BIOETICA E BIOPOLITICA: È POSSIBILE RIMANERE UMANI?

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BIOETICA E BIOPOLITICA: È POSSIBILE RIMANERE UMANI?
BIOETICA E BIOPOLITICA: È POSSIBILE RIMANERE UMANI?
Prof. Maurizio CHIODI
I
cambiamenti epocali della cultura occidentale
contemporanea hanno profondamente trasformato condizioni di vita e modelli sociali. Anche il
sapere della bioetica si impone a seguito della trasformazione dell’antica arte della cura medica,
non solo in Occidente.
Questo nuovo scenario ha sollevato questioni giuridiche clamorose. La obiettiva drammaticità delle
situazioni e delle sentenze giudiziarie risulta enfatizzata anche dal grande potere dei media.
Di fronte a tale complessità, la politica è stata per
molti aspetti ‘costretta’ a correre al riparo. Ma
come deve intervenire su tali questioni?
La difficoltà delle soluzioni politiche è incrementata dall’approssimazione e dalle contrapposizioni
del dibattito civile e anche dal pluralismo etico,
oltre che religioso, nelle società secolarizzate.
In questa situazione culturale, complessa sotto
ogni profilo, religioso, etico, sociale, tecnico e
scientifico, economico, culturale, giuridico e politico, come custodire la nostra identità, ‘di generazione di generazione’?
originario nesso alla generazione. Vorrei rapidamente proporre tre nuclei tematici fondamentali.
(1) Dal punto di vista di colui che genera, la generazione ha la struttura di un atto che si dà nella
forma di una promessa affidata al riconoscimento
(libero) di colui che l’accoglie.
La vita, per colui che si riceve quando viene generato, risulta essere una promessa affidabile solo a
condizione che chi lo ha generato si impegni a suo
favore. Ma, sotto altro profilo, la promessa anticipa anche coloro che generano. Qui si rivela il carattere teologico della promessa: nell’atto stesso di
dare la vita questa viene accolta da colui che la
dona, come un dono e una grazia che lo precede.
(2) Un secondo aspetto di questa promessa è che
la generazione si inscrive nella relazione della
coppia generante, in una reciprocità asimmetrica e
in un debito reciproco tra l’uomo e la donna, come
è espresso mirabilmente dalla prima parola che in
Gen 2 è enunciata dall’adam (v. 23).
(3) Infine, un terzo aspetto della promessa sta nella sua forma radicalmente culturale. La parola dei
due è detta nella lingua e questo rimanda inevitabilmente a una cultura: la lingua è infatti forma
privilegiata della cultura di un popolo, anche se la
cultura è più di una lingua.
1. Tecnica, scienza e medicina
La domanda più generale riguardante il senso della tecnica e della scienza è strettamente legata alla
pratica e alla riflessione della medicina.
Relativamente alla problematica etico-fondamentale sul senso della tecnica, sia la posizione ingenuo-ottimistica sia quella ingenuo-allarmista suppongono un dualismo teorico tra tecnica e ‘natura’,
che riposa sull’assunzione della neutralità della
tecnica. La differenza sta nel fatto che gli uni pensano che la tecnica e le conoscenze scientifiche
siano sempre buone, dissolvendo così il buono nel
tecnico, e gli altri ritengono che essa sia semplicemente una imitazione di una natura in cui tutto è
già risolto.
La questione fondamentale sta nel pensare il nesso
tra tecnica e natura introducendo il termine ‘medio’ dell’agire. La domanda diventa duplice: qual
è il rapporto tra tecnica e azione umana? E qual è
il rapporto tra la natura, intesa nel senso cosmologico di bio-geo-sfera, e l’agire dell’uomo, che nella natura è posto e abita come nella propria casa?
3. Bioetica e biopolitica
In che misura la biopolitica può e deve assumere
criticamente questi eventi, per governarli, per
orientarli, e così evitare che un meccanismo ineluttabile finisca per decidere al posto dell’uomo?
(3.1.) Diamo anzitutto un cenno storicoconcettuale dedicato al termine di biopolitica, nel
dibattito tra Foucault e Derrida. Questo mostra il
compito urgente di pensare la biopolitica nella nostra cultura, con particolare riferimento alle pratiche della tecnica medica nel suo potere/sapere nei
confronti della vita, la nascita, la salute, la morte.
Ma come intendere il senso e le forme di esercizio
del diritto nella biopolitica?
(3.2.) Il nesso tra etica e diritto potrebbe essere interpretato alla luce di due modelli diffusi: il giusnaturalismo e il giuspositivismo. Il primo, senza
dubbio il più antico, stabilisce tra etica e diritto un
legame inscindibile, nella subordinazione del diritto alla morale. In diretta opposizione l’altro
modello si caratterizza per la netta separazione tra
etica e diritto: l’una appartiene alla sfera del com-
2. Il senso dell’umano, di generazione in generazione
La formula ‘di generazione in generazione’ ci
chiede di pensare l’identità dell’umano nel suo
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portamento privato e l’altro regola gli aspetti pubblici per assicurare la pacifica convivenza.
Il difetto comune è una radice intellettualistica, in
cui l’etica, il diritto e la politica sono ridotti a mera conoscenza intellettuale, che sarebbe accessibile a priori e universalmente rispetto alle forme effettive delle relazioni socioculturali, interpersonali
e giuridiche. Tuttavia, la comune deriva intellettualistica non deve occultare il fatto che le antropologie sottostanti sono molto differenti e anzi
opposte. Nell’approccio giusnaturalista è implicita
una antropologia relazionale, interpersonale e politica. Nel modello giuspositivista invece domina
un’idea individualistica dell’uomo: se questi vuole
godere dei benefici della vita sociale, deve associarsi con altri in un contratto giuridico nel quale
egli rinunci parzialmente all’esercizio della sua libertà individuale. Qui la relazione ad altri appare
letteralmente ‘arbitraria’ e cioè esposta al libero
arbitrio della volontà soggettiva, come se questa
non fosse originaria rispetto all’identità del sé.
Il richiamo condiviso ad una razionalità astratta
rende però più difficile il confronto e la convivenza civile. Ci si scontra sui principi, da ambedue le
parti pensati e voluti come un’idea da applicare
nella pratica. È necessario invece contestualizzare
il diritto e la politica in un quadro pratico più ampio: le forme concrete dei rapporti civili.
della cultura e la figura del diritto, nella sua stretta
relazione alla politica.
L’etico e il politico sono due ambiti costitutivi
dell’esperienza antropologica, nella sua ineludibile forma pratica e dunque legata alla cultura: essi
sono perciò in stretto legame, senza tuttavia coincidere l’uno con l’altro.
Certo la difficoltà, nelle attuali società industriali
avanzate e ‘ultrapluralistiche’, è il progressivo
ampliamento della differenza e del gap tra l’etico
e il politico. Questa crisi delle convinzioni e del
consenso in materia morale tuttavia non condanna
automaticamente lo stato democratico alla dissoluzione. Richiede, piuttosto, di pensare la politica
nel suo originario nesso alla storia concreta e alla
identità culturale di un popolo.
Tra politica e cultura di un popolo si stabilisce un
rapporto circolare: l’istituzione politica suppone le
forme culturali, identitarie e simboliche, e a sua
volta le plasma e le trasforma dando loro una
obiettività organizzata e istituita.
Tutto questo non avviene senza conflitti. In uno
stato democratico non si può pensare di abolire i
conflitti: la democrazia si caratterizza come una
continua e sempre aperta negoziazione, nella quale certo la decisione politica è necessaria, ma nello
stesso tempo la discussione non ha conclusione.
Sotto tale profilo, mi pare istruttivo ricordare e distinguere, con Ricœur, i tre diversi livelli in gioco
nelle questioni politiche, con le rispettive decisioni legislative: il progressivo passaggio da un livello fondamentale (la plausibilità e il senso della
forma democratica) alle decisioni più quotidiane,
passando attraverso le ‘regole non scritte’ o le
‘grandi parole’ della democrazia.
Per mediare il conflitto, inevitabile a livello istituzionale, la politica richiede l’esercizio continuo di
una phronesis (prudentia), che si assuma l’onere
di scelte difficili su temi e questioni controverse.
Lo statuto di tale phronesis politica, ai vari livelli,
e anche nelle questioni bioetiche, non è inmediatamente deducibile a priori da un principio
universale, come se questo fosse conosciuto dalla
‘ragione’ in maniera innata e come se dovesse essere semplicemente ‘applicato’ alla situazione
particolare. Sotto questo profilo è illuminante e
istruttivo il richiamo al principio di equità secondo l’interpretazione di Aristotele, poi ripresa dalla
scolastica medievale di s. Tommaso.
La complessa dialettica che è in gioco nella decisione politica implica il riconoscimento che, attraverso la legge, il compito della politica va oltre la
politica stessa: si tratta di garantire relazioni sociali, ‘obiettivazioni’ e significati culturali capaci
di propiziare una forma di vita buona che permetta
alla coscienza di accedere alla promessa inscritta
nell’esperienza umana.
(3.3.) È istruttivo, sotto questo profilo, ciò che
emerge nella riflessione filosofica di J. Habermas.
Ciò che egli considera inaccettabile non è la biotecnologia, ma il fatto che un certo tipo di tecnica
(migliorativa), applicata al momento generativo,
possa modificare in modo radicale il principio dello Stato democratico e costituzionale, fondato su
una condivisa idea di giustizia, reciprocità e uguaglianza tra umani.
Siamo così rinviati alle questioni etiche fondamentali che sono in gioco nelle decisioni politiche
e giuridiche di uno stato costituzionale democratico, liberale e ideologicamente plurale.
(3.4.) È necessario recuperare il rapporto della
biopolitica con la cultura, come aspetto fondamentale dell’esperienza pratica e forma complessiva della vita di un popolo. Il senso della biopolitica non è riducibile a mera legge positiva.
Nel rapporto tra bioetica e biopolitica, dobbiamo
però evitare un possibile difetto di impostazione.
Il primo è riconducibile alla tesi che enfatizza il
compito della politica e del diritto rispetto alla
cultura e cioè alle forme effettive della vita sociale,
di cui pure la politica è aspetto rilevante. L’altro
difetto sta nel rischio opposto di chi sottodetermina il nesso reale che esiste tra le forme pratiche
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