Leggi un brano - Società Editrice Fiorentina
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appendice * Giovanni Papini L’Italia e l’ultima sua generazione N on ho più scritto niente – e da gran tempo – sulla letteratura italiana e non solo per pigrizia. Ho pensato che il dare brevi notizie di pochi libri – sia pure dei più significativi – può servire a chi soffra di bisogni unicamente bibliografici, ma non basta a far intendere agli stranieri la vita spirituale di un popolo. Prima di continuare, dunque, dirò in poche pagine quali sono le condizioni dell’Italia e dell’anima italiana in questi momenti. Dopo basteranno pochi richiami per mettere al suo posto ogni opera. i Da molti anni la vita italiana si dibatte e si divincola in due grandi contrasti. Il primo è più sociale che morale ed è quello tra l’ascen* Registrato da Sandro Gentili e Gloria Manghetti nell’Inventario dell’Archivio Papini (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1998, p. 297), il manoscritto dell’articolo è collocato nella sezione Scritti giovanili del contenitore contrassegnato dal numero 63 del fondo documentario intitolato allo scrittore fiorentino oggi depositato presso la Fondazione Primo Conti onlus di Fiesole. Conservato in una cartellina che reca, nell’ordine, il nome dell’autore («G. Papini»), il titolo originale («L’Italia | e l’ultima | sua generazione»), la sede di pubblicazione («(per la “Vjesy”)») e la data di stesura («Rimini | xxvi.viii.1905»), consta di complessive 43 carte: in testa alla prima è ripresa l’indicazione del titolo, mentre in calce all’ultima sono apposte la firma e, nuovamente, la data («Rimini, 26 Agosto 1905»); tutte le carte, ad eccezione della prima, sono numerate progressivamente da 2 a 43 nel margine superiore destro. appendice 107 sione economica e la depressione politica – l’altro è più morale che sociale ed è quello tra l’oppressione dell’antica vita gloriosa e morta e il desiderio febbrile di rimettersi in pari colla vita e la cultura europea. Queste due antinomie danno all’anima italiana contemporanea quella complicazione che gli stranieri non sempre comprendono: quell’avvicendarsi di entusiasmi e di abbattimenti, di sonni contemplativi e di aspirazioni orgogliose; di scettico far niente e di attività americanista. Negli ultimi dieci anni la rinascita economica italiana è stata meravigliosa. Le vecchie industrie hanno triplicata e quintuplicata la loro produzione; nuove industrie si sono formate e sviluppate rigogliosamente (cotoni, automobili ecc.); nuovi stabilimenti, nuove fonderie, nuovi cantieri, innumerevoli e grandiosi impianti elettrici hanno ricoperto la penisola, da Milano a Napoli. Genova sta per diventare il primo porto del Mediterraneo battendo Marsiglia. Milano è diventato il più gran mercato europeo delle sete battendo Lione; Venezia diviene una concorrente temibile per Trieste. I cantieri Liguri forniscono navi all’America del Sud; le fabbriche di Milano mandano macchine nell’America del Nord; l’Asia Minore e l’Africa sono invase dai nostri cotoni e dai nostri cappelli. Il bilancio italiano che s’è chiuso ora presenta, caso unico in Europa, un avanzo netto di 44 milioni; la nostra rendita è sopra alla pari; i miliardi si accumulano nelle nostre casse di risparmio; ogni anno gli stranieri e gli emigranti italiani che tornano dall’estero ci portano centinaia di milioni di oro; l’esportazione è in aumento continuo; le società anonime accrescono i loro capitali; si creano nuove compagnie di navigazione; il credito e l’iniziativa non sono stati mai così grandi come ora. Ma a questa meravigliosa ascensione economica che non accenna a cessare fa contrasto la discesa politica. Da dieci anni non siamo più governati. Si son succeduti a Roma dei ministeri onesti e bene intenzionati, ma fiacchi, incerti, senza grandi programmi di politica nazionale, curanti più di mantenersi l’appoggio del Parlamento che di trasformare il paese e le sue sorti. Abbiamo avuto una serie di mediocri celebrità, venute dalla tradizione liberale avvocatesca come Zanardelli o dalla burocrazia come Giolitti – uomini compe- 108 andrea aveto tenti di leggi e di bilanci ma incapaci di far la parte di veri e propri Cancellieri. Con Fortis, l’attuale Presidente dei ministri, la discesa è stata ancora maggiore. Fortis è il tipo amabile del pigro ciarlone: non ha né autorità, né energia e neppure competenza amministrativa. Ha dichiarato al Parlamento che non s’intende di conti e alla prima discussione importante ha fatto una mezza fuga. Perciò dall’ultimo gabinetto Crispi (1896) non abbiamo avuto più un governo il quale abbia per l’Italia qualche disegno, al di là del giorno o del mese della vita ministeriale. Ogni ambizione di far dell’Italia il centro di una grande azione morale come sognava Mazzini – o il centro di una nuova espansione latina che dovesse cominciare con l’Africa, come voleva Crispi, è stata per ora abbandonata. La guerra infelice d’Abissinia; la passata debolezza finanziaria; la prevalenza dei partiti democratici hanno fatto perdere ogni spirito imperiale ai burocratici di Roma. Oggi che la prosperità è accresciuta e che i partiti rivoluzionari sono in decadenza, manca l’uomo che sappia ricordarsi come un grande paese non sia soltanto nei corridoi di un Parlamento ma al di fuori dei suoi confini, in un tempo e in uno spazio più grandi di quelli che occupa un ministero. L’Italia ha paura di ricordarsi ch’è l’erede di Roma. ii Tutto questo, si dirà, ha poco a che fare con l’arte e la letteratura. Ma solo apparentemente, perché l’intelligenza, anche quando fa opere eterne, vive in un luogo definito e in un momento determinato e la sua attività si trova inquadrata in quel mondo effimero ma reale, in cui sorge e si svolge. Non si può comprendere Dante senza Farinata e Carducci senza Garibaldi. L’altro contrasto al quale ho accennato si avvicina assai di più alla vita dello spirito. Si tratta di questo: l’Italia ha un grande e famoso passato. Per tre volte la sua civiltà ha traboccato per il mondo: militare e legislatrice coi Cesari; religiosa e organizzatrice coi Papi; estetica e scientifica con i grandi Umanisti e gli artisti e sapienti loro contemporanei. Molte delle nostre città sono state capitali di appendice 109 repubbliche e di principati e serbano nei palazzi e nelle chiese il fasto degli antichi padroni; alcune si son trasformate in contatto colla vita moderna, ma altre son restate delle tombe di semidormienti, dei sepolcri maestosi e sfarzosi dove la vita si allontana e l’aria è opprimente. Le ultime generazioni italiane sentono ancora più delle precedenti l’ossessione di tutta questa vita scomparsa, che ha lasciato soltanto degli echi, delle vesti e degli scenari. Da una parte sono come affascinati da queste città morte, così belle e così silenziose, dove si può sognare e piangere, dove si possono evocare i grandi padri della nostra stirpe e i ricordi brillanti e terribili delle antiche corti e delle antiche battaglie. Ma questo fascino finisce coll’assopire e coll’addormentare. Finisce col far considerare la vita unicamente come contemplazione e rimpianto del passato; col far credere che le città non debbano essere che musei e gli uomini che le abitano dei custodi di monumenti. Le chiese son trasformate in gallerie – i palazzi dei comuni o dei signori in musei a pagamento – l’industria locale si riduce a fabbricare copie o riproduzioni d’opere d’arte; le uniche professioni diventano quelle di guida, di vetturino, di albergatore e di venditore di fotografie e di cartoline illustrate. Il nostro grande passato è dunque, nello stesso tempo, un conforto ma anche un pericolo grave; una bevanda d’orgoglio ma anche un insidioso veleno. Esso ci abitua a considerare la vita come descrizione, contemplazione, conservazione e sfruttamento di quello ch’è stato invece che desiderio, aspirazione e preparazione di ciò che sarà. I nostri grandi padri sono, nel momento medesimo, i nostri eccitatori e i nostri soffocatori. Ma accanto a questo intorpidimento prodotto, soprattutto in certe città, dall’ombra enorme della nostra storia c’è anche, da mezzo secolo in qua, l’ansia mal dissimulata di raggiungere il grado di civiltà delle altre grandi nazioni europee. Avanti che si facesse l’unità politica dell’Italia (1859-1870) essa si trovava, per ragioni di governo, tagliata fuori dal movimento del mondo. Mancavano ferrovie, libri, contatti con i paesi più avanzati, istituti di cultura media e superiore, grandi capitali e uomini pratici. Perciò l’Italia era in grande ritardo rispetto agli altri paesi dell’Europa occiden- 110 andrea aveto tale e settentrionale. A poco a poco, da quarant’anni, gli italiani hanno cercato di rimettere il tempo perduto. Il ritardo c’è sempre ma diventa sempre più piccolo. La rapidità di propagazione e di assimilazione è aumentata. L’Italia ha dovuto in pochi anni organizzare il governo centrale, i grandi servizi pubblici, coprire il paese di ferrovie, di telegrafi, di telefoni, di scuole ed aiutare, per quanto i mezzi l’hanno permesso, la grande cultura. Bisogna pur dire che s’è fatto molto e uno che avesse visto l’Italia nel 1870 e la rivedesse soltanto ora non potrebbe credere ai propri occhi. La cultura, anche per l’attività disinteressata di uomini isolati, ha fatto grandi passi. Per mezzo di viaggi e di traduzioni s’è messa in contatto con le grandi culture straniere e ora può rendere in altra forma ciò che ha ricevuto. Alcune scienze, come la matematica, l’elettrotecnica e l’antropologia, sono più fiorenti in Italia che altrove. Il comfort generale è aumentato – l’igiene è più diffusa – si son bonificati vasti territori e si sono promosse e incoraggiate esplorazioni ed esperienze. Per quanto il numero degli analfabeti sia sempre grande pure c’è un consumo sempre più grande di giornali, di riviste e di libri e i grandi editori di Torino e di Milano divengono milionari. Quella che si chiama civiltà nel dizionario europeo va dunque aumentando anche in Italia e già la parte settentrionale ha raggiunto il livello delle regioni più civili della Francia e della Germania. Ma resta tuttavia in molti, e soprattutto tra quelli che viaggiano, una sensazione di dislivello tra l’Italia e la vita moderna. Il nostro paese è ancora ibrido: non è più un giardino da convalescenti o un museo di anticaglie ma non è ancora né un grande emporio mondiale come Londra né una grande fucina intellettuale come Parigi. La morte antica e la vita moderna vivono accanto. Si tollerano ma si danno noia. In alcune città si passa in pochi minuti dalle grandi vie solcate di trams, di carri e di uomini affaccendate nelle piazze solitarie ove si respira ancora l’atmosfera del Medio Evo o del Seicento. Gli esteti vorrebbero cacciare i trams e le fabbriche – gli industriali vorrebbero atterrare le vecchie mura e sventrare i vecchi quartieri e nessuno è contento. Viviamo in un’età ambigua, in cui né il passato né il futuro son riusciti a conquistarsi il presente. Così tra questo duplice dramma dell’anima italiana non è potu- appendice 111 ta sorgere e fiorire una vita spirituale nuova, fresca e grande come un popolo che vuol rappresentare qualcosa nel mondo deve vivere. L’attività dei nostri mercanti e dei nostri operai non può compensare la miseria della politica nazionale – e la nostra cultura, oscillante tra una rêverie storica e una avidità di cose nuove e straniere non ha fatto ancora nessuna grande affermazione potente e sua. Anche la letteratura ha risentito gli effetti di questa vita indecisa della nazione. Abbiamo la letteratura popolare, di origine manzoniana, espressione della borghesia soddisfatta e facile a soddisfare (tipo De Amicis) – abbiamo la continuazione della nostra poesia classica, celebratrice un po’ rettorica delle glorie passate (tipo Carducci) – abbiamo la resurrezione dell’ideale pagano in un’anima compenetrata di mali romantici (tipo d’Annunzio) ma ancora non è apparsa la nuova letteratura, voce assoluta dell’Italia nuova, rivelatrice dei nostri nuovi problemi e delle nostre nuove inquietudini. Né le storielle borghesi di Rovetta, né le grandi liriche pagane e patriottiche di Carducci e di d’Annunzio, né i drammi ironici e sentimentali di Roberto Bracco ci posson bastare. È tutta una letteratura di riflesso, che non viene fuori dal suolo, dalla nostra terra, dai nostri cuori, ma deriva dalla nostra educazione letteraria, dai nostri contatti cogli stranieri. L’unica letteratura che sia veramente italiana per l’origine, quella classica, non può esser più nostra: è troppo vecchia. L’Italia non ha avuto ancora qualcosa di simile al romanticismo. I pochi romantici che ci sono stati o erano classici per temperamento o copiavano con poca fortuna i tedeschi e i francesi. Abbiamo avuto la rivoluzione politica ma non ancora quella letteraria. D’Annunzio, che passa ancora fuori d’Italia per il rappresentante autentico della nostra mentalità moderna, è ancora nel passato colla sua arte classica e rettorica, venata soltanto di riflessi stranieri, e appena nelle Laudi del Mare del Cielo della Terra e degli Eroi, ha cominciato a sentire la nuova poesia delle moderne città terribili. Ma è rimasto solo: il suo ammiratore Mario Morasso, il lodatore della vita moderna, non ha saputo fare che degli articoli troppo prolissi. 112 andrea aveto iii La nuova generazione – quella nata intorno al 1880 – che ora comincia qua e là a farsi ascoltare, sa tutto questo. In essa più chiaro che nelle altre appare questo doppio conflitto che indebolisce e turba la vita italiana. Essa non ha per l’operosità economica quel sacro disprezzo che ebbe la generazione intellettuale che la precede, quella dei poeti della tour d’ivoire, ma, pur essendo lieta di questa nuova vitalità animale del nostro popolo non può considerarla che come una condizione, una preparazione di una cultura spirituale più alta. La Rinascenza fiorì dopo che i mercanti di Firenze e di Venezia si furono arricchiti ma se i loro figli non avessero fatto altro oggi non resterebbe di loro altra memoria che nelle storie del commercio. Perciò l’ultima generazione italiana considera il presente arricchimento come una buona concimaia per le grandi opere d’arte e di pensiero che debbono sorgere. Gli armatori di Genova e i setaioli di Milano fanno bene a fare i loro affari; ma tutto sarà inutile se non verrà domani il grande poeta e il grande filosofo a dire qualcuna di quelle parole che gli uomini non possono più dimenticare. E questa generazione non sta neppure lontana dalla vita politica come se temesse di lordarsi a ogni passo. Vorrebbe, però, che una vita politica ci fosse e nel pieno senso di politica nazionale e non parlamentare; di politica di espansione e non di paura; di politica di gran popolo erede di un gran popolo. Perciò abbandona in parte, dopo gli incauti entusiasmi delle prime ore, le bande socialiste e pensa che prima dell’esperienza collettivista ce n’è un’altra da fare e più eroica: quella imperialista. Ma quello che cercano questi giovani è la creazione di una vita dello spirito e di una potenza dello spirito più complesse e intense di quello che ora non siano – di una vita spirituale che si faccia sentire con opere d’arte inondate da nuove luci, riscaldate da nuovi fuochi, rese più profonde da nuove tenebre; di una potenza spirituale che non si fermi al comando degli uomini, alla ricerca delle leggi del mondo, ma traduca la volontà in atto senza bisogno di bassi aiuti. Essa vuole che l’anima italiana – anima spesso frivola, leggera, superficiale – divenga più grande, più robusta, più medi- appendice 113 tativa e – perché no? – anche più triste. Essa vuole dunque trasformare l’anima italiana e nello stesso tempo rialzare l’anima di tutti gli uomini. È il primo grande programma spirituale che gli italiani si propongano da lunghi anni. Tutto questo fa comprendere come l’ultima generazione abbia piuttosto inclinazioni filosofiche e religiose che letterarie ed artistiche. Infatti questi nostri giovani si affamano intorno ai problemi dell’anima e del mondo, ricercano ansiosamente le opere dei mistici e dei santi. Son comparsi all’ultimo Congresso Internazionale di Psicologia che s’è tenuto a Roma in questo aprile – stanno preparando a Bari una collezione dei grandi filosofi moderni che comincierà con Kant e conterrà Bruno e Berkeley, Fichte ed Hegel – stanno pubblicando a Milano una collezione di mistici (Poeti philosophi et philosophi minores) che comincierà con Novalis e continuerà con Plotino, con Jean Paul e Santa Teresa – pubblicano a Firenze una rivista d’idee, «Leonardo», che ha già combattuto belle battaglie e cerca di spazzare gli ultimi resti della barbara prepotenza positivista e di rivendicare i diritti della vita spirituale, chiamando alleati nella sua opera da ogni parte del mondo. Questa generazione è ancora troppo giovane perché possa aver dato quel certo numero d’opere che deve consacrarla e affermare il suo posto nella storia intellettuale d’Italia. La sua attività è stata per ora preparatoria. Ha messo in ordine le armi; ha esercitato e nutrito se stessa. Il giorno in cui comincierà a cercare avventure avrà certamente con sé la vittoria. Così va disponendosi la vita italiana. Quelli che sorgono, dopo la lunga e grigia vigilia, son forse coloro destinati a placare il duplice dissidio che ci tormenta. Essi faranno servire la crescente prosperità economica come fondamento di una più rigorosa vita politica e di una più lussureggiante fioritura spirituale – e lasceranno il passato morto agli archeologi e agli storici, ispirandosi dagli antichi solo nella fede che bisogna operar cose grandi se altri dovrà ispirarsi da noi, e volgeranno le loro forze verso il futuro, ma non verso il futuro quale lo rappresentano i direttori dei trusts o i capi dei sindacati, cioè a base di treni a grande velocità e di caserme di beatitudine socialista-piccolo borghese, ma come lo hanno sognato i santi precursori del Regno dello Spirito, cioè come monarchia più forte dell’anima più profonda su tutto il grande universo. 114 andrea aveto Questi sono i nostri propositi. Vedremo un’altra volta cosa si stia facendo per trasformarli in azioni non vane. Rimini, 26 Agosto 1905 Giovanni Papini