«LA VOCE DEL POPOLO» (1860 – 1862) il primo, ed unico

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«LA VOCE DEL POPOLO» (1860 – 1862) il primo, ed unico
«LA VOCE DEL POPOLO»
(1860 – 1862) il primo, ed unico, quotidiano faentino.
Come potesse sopravvivere a Faenza all’indomani dell’unità d’Italia un quotidiano, e per
di più di “sinistra” è cosa non facilmente ipotizzabile. Gli analfabeti in provincia di
Ravenna nel 1861 sono l’81,23%, ed a Faenza, dieci anni dopo, il 76,35%. Certamente gli
analfabeti sono in numero minore nella città, alla quale si rivolge il quotidiano, rispetto
alla campagna, ma fra saper fare la propria firma e leggere sillabando o leggere un
giornale c’è ancora un abisso. Inoltre per la sua collocazione politica accesamente
garibaldina e mazziniana la testata si rivolge, ovviamente, ad un pubblico estremamente
popolare, spesso anche in condizioni economiche disagiate ed escluso, per la legge
elettorale dell’epoca basata sulla proprietà immobiliare, dal diritto di voto politico (a
Faenza gli aventi diritto al voto politico nel 1860 sono poco più di trecento). Il giornale
costa 5 centesimi (30 grammi di pane di prima qualità costano 20 centesimi), l’arretrato
15, l’abbonamento trimestrale 4 lire e 50, quello semestrale 8, l’annuale 15.
La pubblicità costa 15 centesimi la linea, ma essa non è mai troppo abbondante nelle
quattro pagine del giornale; escluso qualche raro caso di intera quarta dedicata a quelle
che oggi chiameremmo “liquidazioni” le inserzioni pubblicitarie normalmente non
superano il numero di due di sei o sette righe ciascuna, ed una delle due è sempre di
pubblicità teatrale quindi, con tutta probabilità, del proprietario stesso o di capo comici a
lui vicini.
Il proprietario e, ritengo, factotum del giornale è Luigi Scalaberni. Nato a Granarolo il 21
giugno 1821 da famiglia benestante sembra che, almeno sino al 1846, dimori ad Imola.
Nel 1847 è a Faenza dove dà alle stampe un “Libretto di Rime” di ispirazione religiosa e
dedica vari sonetti e terzine a Pio IX in occasione dell’amnistia del 1846. Nel 1849, al
tempo della Repubblica Romana, è uno dei protagonisti del carnevale faentino; secondo
Comandini “… nel corso mascherato del martedì grasso (20 febbraio 1849) la
simbolizzazione di quella libertà l’aveva data il giovine Luigi Scalaberni mostrandosi sul
corso vestito da abate, cavalcando all’indietro un asino guidato così per la coda e
suonando ad intervalli una rauca tromba, in mezzo agli evviva clamorosi e alla chiassosa
ilarità di una turba di monelli, ai quali gridava: ecco la libertà! … ecco la libertà!”
Nel 1854 è citato in un documento di polizia nel quale viene indicato come “emigrato e
contumace, di anni 35, possidente, scapolo” ed accusato di “incendio degli archivi ed
altre colpe politiche”; quell’accusa di avere partecipato all’incendio dell’archivio
criminale, gettato nella piazza della Molinella e dato alle fiamme, fa supporre la sua
partecipazione alle frange più accese e violente dei repubblicani faentini, uomini spesso
al limite fra il patriottismo e la vera e propria criminalità. Nell’esilio sembra che abbia
lavorato a Nizza come impresario teatrale iniziando così
quella carriera che lo porterà a divenire uno dei maggiori impresari italiani. Rientrato a
Faenza, probabilmente dopo il ’59, si dedica dapprima al giornalismo politico con la «La
Voce del Popolo» e successivamente al teatro, sempre come impresario. Nel 1862, a
seguito di un torto subito dalla Deputazione teatrale faentina, apre nel cortile del suo
palazzo in via Campidori un nuovo teatro, il Teatro Tamburini, organizzando spettacoli
che mettono subito in crisi il Teatro Comunale tanto che l’amministrazione municipale è
costretta ad assicurarsene nuovamente i servizi. Successivamente abbandona Faenza e di
lui perdiamo ogni traccia.
Il gerente, figura giuridica imposta dalla legge come responsabile, solitamente un
tipografo o comunque una persona che né era preparata a scrivere né si sognava di farlo,
è un certo Nicola Versari che nel 1860 figura come avente diritto al voto amministrativo,
anni 60, agente. Probabilmente è lo stesso Nicola Versari che nel 1845, a vent’anni, era
con gli insorti che, guidati da Raffaele Pasi e don Giovanni Verità. assaltano la
casermetta pontificia alle Balze di Scavignano, fra Faenza e Modigliana, e che tre anni
dopo è volontario nella prima guerra d’indipendenza.
Ma a scrivere i pochissimi articoli firmati è Luigi Scalaberni ed in casa sua, di fronte a
San Maglorio nel palazzo Ricci Curbastro, poi sede della Scuola di Ceramica, è collocata
anche la Stamperia Nazionale conosciuta esclusivamente per la stampa di questo
quotidiano. Ed è questa stamperia che, dopo i primi tre mesi, nei quali la stampa è
affidato alla Tipografia Conti, assume il lavoro passando da un formato di 26 x 20 cm. ad
uno di 31 x 23. Il 3 agosto 1861 la Stamperia Nazionale si trasferisce a Ravenna in casa
Miserocchi presso Porta Adriana, mentre la direzione rimane sempre a Faenza con Lugi
Scalaberni; dal 1° gennaio 1862 «La Voce del Popolo», probabilmente anche a seguito
dei numerosi sequestri subiti per motivi politici, esce solamente il martedì ed il sabato ed
il 19 giugno cessa le pubblicazioni.
Come tutti i giornali dell’epoca «La Voce del Popolo» è piuttosto noiosa: il fondo è quasi
sempre un commento politico di carattere nazionale, seguono la cronaca, sempre
nazionale, ed una breve rassegna di notizie dall’estero; scarsa e quasi inesistente la
cronaca locale.
Gli avversari della testata sono i due classici nemici dei garibaldini e dei mazziniani: i
liberali moderati, troppo spesso puri e semplici papaloni riciclati, ed i clericali nemici
dell’unità d’Italia. Violento contro Cavour che accusa di avere “venduto” Nizza e la
Savoia solo perché in quelle regioni non c’erano mulini o terre di sua proprietà, accoglie
con una certa benevolenza iniziale il Ministero Ricasoli che gode fama di essere più a
sinistra.
«La Voce del Popolo» si batte per rendere più dignitoso per il cittadino il servizio
militare, divenuto obbligatorio con l’unità d’Italia, chiedendo miglioramenti sia dal punto
di vista materiale che da quello dei “diritti civili”, per aumentare il numero dei licei e
ridurre quello delle università sottraendole alle pastoie ministeriali ed affidandole alle
forze migliori della cultura.
Per le elezioni politiche del 1861 il quotidiano è ovviamente schierato in appoggio alla
candidatura del garibaldino Vincenzo Caldesi contro il candidato “riciclato” dei moderati,
Giacomo Sacchi, che solo pochi anni prima aveva posto la sua penna al servizio di Pio IX
dedicandogli versi in occasione della visita da questi compiuta Faenza.
Altre roventi polemiche sono quella che il giornale scatena nel luglio del 1861 contro i
moderati che controllano la Società di Mutuo Soccorso fra Operai di Faenza in occasione
della sottoscrizione nazionale per la richiesta di amnistia a Mazzini (la Società delibererà
poi di non sottoscrivere) e quella sulla permanenza delle suore all’Ospedale Civile.
Ma dove più si scatena la violenza di Scalaberni è contro la chiesa ed i clericali tanto che
il vescovo Mons. Folicaldi nel gennaio del 1861 lamenta con l’intendente (prefetto) di
Ravenna come il giornale sia pieno di insulti a sacerdoti e di sonetti offensivi per la
divina provvidenza ed il papa, cosa inammissibile in un paese retto dallo Statuto
Albertino che riconosce la religione cattolica come religione di stato. Curioso come
nell’appena costituito Regno d’Italia l’autorità religiosa si appelli alle garanzie offerte
dallo Statuto mentre sudditi del Regno, come il cospiratore faentino Federico Comandini,
sono ancora detenuti nelle carceri pontificie, e lo saranno ancora per anni, rei di attività
pure garantite dallo stesso Statuto.
Come cronaca locale il giornale lancia, con qualche successo, campagne per l’igiene e la
pulizia della città, il miglioramento del servizio ferroviario, all’epoca solo la ferrovia
Bologna Ancona, e di quello postale, e lancia regolarmente sottoscrizioni per aiutare i
faentini colpiti dalla sfortuna, furti incendi ed altro.
Nino Drei