale era già in declino all’epoca in cui quest’opera è scritta, e oggi è praticamente scomparsa dal giapponese parlato, sebbene resti comprensibile per l’uso che se ne fa ancora come suffisso nominale. 265 creare un opera d’arte, e che non aveva un’immediata corrispondenza nelle forme verbali più moderne, e che, piaciutogli l’effetto, abbia seguito l’ispirazione del momento e si sia lasciato guidare dalle parole così, come gli venivano naturali. Il passaggio al tu impersonale nel paragrafo che inizia con “Ma se eccelli...” riflette un cambiamento di struttura nell’originale, che qui vede l’impiego dei pronomi personali e alcuni pronomi possessivi “fossili” (desueti in Giapponese moderno) molto più caratterizzati dello stile impersonale usato fino a quel momento. Sebbene i pronomi usati abbiano una sfumatura impersonale ben riconoscibile, sono decisamente definiti; da qui la scelta dell’uso del “tu” impersonale. Dopo il passaggio al tu impersonale, nel paragrafo che inizia con “Fra questi due tipi di artigiani”, Souseki torna allo stile contemporaneo, e inizia a usare un tono seppur forbito, diretto e colloquiale, con chiari riferimenti alla propria esperienza. In breve, passa dal tu impersonale e dalle forme arcaicizzate a una visione più intimista, attraverso l’uso dell’ “io” e di un tono più colloquiale. Nel passaggio “... sebbene desiderassi muoverla più di ogni altra cosa, ma non bastava questo a muoverla ...”, la ripetizione di “muoverla” è nell’originale. Similmente i due “mi dico” nel paragrafo successivo sono ripetuti dall’autore, e con enfasi tale da non passare inosservati. Nel passaggio “... e in un batter d’occhio, doveva essere già passata” l’autore usa un idiomatico molto comune, che letteralmente suona: “nemmeno il tempo di pensare «ah»”. Sebbene in genere questa struttura idiomatica abbia dignità sufficiente a esigere una traduzione più diretta, vista la pesantezza del discorso e le esigenze di ritmo, ho preferito ripiegare su un modo di dire italiano con lo stesso senso. Il brano che inizia con “La donna, naturalmente, non parla” fa un uso molto sofisticato del termine 固より – motoyori – che vuol 266 dire principalmente “ovviamente”, oppure “già da un prima”. Il termine è ambiguo e assume tutta una gamma di significati; etimologicamente aveva il valore di “accaduto con certezza in passato”, quindi “assodato”, e per estensione ha assunto un valore più vicino a “ovvio”. L’uso sofisticato a cui mi riferisco riguarda appunto lo sfruttamento di questa ambiguità, che lascia il lettore nell’incertezza e nella sospensione fra i vari possibili significati. Ho scelto di tradurre questo termine con “naturalmente”, che in Italiano accumula due significati di “ovvio” e di “fatto in modo naturale”. Questi due significati sono diversi da quelli dell’originale in Giapponese, ma il termine ha il pregio di raccogliere la potenza dell’ambiguità che l’autore vuole evidenziare ripetendo il termine motoyori in quattro frasi (due in questo periodo e due nel successivo). Anche se il significato secondario di “naturalmente” è diverso dal significato secondario di motoyori, il significato primario coincide; e anche il secondario, pur diverso, può essere inserito nella struttura del discorso senza disturbarla. Qui, è più importante l’ampiezza dell’ambiguità che non che non i “poli” di significato a cui essa tende, e penso che la scelta di “naturalmente” sia adeguata a rendere la sensazione che l’autore voleva evocare. Poesie nel capitolo I due brevi componimenti nel paragrafo che si apre con “La giovinezza...” in realtà fanno parte di un unica poesia che si intitola 春日静坐 – haruhi seiza – “Sedendo in silenzio un giorno di primavera”, scritta dall’autore stesso nel 1898, quindi otto anni prima della stesura di questo romanzo, ed è un breve componimento in Cinese, con versi composti di cinque sillabe, in stile antico. Souseki ne dà qui una traduzione in giapponese molto “libera”. Ho voluto rendere la metrica e le rime nel testo originale scrivendo in endecasillabi, e mi sono attenuto un po’ più strettamente al senso originale in Cinese che non alla reinterpretazione operata dall’autore in Giapponese. Qui sotto riporto il testo in Cinese, la traslitterazione in pinyin e fra 267 parentesi il testo in giapponese già traslitterato in caratteri latini. La traduzione offerta da Souseki è infatti resa tramite lettere fonetiche (hiragana) che trovano una corrispondenza esatta nei caratteri latini, e riportare i caratteri originali non sarebbe di alcun aiuto alla comprensione del testo. 青春二三月 Qīngchūn èr sān yuè (Seishun ni-sangatsu) Due-tre mesi di gioventù 愁随芳草長 Chóu súi fāngcăo cháng (Urei wa housō ni [shitagatte nagashi) Il rimpianto insegue le erbe fragranti a lungo 閑花落空庭 Xiánhūa làokōng tīng (Kanka kuutei ni ochi) I fiori selvatici non danno frutti (o non [sbocciano) nel giardino (ben tenuto) 素琴横虚堂 Sùqín héng xū tàng (Sokin kyōdō ni yokotaru) L’arpa giace su un fianco nella sala vuota. 蠨蛸挂不動 Diéxiāo gùa bùdong. (Shōshō kakarite [ugokazu) La farfalla si aggrappa senza più muoversi 篆煙繞竹梁 Zhuànyān rào zhuliáng. (Ten’en chikuri you wo [meguru) Il fumo d’incenso si avvolge alle travi (di [bambù) In questa prima parte, il primo verso è libero, mentre gli altri seguono una rima baciata debole in -ng. La seconda parte è la seguente: 独坐無隻語 Dúzuò wúzhǐyǔ (dokuza shite sekigo naku) 268 Siedo solo senza proferire una singola parola. 方寸認微光 Fāngcùn rèn wēiguāng (housun ni bikou wo [mitimu). E mi rendo conto di una tenue luce a un palmo [dal cuore. 人間徒多事 Rénjiān tú duōshì (Ningen itazura ni taji). La gente si affanna dietro agli affari quotidiani. 此境孰可忘 Cǐ jìng shú kě wàng (kono kyō izuku ni kawa [suru beki) Come dimenticare questo limite (?). 会得一日静 Huèidé yī rì jìng (tamatama ichinichi no sei wo [ete) Riuscendo a riservarmi un giorno di quiete. 正知百年忙 Zhèng zhī bǎinián máng (masa ni hyakunen wo [shiru) Comprendo gli affanni di cen’tanni. 遐懐寄何処 Xiáhuái jì héchǔ (kakai izure no tokoro ni [yosen). E giungo in un luogo lontano, irraggiungibile. 緬邈白雲郷 Miǎnmào báiyún xiāng (Menbaku-tari hakuun [no kyou). Nell’eterno paese delle nuvole. Qui la traduzione in Giapponese di Souseki è decisamente più “libera”: itazura (per scherno, schernendo) non appare in 人間徒 多 事 , e 此 境 孰 可 忘 ha un forte senso interrogativo per la particella 可 – ke – “forse”, ma Souseki lo rende con beki – che 269 indica l’obbligo a compiere un azione (il senso diventerebbe “bisogna liberarsi” e non “come liberarsi?”). Nella traduzione in Italiano ho preferito seguire i versi cinesi, perché più semplici da mettere in metrica, e perché qui la traduzione dell’autore in Giapponese ha più il sapore di una prosa ragionata e libera che non di un testo poetico. Lo schema delle rime, che ho riproposto negli endecasillabi è A-B-B-B C-B-D-B-B-C-B. A essere fiscali, le rime dei versi B in Cinese sono in -ng, come nella prima parte della poesia; avrei dovuto mantenere la rima in -nto, ma ho preferito cambiare lo schema per una maggiore varietà e musicalità nella traduzione in Italiano. Anche se in origine le due parti erano in realtà componenti di un’unica poesia, in questo testo sono presentate come poesie autonome, quindi mi sono sentito libero di ridurre il peso di quel -nto: nella seconda parte l’ho usato solo per i due versi in C. 7 Nel passaggio “Solo questo nembo, perfetto come corona dei due caratteri di notte di primavera”, Souseki usa usa letteralmente la parola 冠 – kanmuri – “corona”, usando poi il verbo essere declinato in -taru per indicare la completezza dell’azione svolta, e gioca con la forma grafica dei caratteri 春宵 – shunshou – notte primaverile, entrambi “coronati” con tratti che ricordano forme eteree. Il passaggio che inizia con “Sdraiandomi supino col bordo della vasca a sostenermi la testa...” scende progressivamente di tono, fino ad arrivare al colloquiale, e anche più in basso, alla fine del paragrafo. Ancora una volta assistiamo al processo mentale del personaggio che, mano a mano che cerca di districarsi fra i suoi pensieri, abbandona i formalismi e si concentra sulla sostanza. L’espressione “Millet è Millet, e io sono io” è una tipica forma colloquiale giapponese, che assume la struttura “X wa X, Y wa Y (da/no da)”. È estremamente comune nel giapponese parlato, a 270 livello colloquiale, quando si vuole sottolineare alla persona con cui si sta parlando che un esempio che ha appena fatto non è adeguato a sostenere il suo punto di vista. Si usa anche riferito alle situazioni o ai momenti, per indicare che anche se le cose sono andate in un certo modo in passato, non è detto che si ripetano così anche in futuro. Nel passaggio, è particolarmente interessante questa frase: “a un essere che vive semplicemente fluttuando, il dolore non serve”. L’originale usa un’ambiguità del Giapponese difficile da tradurre, ossia l’uso del verbo iru, che a seconda del contesto può voler dire “entrare”, “essere” e “necessitare”. In genere l’ambiguità è risolta dall’ideogramma usato, e in questo caso Souseki usa l’ideogramma di “entrare” (che si può pronunciare anche hairu, ma l’autore sceglie di specificare la pronuncia ambigua iru). Tuttavia, la forza dell’ambiguità etimologica del termine, e l’uso del tono colloquiale, dove è consentita una maggiore ampiezza dei significati, mi fa preferire la traduzione che ho adottato a una meno interessante “Il dolore non entra in un essere che vive semplicemente trascinato via”, anche perché “quell’entrare”, pur se disambiguato, mantiene nel tono piano una valenza semantica allargata. Se in Italiano diciamo, in tono informale, “e questo che c’entra?”, stiamo usando il verbo “entrare”, ma il valore semantico è “qual’è la relazione con quello che ho detto?”. Similmente, il comune verbo iru, pur nel senso di “entrare”, ha valori semantici estesi che non coincidono pienamente con il concetto reso in Italiano: il senso della frase originale 流れるも のほど生きるに苦は入らぬ, costruita sul pattern “X ni Y wa iranu”, significa letteralmente: “in X non entra Y”; anche a spingercelo, il secondo termine non può essere inserito nel primo, non c’entra, è superfluo, è eccessivo, non necessario. Vale anche la pena di sottolineare che l’insistenza in questo passaggio “...è proprio bella ... è proprio un bel quadro”, è nell’originale, che ripete a chiusura due frasi successive 相違いな 271 い – aichigainai – proprio così, senza dubbio. Il tono del passaggio invita a usare un registro informale. Nella frase “Nel mio cuor di bambino, vedere quei pini mi faceva stare bene” ho dovuto rinunciare alla ripetizione dell’ideogramma “cuore” dell’originale: 小供心にこの松を見 ると好い心持になる – kodomo-gokoro ni kono matsu wo miru to yoi kokoro-mochi ni naru. La parola kokoro-mochi, formata dagli ideogrammi “kokoro” (cuore) e “motsu” (possedere) ha il significato idiomatico di “sentimento”, e non esiste in italiano un sinonimo di sentimento derivato da “cuore” capace di reggere la ripetizione dell’originale. Ho tradotto con il termine yoi kokoromochi (buona sensazione) con “mi faceva stare bene” per via del valore verbale delle parole composte, e per il tono molto colloquiale e caldo del associato a questa parola. Il passaggio “Quel che già dovrebbe essere bastante, si sforzano di farlo bastantissimo, o bastantissimo tanto ...” traduce un divertente gioco di parole che si basa sul termine 十 分 – juubun – abbastanza. Esistono due modi di scrivere questa parola, e il più “letterario” è 充分 ossia letteralmente “ogni parte”. L’altro modo, 十分 , più comune nel Giapponese quotidiano, significa letteralmente “dieci parti”. Il passaggio originale è: 十分で事足るべきを、十二分 にも、十五分にも. Le parole 十二分 – juunibun – dodici parti e 十五分 – juugobun – quindici parti, sono inventate usando il valore letterale di juubun e ovviamente significano che se “dieci parti” sono abbastanza, allora dodici, o quindici, lo saranno ben di più. Alle orecchie di un Giapponese deve suonare simile a una battuta come potrebbe essere in Italiano: “sei tremendo, anzi quattromendo, di più, cinquemendo!” 272 In “È per questo che si dice che il troppo stroppia”, il proverbio originale è 満 は 損 を 招 く – man wa son wo maneku – il pieno invita il danno. La descrizione del profilo di nudo inizia con “La nuca rotonda poggerà leggera...” è uno dei pochi passaggi dell’opera che ho tradotto col futuro. Il modo futuro non esiste nei verbi giapponesi; ne fa funzione il presente usato in congiunzione con espressioni di tempo future. Tuttavia, esiste una forma volitiva che indica la volontà ferma di compiere una certa azione in un momento successivo, e che quindi è opportuno tradurre col nostro futuro. Qui Souseki usa alcune di queste forme, e sebbene il tempo futuro non sia perfettamente individuato, è chiaro dal contesto, e dalle forme verbali che impiega, che non sta descrivendo qualcosa che vede in quel momento, bensì qualcosa che intende fare, o che sta comunque ricomponendo nella sua mente. L’originale del passaggio “... a disegnare sei a sei le trentasei scaglie di un drago lo si fa buffo, invece le carni nude nude, osservate pure pure, ...” è “六々三十六鱗を丁寧に描きたる竜の、滑稽に落つるが 事実ならば、赤裸々の肉を浄洒々に眺めぬうちに神往の 余 韻 は あ る ” . Come si può notare, c’è una ripetizione ben evidente dei tre ideogrammi che si traducono come le parole ripetute: “sei”, “nudo” e “puro” (il carattere speciale 々 ha appunto questa funzione). Sebbene le parole 赤裸 – nudità e 浄 洒 – purezza, non richiedano la ripetizione del secondo ideogramma, l’autore gioca con il concetto di 六 々 – sei a sei, costruendo un artificio linguistico che è difficile rendere in un’altra lingua. Nell’ultimo paragrafo, “lambirono” è l’unico verbo al passato; tutto il resto è reso al presente. 273 Il “mostro tartaruga” è nell’originale un 霊亀 – reiki – spirito tartaruga; normalmente, avrei lasciato questa parola non tradotta, spiegandola in una nota, ma il suono è identico al nome della pratica spirituale famosa come “Reiki”. Nell’epoca in cui scrive Souseki (1906), questo movimento spirituale deve ancora nascere (la sua origine si fa risalire a una esperienza mistica vissuta da Mikao Usui intorno al 1920, e la prima scuola di Reiki venne fondata nel 1922). Quindi, la parola è sicuramente disgiunta dal più famoso “Reiki”, ma usare il termine originale avrebbe confuso il lettore Italiano. Il reiki-tartaruga è uno dei quattro spiriti animali della filosofia taoista, assieme all’unicorno (kirin), alla fenice (houou) e al drago (ryuu). È considerato un messaggero di fortuna, tanto da apparire raffigurato spesso nei talismani portafortuna, ma come tutti gli spiriti taoisti è considerato volubile e pericoloso. Poesie nel capitolo La poesia di Letian è composta sette caratteri cinesi, e Souseki ne fa una traduzione a margine praticamente letterale. Questi sono i caratteri originali in cinese: 温泉 sorgente 水滑 acqua liscia 洗凝脂 lava l’unto Il lettore vorrà perdonare il mio vezzo nell’averla tradotta come un haiku, in tre versi da 5-7-5 sillabe. La poesia composta dal protagonista al volo nella vasca è la seguente (si ricordi che il suffisso -ou si legge come ō, ossia come una o lunga). 雨が降ったら濡れるだろう。 Ame ga futtara nureru darou. 霜が下りたら冷たかろ。 Shimo ga oritara tsumetakaro. 274 土のしたでは暗かろう。 Chi no shita de wa, kurakarou. 浮かば波の上、 Ukaba nami no ue, 沈まば波の底、 shizumaba nami no soko, 春の水なら苦はなかろ。 haru no mizu nara ku wa nakaro. Una traduzione letterale può essere: Se piovesse, mi sa che ti bagneresti. Se scendesse la foschia, dovresti aver freddo. Sotto la terra, deve far buio. Se galleggi, sopra le onde, se affondi, sotto le onde, se fosse acqua di primavera, non dovresti soffrire. E’ interessante notare che questa poesiola è l’unica composta imitando una forma poetica tipicamente occidentale. Abbiamo infatti una struttura A-A-A-B-C-A, con i versi in A endecasillabi (il terzo in realtà è in dieci sillabe, ma c’è una pausa naturale dopo il -de wa che aggiusta la metrica), mentre i due B e C sono liberi sia in metrica che in rima; il taglio dell’ultima -u (allungamento della o) in alcuni versi è fatto evidentemente per motivi di metrica. Anche l’abbandono del Giapponese classico e l’uso di un Giapponese assolutamente colloquiale e contemporaneo, oltre all’uso della punteggiatura, sconosciuta nella poesia tradizionale, vogliono essere un tentativo di adottare in toto un’idea di poetica occidentale. Quindi, sebbene la ritraduzione di questa poesia in una lingua occidentale possa sembrare un po’ banale, nell’economia del romanzo costituisce un esperimento inedito e assume un certo valore, anche in considerazione del fatto che, mentre nelle poesie in Cinese le rime sono relativamente comuni, in Giapponese sono pressoché sconosciute, e proporle richiede il ricorso a strutture linguistiche ripetitive. ad esempio, in Italiano, la costruzione della rima attraverso verbi al futuro è considerata 275 tanto banale da essere universalmente rifuggita dai poeti (con notevoli eccezioni come il Carducci, Tutto che questo mondo falso adora / Co ’l verso audace lo schiaffeggerò: / Ei mi tese le frodi in su l’aurora / A mezzogiorno io le calpesterò). Invece, l’uso del suffisso -ro(u), forma potenziale/volitiva dei verbi giapponesi, è uno dei pochi modi di una certa consistenza disponibili per creare rime in Giapponese (e vista la novità dell’esperimento, all’epoca di Souseki, un modo per niente scontato). 8 In generale, in questo capitolo ho preferito lasciare non tradotti alcuni termini che indicano luoghi, animali, personaggi storici e oggetti di uso comune. L’uso di questi termini era tanto pervasivo da renderne una traduzione difficile e poco elegante. Unica eccezione, le unità di misura, che ho preferito tradurre, come al solito, per consentire al lettore italiano di comprendere meglio le dimensioni espresse. La frase “Al di là della buona fattura del timbro, non mi sembra così importante...” è nell’originale “ 銘は観賞の上において、 さ の み 大 切 の も の と は 思 わ な い が ” che si traduce letteralmente come “pur ammirando la firma, non penso sia una cosa tanto importante”, ma nella prima parte della frase, il carattere 銘 – mei – indica esplicitamente la tipica firma-sigillo usata in oriente per marchiare le opere d’arte, generalmente prodotta con un timbro apposito. La struttura della frase suggerisce, senza dirlo, che in fondo chiunque potrebbe imitare l’originale e con esso quel timbro, ma la traduzione diretta perderebbe questo significato. La traduzione meno diretta che ho scelto lo trasmette, almeno in parte. La perifrasi “è un piacere raffinato per intenditori” traduce una frase idiomatica che ha un senso letterale leggermente differente: 276 閑人適意の韻事 – kanjin tekii no inji – letteralmente “una ricerca artistica adeguata a qualcuno del mestiere”, dove “del mestiere” si riferisce all’arte (kanjin è letteralmente una persona che ha una relazione con l’argomento di cui si parla, e in questo caso l’argomento è nell’ultima parola, inji). Questa frase idiomatica ha assunto nel Giapponese corrente un significato spostato e iperbolico, diventando un modo di dire che indica qualcosa di futile, a cui si dedicano persone con troppo tempo libero. Ma sia il tono della frase, la prima del capitolo dove Souseki passa a una costruzione poetica, sia il contesto linguistico dell’inizio del periodo Showa mi fanno pensare che qui l’autore avesse inteso questa costruzione nel suo significato originale, e senza quella punta di ironia che ha assunto col tempo. In questo senso, il valore idiomatico è esattamente sovrapponibile al nostro “piacere per intenditori”. Nel brano che inizia con “Sulla mensola, col ripiano tirato a lustro come uno specchio...” ci sono alcune ripetizioni esplicitamente inserite con grande evidenza dall’autore. Nell’originale, la ripetizione è su “lustrare”, e su una parte del termine che indica l’opera di calligrafia di Bussourai; questa ripetizione l’ho resa ripetendo l’aggettivo “grande”, riproducendo all’incirca il ritmo dell’originale. In questo passaggio, il termine “cornice” sostituisce una parola che indica le strutture di supporto ai kakemono: 装 幀 – soutei – che si traduce più o meno come “rilegatura”, e che, in questo caso, indica l’insieme delle corde che sorreggono il tutto, del peso che si trova alla base ed eventualmente una cornice di stoffa che tiene ferma la carta, sul sostegno di broccato. L’espressione “...siccome deve aver visto qualche stagione...” traduce una frase che riprende liberamente modi di dire e frasi idiomatiche dallo stesso significato: 多少の時代がついている から- tasho no jidai ga tsuiteru kara – letteralmente “siccome gli si sono appiccicate più o meno epoche...”. 277 Nella frase pronunciata dall’Abate, “...anche se durante il Kyouho avevano un pessimo gusto, c’è qualche bell’oggetto...”, l’originale per “avevano un pessimo gusto” è letteralmente “i calligrafi avevano dei brutti caratteri”. Ho scelto una traduzione più liberale per mantenere ritmo e senso dell’originale. La frase in cui il padre di Nami racconta la storia del coperchio della pietra-calamaio è molto rapida nell’originale, e lascia alcuni dettagli ambigui. Il testo è il seguente: 「山陽が広島におった時に庭に生えていた松の皮を剥 いで山陽が手ずから製したのですよ」 La traduzione letterale è: “Quando San’you fu (si trovava) a Hiroshima, tagliò con le sue mani un ramo da un pino che cresceva in un giardino.” Ho scelto di caratterizzare il giardino come di proprietà di San’you e il pino come cresciuto da lui, perché nel Giapponese parlato molte parti ovvie del discorso sono lasciate sottintese, e la struttura complessiva della frase non fa pensare a un giardino, e un pino, qualsiasi. La connessione con il soggetto-agente è abbastanza forte da lasciare nel lettore l’idea che gli altri elementi del discorso siano posseduti da esso, pur senza chiarificarlo esplicitamente. L’autore avrebbe potuto essere più chiaro sul fatto che il giardino e l’albero fossero di San’you, usando un complemento di specificazione, ma avrebbe anche potuto chiarire il fatto che non fossero stati suoi usando un verbo differente per “crescere” e “trovarsi”: un incontro “casuale” con un oggetto sconosciuto sarebbe stato probabilmente espresso con 有った in luogo di 生えていた , e un passaggio casuale presso Hiroshima sarebbe stato espresso con 置いた, o 通った in luogo di おった . Va però ricordato che la relazione con gli oggetti rimane inespressa, e il lettore Giapponese non riceve informazioni sufficienti e definitive per dirimere il dubbio; non 278 potendo tradurre direttamente questa ambiguità in Italiano, ho scelto di rendere il senso che sembra predominante. Quando Kyuuichi si rivolge al padre di suo padre, con la frase “non c’è bisogno che il nonno mi accompagni”, in realtà, nel testo originale, viene usato il termine 御伯父 – go-oji – il “signor” zio. Tuttavia, anche se la parola usata significa genericamente “zio”, qui Souseki usa degli ideogrammi che hanno il senso generico di persona imparentata col padre. L’ideogramma usato più comunemente per zio è 叔父 . È difficile ricostruire questo dettaglio a cento anni di distanza dall’uso comune, ma credo che Kyuuichi abbia semplicemente inteso usare quel termine non nel senso proprio di “fratello del padre” ma nel senso generico di “parente più anziano”. Nell’espressione “... a piangere siano gli uccelli, a cadere siano i fiori, a scorrere siano gli onsen ...” il verbo originariamente associato agli onsen è “ribollire”; ho preferito usare “scorrere” per l’evidente associazione di idee col destino dei soldati, che l’autore voleva richiamare. Infatti, mentre in Italiano si usa rendere l’idea delle vittime in guerra con l’immagine dello “scorrere del sangue”, in Giapponese si usa l’immagine più cruenta del “ribollire del sangue”. 9 Quando Nami apre il capitolo con la domanda “È interessante?”, e nel passaggio successivo “E allora come fa a essere interessante?”, l’espressione originale è 勉 強 に な る – benkyou ni naru, che letteralmente si traduce come “diventare studio”. È un idiomatico che si usa per indicare una lettura, ma anche un’esperienza in generale, di cui si può fare tesoro e dalla quale si può apprendere qualcosa, e in senso traslato, qualcosa di genericamente interessante e utile. Purtroppo, si perde il gioco di significati usato dall’autore, quando passa dal senso traslato 279 implicato da Nami al significato letterale dell’espressione, e risponde alla seconda domanda con 勉強じゃない – benkyou ja nai – letteralmente “non è studio”. La parola usata successivamente per esprimere questo concetto, 面 白 い – omoshiroi – contiene anch’essa una ambiguità; può voler dire sia “divertente” che “interessante”; ho usato la parola più adeguata a tradurre il significato basandomi sul contesto e su ciò che ritengo l’autore volesse significare di volta in volta. Nelle battute iniziali, l’autore usa il termine 半 襟 – han’eri, mezzo colletto – per indicare il kimono indossato da Nami. Ho preferito perdere la metonimia per evitare la fastidiosa ripetizione collo-colletto, o usare un termine non noto al lettore italiano, che non avrebbe potuto cogliere a pieno il significato del passaggio. La risposta di Nami “I romanzi, li leggo, così, ogni tanto...”, nell’originale era 小説なんか読んだって、読まなくったっ て… letteralmente “Cose come i romanzi, che li legga, che non li legga...”. Il pattern X-nanka Y-tte, Y-nakutatte è una espressione idiomatica, tipicamente femminile, che significa quanto ho scritto nella traduzione. Nella frase “E così, essere artista significa innamorarsi senza provare emozioni, eh?”, Nami usa la parola 不人情 – fu-ninjou, che è esplicitamente sinonimo della parola chiave del romanzo 非人情 – hininjou – inemotivo. Si possono vedere i prefissi “fu-” e “hi-” come due prefissi negativi aventi origini etimologiche diverse, ma sostanzialmente lo stesso significato, così come in italiano possiamo avere “in-” e “a-” che, seppure con sfumatura diversa, negano il termine a cui sono apposti. L’uso di questo termine vuole significare che Nami ha letto il protagonista, ne ha compreso la ricerca della liberazione dalle emozioni, ma non la condivide, al punto di storpiare la parola che gli è tanto cara. 280 La frase “Ah, sia pur così. Che, date le circostanze, foss’anche manchevole, non v’è di che dogliarsi” traduce un’insieme di frasi di circostanza eccessivamente formali e un po’ datate. È evidente che Nami le usa con un intento velatamente ironico. Nel passaggio successivo, l’autore usa due volte una espressione che ho tradotto con il nostro idiomatico “darla a bere”, o “bersela”. Nell’originale, è: 女は何喰わぬ顔で... その手は喰わない。 Letteralmente, “la donna, con la faccia di una che non mangia niente...” e “non mangio quella mano”. In Giapponese si usa infatti il concetto di “mangiare” per indicare l’idea di non cogliere la verità dietro una menzogna; la similitudine si riferisce al pesce che mangia l’esca con tutto l’amo. Per quanto riguarda la frase idiomatica “non mangio quella mano”, questa accumula due metafore (caso piuttosto comune, in Giapponese), dove per “quella mano” si intende il modo di agire di qualcun altro, e per “mangiare”, si intende, appunto, bersi una bugia. La frase “I bonzi Zen hanno uno strano senso dell’umorismo, eh?” è tradotta in modo abbastanza liberale, ma coglie il senso dell’originale: 禅坊さんなんてものは随分訳のわからない 事 を 云 い ま す ね – letteralmente: “Quelli che si definiscono signori bonzi Zen dicono a profusione cose di cui non si capisce la ragione, vero?” Come ho già osservato altre volte, il senso dell’umorismo dei monaci Zen è proverbiale, in Giappone. Molti Koan, piccole storielle logicamente assurde, usate come fonte di meditazione per raggiungere l’illuminazione, sono perle di umorismo, ed è noto che una delle manifestazioni esteriori di chi raggiunge l’illuminazione è scoppiare in un riso incontrollato. Tralasciando il vezzo tipicamente Giapponese di indicare esplicitamente le definizioni (“quelli che si definiscono”), ormai usata in senso meramente incidentale, senza quasi nemmeno un senso più 281 velato (come ad esempio, il nostro “I così detti...”), e quello di apporre -san (“signore”) anche a nomi collettivi, cose inanimate e concetti astratti, l’espressione interessante qui è: “cose di cui non si capisce la ragione”. Questa espressione non indica semplicemente qualcosa di insensato. È una perifrasi che può essere usata in senso dispregiativo, per indicare un ragionamento fastidioso o spiacevole, o in senso positivo, per indicare una cosa buffa, anche se futile. Qui viene utilizzata in questo secondo significato, per indicare qualcosa che potrebbe essere sovrapponibile all’idea di non-sense inglese. Incidentalmente, questa espressione, “wake no wakaranai”, si è evoluta fino a diventare una frase chiave del registro femminile moderno: “wake wakannai” letteralmente “non capisco la ragione”, usata in questo modo contratto quasi esclusivamente con connotazione negativa, per apostrofare un comportamento disprezzato, o per indicare disapprovazione. ad esempio, si potrebbe udire un gruppetto di ragazze in età scolare dire qualcosa come: “Quello lì ha tradito tutte le ragazze con cui si è messo insieme!” “Davvero!?! Wake wakannai!” – che non sta a significare “non ne comprendo il motivo”, ma “che cosa riprovevole!” Per rendere a pieno il significato dell’originale nel passaggio “...Anche se avrebbe preferito che il babbo l’abbozzasse, è venuto giù perché l’ha chiamato. E chi lo smuove, il vecchio? Però ho incontrato Kyuuichi mentre tornava su...” ho dovuto aggiungere molti dettagli che restano impliciti nelle strutture grammaticali Giapponesi. Qui, infatti, Nami riduce la formalità del discorso, il che equivale a ridurre la precisione con cui individua i vari soggetti e oggetti dei verbi. Così come in Italiano abbiamo alcuni elementi semantici incorporati nei verbi e negli aggettivi, in Giapponese si possono dare altre indicazioni attraverso i verbi e i termini usati. In particolare, si può esprimere la “direzione” in cui si svolge un verbo. Di conseguenza, i dettagli che possono essere resi 282 impliciti, pur restando chiari, sono differenti fra Italiano e Giapponese, e non sovrapponibili. ad esempio, si consideri la seguente breve poesia in Italiano: Danza la falda bianca nel ciel scherzosa poi sul terren si posa stanca, danza la falda bianca (È un breve componimento che apre una canzone di Shikata Akiko: Hana Kisou). Si osservi come il lettore italiano è subito in grado di comprendere che “scherzosa” non è riferito al cielo, che è il nome a cui è grammaticalmente più vicino: grazie alla concordanza di genere, siamo in grado di capire che “scherzosa” è senza dubbio da riferirsi alla “falda bianca”. Per tradurre questa poesia in una lingua che non incorpora il genere nei nomi e negli aggettivi (ad esempio, l’Inglese o il Giapponese), abbiamo due possibilità: cambiare la struttura delle frasi in modo che “scherzosa” sia grammaticalmente legato a “falda bianca”, o usare i nomi e i pronomi opportunamente, in modo da dirimere l’ambiguità causata dalla perdita di questo dettaglio semantico. Per rendere la frase di cui sopra, passando dal Giapponese all’Italiano, ho dovuto fare entrambe le cose. Inoltre, ho anche dovuto rendere una frase idiomatica: “E chi lo smuove” era nell’originale 麻痺が切れて困ったでしょう – letteralmente: “Tagliare il formicolio [di un arto addormentato] è un problema, giusto?”. È ovviamente una frase che si riferisce all’immobilità tipica di una persona anziana, e lo indica in maniera assai poco rispettosa. “Il vecchio” non è nell’originale, ma era necessario recuperare il tono informale e vagamente denigratorio, oltre all’indicazione del fatto che la persona che non si muove è il padre di Nami, non Kyuuichi, cosa che, al lettore Giapponese, è immediatamente evidente. 283 I tre “Te l’ho fatta” alla fine del capitolo, nell’originale sono resi col verbo 驚く – odoroku – essere sorpresi. Letteralmente, Nami dice al protagonista “sei rimasto sorpreso!”, ma il verbo usato in questo modo, direttamente, coniugato al passato piano (odoro-ita), nel linguaggio femminile, sottintende che la causa della sorpresa è il parlante. Anche qui, abbiamo una di quelle forme direzionali (dal parlante all’ascoltatore) che sono chiare al lettore Giapponese, ma non possono essere tradotte direttamente. Per questo, ho dovuto usare la nostra forma idiomatica per rendere lo stesso significato originale. La frase che chiude il capitolo “Per lunghi attimi di totale stupore” è nell’originale 茫然たる事多時 – bouzen-taru koto taji. Si tratta di una costruzione nominale, e inusuale nella sua struttura, appartenente al registro letterario. Bouzen è una parola di origine cinese che significa “stupore”. Il suffisso verbale (qui verbalizzante) -taru, comune in Giapponese classico, indica qualcosa che possiede la qualità indicata al massimo grado, tanto da essere un esempio rappresentativo di una categoria; noi diremmo “per antonomasia”. Il koto (“cosa”) applicato al suffisso verbale, forma una frase relativa. Il concetto trasmesso da bouzentaru koto è: “cosa sorprendente per antonomasia, una cosa rappresentativa del concetto di sorpresa”. La parola taji forma uno dei giochi cari a Souseki: i due ideogrammi 多時 significano “molto” e “tempo”; quindi, un lungo tempo. Gli avverbi di tempo, in Giapponese, sono le uniche parti del discorso libere da particelle che ne specificano la funzione, quindi taji basta da solo a sottintendere “per molto tempo”. Tuttavia, normalmente, parola dal suono taji si scrive 多事, letteralmente “molte cose”, che assume il valore idiomatico di “eventualità impreviste”, “problematiche insorte”. La grafia 多時 è inventata da Souseki per l’occasione. Si noti che 事 – ji – nella grafia comune 多事 è lo stesso ideogramma di koto, che significa appunto “cosa, fatto”. Quindi, Souseki prende la parola che normalmente usa lo stesso 284 ideogramma appena scritto (koto), e ne cambia l’ideogramma e il senso: da “fatti sopraggiunti” a “molto tempo”. L’effetto di una simile costruzione sul lettore deve essere appunto quello di causare confusione e stupore, lo stesso stupore a cui la frase fa riferimento. Si noti infine l’equilibrio dell’uso di tempi al presente e al passato nelle ultime parti del capitolo: c’è una simmetria che incornicia il racconto: “Pensai che la donna scherzasse...” è al passato. Poi si cambia al presente, che rimane fino all’ultima frase, “...mi sorrise teneramente”. È un modo per rendere più vivida l’immagine parentetica di quel preciso momento. 10 L’incipit è semplicemente 鏡が池へ来て見る – letteralmente “vengo a vedere il lago dello specchio” – ma il verbo “venire” combinato con altri verbi, significa idiomaticamente “andare a...”. Ancora oggi, questa semplice regola è fonte di imbarazzo per molti traduttori. Qui, ho preferito tradurre con un nostro idiomatico (fare un salto) per riprodurre il tono colloquiale e familiare dell’originale. Anche la seconda frase pone un interessante problema di traduzione: 観海寺の裏道の、杉の間から谷へ降りて – kankaiji no uramichi no, sugi no aida kara tani e orite. Qui, Souseki usa la struttura sospensiva del Giapponese per ritardare il verbo fino alla fine della seconda subordinata (orite – scendendo). In genere, cerco di riprodurre l’ordine dei verbi per mantenere il ritmo e l’ordine con il quale l’autore costruisce gli scenari nella mente del lettore, ma in questo caso avrei ottenuto l’effetto opposto: letteralmente, la frase suona come: “Dietro al tempio Kankai, dalla radura fra i cedri la strada che scende...”. Aggiustandola un attimo avrei potuto lasciare il verbo nella subordinata, ma comunque la si giri, in Italiano suona troppo poetico, mentre in 285 l’intento originale è quello di “fare economia”: presentare con meno parole possibile lo scenario più articolato possibile. Questo, per dare al lettore l’idea di un luogo molto raccolto: tempio, sentiero, radura, cedri, montagna, strada e lago, fanno tutti parte di un piccolo, raccolto insieme, una specie di cammeo, una bolla di cristallo che racchiude un mondo completo, ma in miniatura; e questa sensazione è resa comprimendo questo mondo nella frase più sintetica possibile. Una frase, che oltre a essere sintetica, deve essere fluida, filare via veloce, per far arrivare tutti questi concetti il più velocemente possibile, e in modo chiaro, al lettore. Questo, e non il “tono poetico” (in realtà assente nell’originale), era quello che andava trasmesso in questo caso, e per questo, ho optato per la costruzione più snella possibile – mi sono però concesso la libertà di riprodurre parte dell’effetto generato dalla struttura sospensiva: “La strada che scende da dietro il tempio Kankai, dalla radura fra I cedri fin giù nella valle...”; applicando due complementi (da dietro..., dalla radura...) allo stesso verbo (scende), ottengo lo stesso effetto dell’originale, sebbene nell’originale il verbo venga dopo. Nell’originale, il gioco di parole “comuni cittadini... sedere da comune cittadino” è reso con le espressioni 太平の民... 太平の 尻 – taihei no tami / taihei no shiri. Sebbene taihei voglia dire “comune” (letteralmente, “grande-piatto”), è un’espressione insolita, sofisticata, e incatenata al concetto di “gente comune” nell’espressione idiomatica taihei no tami. L’estrarre questo aggettivo e accostarlo a shiri (sedere) ha un effetto ironico, al quale il nostro “comune” non rende giustizia. Nella scena in cui il protagonista accende una sigaretta, si riferisce al cerino dicendo “Lo sento accendersi”: l’originale è reso con 手応はあったが – tegotae wa atta ga... – “la sensazione c’era ma...” (tegotae letterlamente significa “risposta della mano”). Nella stessa scena ho reso 雨竜 – amaryou (letteralmente “drago di pioggia”) col termine “mulinello”: è quel piccolo turbine che si 286 forma quando una pioggia sottile viene fatta vorticare da una corrente d’aria ascendente, e forma una colonna visibile. L’espressione “Buddha Amida, ora pro nobis” traduce la frase 南 無 阿 弥 陀 仏 – namu amida butsu, che è una traslitterazione in antichi caratteri sino-giapponesi di una espressione in Sanscrito. Il significato di questa espressione è approssimativamente “Buddha Amida, ci affidiamo a te”: dichiara l’abbandono del parlante alla volontà del Buddha. Il senso è abbastanza sovrapponibile al latino “ora pro nobis”, là dove per “prega per noi” non si intende esattamente l’atto di pregare, ma si chiede al divino di intercedere, rimettendoci al suo giudizio. Il senso del passaggio è che il protagonista decide di porre fine alle sofferenze dell’erba moribonda, e dopo esserci riuscito, invoca il Buddha Amida per una specie di estrema unzione. In questo passaggio, vediamo anche due impieghi di una figura retorica cara a Souseki: l’ipallage. Infatti, troviamo “capelli lunghi come alghe” (mentre sono le alghe a essere lunghe come capelli), e “l’acqua che va a nasconderle” (mentre sono le alghe che vanno a nascondersi nell’acqua). Il doppio impiego può essere inteso come rafforzativo, o forse, per assicurarsi che non passi inosservato. La frase che ho tradotto con “Mi inerpico su per un viottolino” sembra aver dato diversi grattacapi a molti traduttori. Nell’originale è 二間余りを爪先上がりに登る – niken amari wo tsunesaki agari ni noboru. Letteralmente vuol dire “due ken(=0,9*2 metri) appena/su di una salita unghia-avanti/salgo”. Trattiamo subito un brutto cliente, 爪先上がり – tsunesaki agari – che sta a significare “una salita così irta che ti ci devi aggrappare con le unghie” – ed è semplicemente una costruzione idiomatica che indica un viottolo di montagna. Ci resta 二間余 りを登る – niken amari wo noboru – che è un nemico abbastanza 287 formidabile. Fosse 二 間 を 登 る – niken wo noboru – allora si potrebbe tradurre “risalgo (per) due ken (due metri)”. Fosse 二 間余り登る – niken amari noboru – allora si tradurrebbe “risalgo a malapena due metri”. Ma quella particella wo dopo un avverbio (amari – nemmeno, appena), ci mette in guardia sul fatto che questa deve essere una costruzione idiomatica, per quanto misconosciuta. Spulciando altri esempi di questa costruzione, mi viene da dire che dovrebbe risultare come una costruzione incidentale, un inciso per dare evidenza alla costruzione nel complesso; quell’avverbio sembra essere un rafforzativo, come “proverbiale”, “solito”, “usuale”, “immancabile” ecc. L’idea resa sembra essere qualcosa come il nostro “esco per fare i proverbiali quattro passi”, oppure “eravamo i soliti quattro gatti”. L’interpretazione è confortata dal fatto che questa unità di misura, “ken”, non viene mai usata da Souseki, a parte un richiamo nello stesso paragrafo, e in generale, è estremamente rara. Inoltre, la distanza di due metri non può essere assunta col valore letterale, data la descrizione dell’ambiente circostante. Infine, cosa che Souseki fa spesso, quello a cui assistiamo qui sembra essere la compressione di due idiomatici in un unica frase, (l’altro è “tsunesaki agari”). Data la difficoltà, ho deciso di non insistere sulla precisione, ed ho incaricato la parola “inerpico” di sorreggere la sensazione di leggere una figura retorica. È un compito un po’ gravoso, ma dato che il termine è desueto e spesso usato con valenza retorica, penso che così possa passare almeno parte del sapore originale, assieme a tutto il valore semantico che credo di aver riportato fedelmente. Quando il protagonista osserva le camelie, l’aggettivo “serene” traduce il termine 軽快 – keikai – che, più precisamente, significa “piacere leggero”. Traduce sia uno stato d’animo leggero (spensieratezza), che qualcosa di fisico che trasmette leggerezza (come una forma, o una danza agile e aggraziata). Ho scelto di usare l’aggettivo “sereno” per enfatizzare l’umanizzazione delle 288 camelie, ed evidenziare la sensazione che Souseki voleva trasmettere, ma senza calcare la mano su quello “spensierato” che, usando la radice “pensiero” assente nell’originale, sarebbe stato forse eccessivo. In questo passaggio, ho voluto mantenere la ripetizione originale di “camelie” e “contarli”: mantiene un certo ritmo poetico/semplice dell’originale: molto della poetica giapponese sta nella capacità di rendere grandi emozioni usando le costruzioni più semplici e le parole più comuni possibile. La costruzione “insinua nelle vene un dolcissimo veleno” è nell’originale 嫣然たる毒を血管に吹く – enzen-taru doku wo chikan ni fuku – letteralmente “soffia nelle vene un massimamente grazioso veleno”. Ora, enzen è un termine letterario che individua una bellezza femminile e ammiccante, quasi a lasciar sfuggire, a lasciare intravedere un velo appena percettibile della passione che rimane nascosta. Credo che la classica antinomia “dolce veleno”, con l’aggiunta del superlativo per rendere -taru, possa rendere abbastanza bene questa espressione, che esce direttamente dai testi classici. Nella frase “È come il sangue dei prigionieri sterminati, che chiama a sé gli sguardi della gente, e che intristisce con sé il cuore della gente...” ho voluto mantenere ritmo, struttura e ripetizioni dell’originale. In particolare, ho lasciato un’ambiguità che esiste, ma è leggermente differente nel testo di Souseki. Nella traduzione, il secondo “con sé” può voler dire “per come è, grazie alla sua forma”, oppure “assieme a se”. La frase può essere intesa come “che per sua natura opprime il cuore della gente”, oppure “che opprime il cuore della gente, in simpatia con la sua stessa oppressione”. Nell’originale, abbiamo 自から人の心を不 快にするごとく – mizukara hito no kokoro wo fukai ni suru gotoku. Letteralmente significa “come se, se stesso, rendesse infelici i cuori della gente”. Ma il “se stesso” è espresso attraverso la parola “mizukara”, che è normalmente un avverbio di modo (fare 289 da sé medesimo). Per la struttura del Giapponese, senza un’ulteriore specificazione, e nel tono colloquiale del discorso (i toni formali tendono ad aumentare la precisione delle direzioni delle azioni), il mizukara si può riferire sia al nome che lo segue 11 (hito – persona), che al verbo (ni suru – rendere). In altre parole, può essere visto sia come un aggettivo per “persona”, che un avverbio di modo per “rendere”. Quindi, il lettore può scegliere se leggere che sono le persone che, per conto loro, si rendono tristi nel vedere il sangue dei condannati, oppure che è il sangue dei condannati che, per conto suo, senza compiere alcun gesto, ma solo per la sua natura, rende infelici i cuori della gente. Non volevo perdere il senso di ambiguità, ma non potevo tradurre usando un avverbio che potesse, all’occorrenza, comportarsi da aggettivo, quindi ho ripiegato sul “con sé”, che rende un’ambiguità quasi altrettanto forte, anche se nell’originale, l’ambiguità riguarda chi rende tristi chi (le persone stesse oppure il sangue), mentre nella mia traduzione riguarda il modo in cui il sangue rende triste le persone (assieme a sé, oppure tramite di sé). Nel passaggio successivo, il termine “tuffandosi” traduce l’avverbio di modo ぽたり – potari – una parola che appartiene a quella gamma di avverbi di modo onomatopeici che cercano di rendere la sensazione del suono (reale o figurato) col quale avviene un’azione. In particolare, questo avverbio indica un’azione che provoca un suono simile a quello di di una bolla che risale, o di un oggetto pesante che si immerge. Il termine più 11 290 Il Giapponese conosce una classe di aggettivi chiamati aggettivi verbali. Sono aggettivi che, da soli, indicano la qualità di “essere in un certo modo”, al punto che vengono coniugati seguendo il tempo del verbo principale, e la frase che li contiene può omettere la copula. Mizukara non è “esattamente” uno di essi, ma è un così detto avverbio in -to, un avverbio di modo che però, al grado di conversazione colloquiale, può anche indicare l’azione di fare qualcosa per conto proprio, senza necessità di appoggiarsi a un verbo. Qui, l’autore usa la flessibilità del Giapponese, permettendo a quello che normalmente è un avverbio di svolgere un ruolo simile a un aggettivo verbale, o semplicemente al “nome di un’azione”. vicino in Italiano è “gorgoglìo”, ma “gorgoglìo” indica un suono continuo, mentre potari indica solo il primo della sequenza di suoni che compongono il gorgoglìo. Ero propenso per renderlo con l’onomatopea “pluf”, ma ho ripiegato per “tuffandosi”, che ha un forte valore onomatopeico. Nella frase “E se dipingessi una bella donna che fluttua verso questo posto, mi chiedo mentre torno al posto di prima...” – la parola giapponese per “posto” (tokoro) è ripetuta tre volte, ma in un caso su tre, la ripetizione ha valenza strutturale, e ripetere tre volte “posto” nella traduzione sarebbe stato incorretto. Nel periodo successivo, “Le parole rivoltemi ieri per scherzo dall’onorevole Nami-san...”, l’eccesso di formalità e la struttura onorevole (altro) / umile (io) hanno una sfumatura evidentemente ironica, soprattutto considerando che si tratta di un monologo che si svolge nella testa del protagonista. Nell’originale, la frase inizia con 温泉場の御那美さん... – yuba no o-nami-san... – l’onorevole Nami-san dello stabilimento termale... – ma ho voluto calcare la mano perché nella traduzione letterale si perde il fatto, chiaro a un Giapponese, che l’onorifico vicino al nome di un luogo di lavoro significa anche che la persona indicata è il padrone dell’attività. La parola “struggimento” traduce 憐 れ – aware. Esiste un carattere omofono: 哀れ. Questo è il carattere più comune, che significa generalmente pietà, o compassione; ma nel parlare comune, ha anche connotazioni negative: essere in uno stato talmente disdicevole da generare pietà; pietoso. Il carattere usato da Souseki ha connotazioni più poetiche, ed esclude il senso più comune. Resta quindi la pietosa compassione; ma se rivolta verso sé-stessi e non verso altri, questa pietosa compassione può assumere il senso di “tristezza, malinconia”. Che la “compassione” o la “pietà” siano un sentimento sconosciuto agli dèi è certamente un controsenso. Possederle è la caratteristica fondamentale di tutte le divinità della dottrina buddista e di 291 buona parte di quelle cristiane, e anche quella di alcuni kami canonici dello shinto; e persino di alcune divinità greche, alle quali Souseki avrebbe anche potuto riferirsi, fra i suoi numerosi richiami al neoclassicismo inglese. Nello stesso passaggio, la traduzione “...le sopracciglia a formare un tratteggio che grida vincerò, vincerò io!” è una reinterpretazione dell’originale 勝とう、勝とうと焦る八の字 の み で あ る – katou, katou to aseru hachi no ji no mi de aru. Letteralmente vuol dire “vincerò, vincerò [dice] in fretta un carattere a forma di otto”. Il carattere “otto” è composto da due barre diagonali; nella stampa l’inclinazione è molto marcata (八), ma nello scritto manuale, le due stanghette sono corte e l’inclinazione è appena accennata. Il carattere rende bene l’idea di sopracciglia sorridenti, tanto che viene usato per gioco per comporre volti usando caratteri come の per gli occhi e し o も per il naso. Tutti i giapponesi lo sanno, e hanno fatto o visto fare un disegno così, ma chiaramente il lettore italiano ha bisogno di una spiegazione. Piuttosto della traduzione letterale con l’aggiunta di una nota, ho preferito tradurre il significato e figurare la stessa immagine che si sarebbe composta nella mente di un giapponese. Nello stesso senso anche il cambio di 焦る – aseru – affrettarsi / precipitarsi in “gridare”, dal momento che la particella と – to – indica un complemento di citazione diretta, e sottintende il verbo “dire”; il senso quindi è “affrettarsi a dire”, un concetto che noi rendiamo con “gridare” . Il discorso del carrettiere inizia in tono molto informale, per diventare più formale quando il protagonista si avvicina (tanto da accendergli una sigaretta). Quando inizia a raccontare la storia della signorina Shihoda torna a uno tono molto informale. È un tratto abbastanza normale nella psicologia Giapponese, quello allacciare una conversazione, da lontano, con brevi frasi informali, per poi passare a un tono più formale quando 292 l’interlocutore si avvicina, soprattutto se lo si considera di una “classe sociale superiore”, per poi tornare all’informale quando “si è rotto il ghiaccio”. Tuttavia è difficile renderlo in Italiano, perché non c’è abbastanza spazio per rendere questo cambiamento attraverso i nostri marcatori di formalità. In questo discorso, “Sì sì.” traduce は あ い – haai – un allungamento del “sì” formale, hai, che ha un tono un po’ scherzoso. Viene usato spesso dai bambini per rispondere alle richieste dei genitori, ritenute giustificate ma... un po’ fastidiose. ad esempio, “Kotarou! Smettila di giocare con la sabbia, che ti sporchi tutto!” – “Haai!” In “...Avevo pensato di dipingere questo lago, ma è un posto triste, eh...” Souseki usa l’aggettivo 淋 し い – samishii – che generalmente vuole significare “solitario”; tuttavia, non è semplicemente “solitario”. Indica quella sensazione di tristezza che deriva dalla solitudine. I traduttori usano liberamente l’uno o l’altro significato a seconda del contesto, anche se “solitario” è considerato più preciso. Ho preferito tradurre con “triste” perché il concetto di “solitario” è espresso nella frase successiva, e in questo modo trasmetto la gamma completa di questo sentimento. Il passaggio “Magari no, chissà. Però, i suoi vecchi sono davvero strani / Dici quello nella casa? / No, quella morta l’anno scorso” ha richiesto un certo adattamento. Abbiamo infine una notevole ipallage in “Alle spalle del sole che passa fra i verdi rami … è quel volto di donna”. Ovviamente, è il sole che è alle spalle del volto. 11 “The Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman”, o più brevemente “Tristram Shandy”, è un romanzo dalla struttura molto particolare. Fu il primo a sperimentare una trama non lineare, dove trova anche spazio la critica meta-mediatica, ossia, il 293 riferimento esplicito al fatto che quello che si sta leggendo è un libro, e come tale, ha dei limiti che l’autore vorrebbe superare. A partire dalla scena in cui il protagonista ricorda l’incontro col monaco Zen, il registro scende sul livello colloquiale, e Souseki inizia a usare in maniera sovrabbondante gli avverbi doppi; sono brevi parole (di due, massimo tre sillabe), che, quando ripetute, assumono il senso di avverbio. ad esempio kira, antica radice di “splendore”, diventa kira-kira per indicare un modo di brillare. Soro-soro vuol dire “subitamente”, “presto”. Uwa-uwa è “timidamente”, e così via. Questi avverbi doppi appartengono a un registro medio, ma l’abusarne fa scendere il livello del discorso al colloquiale; inoltre, è una tecnica, usata principalmente dalle donne, per ingraziosire e rendere più simpatico il discorso. Dove ho potuto, ho raddoppiato gli aggettivi o gli avverbi per rendere il ritmo, e anche il senso di “carino” dell’originale, (i.e. “mogio mogio”), ma non ho potuto riportarli ovunque, dal momento che ce ne sono uno o due per frase, e che, normalmente, il raddoppio degli aggettivi, in Italiano, costituisce un superlativo. La critica, piuttosto diretta, dello stile denominato ukiyo è una traduzione abbastanza letterale del testo originale. In questa parte, “senza dirti fai così e cosà” traduce ひったひったと云わ ず – hitta-hitta to iwazu, che letteralmente vuol dire “senza dirti ecco, ne ha tirata un’altra!”. È da notare che il comportamento di evidenziare grossolanamente le scoregge, nella cultura giapponese è il comportamento infantile per antonomasia. In “E inoltre, dicono che questo è lo scopo di essere letterati”, ho tradotto con “scopo” la parola 処世 – shosei – che significa “condotta propria”, “modo giusto di fare”. Nella scena in cui si parla di demoni che danzano, “...stanchi di recitare il nenbutsu, si mettono a danzare. Da un estremo all’altro del tempio principale, ballano in una fila ben ordinata...” i due verbi “danzano” e “ballano” traducono due ideogrammi 294 differenti, ma che hanno la stessa pronuncia e lo stesso senso: 踊 – 躍 – odoru – ballare. Poco oltre, ho tradotto una parola tipica del registro poetico, 朧 夜 – oboroyo – con “aura lattiginosa”. Letteralmente vuol dire “notte di foschia”, ma il concetto di oboro, non è totalmente sovrapponibile a foschia. Ancora poco oltre, “prima di rendersene conto” traduce 何で も不意に – nandemo fui ni – letteralmente “qualsiasi cosa/a ogni modo senza intenzione”. La frase “Di alberi così buffi non ce ne sono tanti” cerca di mantenere il tono colloquiale e leggermente ironico dell’originale: こんな滑稽な樹はたんとあるまい – konna kokkei na ki wa, tanto arumai. Incidentalmente, “tanto” è un avverbio perfettivo, di quelli che finiscono in -tto o -nto, come zutto (assolutamente, sempre), o motto (molto di più), o chanto (precisamente, correttamente), e significa esattamente... “tanto” in Italiano! Nella descrizione della magnolia, Souseki usa l’epiteto 一 輪 – ichiwa – per indicare i fiori. Letteralmente, la parola vuol dire “un cerchio”, ma è una figura retorica comunissima in Giapponese, tanto da essere usata persino nel linguaggio comune. Ho preferito quindi ripetere “fiore”. Sempre nella stessa descrizione, “Si ammanta di modestia” è una traduzione un po’ liberale di: 奥床しくも自らを卑下して い る – okuyashiku mo mizukara hige shiteiru – che letteralmente vuol dire “pur se intimamente, si insulta da solo”, ma qui “insulto” assume il senso di “mentire volutamente sui propri meriti”. La costruzione sa di artificioso e retorico, da qui l’idea di usare una simile retorica in Italiano. Nel dialogo con l’abate, quando il protagonista si lamenta per l’invadenza della gente di Tokyo, “si perdono in queste cazzate” 295 traduce 余計な事をやりますよ – yokei na koto wo yarimasu yo – letteralmente “fanno una cosa eccessivamente liberale”. Ho preferito tradurre “cosa eccessivamente liberale” con “cazzate” perché yokei è il termine più vicino, in Giapponese. Sebbene non volgare, in origine, il suo continuo accostamento a parole volgari, e l’uso sempre più idiomatico nel parlare comune, da un lato, e lo sdoganamento di “cazzate” nell’Italiano parlato dall’altro, ci autorizza ad accostarli, soprattutto in considerazione del tono volgare del resto del discorso, al quale “cazzate” non aggiunge e non toglie nulla. Poesie nel capitolo La poesia cinese di Chao Buji merita un’analisi particolarmente approfondita. In realtà, il brano riportato da Souseki è in prosa, e tradotto (a dire il vero, in modo non molto preciso) in Giapponese. Ho valutato a lungo l’opportunità di usare come base della traduzione il testo trascritto nel romanzo, o piuttosto l’originale cinese. Alla fine, ho deciso di tradurre il brano originale, e di renderlo in poesia, dal momento che, anche se in prosa, l’originale ha un alto grado di poeticità: assonanze, strutture ripetitive, ritmo e persino terminologie sono quelle tipiche della poesia cinese. Credo di aver fatto un buon servizio a questo breve brano rendendolo in metrica, e in versi semiliberi. Anzi, ho cercato di mantenere il ritmo originale, la struttura e anche alcune delle assonanze. Questo è il brano in Cinese: 于时九月,天高露清,山空月明,仰视星斗皆光大,如 适在人上。窗间竹数十竿相磨戛,声切切不已。竹间梅棕 森然如鬼魅离立突鬓之状。二三子又相顾魄动而不得寐。 迟明,皆去。 Le prime tre frasi sono “parole di quattro caratteri”, tipiche strutture usate in un oratoria formale e in poesia, e descrivono lo scenario di settembre, dal cielo alto, dalla rugiada pura, con 296 montagne spaziose e luna chiara, con le stelle che, tutte, “brillano grande”, quasi fossero state messe apposta su ogni uomo. Qui, l’aggettivo 大 – grande – è posto dietro alla parola a cui si riferisce, 光 – luce”, un evidente espediente poetico. Le due frasi successive propongono un’insistenza con il soggetto e quindi il carattere che indica “spazio” 间, qui inteso con senso di “oltre, dietro”. Il bambù, oggetto della prima frase, diventa soggetto nella seconda, creando una costruzione ritmica che ho riportato con “Di là da la finestra / di giunchi …. Di là dai giunchi,...”. In un paio di punti ho rinunciato a tradurre il significato letterale, per riportare invece il senso generale e soprattutto la ritmica e la poeticità del brano originale. In particolare, ho mantenuto la metafora che risulta evidente in questo brano: i giunchi che si sfregano di continuo sono guerrieri che combattono guerre senza senso; oltre, si intravedono, alberi belli (peschi e palme, nel testo originale), ma spaventosi come spettri, che hanno persino le basette ritte (nell’immaginario Cinese è un’icona tipica degli spettri), ancor più inquietanti perché se ne stanno fermi, da soli, a guardarsi l’un l’altro, mentre gli eserciti combattono. Sono i generali, o i governanti, indifferenti alle sofferenze degli uomini che mandano a morire. Ma all’alba, l’illusione svanisce: con la luce, si vede chiaramente chi è cosa, e quanto vale. La traduzione in Giapponese nel testo di Souseki è imprecisa e rinuncia a ogni tentativo di metrica; nei punti più oscuri del testo cinese (direi, più poetici), trascrive carattere per carattere l’originale, nel tentativo di non alterarne il significato. Tentativo vano, dal momento che gli ideogrammi non tradotti hanno un senso assai differente in Cinese e in Giapponese. Questo è il testo che compare nel Kusamakura: 時に九月天高く露清く、山空しく、月明かに、仰いで 星斗を視れば皆光大、たまたま人の上にあるがごとし、 窓間の竹数十竿、相摩戞して声切々やまず。竹間の梅棕 297 森然として鬼魅の離立笑鬚の状のごとし。二三子相顧み 魄動いて寝るを得ず。遅明皆去る。 Letto in Giapponese, questo brano suona più o meno (al netto delle ambiguità col Cinese non tradotto) come: Alle volte, in settembre, quando il cielo è alto, la rugiada è pura, le montagne sono vuote e la luna splende chiara, e le stelle sembrano brillare su tutti, messe apposta sopra a ogni persona, fuori dalla finestra dieci bambù si colpiscono l’un l’altro, emettendo grida spezzate. Fra i bambù si intravedono demoni impressionanti come boschetti naturali di peschi e palme [l’inversione del concetto è nel brano Giapponese] in disparte con la barba sul sorriso [un errore di trascrizione fra sorriso 笑 e improvviso, o ritto 突]. Due o tre tizi si guardano l’un l’altro, l’animo smosso che non riesce a prender sonno. A mattino inoltrato, tutti se ne vanno. L’origine più forte di ambiguità fra il Cinese e il Giapponese qui sta nella differenza di significato nel carattere 皆 , che in cinese significa “ogni cosa”, mentre in giapponese significa “tutti quanti”, e si riferisce unicamente alle persone, e nel carattere 子, che significa “bambino” sia in Cinese che in Giapponese, ma in Cinese classico viene usato anche come contatore generico (come il nostro -esimo) e come suffisso per i sapienti (i.e. Confucio si scrive 孔夫子, e Lao-tsu, o più precisamente Laozi, il fondatore del Taoismo, si scrive 老子). Anche il verbo 去る – saru, “passare” ha un significato leggermente diverso in Cinese. E poi, il termine arcaico 迟 明 , letteralmente “luce tarda”, oggi sappiamo che indica non il mattino inoltrato, ma l’alba, ossia, la luce che arriva a tarda notte (le regioni a nord della Cina sono alla latitudine di Londra; d’estate, l’alba può arrivare alle tre del mattino). Avendo letto le altre traduzioni dal Cinese di Souseki, e conoscendone la precisione, o anche solo avendo osservato che 298 altrove ha preferito scrivere direttamente i brani in Cinese, eventualmente traducendoli a margine, mi viene da pensare che l’autore abbia avuto accesso solo a materiale già tradotto. All’epoca, sarebbe stato difficile procurarsi il testo originale, soprattutto avendo scadenze editoriali da rispettare, mentre questo brano poteva facilmente essere incluso in antologie, magari scritte alla fine del ’700, di larga diffusione e facile consultazione. L’altra poesia nel capitolo è l’haiku sui fiori della magnolia. Il testo originale è il seguente: 木蓮の花ばかりなる空を瞻る mokuren no / hana bakari naru / sora wo miru Della magnolia / diventato nient’altro che i fiori / il cielo guardo. Nell’originale, senza divisione in versi. Il senso originale suggerisce l’immagine di una persona che guarda in alto, e vede un cielo fatto solo di fiori di magnolia. 12 In “bisogna studiare lo spirito sottile” l’autore usa un’espressione di origine cinese, una tipica “parola in quattro ideogrammi”: 雲 容 煙 態 – unyou entai. Letteralmente vuol dire “dalla forma fumosa, e dal contenuto nebuloso”. In Cinese, si usano spesso due ideogrammi “sinonimi” per comporre la parola “radice” di un concetto. ad esempio, 雲 煙 – yunyan – letteralmente “nube-fumo” esprime il concetto di etereo, fumoso. Le due componenti ideografiche del concetto radice vengono poi utilizzate per formare tutta una serie di concetti “adiacenti”, combinandole con altri ideogrammi. In alcuni casi, si “intercalano” con altri ideogrammi, per formare piccole frasi idiomatiche come 雲容煙態 – yunrong yantai – o in Giapponese 299 unyou entai. L’uso di queste strutture è comunissimo in Cinese, tanto che, ancora oggi, continuano a nascere neologismi basati su questo modo di organizzare i concetti, e i Cinesi usano naturalmente queste strutture mentali per comunicare concetti non banali nelle conversazioni quotidiane. Invece, in Giapponese, la struttura è del tutto aliena; esistono una serie di parole di quattro ideogrammi importate dal Cinese e prese come termini “da dizionario”. Alle orecchie di un Giapponese, anche all’epoca di Souseki, unyou entai doveva già suonare come un latinismo suonerebbe a un Italiano, che magari è in grado di comprenderlo, ma che non fa certo parte del suo parlare abituale. “Uscendo dal cancello, tagliando a sinistra,...” traduce letteralmente 門を出て、左へ切れると – mon wo deru, hidari e kiru to. Il verbo kiru, tagliare, ha assunto molti significati idiomatici, ancor più che in Italiano, ed è diventato estremamente diffuso (al punto da diventare un ausiliare nell’espressione di concetti come “riuscire a...” “fare fino in fondo...”); ma non è un caso che l’autore lo usi qui, dopo aver ripetuto “uscire” e “sinistra”, riprendendo il paragrafo precedente, in cui si parla di un coltello. Mentre riflette sul rapporto fra il protagonista e Nami, Souseki usa un gioco di parole che ho reso con “nel corso del mio viaggio”. L’originale è このたびの旅行 – kono tabi no ryoukou – che letteralmente vuol dire “nel viaggio di questa volta”, ma tabi (volta, occasione), è anche un sinonimo di “viaggio”. Anzi, originariamente vuol dire “viaggio”, e assume il significato di “volta, occasione”, solo attraverso un passaggio al valore idiomatico. Quindi, al lettore giapponese l’espressione suona come “nel viaggio di questo viaggio”. Ho cercato di rendere con “corso”, che ha subito trasformazioni idiomatiche simili, e comunque trasmette una certa idea di movimento, o strada da percorrere, che si sposa col senso originale del raddoppio dell’idea di viaggio. 300 Poco oltre, “Non fraintendete questi miei pensieri” traduce una figura retorica usata molto spesso nella letteratura giapponese, e intraducibile in modo diretto, che consiste nel parlare di sé stessi come di un oggetto terzo, rivolgendosi direttamente all’ascoltatore: こんな考をもつ余を、誤解してはならん – konna kangae wo motsu yo wo, gokai shite wa naran – “quel me stesso che ha questo tipo di pensieri, non deve essere frainteso”. Esiste anche una certa ambiguità nel risolvere il soggetto della frase (è il parlante o l’ascoltatore che non deve fraintendere?), ma è un’ambiguità che si risolve osservando il modo imperativo del verbo e l’oggettivazione del parlante. È sempre possibile continuare a leggere questa frase come se fosse rivolta dall’autore a sé stesso, ma rimane sempre una forte sfumatura di coinvolgimento dell’ascoltatore. La frase “La retta via è piena di curve, la virtù non è acqua, l’integrità non la vendono un tanto al chilo e la moralità non è mai valsa una vita.” è una traduzione leggermente liberale di una serie di variazioni su figure retoriche e luoghi comuni noti al lettore giapponese. Nell’originale: 善は行い難い、徳は施こし にくい、節操は守り安からぬ、義のために命を捨てるの は惜しい – zen wa okonai-gatai, toku wa hodokoshi-nikui, sessou wa mamori-yasukaranu, gi no tame ni inochi wo suteru no wa oshii – letteralmente “il bene è difficile da mettere in pratica, la virtù è difficile da profondere, l’integrità non si protegge a buon mercato, buttare la vita per il dovere è triste”. La mia soluzione mantiene il senso abbastanza aderente all’originale, ma permette di raccogliere l’effetto dei luoghi comuni maltrattati sia dall’autore che dai suoi lettori, che, suppone l’autore, non possono essere nuovi a queste considerazioni. In “...cristallizzando quell’unica scintilla di determinazione, se ne può riflettere l’abbacinante splendore” ho deciso di spostare “scintilla”, che nell’originale si trova nella frase seguente, per mantenere il ritmo e le sensazioni evocate dall’autore. Per la 301 precisione, l’originale è: どうしても堪えられぬと云う一念の 結晶して、燦として白日を射返すものである – doushite mo taerarenu to iu ichinen no kesshou shite, san to shite hakujitsu wo ikaesu mono de aru – letteralmente “quel che cristallizza quel pensiero fisso di non farcela più, come una scintilla, è la restituzione del bagliore del sole”. Quel sen to shite (“come una scintilla”, o “scintillando”, o ancora “scintillante”) dell’originale è evidentemente riferito al pensiero reso cristallino, pure se grammaticamente appartiene alla subordinata successiva. Sarebbe stato possibile rendere questa forma anche in Italiano, riferendosi allo scintillìo del sole e lasciando che l’associazione tra il brillare e il cristallo si formasse nella mente del lettore, ma qualsiasi soluzione mi sembrava poco elegante, e avrebbe spezzato il ritmo della frase. Invece, rendere l’avverbio di modo, o il verbo, in un nome associato allo stesso agente dell’originale, permette di recuperare sia il significato che le immagini trasmesse dal testo, senza perdere il ritmo poetico e veloce del discorso. “Ridere di chi riesce davvero a comprendere sé stesso vale il fiato della risata” era nell’originale 真に個中の消息を解し得 たるものの嗤うはその意を得ている – makoto ni kochuu no shousoku wo satoshietaru mono no warau wa, sono iki wo eteiru – chi ride di chi riesce a comprendere davvero sé stesso (letteralmente le informazioni personali che lo riguardano) ottiene quel fiato. La parte iniziale usa una perifrasi per indicare “sé stesso”, e nella traduzione perdo il senso di “indagine”, di “scoperta” che abbiamo nell’originale, mentre la parte finale fa leva su alcuni idiomatici che indicano qualcosa di poco valore, senza usarli direttamente. Mi spiace per la perdita, ma sarebbe stato impossibile rendere il significato esatto senza appesantire troppo il ritmo della frase. Nel ricordo di Fujimura, come usuale, la ripetizione delle parole “ultimo coraggio” e “affinare” sono nell’originale, che usa anche 302 l’espressione 壮烈の最後を遂ぐる – souretzu no saigo wo toguru – che significa appunto “affinare l’ultimo (ultima parte del) coraggio”. Il ho scelto di usare “mondo emotivo” come traduzione dell’originale 人情界 – ninjou-kai – e 人情世界 – ninjou-sekai. Il lettore attento noterà che ninjou vuol dire “emotivo”, ed è la radice del termine chiave “inemotivo” (hi-ninjou). La scelta dei termini “forma”, “regola” e “messaggio” in “Nel mondo sensibile, l’agire con grazia ha la sua forma, le sue regole, il suo messaggio” e nella frase successiva, è un adattamento necessariamente arbitrario. Souseki non usa parole complete per esprimere questi concetti, ma ideogrammi volutamente “incompleti”; sono ideogrammi che, da soli, non formano una parola giapponese, e richiedono l’appoggio di sillabe fonetiche o di altri ideogrammi. Questo stratagemma è usato dagli autori giapponesi per “sostantivare” concetti astratti e trasformarli in oggetti del discorso, in categorie grammaticali da manipolare attraverso la struttura della frase. Gli ideogrammi qui usati a questo scopo sono 正 – sei/shou, 義 – gi, e 直 – choku. 正 – sei/shou – esprime il concetto di correttezza, o di correzione (di un errore). Ideograficamente ed etimologicamente, rappresenta una squadra usata per costruire un muro ad angolo retto; richiama fortemente il concetto di “forma giusta”, ho quindi scelto di renderlo con “forma”. 義 – gi – era in origine usato per indicare i riti e e il cerimoniale di corte, e quindi le procedure per la gestione della cosa pubblica. Da lì, ha assunto il significato di “legge”, e per estensione “giustizia” e “regole”. La scelta di renderlo con “regola” è la più naturale, dato il contesto. 直 – choku – deriva dal pittogramma di una mano che posa un oggetto in un luogo adatto ad accoglierlo, ed è usato per esprimere il concetto di “diretto”, in tutti i sensi: sia come movimento da un punto a una destinazione senza deviazioni, sia come idea che 303 viene espressa direttamente, francamente, onestamente. In questa sua seconda accezione, porta con se un senso abbastanza esplicito di “comunicazione”: la franchezza a cui si riferisce è quella del pensiero trasmesso a chi ascolta. Da qui la scelta di renderlo con “messaggio”, sicuramente meno preciso di “diretto” o “franco”, ma molto più adeguato al contesto (comunque, il lettore sicuramente... riceve il messaggio... che il messaggio dell’espressione artistica deve necessariamente essere franco). È da notare che questi tre ideogrammi sono legati nelle parole 正義 – seigi – giustizia (astratta, nel senso di “cosa giusta”) e 正直 – shouchoku – onestà. In questo passaggio, ho cambiato il termine usato per tradurre 所 作 – josaku – recitazione. È la parola usata per indicare i movimenti sul palco degli attori dei teatri tradizionali, quindi per estensione indica anche la danza che è spesso parte centrale, se non esclusiva, di queste recite; per ulteriore estensione, già al tempo di Souseki la parola indicava eufemisticamente l’agire pubblico, studiato e non naturale, l’atteggiamento che si assume di fronte agli estranei, quello che noi definiremo “atteggiarsi”, ma senza particolari accezioni negative. La frase che ho tradotto con “Ha addosso un kimono color tè.” era nell’originale 茶の中折れを被っている – cha no nakaori wo kabutteiru – letteralmente, “porta addosso un nakaori di tè”. Il nakaori è un abito semplice, usato tipicamente dalla gente comune, e il colore del tè (marrone giallastro) è quello meno pregiato. Ho preferito tradurre con nakaori con “kimono” per non confondere il lettore che non conoscesse il termine, e per evitare di aggiungere una nota. Si perde un po’ la resa di questo personaggio come un appartenente alla classe popolare, ma difficilmente il lettore italiano avrebbe potuto apprezzare direttamente questa caratterizzazione. Ho cercato di rendere il senso di “sciattezza” chiaro nell’originale iniziando la frase con “ha addosso”. 304 Il termine esatto usato per rendere “ E chi gli sta di fronte? Chi gli sta di fronte è una donna” nell’originale è 相 手 – aite – “l’altro”, ma “l’altro è una donna” suonava decisamente troppo male, in Italiano. Ho dovuto usare un’espressione priva di connotazioni di genere, esattamente come l’originale. Poco oltre, l’inciso “Mentre mi chiedevo come preservare la strana armonia delle forme di quei due, mi resi conto del contrasto fra i loro volti, e fra le loro vesti, e la voglia di ritrarli andò crescendo”, ha richiesto alcuni adattamenti. L’originale è 二人の姿勢がかくのごとく美妙な調和を保っていると同 時に、両者の顔と、衣服にはあくまで、対照が認められ る から 、 画 とし て見 ると 一 層 の 興 味 が 深い – futari no seishou ga kaku no gotoku bimyou na chouwa wo mamotteiru to douji ni, ryousha no kao to, ifuku ni wa akumademo, taishou ga mitomerareru kara, ga to shitemiru to issou no kyoumi ga fukai. Letteralmente, suona come “assieme al preservare la strana armonia delle forme di quei due così come descritta, assieme al contrasto di entrambi i loro volti, e persino nei loro vestiti, l’interesse nel farne disegno si faceva via via più profondo”. Mi sono liberato dalla lettera per seguire meglio il ritmo dell’originale, pur mantenendo il significato e le immagini descritte. Qui, kaku no gotoku – così come scritta – è un’espressione idiomatica che noi traduciamo con “così com’è”. Le due espressioni “più improvvisa di un tuono arrivato prima del lampo, la donna mi tirò questa sciabolata” traducono due frasi idiomatiche, di cui la prima è di uso letterario, la seconda è di uso più comune. L’originale è 迅雷を掩うに遑あらず、女 は突然として一太刀浴びせかけた – jinrai wo oou ni itoma arazu, onna wa totzuzen to shite hitotachi abisekaketa. Letteralmente, la prima espressione suona come “senza spazio per coprire il lampo”, e la seconda come “la donna, all’improvviso, iniziò a bagnare la spada”; il loro significato è quello usato nella traduzione. 305 Nell’espressione “Anche la donna, non ha l’aria di voler fare alcun rumore”, ho voluto raccogliere la sinestesia presente nell’originale: 女は音の景色もない – onna wa oto no keshiki mo nai – lett. “la donna non ha il minimo ’panorama’ di rumore”. Il termine 景色 – keshiki – significa letteralmente “panorama”, ma viene spesso usato (abbiamo già visto) per tradurre il nostro idiomatico “avere l’aria”, o comunque per indicare una “vista”, una “visuale” su anche su qualcosa di astratto come un fenomeno, o ancora per indicare qualcosa che si mostra, che dà spettacolo o che risulta evidente da un atteggiamento che vuole esplicitamente ottenere un certo effetto in chi osserva. Si tratta comunque di un termine che ha un forte connotato “visuale”, e qui Sosueki è sublime nel formare questa sinestesia, applicandolo al suono. L’aspetto volitivo (“...di voler fare...”) non è nella lettera del passaggio originale, ma quando si usa il termine keshiki riferito a una persona, è forte il senso di atteggiamento, di volontà nel mostrare. Quindi, l’idiomatico italiano “avere l’aria di voler...” rende molto meglio il senso originale di quanto potrebbe fare “avere l’aria” e basta. Purtroppo, si perde un po’ di ritmo, serratissimo in Giapponese, ma ho cercato di recuperare usando l’elisione in “voler” e “alcun”. In fondo al capitolo, nella locuzione “...per correre sul tatami, silenzioso...”, ho aggiunto la virgola che era assente in origine: “silenzioso”, nella frase Giapponese 静かな畳の上を – shizuka na tatami no ue wo – al di sopra del silenzioso tatami – è esplicitamente un aggettivo di tatami e non, come ci si aspetterebbe, e come sarebbe semanticamente logico, un avverbio riferito al lancio del coltello. Allo stesso modo, nella frase successiva 寒いものが一寸ばかり光った – samui mono ga issun bakari hikatta – una cosa fredda brillò per appena tre centimetri – “freddo” si riferisce generalmente al modo in cui brilla una lama, ma qui diventa un aggettivo per un “qualcosa” che allude alla lama. 306 Souseki usa spesso e con naturalezza questo genere di artifici retorici, sconosciuti nella letteratura orientale e Giapponese in particolare, probabilmente avendoli appresi dagli scrittori occidentali, ma con una sostanziale innovazione: definirei queste due figure come due enallage, ma il punto è che la struttura del Giapponese permette di individuare in maniera esplicita e inequivocabile la funzione di questi elementi del discorso. Così, quella che nelle lingue occidentali sarebbe una enallage diventa una figura ancora più forte, perché da un lato spiazza completamente il lettore proponendogli un termine chiaramente fuori posto, e dall’altro lo guida a una perfetta, non ambigua comprensione di questa “stranezza”. Un po’ come se l’autore dicesse al lettore: sì, non hai capito male, è proprio così. Se avessi copiato esattamente la figura, avrei dovuto scrivere qualcosa come “gettò il pugnale silenzioso sul tatami”, e normalmente avrei preferito una traduzione più letterale della forma retorica, ma, in questo caso, ho preferito aggiungere una virgola, e creare l’ambiguità dell’attribuzione di “silenzioso” al gesto (avverbio), o al tatami (aggettivo), per meglio attirare l’attenzione del lettore su questo dettaglio, e per sottolineare il raddoppio di questa forma retorica nella struttura della frase successiva. Poesie nel capitolo La poesia inserita in questo capitolo è un componimento che Souseki ha realizzato indipendentemente, dal titolo 春 興 – shunkyou – “Rapito dalla Primavera” (lett. Interesse profondo per la primavera). Si tratta di un componimento particolare, in stile 漢 詩 – kanshi – “poesia in ideogrammi”. Il kanshi è un’opera classica, in auge alla corte imperiale dall’800 al 1200 circa, che usa i caratteri cinesi per rendere alcune parole ed espressioni giapponesi. I caratteri hanno un preciso significato, codificato per questo tipo di letteratura, che non è necessariamente lo stesso significato che hanno in Cinese, o persino nel Giapponese 307 comune12. Molte poesie del Man’yo-shuu (collezione di diecimila foglie) sono scritte in questo stile, così come molti dei testi in prosa e documenti amministrativi antichi (principalmente, il Nihon-shoki). Anche solo leggere direttamente questi scritti, senza una traduzione in Giapponese fonetico, richiede una preparazione letteraria specifica; scrivere un nuovo componimento è un’impresa al di là delle capacità del letterato medio, e richiede una padronanza della letteratura antica fuori dal comune. Souseki include questa poesia in questo punto per evidenziare il contrasto del suo manifesto letterario con la letteratura antica, esattamente come fa Dante quando mostra la dignità del volgare, impiegandolo per scrivere la sua Divina Commedia, o come fa Beethoven quando parla ai suoi colleghi compositori nell’inciso del quarto movimento della nona sinfonia, introducendo “l’Inno alla Gioia” con le parole: “Amici, basta con questi suoni, è tempo di armonie più liete!”. Consci di introdurre un cambiamento paradigmatico, questi autori parlano ai loro colleghi contemporanei indicando loro la via antica, e mostrando che quella nuova non solo è la sua degna erede, ma ne è persino superiore. La poesia stessa introduce un’innovazione che entrerà a far parte della cultura popolare giapponese moderna, al punto da essere oggi molto comune nelle canzoni e nella sottocultura generale: gli ultimi versi della poesia sono una dichiarazione 12 308 A titolo di esempio, nel verso “ 韶 光 猶 依 依 ” , gli ideogrammi 依 依 che normalmente significano “vestito”, “rappresentano” il verbo “ii”, ossia “dire”, e sono usati esclusivamente per il loro valore fonetico “i”. Il lettore è tenuto a sapere che, in questo stile letterario, l’ideogramma “依” normalmente è usato per rendere il valore fonetico “i”, e più raramente per il suo significato di “abito”. Discorso simile va fatto per circa tre-quattrocento ideogrammi che sono usati in maniera “peculiare” in questo stile, e per alcune parole e espressioni chiave usate sempre con valori specifici. Inoltre, per ricostruire il senso dei versi, si usano “regole” grammaticali che differiscono radicalmente da quelle giapponesi, anche antiche, e imitano il Cinese solo a tratti. d’intenti, un atto volitivo dell’autore. Tradizionalmente, le poesie di questo genere sono meramente descrittive, ma qui abbiamo il poeta che si rivolge direttamente al lettore e lo coinvolge, parlando di un desiderio, di un’intenzione che l’autore vuole comunicare. Souseki vuole dimostrare così che questo nuovo stile è degno anche della più alta poesia Giapponese. La poesia è scritta in versi di cinque ideogrammi (che non corrispondono necessariamente a cinque sillabe, anzi, sono letti ognuno in modo differente). Sebbene la forma orale sia libera, nella traduzione ho preferito rendere la metrica grafica rigida dell’originale con versi italiani in tredici sillabe, a rima baciata. Qui sotto riporto la poesia originale con la traduzione letterale verso per verso. 出門多所思 Esco dalla porta con molte preoccupazioni 春風吹吾衣 Il vento di primavera agita le mie vesti 芳草生車轍 L’erba cresce nelle tracce dei carri 廃道入霞微 Sul sentiero abbandonato scende la rugiada [sottile 停杖而矚目 Fermo il bastone e affilo gli occhi 万象帯晴暉 Diecimila cose sono cinte dalla luce sfaccettata. 聴黄鳥宛転 Odo lo il battere delle ali (braccia) di uccelli 観落英紛霏 Vedo i petali scendere dolcemente 行尽平蕪遠 Alla fine della strada, lontani campi di nanohana [(fiori di rapa) 309 題詩古寺扉 Il cancello di un vecchio tempo su cui è scritta [una poesia 孤愁高雲際 Contemplo il bordo delle nuvole alte 大空断鴻帰 Nell’ampio cielo, tornano le cicogne 寸心何窈窕 Ma quant’è delicato un filo di sentimento! 縹緲忘是非 Lo spirito leggero mi fa dimenticare i doveri 三十我欲老 A trent’anni desidero la saggezza 韶光猶依依 Voglio dire chiaramente 逍遥随物化 Andrò verso la lontana reincarnazione 悠然対芬菲 Con la dignità dei petali 13 In “E se mi invitano per cortesia, accetto”, l’ultima parte esprime una forma idiomatica che è nell’originale: 御招伴でも 呼ばれれば行く – Oshouban de mo yobarereba iku – “se/quando mi invitano come uno di loro, ci vado”. Ma il verbo iku – andare – usato in questo modo, sottintende un cinesismo: in Cinese vuol dire “va bene” oppure “lo faccio”, e in Giapponese assume parte dello stesso valore. In breve, i valori idiomatici di iku in Giapponese sono più ricchi di quelli di “andare” in Italiano, e il senso trasmesso dall’originale è più “se mi invitano per cortesia, accetto” che non “se mi invitano per cortesia, vado” come la traduzione letterale suggerirebbe. Nella frase successiva, “Accetto anche se non ne capisco il senso”, come al solito l’ambiguità del riferimento di “non capire 310 il senso” all’invito, piuttosto che al fatto di accettarlo, è nell’originale. La risposta del nonno “Ma che ti salta in testa... su, su, torna vittorioso!” contiene alcune forme idiomatiche che ho tradotto in Italiano con forme simili, rinunciando alla lettera per facilitare la comprensione. L’originale è そんな乱暴な事を―まあまあ、 めでたく凱旋をして帰って来てくれ – sonna ranbou na koto wo – maa, maa, medetaku gaisen wo shite kaettekite kure – letteralmente “una cosa così avventata! - su, su, (fallo per me), torna facendo atti di eroismo di cui congratularsi!”. La prima parte della frase usa una modalità comunicativa Giapponese che è poi la stessa che permette di parlare direttamente a qualcuno pur rivolgendosi a esso in terza persona: quella “cosa così avventata” è un richiamo a chi ha appena parlato, e a tutti gli ascoltatori, che esprime disapprovazione per quanto detto. Nella traduzione letterale suona indiretto, ma nella pratica del Giapponese parlato, la sua attribuzione è perfettamente chiara. La seconda parte si apre con medetaku, che è un avverbio intraducibile, derivato dall’aggettivo verbale medetai, che indica una cosa di cui congratularsi (suonerebbe, se esistesse una parola simile in Italiano, come “congratulevole” o “congratuloso”), e finisce con l’ausiliare direzionale kure, ossia “fare per me, fammi il favore di...”. È una tipica costruzione idiomatica che infioretta il “torna vittorioso” in una struttura priva di significato reale, e che trasmette semplicemente un senso di forte augurio a livello metacomunicativo. In particolare quel “maa, maa”, è una tipica esortazione a stemperare i toni, come dire “non litigate”, “lasciate perdere” o “andiamo, non fate così...”. L’espressione che rendo con la metafora “filo del destino” è in Giapponese 運命 の縄 – unmei no nawa – fune del destino. A parte lo spessore, le due metafore sono molto simili, e il senso dell’espressione è quello che ho usato nella traduzione. 311 La locuzione “chiedere il permesso” traduce un cinesismo molto compatto: 否応 もな し – iyaou mo nashi – letteralmente “senza nemmeno (farci) dissentire/consentire”. Si perde un po’ di ritmo, ma la traduzione “chiedere il permesso” è probabilmente la più adeguata a rendere il concetto in Italiano. Il veloce scambio di battute che inizia con “Ma sì, trattami da scema giusto perché sono donna!” pone diversi problemi di traduzione. Innanzi tutto, lo scambio si svolge al tono formale minimo, cosa che diminuisce la precisione dell’attribuzione delle frasi. In particolare: 女だと思って、人をたんと馬鹿になさ い – onna da to omotte, hito wo tanto baka ni nasai – letteralmente: “pensando che sono donna, fai la gente scema”, è dal tono di formalità più basso in assoluto, fra quelle pronunciate da Nami. Il verbo omotte – tradotto sopra con “fai” – non è indicativo, ma imperativo; spesso, in questo tipo di fraseggi, i Giapponesi usano l’imperativo per intendere il contrario di ciò che vogliono realmente esprimere, come potrebbe fare un Italiano dicendo “ecco, vai avanti, prendimi per scemo!”. La risposta è un po’ più composta, ma resta sempre a un livello formale appena più basso del solito: あなたが女だから、そんな馬鹿を云うのですよ – anata ga onna da kara, sonna baka wo iu no desu yo – letteralmente “sei donna, e quindi dici quelle scemenze”. La parola anata e il verbo desu marcano la frase come di tono formale medio, ma la costruzione è tipica di un tono piano. In particolare, l’attribuzione di iu (dire) è dubbia. Normalmente, sarebbe da riferire al parlante (io dico), ma il ga in anata ga aggancia il soggetto a “tu”, e inoltre l’uso di sonna (quel genere di..) davanti a baka (scemenza) aggiunge un senso di distanza, e di norma, anche se non necessariamente, viene usato per esprimere il fatto che si sta parlando di qualcun altro; per esprimere qualcosa di fatto dal parlante, si usa in genere konna (questo genere di...). Anche la risposta lascia intendere che Nami ha compreso quel “dire” come riferito a sé: それじゃ、あなたの顔をいろいろにして見せ 312 てちょうだい – sore ja, anata no kao wo iroiro misete choudai – “se è così, fammi vedere la varietà del tuo viso”. La risposta è adeguata se il parlante ha inteso “sei tu che dici scemenze”, ma sarebbe assai forzata dopo un “io dico scemenze”. Se il protagonista avesse voluto ammettere di “dire scemenze”, Nami non avrebbe motivo di chiedere una dimostrazione pratica del discorso che lei considera una sciocchezza. E la risposta これほど毎日いろい ろ に な っ て れ ば た く さ ん だ – kore hodo mainichi iroiro ni nattereba takusan da - “se variasse così ogni giorno sarebbe molto”, è marcata come di informale dall’uso di “da” al posto di “desu”. L’espressione “takusan da”, che letteralmente significa “è molto”, esprime idiomaticamente il fatto che il parlate è seccato, o sarebbe spazientito nell’eventualità indicata dal resto della frase. Ad esempio, “mou takusan da!” si può tradurre con “ne ho avuto abbastanza!” o “adesso basta!”. L’uso di “da” al posto di “desu” ci conferma che il parlante vuole intendere quel takusan nel valore idiomatico di “perdere la pazienza” più che nel suo valore letterale “molto”. Ho usato l’espressione “fazzoletto di terra” per esprimere il concetto originalmente reso con di 何坪何合の地面 – nanhei nanyou no chimen – che suona come “tot iarde e tot metri quadri di suolo”. Si tratta ancora di un tipico cinesismo, di una parola in quattro ideogrammi, ma stavolta molto popolare e giapponesizzata, che assomma l’idea di un perimetro (tante unità di misura lineare) e un’area (tante unità di misura d’area). Ho preferito usare un idiomatico che rendesse lo stesso significato, piuttosto che una traduzione più letterale, che non avrebbe dato il senso di “fastidio” trasmesso dall’originale. Successivamente, l’autore usa la stessa parola riferita al confine: 何坪何合の周囲 に鉄柵を設けて – nanhei nanyou no shuui ni tessaku wo moukete – letteralmente “erigere su tot iarde e tot metri quadri di confine una staccionata di ferro”. L’espressione è forzatamente applicata 313 al confine, ed ho cercato di rendere l’effetto con “straccio di ringhiera”, che richiama l’idea di “fazzoletto” di prima, e che, come l’originale, discorda con l’idea di “ringhiera”. Alla fine del paragone fra il treno e la civiltà moderna, Souseki chiude con la considerazione あぶない、あぶない。気をつ けねばあぶないと思う – abunai, abunai. Ki wo tsukeneba abunai to omou – che letteralmente si traduce con “pericolo, pericolo. Se non si sta attenti, è pericolo, penso”. Quel modo di raddoppiare una parola alla fine del discorso è una tipica modalità di comunicazione giapponese. Il parlante scuote la testa e parla con sé stesso, coinvolgendo l’ascoltatore. Al contrario che nelle lingue occidentali, qui il raddoppio stempera, invece di enfatizzare, il senso dell’avvertimento. È un po’ come dire “guarda che ti metti nei guai”, o “potrebbe andare a finire male”. Nel raddoppio, abunai perde sia il suo significato letterale di “pericoloso” che il valore idiomatico di “attento!”, per diventare una sorta di mormorio di disapprovazione. In seguito, abunai è usato nel suo valore letterale, e lo traduco con “pericolo”. Appena dopo, l’espressione “fin sopra i capelli” traduce 鼻を衝 かれるくらい – hana wo tsukareru kurai – letteralmente “tanto da tappare il naso”. “Agl’ordini!” traduce una parola del gergo militare, ど う れ – doure – che ha lo stesso significato. Inoltre, questo è un termine specifico del linguaggio dei samurai. Che lo fosse stato, che discendesse da una famiglia di samurai o che volesse solo imitarne uno, il padre di Nami ci trasmette anche questo significato, che non è possibile rendere direttamente in Italiano. Durante i saluti, quello di Nami, “Mi raccomando, muori un pochettino!” cerca di rendere il tono dell’originale: 死んで御出 で – shinde oide – che letteralmente è una forma imperativa del verbo morire (“muori!”), ma questa forma appartiene al registro 314 femminile detto chiwa, che serve a ingraziosire il discorso. Leggendo il suffisso imperativo “oide”, il lettore si immagina una donna che, con vocina femminile e allegra, agita la manina tutta sorridente, nell’atto di pronunciare parole benaugurati di tutto cuore. L’effetto di accostare questa forma al verbo morire è ironico, non minaccioso, anche se è evidentemente un augurio fuori luogo. La parola virgolettata “struggimento” traduce il testo virgolettato「憐れ」 – aware. È il termine usato nel capitolo 10, quello che, secondo l’autore, mancava per rendere perfetta l’espressione di Nami. Questo termine ha molti significati, fra cui, “dolore”, “compassione”, “pena”, e perfino “sdegno”, se usata in certi contesti. Si tratta della forma sospensiva del verbo awareru – provare pena – soffrire per... - e la forma sospensiva giapponese corrisponde alla nostra forma sostantivata (awareru → aware = soffrire → sofferenza). Fra i termini possibili, la scelta è caduta su “dolore” per due motivi: innanzi tutto, il sospensivo di questo verbo è stato idiomaticamente usato per selezionare preferenzialmente questo fra i significati possibili delle altre forme. Inoltre, alcuni dei significati sinonimi non sono esattamente sovrapponibili ai corrispondenti italiani. In particolare, la “pena” indicata da aware non è quella indotta dalla compassione, dall’empatia e dal desiderio di aiutare altri esseri umani che stanno soffrendo, ma si concentra sul sentimento della persona che lo prova, al punto che, in alcuni contesti, può anche assumere una sfumatura di disapprovazione, e non di compassione, verso ciò che provoca quel sentimento. Negli ultimi due paragrafi del romanzo, verbi al presente e al passato remoto si alternano regolarmente, a indicare, anzi, a significare un vivido ricordo che si mescola alla narrazione dei fatti. Nell’ultima frase, “l’immagine che avevo nella mente” è in originale 余が胸中の画面は – yo ga kyuuchuu no gamen wa... – che letteralmente traduce come: “la tela (da disegno) che avevo nel 315 mezzo del mio petto”. Kyuuchuu è la versione aulica dell’idiomatico comune mune no naka, che letteralmente vuol dire “in mezzo al petto”, e significa “avere nel cuore”, e ovviamente “nell’anima”. Usare il petto per significare il cuore, anzi l’anima, è molto comune anche nel Giapponese parlato. Ero tentato di rendere l’aspetto di richiamo a una parte fisica del corpo per significare qualcosa di astratto con “l’immagine che avevo in testa”, ma questa soluzione era troppo poco raffinata per rendere l’uso di kyuuchuu al posto del più comune mune no naka. Ovviamente, nemmeno “avevo in mente” sarebbe andato bene, per via dell’abuso che se ne fa nel parlare comune in Italiano. Ma “nella mente” permette di allontanarsi dal valore idiomatico, e ammanta l’espressione di una certa ricercatezza che, penso, cattura almeno in parte la forma dell’originale. Per l’uso di “immagine” al posto di “tela”, è ovvio che “la tela” sta per “il quadro”, in una tipica metonimia, che si accoppia a quella idiomatica di “nel petto” per “nell’anima”. Ma avendo ormai rinunciato a rendere la prima metonimia, non me la sentivo di tradurre solo la seconda, sbilanciando così la struttura originale. Poesie nel capitolo L’unica poesia nel capitolo è un haiku a metrica libera (non suddiviso in 5-7-5 sillabe) che ho tradotto con: Che firma porta il vento satinato di primavera? L’originale è il seguente: 春風にそら解け繻子の銘は何 Haru kaze ni / soradoke shusu no / mei wa nani Letteralmente “Nel vento di primavera / il satin che si scioglie nel vuoto / qual’è il suo marchio?” 316 La primavera e per guanciale, erba sotto le stelle nell’anima, libertà del silenzio interiore
Documenti analoghi
Per guanciale, erba 7
Cristiani. A pensarci su, in fondo fu quella l'eleganza di Dozaemon5. In quella poesia di Swinburne6 di cui mi sfugge il nome, mi pare fosse descritta la gioia di una donna che era andata a vivere...
Dettagli