59 Angelica Zazzeri Risorgimento al femminile

Transcript

59 Angelica Zazzeri Risorgimento al femminile
Angelica Zazzeri
Risorgimento al femminile
Affrontare il tema del «Risorgimento al femminile» significa sia interrogarsi sul modo in cui le
donne presero parte a quella lunga stagione di rivoluzioni, sia chiedersi quali novità promosse il
Risorgimento nella percezione che le patriote avevano di loro stesse e dei loro codici comportamentali. Questi due aspetti della questione risultano strettamente interconnessi nelle fonti storiche che
ci sono giunte.
Sin dal triennio repubblicano (1796-99), alcune donne presero parte alla discussione sulla rigenerazione politica e morale della società intrecciando il risveglio della nazione con quello del loro
sesso. Nel 1797 tra Venezia, Mantova e Verona circolarono alcuni scritti femminili (tra cui vale la
pena ricordare La causa delle donne, dalla veneziana Annetta Vadori, così come la Schiavitù delle
donne, redatto dalla mantovana Carolina Airenti Lattanzi) in cui si denunciavano le ingiustizie che
fino ad allora il gentil sesso aveva subito (l’ineguaglianza dei regimi patrimoniali, le monacazioni
e i matrimoni forzati, le mancanze di un’educazione volta a fare delle donne dei semplici oggetti
del piacere maschile) e si invocava l’avvento della parità civile e politica di uomini e donne. Temi
simili risuonavano anche in fogli volanti distribuiti da anonime «cittadine» che contestavano l’idea
secondo cui la natura femminile costituisse di per sé un limite insuperabile al pieno esercizio delle
funzioni attribuite all’individuo e al cittadino anche in una società democratica ed egualitaria. In
alcuni casi più estremi si arrivò a rivendicare l’uguaglianza sessuale capovolgendo i termini della
discussione sulla natura femminile: se l’inferiorità e la minorità delle donne erano state consacrate
in nome dell’elemento spirituale, emotivo e sentimentale, che si riteneva fosse preminente nella
natura femminile, una nuova gerarchia, che riconosceva il primato della forza spirituale su quella
materiale e fisica, affermava la supremazia della donna sull’uomo.
A dare maggiore spessore alle rivendicazioni di queste repubblicane era un nuovo modello di femminilità di cui si fecero promotrici: nella società rigenerata e costituita in nazione la donna avrebbe
dovuto ripudiare i vizi, la corruzione e gli ozi in cui si erano vezzeggiate le aristocratiche, e, consapevole delle proprie responsabilità, si sarebbe dimostrata pronta a compiere sacrifici per la causa
patriottica. Le prove di questo cambiamento dei costumi femminili non si fecero attendere. Già
negli anni Venti e Trenta esponenti dell’alta borghesia o della nobiltà collaborarono alla preparazione dei moti e aderirono alla Carboneria costituendo la società delle Giardiniere (così chiamata
dai luoghi in cui si ritrovavano, i giardini appunto). Ogni giardino corrispondeva a un raggruppamento di 9 donne, che si dividevano tra apprendiste e maestre. I compiti affidati a queste collaboratrici erano per lo più di coordinamento e di raccordo ma non di meno presupponevano una certa
dose di coraggio, ardore, dedizione patriottica: se arrestate erano infatti sottoposte a interrogatori,
carcerazioni e perquisizioni. Molto più numerose furono coloro che esternarono il desiderio di
partecipare alle vicende politiche attraverso la scrittura. Nei loro componimenti poetici le letterate anteponevano il bene comunitario al perseguimento della felicità individuale e non esitavano
ad affrontare temi di grande attualità e di respiro internazionale come la sfortunata insurrezione
polacca, di cui trattò la nota patriota Caterina Franceschi, moglie del professore pisano Michele
Ferrucci. Questo impegno letterario raggiunse il suo apice nel 1848 con la nascita di alcune testate
interamente scritte e dirette da donne come il veneziano «Il circolo delle donne italiane», o come
il siciliano «La Legione delle pie sorelle», organo di stampa dell’omonima società di signore che
59
aveva come fine quello di istruire le giovani popolane e di operare in ambito filantropico.
Il 1848 fu certamente l’anno dell’exploit del patriottismo femminile: mentre gli uomini accorrevano
volontari in Lombardia, le donne contribuirono a raccogliere sottoscrizioni, crearono veri e propri
laboratori in cui ricamarono bandiere e coccarde da stendere ed esibire in occasione del passaggio
dei battaglioni tra le vie della città (Fig. 1).
Fig. 1. – Patriote in attesa del passaggio dei battaglioni di volontari.
A ogni occasione le signore facevano mostra del loro patriottismo abbigliandosi secondo i costumi
nazionali. Non solo esibirono coccarde, sciarpe e fazzoletti tricolori ma operarono una più ampia
rivisitazione del loro intero guardaroba: gli abiti realizzati secondo gli stili e le tendenze parigine,
che fino ad allora si erano imposte in tutta la penisola, vennero dismessi in nome delle «mode
nazionali». I periodici più popolari tra le gentildonne, come il milanese «Corriere delle dame»,
iniziarono a pubblicizzare figurini significativamente intitolati «Mode d’Italia», che sostituivano i
cappelli sofisticati con quelli alla calabrese, proponevano un’eleganza più sobria e non mancavano
di includere un’arma, simbolo della mobilitazione armata dell’intera nazione (Figg. 2-3). Parimenti venne contestato l’uso dei cerchi, ritenuto un costume tipico dell’aristocrazia imperiale e si
rivolsero appelli alle «sorelle» affinché acquistassero stoffe dalle manifatture locali messe a dura
prova dalla guerra.
60
Figg. 2-3. – Mode d’Italia.
Numerose furono anche le donne che parteciparono alle processioni patriottiche e alle luminarie organizzate soprattutto in occasione delle vittorie militari. La loro era una presenza carica di significato: prendere
parte al corteo era un modo per mostrare l’ampiezza della mobilitazione in corso, confermare l’adesione
dell’intera nazione a quanto stava accadendo, e conferire, in questo modo, legittimità e fondatezza alla
rivoluzione in corso. Tuttavia in questi cortei non si mancava di mettere in evidenza che la loro era anche
una presenza eminentemente materna perché di solito le donne, che sfilavano tra la Guardia Civica e le
rappresentanze politiche cittadine, erano circondate dai fanciulli, i futuri cittadini e combattenti. La particolare disposizione in questi allestimenti scenici impediva un contatto diretto delle donne con la sfera
militare e con quella politica e giustificava la loro presenza nello spazio pubblico in grazia dello specifico
ruolo materno. Si riconduceva così una presenza potenzialmente dirompente (non dimentichiamo che il
luogo naturale delle donne era lo spazio domestico) entro i più tranquillizzanti ruoli muliebri normativi.
A dispetto della costante attenzione posta a regolamentare le forme della partecipazione femminile agli
eventi rivoluzionari, non mancarono alcune intrepide personalità che decisero di mettersi in viaggio per
raggiungere i campi lombardi e curare i feriti. Se è ancora poco noto il nome della marchesa di Laiatico,
Eleonora Rinuccini, cognata di Giorgio Trivulzio, ferito nei combattimenti delle Cinque Giornate, è ben
più conosciuta Angelica Palli, moglie di Giovanpaolo Bartolomei, comandante del Secondo Battaglione
livornese. Queste prime figure isolate di infermiere sarebbero diventate una presenza ben più familiare
già un anno più tardi, quando a Roma, durante la difesa della Repubblica, si formò un «Comitato delle
ambulanze». Approvato da Giuseppe Mazzini e diretto da alcune donne tra cui la famosa principessa Cristina Trivulzio di Belgioioso, le improvvisate infermiere che vi operarono si presero cura dei feriti italiani e
francesi. In quei mesi effervescenti dove i confini tra i sogni e la realtà sembravano farsi sempre più sottili,
non furono poche nemmeno coloro che iniziarono a fantasticare di impugnare un’arma e di combattere in
nome della patria, proprio come fecero le popolane di Milano, Palermo e Bologna (Figg. 4-5).
61
Fig. 4. – Palermo, 12 gennaio 1848.
Fig. 5. – Bologna, 8 agosto 1848.
62
Alcune di queste temerarie riscossero grande successo attirandosi le maggiori attenzioni dei cronisti
dell’epoca, che a esse dedicarono immagini e necrologi. Restano famosi i casi di Luigia Sassi Battistotti, che nelle Cinque Giornate si pose alla testa di un centinaio di uomini, e quello di Colomba Antonietti, che dopo essersi battuta col marito a Venezia, morì durante la difesa delle Repubblica romana
nel giugno 1849. Tuttavia a desiderare di combattere non furono solo donne del popolo: le memorie
private e i carteggi di molte esponenti della borghesia e dell’aristocrazia racchiudono non poche frasi di rammarico per «non poter dare il proprio braccio alla patria», o per «non essere nata uomo».
Mentre una letterata di spicco come la già citata Caterina Franceschi Ferrucci confessava al marito
Michele, combattente in Lombardia, che sarebbe corsa al suo fianco se non avesse avuto la figlia Rosa,
a Venezia Teresa Mosconi, Elisabetta Michiel Giustinian e Antonietta Dal Cére Benvenuti chiedevano
l’istituzione di un battaglione armato femminile. Il corpo tanto agognato dalle veneziane non fu mai
concesso, al suo posto venne istituito un battaglione completamente disarmato, destinato alla cura
dei feriti e tenuto a operare con discrezione evitando di comparire in pubblico. Una delle risposte più
interessanti che fu data alla richiesta di armamento femminile fu la fioritura di un vero e proprio filone
satirico che mise in scena un ridicolo mondo alla rovescia per deridere le pretese donnesche. Giornali
di grande tiratura, come lo «Spirito Folletto» di Milano, «Il Lampione» di Firenze e l’«Arlecchino»
di Napoli, immaginarono la formazione di club e parlamenti femminili riservati esclusivamente alle
donne e in cui si sarebbero votate proposte legislative come la leva forzata di mariti da dare alle figlie
zitelle ormai avanti negli anni. Il parlamento si sarebbe inoltre dotato di un corpo armato, pronto a
combattere la guerra dei sessi. A rappresentare attraverso le immagini un simile ordine socio-politico
parallelo e capovolto rispetto a quello vigente furono alcune vignette che si caratterizzavano per la
loro connotazione pornografica. I corpi delle donne emancipate mettevano in risalto le forme e la
siluette divenendo in un certo senso «pubblici». In vignette come quella qui presentata (Fig. 6)
Fig. 6. – La Guardia Civica femminile.
63
si rifletteva l’usurpazione dei costumi maschili (la donna con il sigaro) nei comportamenti licenziosi e libidinosi femminili (le due soldatesse che leggono il biglietto di un corteggiatore). Attraverso
la pornografia si denunciava e si condannava la corruzione di una sfera politica in cui le donne
avrebbero avuto potere decisionale.
Ma perché armarsi? Che cosa significava per le donne? Certamente bisogna considerare che la
diffusione di alcuni modelli di femminilità proposti dal teatro dovettero giocare un qualche ruolo:
a Napoli, a Venezia e in molte città del Nord-Est uno degli spettacoli più frequentemente messi in scena era la Giovanna D’Arco, che veniva presentata come l’eroina della nazione francese,
sollecitando indirettamente desideri di emulazione da parte delle Italiane. Battersi per la propria
patria rappresentava però anzitutto il gesto sommo di patriottismo e di cittadinanza da quando,
con la Rivoluzione francese, si era diffusa l’idea della nazione in armi, ovvero di un esercito non
più costituito da mercenari o dall’elite di uno stato bensì da tutti gli uomini della nazione, pronti a
morire per essa. Se compito degli uomini della nazione era combattere, alle donne spettava essere
moglie e madre di cittadini. La donna di per sé non avrebbe potuto vedersi riconosciuto il titolo di
cittadina: si riteneva fosse priva di quella autonomia di giudizio e di capacità decisionale giudicate
indispensabili per godere della cittadinanza. La negazione dell’individualità della donna la gettava
in balia della famiglia definendola in virtù dei rapporti intrattenuti con gli uomini (la donna era
figlia, moglie o madre), e restringendo i suoi compiti allo spazio privato: non ci si aspettava che una
donna parlasse in pubblico, arringasse le folle, e ancor meno che impugnasse un’arma o combattesse. Viceversa a lei spettava vincere la fragilità e la debolezza interiore che si ritenevano connaturate
al suo sesso, educare i figli a diventare i protagonisti esemplari della scena pubblica, infiammarli di
amore patrio e offrirli prontamente in sacrificio alla patria.
Rispetto alle aspettative socialmente diffuse tuttavia durante il Risorgimento si avviò una revisione
della tradizionale codificazione maschile dell’essere femminile. Si affermò cioè che le donne erano
esseri pensanti, ragionevoli e perfettibili. In un significativo passo dell’Indirizzo delle donne toscane
alle donne siciliane, pronunciato in occasione del banchetto per i fratelli delle Due Sicilie, si riconosceva a entrambi i sessi la forza, l’affetto, l’energia, la pietà, l’entusiasmo, la ragione, la fermezza
nel sacrificio e la fede nel giusto. Proclamando l’uguaglianza nel dato naturale si annullava all’origine la minorità in cui erano state soggiogate le donne e si rimetteva radicalmente in discussione il
loro diritto a essere riconosciute pienamente come cittadine. Questo ampliamento della percezione
di sé fece nascere la convinzione di essere dotate di una «doppia natura», di «moglie e madre» da
un lato, e di «italiana e cittadina» dall’altro. La scissione di queste due identità rompeva il divieto
di imbracciare le armi in nome del ruolo materno e prefigurava la possibilità stessa di combattere.
Le rivendicazioni di cittadinanza avanzate a partire dall’affermazione dell’appartenenza alla nazione trovarono espressione anche in una pratica apparentemente più regolare come quella del
dono. Il dono patriottico rivestiva di carattere politico un atto personale di generosità permettendo di farsi protagoniste di un evento che incideva su tutta la collettività. Numerosi furono i casi
di donazioni femminili che si registrarono in tutta la penisola: si donarono monili, cannoni, armi
e uniformi, generi di prima e di seconda necessità diretti nei campi lombardi. Ad animare questi
gesti non erano solo i buoni propositi o i precetti cristiani, ma anche, talvolta, desideri più audaci.
Nel settembre del 1848 la fiorentina Isabella Rossi Gabardi, per raccogliere offerte da inviare alla
Serenissima, propose alla Camera toscana l’istituzione di Comitati femminili che dovevano porsi
alle dirette dipendenze degli apparati politici, istituendo un nesso diretto, troppo diretto, tra don-
64
ne e politica. La sua proposta veniva liquidata con queste parole: “I deputati della Commissione
sono i primi a encomiare la nobiltà di questi sentimenti […] ma […] sono costretti a dichiarare l’inconvenienza d’una cooperazione diretta delle Assemblee legislative in questa formazione di Comitati
femminei, e propongono sulla petizione l’ordine del giorno”.
Se il 1848 fu un laboratorio di sperimentazione di presenze e di forme di intervento nel pubblico,
negli anni Cinquanta, che tradizionalmente vanno sotto l’etichetta di «decennio di raccoglimento
e di preparazione», le parole-chiave fino alla guerra di Crimea furono due: educazione e salotti.
Nel solo 1851 uscirono, rispettivamente a Genova e a Torino, le Lettere morali ad uso delle fanciulle
e Della educazione intellettuale: libri quattro indirizzati alle donne italiane di Caterina Franceschi
Ferrucci e i Discorsi di una donna alle giovani maritate del suo paese della greca livornese Angelica
Palli Bartolommei. Due anni dopo, nel 1853, quasi a corona­mento di quella felice congiuntura,
usciva la versione definitiva dello scritto della Franceschi Ferrucci, Degli studi delle donne, che auspicava un’adeguata istruzione femminile, che includesse la letteratura patria, la filosofia e un po’ di
diritto e aiutasse le giovani a confutare le accuse di fragilità e incostanza di cui le si tacciava. Parallelamente i salotti garantirono ospitalità agli esuli e misero a disposizione spazi per la discussione
politica permettendo di continuare a incontrarsi in nome della medesima passione patriottica. Se
nel territorio della penisola i salotti più celebri furono quello milanese di Clara Maffei, quello fiorentino di Emilia Peruzzi e quello genovese di Alba Coralli, tra le fuoriuscite restie ad assoggettarsi
nuovamente al dominio austriaco non deve essere dimenticata Luisa Riva Casati che, a Zurigo dal
1851, fece della sua casa l’asilo di molti fuggiaschi e del suo salotto un punto di incontro frequentato anche dallo stesso Mazzini.
I momenti salienti della mobilitazione femminile a cavallo degli anni Cinquanta-Sessanta furono
scanditi da due eventi e da due personaggi di fondamentale importanza per la storia di quegli
anni: la spedizione dei Mille e Garibaldi, i plebisciti e Vittorio Emanuele II. Le donne furono tra
gli ammiratori più appassionati di Giuseppe Garibaldi: le madri lo osannavano come un nuovo
profeta e molte signore andavano in delirio per l’emozione di vederlo da vicino o di stringergli la
mano. Enrichetta Caracciolo, indotta alla monacazione forzata e attiva nelle trame clandestine
del meridione, nelle sue Memorie ringraziava Dio per aver potuto vedere l’eroe dei due mondi; la
patriota comasca e mazziniana Luisa De Orchi in una lettera del 1860 parlava di lui con queste parole: “Vivo in un’affannosa ansietà e ripongo ogni speranza nell’uomo unico nei secoli, mai vinto.
Al Santo d’Italia adorazione e amore. Tutte le mie aspirazioni sono per Garibaldi, a Lui tutto il
pensiero, in lui piena fede. Avendolo conosciuto personalmente mi sta fisso in cuore la di lui parola,
la bontà, la benevolenza con cui m’accolse”. Attorno a Garibaldi e alla sua spedizione rinacquero i
progetti per l’istituzione di Comitati femminili che avrebbero garantito alle patriote un’autonomia
organizzativa e una visibilità pubblica. Questi almeno erano gli intenti con cui Felicita Bevilacqua,
sposa del barone Giuseppe La Masa, rivolgeva un appello alle «sorelle italiane» invitandole a
collaborare. Mentre le letterate tornarono a incitare alla vittoria e all’indipendenza, negli ospedali
allestiti presso i campi di battaglia nel Meridione si riversarono quante intendevano assistere i feriti
ed essere attive nell’organizzazione delle retrovie. Gli entusiasmi suscitati dall’impresa garibaldina
mossero poi poche intraprendenti a imbarcarsi nell’avventura. È il caso di Rosalia Montmasson,
moglie del politico e patriota Francesco Crispi, tra gli organizzatori della spedizione dei Mille. Il
4 maggio 1860 a Genova la Montmasson confessò al marito il desiderio di accompagnarlo in Sicilia. Di fronte alle sue insistenze Crispi e Garibaldi acconsentirono a lasciarla imbarcare. La Mon-
65
tmasson non fu l’unica donna a unirsi alla spedizione. All’indomani dello sbarco a Marsala infatti
si affiancarono ai garibaldini altre donne, motivate ora dall’appassionato trasporto per Garibaldi e
i suoi compagni, ora dall’amore di patria. Le donne che combatterono con i garibaldini suscitavano curiosità per il loro coraggio e per il loro ardore e spesso rievocarono nei volontari le immagini
delle leggendarie amazzoni. Queste temerarie divennero una fonte di ispirazione per editori, scrittori e cronisti che non esitarono a utilizzare il loro ritratto come un soggetto insolito e particolare,
quasi memorabile, dato che fu impresso in alcune carte da visita dell’epoca (Fig. 7).
Fig. 7. – Carta da visita di una garibaldina.
Questa grande mobilitazione femminile si traduceva in una manifestazione collettiva di appartenenza nazionale che assumeva tuttavia significati piuttosto controversi in quei mesi. L’esclusione
dall’evento plebiscitario palesò infatti le ambiguità di una nazione che riservava alle donne più
doveri che diritti. Rimaste fuori dalle urne, le donne non rinunciarono a far sentire la loro voce e
ribadirono la loro italianità con metodi alternativi: protestarono e lo fecero in modo spettacolare.
66
Organizzarono cortei, acclamazioni, donazioni simboliche alle municipalità che si svolsero simultaneamente alle votazioni maschili e aspiravano ad avere il medesimo valore di assenso all’annessione. Nelle Marche, nell’Umbria, nelle province napoletane e in Sicilia, le donne, insieme ai
minori di 21 anni esclusi dal voto, stesero indirizzi rivolti al re o a Garibaldi, chiedendo che i loro
nomi fossero messi a verbale per segnalare l’adesione al processo unitario. A Ferrara e a Napoli si
formarono comitati femminili che equiparavano il dono al re con il suffragio maschile. Nell’Italia
centro-settentrionale in comuni come quello di Fusignano nelle Romagne si aprirono veri e propri
seggi femminili dove le donne si recarono a deporre i loro voti.
Con la proclamazione del Regno d’Italia, il 17 marzo 1861, l’appartenenza alla nazione e l’amore
per la patria sfumarono con toni sempre più marcati nella specifica questione istituzionale della
cittadinanza. Due sono gli anni fondamentali a cui possiamo far riferimento. Il primo è il 1864,
quando Anna Maria Mozzoni, proveniente dagli ambienti filo-mazziniani e destinata a diventare
ben presto una delle voci più ascoltate dell’emancipazionismo italiano, ricondusse l’impegno patriottico delle Italiane entro una più ampia prospettiva cosmopolita, valorizzando il contributo che
le donne potevano dare al progresso sociale. Il secondo anno è il 1868, che vide la nascita a Padova
del settimanale «La donna», ideato e diretto dalla letterata filomazziniana Gualberta Alaide Beccari. Fu il primo giornale a proporsi come espressione di un movimento che proprio attraverso le
sue pagine iniziò a coordinarsi: quello femminile.
Nonostante ancora una volta le donne dessero prova delle loro capacità, la situazione legislativa
non mutò. Nel 1865 il Codice Civile ribadiva la posizione di subordinazione delle donne nella famiglia e nella società riconfermandole come soggetti «naturalmente» immaturi e necessariamente
subordinati all’uomo. Nello stesso anno l’approvazione di una legge elettorale amministrativa inseriva le donne tra i minorati civili, spazzando via precedenti legislazioni che nel Lombardo-Veneto
come nel Granducato avevano permesso fino ad allora alle altolocate di partecipare alle elezioni
amministrative. Tuttavia la revisione del diritto di famiglia, il miglioramento della condizione femminile e il raggiungimento di una sostanziale parità tra l’uomo e la donna furono temi che riuscirono ad approdare in Parlamento attraverso il patriota liberale meridionale Salvatore Morelli. Eletto
deputato nel 1867, il suo progetto di legge intitolato Per la reintegrazione giuridica della donna
rivendicava alle donne in quanto persone e individui, madri e mogli i medesimi diritti civili e politici
di cui godevano gli altri cittadini del Regno (Doc. 1).
Per la reintegrazione giuridica della donna, Salvatore Morelli (1867).
Se riconoscete la donna per persona, se ammettete in lei le stesse facoltà che possiede l’uomo […], come vi
comanda il buon senso, la ragione e la storia, comune destinazione con l’uomo, quale argomento potrebbe affacciarsi per negare alla creatrice dei cittadini, la giuridica caratteristica di cittadino? […]
I dissolventi addurranno certo, che, accordando questi diritti alla donna, essa si svierebbe dalle cure domestiche e dall’allevamento ed educazione dei figliuoli, cui è principalmente chiamata dalla natura.
No, dico io, questo avviene anche per i padri di famiglia: essi non vanno all’urna e mancano ai doveri civili
e politici, quando intime necessità ne fanno loro divieto […].
Riconoscendo alla donna identità di tipo e facoltà eguali all’uomo, giustizia vuole che essa sia eguagliata
al medesimo nei diritti civili e politici. Quindi le donne italiane, dalla pubblicazione di questa legge, sono
facultate ad esercitare i diritti civili e politici nello stesso modo e con le medesime condizioni che li esercitano gli altri cittadini del Regno d’Italia.
Pur presentato alla Camera il 18 giugno 1867 il progetto non venne né ammesso alla lettura né re-
67
gistrato tra i fascicoli degli archivi. In compenso a riservargli grande eco fu la stampa. Il periodico
napoletano «Il Folletto» commentò l’impresa di Morelli con un sonetto destinato a raccogliere
grandi successi per un periodo di tempo molto, anzi troppo, lungo:
L’emancipazione della donna (proposta Morelli).
Donne mie la proposta arci-utilissima
Che ha fatto quel leone di Morelli,
In coscienza vi dico che è bellissima,
E può produrre effetti molto belli:
E se la studiate insieme a me
Saprete le ragioni ed il perché.
[…]
Sarà bello il vedere una donzella,
Che seduce col fisico e il morale,
Abbandonar l’inutile gonnella,
E vestirsi da Guardia Nazionale
E stare per un’ora in fazione,
Per garantire l’itala nazione!…
Veder fumar la donna è una bellezza,
Vederla studiar filosofia,
E dar della politica contezza
È cosa che ci mette in allegria…
Se fino ad ora la donna è stata donna,
Ella porrà i calzoni e l’uom la gonna.
E che di più? Donzelle che volete?
Cavalcare, guidare, andare in cocchio?
Andare a caccia, oppur parar la rete,
O portare il cristallo in faccia all’occhio?
Fatelo ch’è permesso: il gran Leone
Di tutto far vi dà permissione.
Se dunque nei propositi di molte donne la partecipazione al Risorgimento nazionale era stata strettamente congiunta alla progettualità di un Risorgimento femminile, il primo decennio dell’Unità
suggellò il naufragio di questo connubio. Mentre la conquista di Roma segnò un fondamentale
traguardo della storia d’Italia, la sfida della conquista dei diritti femminili nello stato nazionale era
ancora ben lontana dal concludersi.
68
Bibliografia essenziale
Banti A.M., L’onore della nazione. Identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII
secolo alla Grande Guerra, Torino, Einaudi, 2005.
Banti A.M. (a cura di), Nel nome dell’Italia. Il Risorgimento nelle testimonianze, nei documenti e
nelle immagini, , Roma, Laterza editore, 2010.
Banti A.M., Ginsborg P., Annali XXII della Storia d’Italia – Il Risorgimento, Torino, Einaudi,
2007.
Fiorino V. (a cura di), Una donna, un voto, numero monografico di «Genesis», V (2006), 2, Viella.
Filippini N.M., Scattino A. (a cura di), Una democrazia incompiuta. Donne e politica in Italia
dall’Ottocento ai nostri giorni, Milano, Franco Angeli 2007.
Haupt H.G., Soldani S., Donne della nazione. Presenze femminili nell’Italia del Quarantotto, in 1848.
Scene da una rivoluzione europea, numero speciale di «Passato e presente», 46 (1999).
Soldati S. (a cura di), Italiane! Appartenenza nazionale e cittadinanza negli scritti di donne dell’Ottocento, in Patrie e appartenenze, numero monografico di «Genesis», 1 (2002), pp. 85-124.
69