Di vino, d`anime e d`animali

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Di vino, d`anime e d`animali
GIOVANNI LINDO FERRETTI
INTERVISTATO DA ALESSANDRO MONCHIERO
Foto Alberto Peroli
DI VINO, D’ANIME
Slowmusic
e d’animali
Chieri, luglio 2004. Abbiamo
incontrato Giovanni Lindo
Ferretti, storico leader dei
CCCP, poi dei CSI e ora dei
PG3R, pochi giorni dopo
l’uscita del nuovo album,
D’anime e d’animali. Una
delle menti più illuminate
della sfera musicale italiana,
in continua evoluzione:
incline al cambio di rotta per
acquisite informazioni e idee
in movimento, eppure sempre
lui, riconoscibile, sofisticato e
viscerale, sacrale e carnale.
Ci ha parlato di garfagnine e
muli dell’Appennino toscoemiliano, del vino
piemontese, delle pizziche e
delle tarante del sud Italia.
Del corpo e dello spirito, del
femminile di Dio e del
distacco dalla sua famiglia
genetico-politica. E di come
una sua personale Terra
Madre l’abbia realizzata
anche lui.
«Se io avessi potuto,
avrei fatto quello che
nella mia famiglia hanno
sempre fatto gli uomini e
le donne da millenni: il
pastore. Una vita
meravigliosa, da uomini
liberi, che ti costringe a
guardare il cielo».
uarda la bellezza di
questo animale. Guarda
la meraviglia del cranio,
del profilo». Un dato di
fatto, neppure un giudizio. Bastava guardare, bastava avere un occhio svezzato a percorrere i profili di uomini e animali. Bastava
dire “quello”. Però sapevo troppe cose per
dire solo “quello”.
Sei con Giovanni Lindo Ferretti del quale ti
sei riempito orecchie e vita per vent’anni. Lui
sta sfogliando la nostra rivista e si sofferma
sulla foto di una pecora. Tu la conosci, sai
tutto di lei. Sei sopraffatto da quante cose sai,
sei ridondante d’informazioni (può succedere
quando una pecora diventa un lavoro che
non sia all’aria aperta).
Conosco l’animale – glielo dico. È una brigasca. È di un pastore di La Brigue, si chiama
Lanteri. E so tante altre cose di lei – ma queste non gliele dico. Ero lì mentre Raffaella
scattava la foto, ho conosciuto il pastore, l’ho
guardata cento volte quando l’abbiamo impaginata su Slowfood 2, pag. 97. Talmente stravista la pecora, da perderla di vista. Bel cranio? In effetti… Bastava dire, ma soprattutto
vedere, “quello”.
«G
Ferretti sfoglia la rivista in un pomeriggio
chierese e la guarda con occhi di bimbo e
di professore dello stupore. Dunque brigasche le pecore e brigaschi i pastori – l’ultima delle mie petulanze, poi il discorso imbocca binari che non so pilotare, e non so
più niente – una popolazione delle tante
“occitania” sparse dai Pirenei alla Provenza,
dalle valli cuneesi alle chiese catare della
pianura padana.
Le immagini che illustrano l'articolo sono state scattate il 21 agosto 2004 a Melpignano (Le), durante la Notte
della Taranta. Sopra, tre protagonisti della serata: Giovanni Lindo Ferretti, Ambrogio Sparagna e Franco Battiato.
«Sto scrivendo un poemetto sull’Occitania,
che recito tutte le sere, in qualsiasi occasione.
Sovente aggiornandolo. È dallo scorso inverno
che ho sempre una piccola parte del cervello
che pensa a questa cosa, da quando ho cominciato a prestare attenzione a un’aria di mare che m’invadeva le narici tutte le volte che
tornavo a casa.
Prima ho dato un nome a questo salmastro,
l’ho chiamato “odore dell’Occitania”, e un giorno, improvvise, sono sgorgate le prime parole.
Per dieci giorni non ho smesso di scrivere, tut-
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te sensazioni all’insegna del piacere e della
dolcezza. Poi un’amica di Marsiglia mi ha
completamente stravolto il senso, parlandomi
della sua Occitania in termini di profondo dolore e rancore. Alla fine ho mescolato i due stati
d’animo e sono molto contento del risultato».
Occitania, forma del femminile di Dio in Occidente. Forma solo abbozzata e poi niente salmodierà più tardi sul palco del Baraonda Summer Point di Chieri, chiosando un concerto da
due ore, di sciamanesimo elettrificato e tante
altre cose.
Dio,
il femminile sacro
e la guerra
io e gli dei abitano le canzoni di Ferretti fin dagli
esordi, a puntellare un tortuoso percorso velato
di simpatia islamista prima e di devozione misticopopolare, “matrilineare”, poi. Dalla «scarsità di Dio in
mezzo a troppi uomini» di È vero (1989) al Dio bambino, «carne di ragazzina vergine» di Paxo de Jerusalem (1990), o degli eserciti «Dominus Deus sabaoth» di Mozzill’o Re (1990); da quello tutto al femminile di Madre (1990) al Dio maschile e umanoide,
«a nostra immagine e somiglianza» di Millenni
(1996), nel cui nome si versa sangue a concime. E
ancora un dio Pan che ha viaggiato fino in Mongolia
e canta, sulle rive del Gange, «l’amore del mondo e
la guerra che sarà» di Krsna Pan Miles Davis e Coltrane (2002), per arrivare all’atomo divino «conficcato
in ogni cuore umano» di Alla pietra (2004). Oggi, con
Ambrogio Sparagna, porta in giro per l’Italia la composizione sacra Litania, ispirata ai canti liturgici e paraliturgici della tradizione popolare.
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«Non avrei mai creduto di finire a cantare nelle chiese», dice, e al cristianesimo continua a guardare in
tralice, da filosofo ereticale o montanaro, che schiva
il crocefisso e s’inginocchia alla Madonna dei pastori: «ciò che non ho mai perdonato alla religione cristiana è di aver emarginato il principio femminile di
Dio. S’è presa tutto dai pagani – i luoghi, le fonti, i riti
– ma nel giro di pochi secoli s’è sbarazzata del principio femminile. C’è stato un continuo ribaltamento
del messaggio originale nelle tre religioni successive: l’ebraismo è fondato sul valore della donna, il cristianesimo l’ha messa nell’ombra e l’Islam ne ha fatta una schiava. Sei ebreo se nasci da mamma
ebrea. Le donne ebree non devono neppure dire le
preghiere, non ne hanno bisogno: sono il “vaso del
creato”, preghiera vivente, e il sabato è il giorno in
cui Dio si unisce con la sua componente femminile.
Con tutte le problematiche del caso, è l’apoteosi
della femminilità. Il cristianesimo poteva essere
un’ulteriore evoluzione ma è stato distrutto da San
Paolo che ha tolto le donne dal messaggio cristiano,
impoverendolo. Se la Madonna, come madre di Dio,
è stata accettata al Concilio di Nicea lo si deve più a
un movimento tellurico popolare, che non ai teologi
dell’epoca. Nelle mie montagne, sull’Appennino tosco-emiliano, siamo legati a un’idea religiosa tutta
giocata sull’iconografia della Madonna e del bambino. Ogni casa ha la sua Madonna e il crocefisso se
ne sta chiuso in chiesa; anche se siamo emiliani veneriamo la Madonna toscana, dei pastori e dei montanari. Insomma, il femminile sacro è comunque sopravvissuto, a dispetto delle fonti ufficiali, ma solo
nelle tradizioni contadine e popolari (la Madonna, la
Maddalena, la Madre Terra) e nelle fonti gnostiche e
aprocrife».
E poi c’è l’Islam. Musiche pukeggianti est-europee
miscelate con le feste di paese della Rozzemilia,
filosovietismo culturale più che ideologico e un forte interesse per la cultura islamica. I CCCP nascevano così, nel 1982, quando due personaggi di
origine emiliana – Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni – s’incontravano a Berlino. Dopo due
anni di concerti, ecco l’album d’esordio, Ortodossia, con tre canzoni-manifesto che dettano le coordinate geografiche della poetica-politica ferrettiana: a Mosca, Pankov, Budapest, Varsavia, Sofia e
Praga il cervello; a Beirut, Smirne, Ankara e Istanbul l’anima; e a Reggio Emilia il corpo. Un’anima
islamica che ha perso le foglie nella metamorfosi
nei CSI del 1992, per appassire definitivamente
nel nuovo millennio.
Commiato deferente: «Quando l’Islam si è imposto
nel vicino Oriente e non solo, che boccata d’aria per
l’umanità! Un quarto di luna nuova» scrive Ferretti
nel libretto che accompagna il nuovo album, D’ani-
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me e animali. «Una civiltà complessa, colta e potente, altra ma a noi comprensibile e vicina, e lo scontro, per quanto inevitabile, era capace di generosità
e rispetto. Poi sul nostro versante mediterraneo fondamentalismo cattolico e/o protestante hanno oscurato il nostro cielo: secoli e secoli di guerra di religione condita di ogni contorno. Loro intanto fiorivano».
Poi il distacco. «Oggi il fondamentalismo cattolico è
ridicolo o caricaturale, più preoccupante, a ben vedere, quello laicista, ma è il fondamentalismo islamico nella sua deriva eroico-terrorista il problema
inevitabile dell’Occidente». Ne parla con rabbia
Giovanni, nei camerini dello stadio di Chieri, poco
prima del concerto.
«Ho provato un grande amore per la cultura islamica e in alcuni momenti della mia vita avrei anche
potuto convertirmi. Poi, almeno due momenti di
svolta. Il primo è stato la nascita della mia nipotina. Una mattina mentre la guardavo sgambettare,
ho messo a fuoco che, delle tre religioni di Abramo, l’Islam non offre nulla alle donne: comunque,
sono esseri inferiori, sulla terra ma anche in paradiso. Solo nella sua componente mistica e spiritualistica – ovvero i Sufi, che però sono emarginati,
perseguitati e spesso sterminati – la religione islamica recupera la ricchezza della sfera femminile.
E sono le letture mediorientali che continuo a praticare e amare.
Il secondo momento di grande rabbia è stato lo
scoppio della guerra, che io credo in atto e che non
è cominciata l’11 settembre ma prima, con la distruzione dei due grandi Budda in Afghanistan. Quello
è stato un lampante decreto di guerra contro tutto
quel che non è Islam, compreso qualcosa che non
ha mai creato problemi agli afgani, che ci sono
campati sotto per duemila anni. Un allucinante crimine nei confronti dell’umanità. E nessuno al mondo
ha mosso un dito per impedirlo».
«Sebbene li avessi già
conquistati un po’, i miei
vecchi hanno
incominciato a fidarsi di
me solo dal momento in
cui ho cominciato a bere
vino, cinque anni fa».
Armelinda
Idolo di una gioventù “schierata” negli anni Ottanta, mito in continua evoluzione, sempre diverso/sempre lui, Ferretti ha mutato registro
ogni volta che ha rischiato di fare il De Chirico:
genio per dieci anni e poi una vita a replicare il
momento aureo. Dai palchi della Berlino Est degli anni Ottanta, con sotto, a “pogare”, turchi e
punk tedeschi, alle musiche sacre nel santuario
di Oropa, liturgico e politico, visionario eppure
lucido nei suoi testi e nei suoi cambi di rotta.
Sopravvissuto agli addii di molti musicisti di
valore che l’avevano accompagnato per anni e
sopravvissuto pure fisicamente – a tre ricoveri
gravi – e quindi vivo, “Per Grazia Ricevuta”,
che compattato fa PGR Sempre più vicino, anche, a quel che si tratta su queste pagine. Ma
poi ti dice che lui è sempre stato così, che di
fratture non ce ne sono, e che il percorso è lineare. Ti convince.
«Se io avessi potuto, avrei fatto quello che nella mia famiglia hanno sempre fatto gli uomini e
le donne da millenni: il pastore. Non avevo altra ispirazione, da bimbo, che piacere a miei
nonni, ai miei zii. E quello che loro facevano
per me era meraviglioso. L’impossibilità di
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questa storia è stata una disgrazia, ovvero la
morte di mio padre, la persona su cui si poggiava questa piccola famiglia di montagna che
da sempre allevava e transumava. Io sono nato nella nostra casa di Cerreto Alpi, dove nel
1986 sono tornato a vivere. Mi ha fatto venire
al mondo una levatrice che aveva 83 anni, Armelinda, che ha interrotto per un attimo la raccolta delle patate nell’orto. Mia madre, nel lettone dove sono nati bimbi per centinaia d’anni,
quand’è arrivata le ha detto: “Armelinda, lì ci
sono acqua, sapone e asciugamano”. Lei, che
intanto si stava pulendo le mani in un sudicio
«È un’ideologia
reazionaria e
immobilistica quella
contro la guerra “senza
se e ma”. Nel mondo
della sinistra, tutto aveva
sempre avuto un se o un
ma, perché non avevamo
un “assoluto” a cui
rapportarci».
grembiule, le ha risposto: “non ti preoccupare,
ne ho fatti nascere tanti che ormai non mi
sporco più”. Antibiotici, medicine, attrezzature:
zero. Come succede ai nomadi e nelle famiglie
contadine: chi non muore poi è forte».
Massesi, bergamasche e garfagnine
«Dopo la morte di mio padre mia madre ha retto per sei mesi, incinta, con a carico una famiglia di vecchi e malati, e un bimbo piccolo. Dopodiché ha dovuto vendere quel po’ di bestie
che erano riusciti a mettere insieme dopo la seconda guerra mondiale per ricominciare questa
piccola azienda agricola di montagna. Il centro
della casa è sempre stato l’allevamento delle
pecore. Avevamo massesi e bergamasche. La
tradizione di questo pezzo di crinale dell’Appennino tosco-emiliano era quella di transumare in Maremma. Storicamente, alle pecore si abbinava un gregge di capre, che sono molto più
facili da mantenere e possono passare un pezzo d’inverno in montagna. Il problema delle ca-
pre è che ogni tanto vengono messe fuori legge: succede così da tempo immemorabile, ogni
tanto non piacciono a un duca o un re, che le
bandiscono. Poi, c’erano sempre un po’ di
mucche, che noi normalmente non transumavamo per lasciarle con i vecchi a casa. Mucche
che noi chiamavamo garfagnine ed erano piccole, lunghe, grigio-nerastre. Una razza rustica,
da latte, una mucca-capra che non si vede più
da anni, capace di vivere al pascolo per la
maggior parte dell’anno. Animali bellissimi da
vedere nei prati, pulitissimi, lavati dall’acqua e
spazzolati dal vento. Infine si allevavano cavalli,
asini, muli come mezzi di trasporto. Gli asini
quando eri molto povero – perché mantenere
un asino costa molto meno che mantenere un
cavallo o un mulo – e servivano per aiutare vecchi e bambini. Un vecchio può caricare qualsiasi cosa su un asino, su un mulo è più difficile…
Per sei mesi l’anno si stava via da casa, per cui
servivano un cavallo e un carro, per transumare, oltre alle bestie, anche le cose.
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Ecco. Io avrei semplicemente fatto questo perché è una vita meravigliosa, sebbene sia piena di guai. Come diceva mia nonna: “Vai a letto una sera tranquillo perché hai una stalla
meravigliosa e ti svegli la mattina e hai un’epidemia”. Però è una vita che ti dà la possibilità
di mantenerti libero di mente. Vivi a contatto
con le bestie e con il cielo. E sei costretto a
guardarlo. A impararti a memoria i Canti della
Divina Commedia».
Il corpo, il vino
Nell’ultimo album ci sono le panche di legno e
un convivio che ribolle, il cibo, i brindisi, la festa. Un album più corporale, materiale senza
farsi volgare. «Il mio rapporto con il corpo è al
tempo stesso facile e difficile. Ho pulsioni contrastanti. Tutti pensano che io sia ascetico, o
almeno vegetariano. Non so come si sia potuta creare questa convinzione. In realtà mangio
solo carne, perché digerisco solo quella. Il vino, invece, ho incominciato a berlo solo cin-
«D’anime e d’animali è il
primo album costruito
interamente a casa mia,
nella mia cucina, con la
Loredana che faceva da
mangiare, con noi che
suonavamo fra i miei libri, i
miei muri, le mie storie. E
una bottiglia di vino
sempre aperta, svuotata in
fretta».
que anni fa. E fino al giorno in cui non ho preso a berlo i miei vecchi non mi hanno dato
nessuna credibilità. Sebbene li avessi già conquistati un po’, hanno iniziato a fidarsi di me
solo dal momento in cui ho messo la bottiglia
sulla mia tavola. È, oggi, parte essenziale della
mia dieta: io campo di vino, di pane e di carne. Poi formaggio e olive. Siccome sono un
parvenu, ho sempre pensato che i vini esistessero solo nella fascia centrale d’Italia. Credo
che sia un vezzo campanilistico di chi non conosce le cose, quando le scopre pensa che
esistano solo intorno a lui. Poi si ravvede. Perciò, da tosco-emiliano, ho sempre creduto che
il vino migliore fosse quello della Toscana, poi
– ahimé – quando trovi una bottiglia piemontese come Dio comanda, ti rendi conto che tutti i
discorsi fatti prima non valgono! E mi sono innamorato. Anche a un pisano può succedere
di innamorarsi di una livornese».
L’unicum, la cultura materiale
«Provo molta tristezza per coloro che nutrono il
loro spirito cercando di distruggere il corpo,
perché finché viviamo sulla terra è un unicum.
Non esiste spirito se non c’è corpo. E mi risulta
difficile credere il contrario. Ci saranno casi
eccezionali, potranno esistere delle deviazioni
infinite, che mi affascinano, ma l’idea che possa esistere lo spirito nella nostra vita al di là
della carne che lo contiene è per me incomprensibile. Io non so bene come funzioni l’essere umano, però non ho dubbi che quanto
accade allo spirito sia in qualche modo un riflesso del modo in cui tocchi le cose. Il tatto
modifica il pensiero, quando le tocchi, le cose
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cambiano, diventano un nutrimento e ciò che
nutre il corpo nutre anche lo spirito. Se poi
pensi che la religione con cui siamo stati allevati – quella cristiana – è tutta giocata sul pane
e sul vino. Fino all’avvento della modernità,
per costruire una chiesa bisognava costruire
una vigna, e non si dava chiesa senza vigna
accanto. Perfino gli irlandesi sono riusciti a
coltivare la vite nelle isole spazzolate dal vento, perché altrimenti non avrebbero potuto diventare cristiani. Non credo che sia possibile
una cultura al di là del materiale. Perché se noi
fossimo angeli e stessimo facendo questa discussione in un regno di puro spirito, avremmo
altre plausibilità. Ma noi siamo corpi – che è
un’accezione molto alta ma anche molto bassa: sudiamo, caghiamo, abbiamo il vomito,
stiamo male, ci ammaliamo – ma è questo tutto ciò che abbiamo».
D’anime e d’animali è un disco più materiale
non solo dal punto di vista dei testi, ma anche
musicalmente. Vengono a mancare due elementi importanti della storia dei CSI e dei poi
PGR, e i suoni sembrano scendere dal cielo,
per farsi più terrestri.
«Ogni cd è una piccola verità, una piccola storia a sé. Spesso contraria a quello di prima.
Quando sono finiti i CSI (2000), i PGR sono fioriti intorno alla voce di Ginevra (Di Marco) e al
pianoforte di Francesco (Magnelli). La musica
che noi praticavamo era una musica colta, sofisticata, giocata in mezzo a questi due poli.
Perdendo questi due elementi la reazione è
stata immediata e fortissima. Avrebbe dovuto
essere una reazione in perdita, ma non sono
sicuro che sia andata così. È stata comunque
una reazione, determinata dal fatto che ti viene
a mancare qualcosa. Trovarmi di colpo a dovermi fidare solo della mia voce – che non è
esattamente quella di Ginevra, bensì contraria
– da un lato mi ha costretto a rapportare tutto
su di me, facendo fiorire la mia voce, ma dall’altra mi ha permesso di raccontare verità più
personali, più schiette, sincere. Il disco è stato
scritto in tre giorni e finito in sette. È il primo album costruito interamente a casa mia, nella
mia cucina, con la Loredana che faceva da
mangiare, con noi che suonavamo fra i miei libri, i miei muri e le mie storie. E una bottiglia di
vino sempre aperta, svuotata in fretta. Tutto
ciò, senza essere pianificato, di fatto ha dato
uno spazio alla parte più vera di me, senza
mediazioni. Poi, però, io canto su un palco dove ci sono Giorgio (Canali) e Gianni (Maroccolo), canto me stesso ma non posso far finta
«Chiunque zappa la terra,
indipendentemente da
dove la zappa, ha con
essa un rapporto tale da
conoscerne il linguaggio.
Io ho già fatto un mio
piccolo Terra Madre
sull’Appennino toscoemiliano, e ho fatto
incontrare gli zulù ai “miei”
pastori. Quando gli
allevatori zulù sono entrati
in una stalla di Valbona
sono impazziti dalla gioia
e dalla curiosità».
che loro non ci siano. È un gioco di equilibri
per cui loro non si vergognino di quel che canto io e viceversa. E devo sempre tener conto
che vivo in un contesto che – non solo musicalmente – mi sovrasta, e di cui ho bisogno.
Tutto, ora, fiorisce in una dimensione più materiale. Perché fa i conti con i propri limiti e con i
propri difetti».
La pizzica e gli zulù
In ultimo, un album molto slow per quanto è
influenzato dalla musica popolare e tradizionale italiana. Si sentono gli echi di Ambrogio
Sparagna e di Uccio Aloisi – con i quali Ferretti ha preso a collaborare nell’ultimo periodo
– di pizziche, tarantole e tammorre.
«Ho cominciato ad avere questo interesse tre
anni fa, quando ho incontrato per la prima
volta Ambrogio Sparagna. L’ho conosciuto
perché comuni amici – Righi e Gasparini – mi
hanno imposto di parlarci. “Non hai idea Ferretti, se conosci Sparagna quante cose potete fare insieme“. Avevano ragione loro. Da
quando l’ho incontrato è come se Ambrogio
mi avesse spalancato una finestra: “Guarda
che meraviglia la tradizione musicale popolare”. E io: “Cazzo! Bello”! E mi sono buttato
giù. Da allora è un continuo crescendo, infinito. Quando poi Uccio Aloisi ha concesso
“Ferretti può cantare la pizzica”, è come se
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Acronimi
Fondati nel 1982 da Giovanni Lindo Ferretti e da Massimo Zamboni, i CCCP-Fedeli alla linea esauriscono la loro parabola esistenziale negli anni Ottanta,
chiudendo con il doppio album testamentario del 1990, Etica Epica Etica
Pathos. Il 18 settembre 1992 ricompaiono al Festival delle colline di Prato nel
concerto Maciste contro tutti, insieme a
Üstmamò e Disciplionatha, con il nuovo
nome di CSI, Consorzio Suonatori Indipendenti. Della
nuova formazione
– nel frattempo se
ne sono andati
Annarella Giudici
e Fatur, “benemerita soubrette e
artista del popolo” – fanno ora
parte Gianni Maroccolo, Giorgio Canali e
Francesco Magnelli. L’album d’esordio è
Ko de mondo, del 1994, dove fa la sua
prima apparizione la voce femminile di
Ginevra Di Marco. Anche i CSI durano
circa un decennio, e anche questa volta
è un album in due volumi, l’antologia Noi
non ci saremo, a chiudere un ciclo. Seguono un cd singolo di Ferretti, Co.dex,
e poi due (2002-2003) della nuova formazione, i PGR (vivi, “Per Grazia Ricevuta”) senza più la chitarra di uno degli
storici fondatori, Massimo Zamboni.
Quest’anno, un’altra sottrazione al gruppo con l’abbandono di Ginevra Di Marco
e Francesco Magnelli. Del nucleo storico
dell’82 è rimasto solo Ferretti, e di quello
del 1990-1994 Giorgio Canali e Gianni
Maroccolo. Così nasce questo D’anime
e d’animali, dei nuovi PGR, che ora sono
PG3R, con quella “g” al cubo che si declina in un nuovo acronimo: Però Giorgio
Gianni Giovanni Resistono.
Trovate un abbozzo di storia e la discografia di Ferretti (e la recensione dell’ultimo album, D’anime e di animali) in
Slowfood 5.
avessi fatto un master. Ora posso dire: ho fatto un master con Aloisi».
Famiglia la tenevo, ed era rossa
Conosci il nostro progetto di Terra Madre, nell’ottobre torinese. Verrai a trovarci?
«Compatibilmente agli impegni, chissà. L’idea
mi piace molto e la condivido. Mi piace questo andare oltre i confini, alle barriere linguistiche. Chiunque zappa la terra, indipendentemente da dove la zappa, ha un rapporto con
la terra tale da conoscerne il linguaggio. Io ho
già fatto un mio piccolo Terra Madre sull’Appennino tosco-emiliano, e ho fatto incontrare
gli zulù ai “miei” pastori. Quando gli allevatori
zulù sono entrati in una stalla di Valbona sono
impazziti dalla gioia e dalla curiosità. Avevano
centomila domande da fare, perché anche loro allevano mucche. Volevano sapere cosa
mangiano, come vengono allevate. È una comunicazione giocata su gesti reali, su una verità della vita che è molto facilmente comunicabile al di là della lingua. E ci sono centomila
modi per capirci».
Un album, l’ultimo, in odore di reazione. Ferretti,
l’ascolti e mentre ti snocciola le sue filosofie con
una voce che sembra che sgorghi da una caverna ancestrale non riesci a dargli torto. Poi sbobini la cassetta dell’intervista, e ti senti prudere l’anima. Il fastidio dello sgretolamento dei luoghi
comuni, di destra o di sinistra che siano. O comunque, di molte idee che sono anche tue. Che
si sgretolino oppure no, comunque sono definitivamente incrinate.
Dunque, Giovanni Lindo Ferretti è diventato
reazionario?
«Sì, nel senso che è una reazione a uno stato di
cose. Famiglia la tenevo, ero comunista nel Pci
emiliano, che per me rimane il miglior esempio
possibile di buon governo cittadino, ma oggi sono orfano di sinistra. Facevo parte di un mondo
che non c’è più, e altri non ne cerco, perché non
potrei praticarne. Dal punto di vista politico, questo percorso di ripensamento è cominciato all’epoca del martiricidio di Sarajevo. Dove improvvisamente mi sono reso conto che fra ciò che sosteneva il “mio” mondo – l’embargo sulle armi ai
bosniaci – e ciò che io pensavo, c’era una rottura incolmabile. L’embargo ha significato un massacro durato una serie infinita di giorni, senza
che i bosniaci abbiano potuto difendersi, difendere la loro storia, le loro tradizioni, le loro famiglie e le loro città. Mia nonna mi aveva insegnato
qualcosa di molto diverso. Lì ho cominciato a
pensare che questo modo di ragionare politico
era assolutamente congeniale all’uomo qualunque, non ai figli dei partigiani. È un’ideologia reazionaria e immobilistica, quella contro la guerra
“senza se e senza ma”. Nel mondo della sinistra,
tutto aveva sempre avuto un se o un ma, perché
non avevamo un “assoluto” a cui rapportarci. Se
il mio mondo un giorno mi esce con idee che da
una parte tirano all’inquisizione e al dogmatismo,
dall’altra tirano all’uomo qualunque, e poi mi si
toglie anche il dubbio… Di fatto, per fare il pane-
girico del pacifismo “senza se e senza ma” bisogna distruggere l’idea stessa di sinistra».
E come l’ha presa il tuo mondo? Non credo che
il tuo pubblico, nel frattempo, sia cambiato o sia
diventato quello di un altro mondo. Nell’84 cantavi Voglio rifugiarmi sotto il Patto di Varsavia, voglio un piano quinquennale, la stabilità.
«Sai, c’è un po’ di difficoltà a spiegare… Ma per
me il percorso è lineare, senza reali fratture. Io nella musica ho una storia molto personale. Mi è piovuta fra capo e collo, non volevo fare il musicista e
mi sono ritrovato a farlo, con questa grossa possibilità: poter raccontare la mia piccola verità. Secondo anche quelli che sono i momenti della vita,
che cambiano. Perché ho cominciato a 27 anni e
ora ne ho 51. Se mi rapportassi alla musica e alle
idee che canto come lo facevo a 27 anni sarei la
macchietta di me stesso. Il che non significa che
a 51 anni non possa avere dei moti di rabbia, di
forte nervosismo, d’incazzatura, perché se no diventerei la macchietta di qualcos’altro. Vorrei soltanto mantenere questa dignità, che mi permette
di cantare idee che la maggior parte della gente
che viene a sentirmi non permetterebbe a nessun’altro di dire. Mentre a me vengono permesse.
Penso sempre che un giorno beccherò una bottigliata, una sassata e sono molto stupito che non
mi sia ancora accaduto e di quanta gente è contenta dei pezzi problematici che canto. Metà della
piazza rimane gelata, l’altra metà urla dalla gioia,
come a dire “finalmente”. Il che vuol dire che i giochi non sono ancora fatti».
Durante il 2004, oltre alle litanie e alle tarante insieme
a Sparagna, Ferretti ha collaborato (testi, recita
e canto) allo spettacolo musicale/circense/teatrale
Craj, ideato e diretto da Teresa De Sio (sopra a
destra) e realizzato grazie alla straordinaria presenza
di artisti d’altri tempi come Uccio Aloisi (a sinistra),
il più celebre dei cantori tradizionali salentini,
Matteo Salvatore e i Cantori di Carpino.
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