2Verso un modello della comunicazione verbale
Transcript
2Verso un modello della comunicazione verbale
2 Verso un modello della comunicazione verbale Dopo aver messo a fuoco l’importanza della comunicazione nella convivenza civile, cerchiamo ora di approfondire il concetto stesso di comunicazione e, all’interno di questo, di definire la comunicazione verbale. Per far questo riprendiamo sinteticamente alcuni importanti contributi venuti nel Novecento dalla linguistica, dalla teoria dell’informazione e dalla pragmatica, proponendo infine un modello fondato sul rapporto tra comunicazione verbale e azione umana che già Platone sottolineò nel Cratilo, affermando che «il dire è un fare»1. Descriviamo poi le componenti della comunicazione verbale stessa, soffermandoci in particolare su quelle componenti – la semiosi categoriale e la semiosi deittica – che la caratterizzano più propriamente come “verbale”, cioè come attività compiuta dall’uomo valendosi della parola. Non esiste una definizione estesamente accettata nella comunità scientifica né di comunicazione né di teoria della comunicazione2. Si tratta in effetti di un campo scientifico relativamente nuovo, rispetto al quale sono stati messi in atto approcci diversi a seconda delle discipline. Se ne sono occupate, oltre alla linguistica, la 1 «Tò légein mía tis tôn práxeon estín», Platonis Cratylus 387b. Si veda R.T. Craig, Communication Theory as a Field, in «Communication Theory», IX/2, 1999, pp. 119-161, e B. Mann, What is Communication? - A Survey, scaricabile dal sito http:// www-rcf.usc.edu/~billmann/WMlinguistic/communication.htm (ultima consultazione dicembre 2003). 2 Capi2.pmd 15 11/02/2004, 9.02 16 Verso un modello della comunicazione verbale sociologia, la psicologia, la teoria dell’informazione, ma solo raramente si è cercato di dare una definizione complessiva del fatto “comunicazione”3. Nella prospettiva adottata nel presente lavoro, la comunicazione rappresenta un momento essenziale e indispensabile dell’interazione umana e questa è riconducibile, a sua volta, all’incontro di azioni4: i modelli elaborati nel corso del Novecento in ambito linguistico ne hanno dato alcune prospettive parziali. Ma vediamo i principali. 2.1 I primi modelli Il primo “modello” della comunicazione è il celebre circuit de la parole di Ferdinand de Saussure, riprodotto nella figura 2.1. Figura 2.1 Il circuit de la parole di Ferdinand de Saussure. 3 Anticamente la comunicazione verbale era studiata nell’ambito della retorica, intesa come studio della tecnica di produzione di un discorso e, più in generale, di un testo. La retorica antica abbracciava molti aspetti, dall’elencazione degli argomenti da adottare all’ordine in cui trattarli, alle tecniche espositive, fino alle tecniche mnemoniche per ricordare i passaggi di un’argomentazione (ma anche per avere sempre a disposizione abbondanza di argomenti, esempi, aneddoti, da utilizzare nei discorsi) e alle tecniche di elocuzione. Aristotele mette in evidenza che i tre fattori fondamentali di ogni discorso sono il parlante (ho légon), il discorso (lógos) e l’ascoltatore (akroatés). Si veda in proposito E. Rigotti, La retorica classica come una prima forma di teoria della comunicazione, cit., p. 5. Il contenuto del termine retorica si è in seguito ristretto, venendo a indicare soprattutto le tecniche espressive, ossia l’insieme degli “artifici” retorici, nel senso delle cosiddette “figure retoriche”. Si veda per esempio http://humanities. byu.edu/rhetoric/silva.htm (ultima consultazione dicembre 2003). Nel Medio Evo e nella Modernità l’accezione di retorica si è ridotta a quest’ultimo significato e solo negli ultimi decenni, dopo la pubblicazione nel 1958 del Traité de l’argumentation di Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, il termine è tornato a indicare alcuni dei temi contemplati dalla retorica antica. 4 Si veda E. Rigotti, La linguistica tra le scienze della comunicazione, cit. Capi2.pmd 16 11/02/2004, 9.02 2.1 I primi modelli 17 Il linguista ginevrino rappresenta gli interlocutori che discorrono scambiandosi segni: ciascuno dei due produce segni materiali (fonetico-acustici) e interpreta quelli prodotti dall’interlocutore in base alla propria conoscenza della lingua. Nella Sprachtheorie del 1934 Karl Bühler elabora il concetto di lingua come strumento per comunicare. È proprio attraverso il suo concetto di segno linguistico che emerge il suo modello di comunicazione. Bühler, incentrando l’attenzione sull’analisi funzionale del segno, lo colloca al centro di un triplice rapporto che coinvolge il livello oggettuale, il mittente e il ricevente in tre fasci di relazioni (figura 2.2). Il segno si lega a ciascuno di questi tre livelli con una relazione specifica: per l’emittente il segno è un sintomo, che ha funzione di espressione; il ricevente coglie il segno come segnale che ha la funzione di appello; rispetto all’oggetto il segno è un simbolo che funge da rappresentazione (figura 2.3). Spesso i modelli della comunicazione elaborati fuori dalle scienze linguistiche non hanno come oggetto immediato la funzione svolta dal linguaggio rispetto alla comunicazione verbale, ma, più in generale, la struttura dell’evento comunicativo. È il caso anche del modello elaborato in ambito matematico-informatico da Claude Elwood Shannon, che sta per molti aspetti alla base degli approcci matematico-formali – in particolare informatici – della comunicazione. Ne parliamo brevemente perché è stato tenuto presente da molti linguisti. Come si vede nella figura 2.4, Shannon riduce la comunicazione a trasmissione di informazione e definisce le limitazioni alla comunicazione in termini di disturbi del canale o rumore (teorema di Shannon): si può definire matematicamente la capacità di un canale come quantità massima di scambio informativo tra sorgente e ricevitore, in base a un calcolo di probabilità. Pertanto una trasmissione priva di errori è Figura 2.2 Capi2.pmd Karl Bühler: il segno linguistico. 17 11/02/2004, 9.02 18 Verso un modello della comunicazione verbale Figura 2.3 Karl Bühler: funzioni del segno linguistico. Figura 2.4 Il modello di Claude Elwood Shannon. possibile se (e solo se) la quantità di informazione comunicata nell’unità di misura prescelta è minore della corrispondente capacità5. 5 La dimostrazione del teorema è formulata in un famoso articolo, A Mathematical Theory of Communication, pubblicato nel 1948. Capi2.pmd 18 11/02/2004, 9.02 2.1 I primi modelli 19 Un ulteriore modello sviluppato in ambito linguistico è quello di Roman Jakobson. Anche Jakobson muove da una concezione funzionale della lingua: parlare serve per comunicare, e comunicare è un fatto complesso, che nasce di volta in volta in rapporto a funzioni diverse: si comunica per esprimersi, per raccontare o descrivere un aspetto della realtà, per assicurarci che il nostro interlocutore ci capisca, per spiegare il significato di una parola, per dare un ordine, per creare qualcosa di esteticamente bello. Il modello di Jakobson (elaborato in particolare in Linguistica e poetica, del 19586) si ispira peraltro a quello proposto da Karl Bühler. Nel suo modello (si veda la figura 2.5), Jakobson mette a fuoco sei fattori fondamentali della comunicazione a cui corrispondono sei funzioni testuali. La Figura 2.5 Il modello di Roman Jakobson. 6 Una versione italiana del testo è pubblicata in R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, L. Heilmann ed., Feltrinelli, Milano 1966. Capi2.pmd 19 11/02/2004, 9.02 20 Verso un modello della comunicazione verbale funzione dominante di un testo dipende dall’orientamento prevalente del messaggio verso uno dei sei fattori costitutivi7. Successivamente questi primi modelli sono stati ripresi ed elaborati, soprattutto in rapporto alla caratterizzazione dei ruoli dei partecipanti alla comunicazione e alle possibili “stratificazioni” del soggetto parlante8. 2.2 La prospettiva pragmatica Nata nell’ambito della filosofia del linguaggio come modello per spiegare la comunicazione verbale in termini di azione, la teoria degli atti linguistici (speech acts) è stata elaborata da John Austin nel 1962, in un famoso libro intitolato How to do things with words9. Austin parte dall’osservazione di un fenomeno particolare: in alcuni casi, il fatto stesso di pronunciare una certa espressione produce un cambiamento nella situazione reale. Se consideriamo per esempio un enunciato come “Lei è licenziato!”, la situazione degli interlocutori prima e dopo il proferimento è diversa. Luigi aveva un dipendente e ora non l’ha più, il dipendente aveva un lavoro e ora l’ha perso. Un caso analogo è quello di “Ti prometto di venire alla festa di Chiara”: il mittente ha assunto un impegno, il destinatario si aspetta dal mittente che farà quel che ha detto. Questi usi di licenziare e promettere sono chiamati da Austin performativi. Austin amplia però la sua osservazione, mettendo a fuoco il fatto che ogni uso del linguaggio è, in qualche modo, “performativo” nella misura in cui provoca un cambiamento nella realtà. Da qui il termine speech acts. 7 Vale la pena di menzionare qui il famoso articolo di Marshall McLuhan, The medium is the message, in Understanding Media. The Extensions of Man, McGraw-Hill, New York 1964. La rilevanza di questo testo sta nel capovolgimento dei valori di “contenuto” e di “mezzo”. Il mezzo, osserva McLuhan, è per così dire “realtà nuova”, una sorta di estensione di noi stessi (extension of ourselves) che si aggiunge alla realtà vecchia creando una situazione nuova; non è pertanto il modo di comunicare ciò che è cambiato con la nascita delle nuove tecnologie, bensì la comunicazione stessa, totalità inclusiva di contesto e interlocutori. 8 Si veda E. Goffman, The Presentation of Self in Everyday Life, Allen Lane, London 1969 e Id., Forms of Talk, OUP, Oxford 1981. 9 Per una presentazione puntuale degli sviluppi e delle applicazioni linguistiche, si veda G. Gobber, Pragmatica delle frasi interrogative. Con applicazioni al tedesco, al polacco e al russo, ISU, Milano 1999. Si veda anche La linguistica pragmatica: Atti del XXIV Convegno della SLI, G. Gobber ed., Bulzoni, Roma 1992. Per quanto riguarda le implicazioni relative alla teoria dell’azione, si veda, oltre all’articolo di Rigotti, La linguistica tra le scienze della comunicazione, cit., H.H. Clark, Using Language, cit., e L. Filliettaz, La parole en action, Nota Bene, Québec 2002. Capi2.pmd 20 11/02/2004, 9.02 2.2 La prospettiva pragmatica 21 La teoria degli atti linguistici distingue tre diverse “azioni” compiute nella formulazione di un discorso. A un primo livello il discorso è un atto locutivo – l’atto stesso di parlare –, a cui si sovrappone un livello illocutivo, quello dell’azione che il parlante intende compiere attraverso il proprio atto locutivo. Infine l’atto linguistico è un atto perlocutivo, cioè un’azione che provoca un certo effetto sul destinatario. John Searle elabora il lavoro di Austin, approfondendo il livello illocutivo del discorso per descrivere la tipologia degli atti che il parlante può compiere attraverso il linguaggio10. Parallelamente ad Austin e a Searle, Paul Grice sviluppa un ulteriore modello, basato sul principio di cooperazione e sulle massime della comunicazione: Grice mette a fuoco il fatto che ogni intervento nel discorso deve rispondere a una serie di requisiti – “massime” appunto – per essere comunicativamente adeguato. Quando le massime vengono apparentemente disattese, i parlanti recuperano il senso grazie a procedimenti inferenziali più o meno codificati11. Il modello di Grice viene ampliato e precisato dalla teoria della pertinenza di Dan Sperber e Deirdre Wilson12: si tratta di un modello della comunicazione in cui gli autori sottolineano l’importanza del contesto per interpretare il messaggio verbale. Del contesto fanno parte anche i parlanti stessi, con le loro conoscenze e le conoscenze che ciascuno presuppone che l’altro abbia. Tutti questi elementi guidano i processi inferenziali (sull’inferenza si veda oltre, in questo stesso capitolo) che costituiscono la componente fondamentale dell’evento comunicativo. Sperber e Wilson evidenziano l’efficacia di questi processi, che normalmente portano il destinatario a inferire – a partire da un insieme di interpretazioni possibili – un unico senso che è esattamente quello inteso dal mittente, con un dispendio minimo di sforzo interpretativo. 10 Si veda J.R. Searle, Per una tassonomia degli atti illocutori, in Gli atti linguistici, M. Sbisà ed., Feltrinelli, Milano 1978, pp. 168-198. Si veda inoltre Id., Speech Acts, Cambridge University Press, Cambridge 1969 e Id., Rationality in Action, MIT Press, Cambridge, MA – London 2001. 11 Si veda H.P. Grice, Studies in the Ways of Words, Harvard UP, Cambridge, MA 1991, nonché il principio di cooperazione formulato in Id., Logic and conversation, The William James Lectures at Harvard University 1967, lezione II, in Syntax and Semantics – Speech Acts, P. Cole - J.L. Morgan ed., Academic Press, New York – London 1975, pp. 41-58, trad. it. Logica e conversazione, in Gli atti linguistici, cit., pp. 199-219. 12 D. Sperber - D. Wilson, Relevance, Blackwell, Oxford 1986 (1995²). Capi2.pmd 21 11/02/2004, 9.02 Capi2.pmd 22 Art, method, communicator, audience, strategy, commonplace, logic, emotion Power of words; value of informed judgment; improvability of practice Metadiscursive vocabulary such as: Plausible when appeals to metadiscursive commonplaces such as: Mere words are not actions; appearance is not reality; style is not substance; opinion is not truth Social exigency requiring collective deliberation and judgment Problems of communication theorized as: Interesting when challenges metadiscursive commonplaces such as: The practical art of discourse Rhetorical Words have correct meanings & stand for thoughts; codes & media are neutral channels Understanding requires common language; omnipresent danger of miscommunication Sign, symbol, icon, index, meaning, referent, code, language, medium, (mis)understanding Misunderstanding or gap between subjective viewpoints Intersubjective mediation by signs Semiotic Communication is skill; the word is not the thing; facts are objective and values subjective All need human contact, should treat others as persons, respect differences, seek common ground Experience, self & other, dialogue, genuineness, supportiveness, openness Absence of, or failure to sustain, authentic human relationship Experience of otherness; dialogue Phenomenological Humans and machines differ; emotion is not logical; linear order of cause & effect Identity of mind and brain; value of information and logic; complex systems can be unpredictable Source, receiver, signal, information, noise, feedback, redundancy, network, function Noise; overload; a malfunction or “bug” in a system Information processing Cybernetic Humans are rational beings; we know our own minds; we know what we see Communication reflects personality; beliefs & feelings bias judgments; people in groups affect one another Behavior, variable, effect, personality, emotion, perception, cognition, attitude, interaction Situation requiring manipulation of causes of behavior to achieve specified outcomes Expression, interaction, & influence Sociopsychological Definizioni della comunicazione in diversi ambiti disciplinari secondo R.T. Craig. Communication theorized as: Tabella 2.1 Individual agency & responsibility; absolute identity of self; naturalness of the social order The individual is a product of society; every society has a distinct culture; social actions have unintended effects Society, structure, practice, ritual, rule, socialization, culture, identity, coconstruction Conflict; alienation; misalignment; failure of coordination (Re)production of social order Sociocultural Naturalness & rationality of traditional social order; objectivity of science & technology Selfperpetuation of power & wealth; values of freedom, equality & reason; discussion produces awareness, insight Ideology, dialectic, oppression, consciousnessraising, resistance, emancipation Hegemonic ideology; systematically distorted speech situation Discursive reflection Critical 22 Verso un modello della comunicazione verbale 11/02/2004, 9.02 2.3 L’atto comunicativo come evento 23 A conclusione di questa rassegna e prima di passare al modello della comunicazione verbale proposto in questo volume, riportiamo una sintesi delle varie definizioni che sono state date della comunicazione in tradizioni scientifiche diverse13 (tabella 2.1). Lo schema riportato mostra sinteticamente alcuni approcci alla comunicazione: le prospettive che abbiamo presentato fino a qui rientrano sostanzialmente nelle prime due colonne, che Craig chiama retorica e semiotica. Si tratta naturalmente di una semplificazione, che tuttavia inseriamo qui con lo scopo di mostrare per quali aspetti il nostro modello tenta di integrare i contributi precedenti, linguistici e non, in una concezione più organica. 2.3 L’atto comunicativo come evento Cominciamo pertanto a chiederci in che senso diciamo che l’atto comunicativo è un evento. Un evento14 è una qualsiasi cosa che accade, meglio, che ci accade. In altre parole, si parla di evento quando si ha a che fare con qualcosa 1) che accade e 2) che, più o meno direttamente, ci tocca, ci cambia, ci sposta. Quando un evento comunicativo si compie, esso produce un cambiamento nel destinatario e questo cambiamento è il “senso” della avvenuta comunicazione. Il fatto di parlare di evento comunicativo sottolinea che, dal punto di vista del destinatario, il messaggio “arriva” come sollecitazione a lasciarsi coinvolgere (nelle diverse maniere in cui un messaggio può coinvolgere: informa, rallegra, rende beneficiari di una promessa, richiede una risposta, impone obbedienza ecc.). Il coinvolgimento del destinatario, il suo cambiamento, rappresentano un momento del senso, ciò che fa dell’atto comunicativo, appunto, un evento comunicativo. Ciò non toglie che il messaggio abbia già un senso “proprio” in quanto testo coerente (si veda più oltre il concetto di symploké) e in quanto testo adeguato all’intenzione comunicativa del mittente. 2.3.1 Uno scambio di segni che produce senso In effetti, tra tutti gli eventi che popolano il mondo e lo costituiscono, c’è una classe particolare15, quella degli “eventi comunicativi”, intesi come gli eventi che 13 Lo schema è tratto dall’articolo di R.T. Craig, Communication Theory as a Field, cit., p. 133. Il termine evento ha un uso più specifico in sede di gestione della comunicazione come incontro pubblico di varia natura il cui obiettivo ultimo è di far passare un certo messaggio, come in una conferenza stampa, o nella dimostrazione – presentazione di un tipo di prodotto ecc. 15 La classe è un insieme che si caratterizza per il fatto che i suoi elementi hanno tutti in comune una particolare caratteristica. 14 Capi2.pmd 23 11/02/2004, 9.02 24 Verso un modello della comunicazione verbale i soggetti umani producono per comunicare, per trasmettere l’uno all’altro un messaggio portatore di un senso. La proprietà di produrre senso è tipica dei messaggi e viene studiata dalla semiotica (scienza dei segni) e dalla linguistica (scienza dei segni verbali o linguistici), che affrontano la domanda “come è fatto dentro il messaggio?”, cioè “quali sono i suoi aspetti costitutivi, essenziali?” Soffermiamoci brevemente sui concetti introdotti. Riprendiamo in primo luogo la nozione di senso. La parola senso ha una grande polisemia (cioè ha molte accezioni diverse, diversi significati). In italiano la usiamo per dire direzione quando diciamo che una strada è percorribile “a senso unico”, ma, se diciamo che una persona “ha buon senso”, intendiamo dire che questa persona sa valutare le circostanze in modo ragionevole. Se invece parlo dei “cinque sensi” intendo gli organi di percezione... Consideriamo infine l’espressione “non ha senso”, che rappresenta un’accezione molto interessante16. Crediamo degno di nota il fatto che nel linguaggio comune l’espressione è usata tendenzialmente solo al negativo. Essa può essere usata in molti contesti diversi. Se uno mi dice: Mio figlio non guida: è sposato io penso che scherzi, a meno che non sia matto, perché quello che dice non ha senso (ma se fosse una battuta in una commedia dell’assurdo?…). Ma ci sono anche comportamenti non sensati: se uno va al bar e dice: “Mi può fare un caffè?”, e il barista risponde: “Sì” e se ne va, il suo comportamento non ha senso. E se il direttore del manicomio, come vuole una barzelletta, appende sulla porta del suo ufficio un cartello con la scritta Si prega di bussare e un paziente, tutte le volte che passa di là, bussa... il suo comportamento è insensato. E ancora, a un livello diverso, non avrebbe senso aprire una ditta di freezer al Polo Nord... Questi sono tutti esempi di insensatezza. Pensiamo in effetti che ci sia un collegamento tra il senso e la ragionevolezza: un fatto “ha senso” quando ha un rapporto (che, come vedremo, è possibile specificare descrivendolo in modo esplicito) con la ragione. Apriamo qui una breve parentesi sul problema del non-senso. Il non-senso esiste? Certi linguisti hanno imparato a fabbricare non-sensi “su misura” da esibire nei loro corsi (se ne trovano anche in questo testo). Ma quando parliamo di non-senso intendiamo anche quella tipologia testuale che si realizza nel teatro dell’assurdo. In quest’ultimo caso però sarebbe più esatto parlare di un livello del senso, che viene infranto con il preciso obiettivo di attingere a un livello più profondo del messaggio. A ben vedere qui il senso viene recuperato a un livello 16 Capi2.pmd Si veda E. Rigotti - A. Rocci, Sens - non-sens - contresens, cit. 24 11/02/2004, 9.02 2.3 L’atto comunicativo come evento 25 strategicamente più alto della comunicazione. Invece, quando sono i linguisti a inventare non-sensi artificiali, questi non sono testi reali17 e quindi di regola non contengono un livello più profondo di significato a cui l’insensatezza superficiale venga a rinviare. Può un non-senso essere l’ultimo – definitivo – livello di un testo, il suo “vero” messaggio? L’ipotesi di risposta che in questo libro intendiamo mettere alla prova è no: l’unico non-senso irrecuperabile potrebbe essere quello dei testi prodotti da soggetti psicopatici18. Tuttavia, per il terapeuta, nemmeno in questo caso si può parlare di non-senso definitivo: in effetti, indipendentemente dal modo in cui si presenta la volontà nelle sue manifestazioni di superficie, sembra che si debba comunque riconoscere, nei testi prodotti da un malato, il tentativo di esprimere un disagio profondo. L’ipotesi è, dunque, che l’uomo sia “un animale che ha inevitabilmente senso”. Riassumendo, quando si parla di non-senso bisogna, pertanto, distinguere diversi livelli: nella dimensione ultima, comunicativa (per esempio, nel teatro dell’assurdo) il non-senso non esiste, perché il testo è tutt’altro che insensato e ha al contrario un forte messaggio da trasmettere allo spettatore. Negli esempi “artificiali”, invece, il non-senso si dà, ma solo come esito “metalinguistico” (come negli esempi inventati dai linguisti), e non come realtà comunicativa. Per capire meglio che cos’è il senso è utile mettere a fuoco la distinzione tra due concetti che, pur essendo apparentemente simili, si rivelano diversi: si tratta di notizia e informazione. Se esco dall’università e uno sconosciuto mi si avvicina e mi dice con tono di confidenza: “Mio cugino è farmacista”, questa comunicazione mi dà un’informazione, che però non ha senso perché a me non interessa. Questo significa che un’informazione, per poter essere considerata una notizia, deve essere pertinente per il destinatario, deve, in qualche misura, riguardarlo. Riesco a comunicare davvero quando il destinatario si rende conto del fatto che quello che gli sto dicendo ha senso per lui. Potremmo dire, scherzando un po’, che noi dobbiamo lavorare sull’informazione in termini di marketing, per riuscire a “vendere” l’informazione come notizia per qualcuno. Ma bisogna comunque che l’informazione risulti 17 Definiamo, in una prima approssimazione, “testi reali” quei testi in cui mittente e destinatario sono personalmente coinvolti dal messaggio. 18 Si vedano in proposito G. Maggio, Psicopatologia e linguaggio, Masson, Milano - Parigi - Barcellona - Bonn 1991 nonché i contributi di C. Galvano, G. Maggio e I. Carta nella Sezione terza “Destrutturazione del senso e testo psicotico” di Ricerche di semantica testuale, E. Rigotti - C. Cipolli ed., La Scuola, Brescia 1988. Capi2.pmd 25 11/02/2004, 9.02 26 Verso un modello della comunicazione verbale infine oggettivamente interessante per il destinatario19. Il comunicatore in effetti seleziona e comunica solo alcune delle informazioni che costituiscono il suo “database del mondo”, quelle che ritiene pertinenti per il destinatario. 2.3.2 Comunicare è agire Abbiamo messo a fuoco il fatto che la comunicazione presuppone la partecipazione di almeno due soggetti. In effetti si ricorre alla comunicazione tutte le volte che il singolo soggetto non è in grado, da solo, di realizzare un proprio scopo e cerca pertanto di coinvolgere altri soggetti. A questo punto gli scenari possibili sono due: se i due soggetti condividono lo scopo, si realizza un’attività di cooperazione (per esempio due persone cooperano per soccorrere un ferito). Nel caso in cui, invece, gli obiettivi dei due agenti siano complementari, ciascuno dei due agisce perseguendo il proprio obiettivo, ma ricorre all’altro affidandosi a lui per la realizzazione del proprio obiettivo: si tratta allora di interazione. In entrambi i casi, gli schemi d’azione dei due soggetti presentano parziali sovrapposizioni. Gli atti comunicativi che i due soggetti si scambiano consentono loro di coordinare le proprie azioni, mostrandosi reciprocamente il beneficio ottenuto dall’interazione, cioè dall’agire secondo il desiderio dell’altro. L’interazione dunque può essere rappresentata descrivendo i soggetti come agenti capaci di iniziativa nella realtà, che non solo hanno una certa conoscenza del mondo ma anche desideri; che sono capaci di immaginare stati di cose corrispondenti ai loro desideri e di decidere di realizzarli. Per realizzare il suo desiderio, il soggetto deve attivare una “catena di realizzazione”, deve cioè disporre una serie di azioni orientate alla sua intenzione: in questa serie di azioni possono rientrare anche le azioni di altri agenti, come nel caso della cooperazione e dell’interazione20. Se Luigi, passeggiando per il centro, prova il desiderio di un caffè, la sua conoscenza del mondo gli suggerirà di entrare in un bar, ordinare un caffè, berlo, passare alla cassa e pagare (figura 2.6): si tratta di interazione perché diversi agenti (Luigi, il barista, la cassiera) partecipano all’evento interattivo, ciascuno realizzando obiettivi propri che però si integrano con gli obiettivi degli altri soggetti, consentendo anche a questi ultimi di realizzare i propri desideri. Luigi ottiene il suo caffè, pagandolo. Il barista, per conto suo, onora il suo impegno 19 Tema di rilievo nel marketing oggi: la pubblicità deve essere veritiera perché oltretutto, sul lungo periodo, l’informazione commerciale falsa diventa inefficace. Bisogna però tenere distinta dalla comunicazione quella forma patologica della comunicazione che è la manipolazione: rimandiamo al volume New Perspectives on Manipulation and Ideologies, cit. 20 In altre circostanze, l’agente è autonomo nella realizzazione del nuovo stato di cose. Per esempio: Luigi è in casa, ha bisogno di bersi un caffè, va in cucina, prende la moka, la riempie d’acqua, mette il caffè nel filtro, accende il fornello… Capi2.pmd 26 11/02/2004, 9.02 2.3 L’atto comunicativo come evento Figura 2.6 27 Elementi dell’interazione comunicativa in un bar. lavorativo (fornire un certo tipo di prestazione ai clienti che ne fanno legittimamente richiesta) in vista dei benefici che ne conseguono (lo stipendio, ma magari anche dell’altro: per esempio, gli piacciono certi aspetti dell’attività del barista come l’intrattenersi con i clienti…). La sua adesione alla richiesta del cliente è libera, ma, in condizioni normali, prevedibile, perché egli ha già accettato un ruolo preciso in un’organizzazione (il bar) che peraltro offre con segnali inequivocabili una precisa serie di servizi. Con il messaggio di richiesta di caffè, Luigi attiva l’impegno del barista a servirlo e il proprio impegno a pagare21. Naturalmente l’aspetto pertinente di tutta la vicenda sta nel fatto che l’interazione non-comunicativa (nel nostro esempio lo scambio caffè/soldi) richiede la mediazione di un’interazione comunicativa. Quest’ultima si realizza attraverso l’attivazione della catena di realizzazione (entrare nel bar, per esempio) di cui fanno parte anche gli atti linguistici (“Vorrei un caffè”) costitutivi della comunicazione verbale. 21 In effetti il comunicare non cambia solo il destinatario, ma anche il mittente: “chi ha parlato, ha parlato”, e in un certo preciso senso non è più lo stesso di prima. Capi2.pmd 27 11/02/2004, 9.02 28 Verso un modello della comunicazione verbale 2.4 I fattori della comunicazione verbale Vediamo dunque come si possono rappresentare i fattori della comunicazione verbale, in uno schema come quello della figura 2.7. Abbiamo già introdotto alcuni aspetti che fanno capire quanto è importante tenere conto delle soggettività coinvolte nell’evento comunicativo per capire la comunicazione stessa; ci torneremo tuttavia nel corso di questo capitolo, nel capitolo 4, e in vari altri momenti di questo volume perché si tratta di una dimensione essenziale. Prendiamo in esame ora gli altri fattori, cominciando dalla semiosi – categoriale e deittica – che è il fattore più tipico della verbalità della comunicazione umana. 2.5 Semiosi Per accostarsi al mondo della semiosi, è utile pensare ad alcune situazioni molto comuni: Sabrina e Daniele salgono su un autobus affollato e parlano, cercando di distinguere quel che si dicono dal sottofondo di rumori e da quello che dicono le altre persone. A lezione il professore spiega e, nelle ultime file, qualcuno si lamenta del brusio dicendo: “Non sento!”. Un altro esempio: sulle pareti bianche di un ufficio è appesa la locandina de Il padrino e, accanto a questa, c’è il programma di un convegno di linguistica. In effetti siamo abituati a distinguere gli eventi semiotici dagli altri eventi, pur senza renderci conto di regola del diverso trattamento che riserviamo a questi due tipi di realtà, che si presentano alla percezione sensibile in modo analogo. I discorsi delle altre persone e il rumore del motore hanno la medesima natura fisica delle parole che si scambiano Sabrina e Daniele: la differenza sta nel fatto che Sabrina ascolta le parole di Daniele non come un evento fisico qualunque, ma come un evento fisico che Daniele produce espressamente per comunicare con lei un significato. Il rumore dell’autobus, invece, è una conseguenza (fisica) delle esplosioni e degli attriti nel motore, e, se uno è esperto, può Figura 2.7 Capi2.pmd I fattori della comunicazione verbale. 28 11/02/2004, 9.02 2.5 Semiosi 29 addirittura capire – ascoltando quel rumore – di che macchina si tratta e se il motore è in buone condizioni o meno... Tuttavia questo rumore non viene realizzato apposta per significare qualcosa e nemmeno per farci capire le condizioni del motore22. Anche i discorsi delle altre persone sono solo un “rumore di sottofondo” per chi non prende parte alla conversazione, mentre per gli interlocutori sono eventi semiotici. E quando il nostro sguardo si rivolge a una parete su cui è appesa la locandina de Il padrino, possiamo facilmente renderci conto del fatto che lo “sguardo” che rivolgiamo alla locandina è diverso rispetto allo sguardo che rivolgiamo al muro: il muro è lì con una precisa funzione (riparare dal freddo, sostenere il soffitto...), ma non ci “dice” nulla (in effetti, per essere più precisi, non lo guardiamo per niente), mentre il poster non serve a tenere su il soffitto: il suo compito è tutt’altro, rimanda a un messaggio, ha cioè una funzione semiotica. Anche il foglio con il programma del convegno è un evento semiotico, e tuttavia, in quanto oggetto materiale, è un pezzo di carta, con dei segni tipografici stampati sopra, di cui ci si potrebbe servire per accendere il fuoco nel camino. In questo caso tratteremmo l’evento semiotico soltanto nel suo “lato” fisico, come oggetto che può essere adatto come esca per il fuoco. Gli eventi semiotici dunque sono reali e sono fisici (le parole che diciamo sono costituite materialmente da movimenti dell’apparato fonatorio, onde sonore, vibrazioni dell’aria che stimolano l’udito...; le parole scritte sono fatte di inchiostro o di onde luminose in uno schermo di PC ecc.). Questi eventi fisici non si esauriscono in se stessi: sono stimoli a cui è associato un significato. Per capire la specificità della modalità semiotica e linguistica di produzione del senso, dobbiamo a questo punto stabilire in maniera abbastanza circostanziata che cosa sia un segno. Il segno è una realtà complessa che unisce inscindibilmente due diverse realtà: c’è qualcosa di fisico, o meglio di “percepibile con i sensi”, che rimanda a qualcosa di non-fisico, il valore linguistico. 22 Qui è utile una messa a fuoco. Immaginiamo che un automobilista faccia sentire al meccanico il motore della sua macchina o, ancora, che un centauro faccia il giro della città con la sua moto nuova per far sentire e vedere il proprio gioiello agli attoniti concittadini. Si tratta in apparenza di controesempi. Ma notiamo, anzitutto, che il secondo non rappresenta un evento genuinamente comunicativo: anche se il giro della città è fatto per far vedere e sentire e quindi far sapere che lui possiede una moto prestigiosa, non c’è fra il centauro e i suoi occasionali spettatori alcuna interazione comunicativa. Per parlare di comunicazione in senso proprio non basta che il mittente intenda far sapere qualcosa al destinatario, bisogna che intenda anche far sapere la sua intenzione. Capi2.pmd 29 11/02/2004, 9.02 30 Verso un modello della comunicazione verbale 2.5.1 Significante e significato Abbiamo cominciato ad accostarci alla nozione di “segno” mettendo a fuoco la specificità di questo evento complesso, in cui un fatto fisico rimanda a un fatto non fisico. Per quanto riguarda il “lato” fisico, i segni possono essere grafici, linguistici, gestuali... ci sono tanti tipi di segni quanti sono i sensi (i percettori) dell’uomo e le loro combinazioni possibili. Dobbiamo ora introdurre una serie di precisazioni. Anzitutto, se si torna sugli esempi portati sopra, si può osservare che Sabrina e Daniele si possono servire più di una volta del medesimo “segno”: Sabrina: “Ieri sono uscita tardi e ho fatto una corsa pazzesca per prendere l’autobus!” Daniele: “Ma lo sai che anch’io ieri ho fatto una corsa pazzesca per prendere il treno… ma poi ho fatto in tempo! comunque l’autobus spesso è in ritardo.” Sabrina: “Come?!” Daniele: “L’autobus spesso è in ritardo!” Sabrina e Daniele hanno voci di altezza molto diversa; quando Daniele ripete la frase che Sabrina non ha sentito, parla a volume più alto; Daniele parla più rapidamente, Sabrina più lentamente. Inoltre consideriamo che, per realizzare un atto comunicativo verbale, occorre produrre dei suoni concreti attraverso le corde vocali; ebbene: i suoni concreti realizzati la prima, la seconda e la terza volta che viene usato il segno ho fatto sono tre suoni concreti materialmente diversi, così come è diverso il tratto di inchiostro con cui sono rappresentati su questa pagina. Questo fa capire che la “faccia” fonetica del segno – strumento espressivo di cui possiamo servirci perché conosciamo una certa lingua – non consiste tanto nella sua realizzazione materiale, quanto in un modello (pattern) di realizzazione, che consente di riconoscere il segno, nonché di riprodurlo. Questo modello di realizzazione è detto anche strategia di manifestazione. Ma, a ben vedere, anche la “faccia nascosta” del segno non è una realtà semplice: quando si parla del lavoro, per esempio, è facile che ciascuno pensi al proprio, che ha caratteristiche, positive e magari addirittura appassionanti, specifiche. Ognuno ha un suo concetto di che cos’è “lavoro”, ma ciò non toglie che in linea di massima ci si intenda, quando si parla del “lavoro”. Allora va tenuto davanti anche questo fatto: anche l’idea, il valore linguistico che viene associato a ciascuna strategia di manifestazione, costituisce in realtà un’astrazione rispetto a tutte le molteplici e personali esperienze che ciascuno fa. Anche in questo caso occorre dunque distinguere il valore canonico di un segno dai valori concreti che esso assume ogni volta che viene usato effettivamente, in un testo reale. È que- Capi2.pmd 30 11/02/2004, 9.02 2.5 Semiosi 31 st’ultima dimensione che risulta pertinente per accostarsi allo studio della linguistica, come vedremo più avanti nel capitolo dedicato al metodo di questa disciplina. Con una prima approssimazione, diciamo dunque che si intende per semiosi il nesso che unisce intenzioni comunicative, sensi (valori linguistici) a eventi fisici (strategie di manifestazione linguistica), come quelli che abbiamo visto nel dialogo tra Sabrina e Daniele. Chiamiamo l’insieme di questi due elementi “struttura intermedia”23. All’inizio del XX secolo, la strategia di manifestazione dei significati linguistici (soprattutto lessicali) era stata chiamata da Saussure significante, mentre il valore era detto significato: questa terminologia è stata largamente impiegata per quasi tutto il secolo scorso. Ci serviamo qui di denominazioni diverse per tenere conto delle integrazioni sostanziali apportate nel corso di questo secolo alla linguistica saussuriana. Resta, tuttavia, un aspetto rilevante: sia nella terminologia saussuriana sia in quella qui adottata, le coppie di termini indicano una reciprocità irrinunciabile. In effetti la strategia di manifestazione è strategia di cui ci si serve per manifestare un certo valore linguistico, così come il valore è sempre valore di qualcosa, della manifestazione appunto; allo stesso modo per Saussure un significante deve necessariamente essere significante “di qualcosa” (di un significato), e viceversa24. Osservazione Semiosi e implicazione Un evento può avere senso perché può implicare per me qualcosa di particolare. Per esempio l’evento “oggi c’è il sole” implica banalmente per me che non devo prendere l’ombrello per uscire, o che posso soddisfare il desiderio di concedermi nel pomeriggio una passeggiata in centro. Invece l’evento “essere penna” di questo oggetto (una penna) implica che lo possa usare per scrivere: questo è il senso della penna per me. In questa accezione il senso si specifica come “implicazione per me”. Abbiamo distinto da questi gli eventi come i segni, che veicolano un significato in quanto anzitutto sono fatti “apposta per” veicolare un significato. Anche di questi eventi si può dire che hanno senso, però in modo diverso dal precedente in quanto il rapporto tra l’evento e il suo senso è un rapporto semiotico: si tratta di semiosi. 23 Rimandiamo al capitolo 5. Si veda E. Rigotti - A. Rocci, Le signe linguistique comme structure intermédiaire, Actes du colloque Nouveaux regards sur Saussure. Colloque international en hommage à René Amacker, Genève 19-20 settembre 2003. 24 Sulla nozione di segno si veda la bella discussione di G. Gobber in Pragmatica delle frasi interrogative…, cit., pp. 5-16. Capi2.pmd 31 11/02/2004, 9.02 32 Verso un modello della comunicazione verbale Per esempio, in “In tedesco matita si dice Bleistift” gli eventi costituiti dalle due parole matita e Bleistift hanno un rapporto semiotico con il senso che esse veicolano. La semiosi è il fenomeno per cui un evento è portatore di un contenuto/significato/senso perché, grazie a una convenzione, quell’evento fisico è da me e dai miei interlocutori collegato a un contenuto/ significato/senso, e non grazie al fatto che la natura dell’evento in se stesso mi faccia capire (implichi) questo significato. Si vedano i seguenti esempi. Cristina incontra Giovanni che la saluta e le dice “Ciao, come va?”; Cristina può replicare dicendo: “Ma ti è scesa la voce?!,” oppure può rispondere: “Bene, grazie. E tu?” Nella prima risposta Cristina ha preso in considerazione il senso dell’evento “enunciato proferito da Giovanni” inteso come fatto fisico, nel secondo inteso come evento semiotico. Un altro esempio dello stesso tipo. Andrea ascolta una canzone di Céline Dion, My heart will go on, e alla fine osserva: “Gran bella voce! peccato però che il testo non sia niente di eccezionale.” La sua osservazione fa riferimento a due aspetti dell’evento “canzone”, valutato dapprima in quanto evento fisico e in seconda battuta come evento semiotico. Un qualsiasi evento può essere considerato come fatto in sé per le implicazioni che uno ne trae (se per esempio tutti i posti in biblioteca sono occupati, Silvia ne trae l’implicazione che deve andare a cercare un’aula libera per studiare), oppure può essere un evento convenzionale che ha un valore semiotico (per esempio un amico ha messo lo zaino sulla sedia di fianco alla propria: per gli altri significa che quel posto è occupato, e per Silvia vuol dire che l’amico la sta aspettando per studiare insieme). In quest’ultimo caso il significato dell’evento non dipende dalla sua natura (dal tipo di zaino, per esempio: ci potrebbe mettere anche la giacca...). La segnaletica stradale, le frecce delle auto, i semafori, i segnali luminosi e acustici degli utensìli, le stellette militari... tutti questi sono eventi semiotici. Capi2.pmd 32 11/02/2004, 9.02 2.5 Semiosi 33 In realtà la comunicazione è un fenomeno molto complesso, che opera sia con eventi che significano per implicazione sia con eventi che significano per semiosi, ma nella comunicazione verbale la semiosi ha indubbiamente una funzione fondamentale25. Bisogna peraltro precisare che anche gli eventi che non sono semiotici hanno definitivamente senso per noi solo in quanto rientrano, quasi sono catturati, nel nostro universo di discorso: quando in qualche modo li trattiamo semioticamente, ovvero li semioticizziamo26. Come abbiamo detto, la linguistica si colloca entro la comunicazione semiotica, come studio del linguaggio (prevalentemente) verbale. E per distinguere quel fare particolare che è il dire dagli altri tipi di “fare”, bisogna considerare che c’è una funzione primaria concreta di certi atti, che non si riduce al valore semiotico. Per esempio se Luigi ha fame e la mamma gli dà una brioche calda, questo gesto ha una funzione che non è affatto semiotica. È vero che nel momento in cui la mamma dà la brioche dà anche un messaggio (anzi, molti messaggi), ma il gesto non si riduce affatto a questo aspetto. Questo fa capire che bisogna fare attenzione a tenere distinto il semiotico dal reale27. La semiotica considera i segni in generale, in tutte le possibili tipologie, mentre la linguistica si occupa di una classe di segni, quelli verbali. Il segno è delimitato da una cornice, più o meno immaginaria, che sta a indicare il confine tra un oggetto semiotico e un oggetto non-semiotico, segnalando la diversità di sguardo con cui ci rivolgiamo all’uno e all’altro28. La cornice indica un ambito di realtà entro la quale opera la semiosi: l’evento in essa contenuto è 25 Sulla nozione di segno e sulla tipologia dei segni si veda, per esempio, il testo di Patrizia Violi, Significato ed esperienza, Bompiani, Milano 1997. 26 Questo discorso andrebbe approfondito dal punto di vista filosofico, e, in ogni caso, non è possibile esaurirlo in questa sede. Notiamo solo che su questo punto la linguistica confina con la filosofia del linguaggio e la filosofia del linguaggio deve fare i conti con i dati che vengono dalla linguistica. Vygotskij in particolare ha analizzato l’ontogenesi del linguaggio, cioè i processi di formazione della semiosi osservabili nell’apprendimento individuale del linguaggio (si veda L.S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, Laterza, Bari 1992; ed. orig. 1934). 27 La posizione di chi sostiene che “tutto è linguaggio” si chiama pansemioticismo. È una posizione che diventa contraddittoria quando viene spinta fino alle sue ultime conseguenze: in effetti, se tutto è segno, allora non vi è nulla di cui un qualsiasi segno è segno (proprio in rapporto alla natura costitutivamente duplice del segno). Per un significativo ritorno da queste posizioni, si veda U. Eco, Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano 1998. 28 Su questo tema è fondamentale il contributo di Boris A. Uspenskij. Si veda La pala d’altare di Jan van Eyck a Gand: la composizione dell’opera, Lupetti, Milano 2001, e la ricca bibliografia ivi citata. Capi2.pmd 33 11/02/2004, 9.02 34 Verso un modello della comunicazione verbale un evento semiotico che, in quanto tale, va interpretato. Essa pone dunque un confine tra l’evento semiotico e tutti gli altri eventi (quelli fuori dalla cornice) che costituiscono il mondo, che in se stessi non sono semiotici e che possono, al limite, essere interpretati per implicazione. Sono esempi di cornice, oltre alla cornice dei quadri, il palcoscenico del teatro, il piedistallo delle statue, il “C’era una volta...” con cui cominciano le favole, le sigle delle trasmissioni televisive... Molte forme di espressione artistica “giocano” con la cornice fingendo di superarla: pensiamo al teatro di Luigi Pirandello (paradigmatico il dramma Sei personaggi in cerca d’autore), ma l’incapacità di riconoscere la cornice è in definitiva un sintomo di follia, in quanto rappresenta l’incapacità della ragione di cogliere il particolare rapporto che rimanda dall’oggetto semiotico al suo senso29. 2.5.2 Il segno come institutum di una comunità: la convenzionalità Tra le scienze che si riferiscono alla comunicazione, una prima caratterizzazione della linguistica riguarda dunque l’oggetto di cui questa scienza si occupa: i messaggi verbali. L’insieme dei messaggi verbali costituisce il linguaggio verbale. Le lingue storico-naturali sono sistemi che consentono di formulare messaggi verbali, sono cioè sistemi semiotici o segnici. Già Ferdinand de Saussure spiega la correlazione semiotica, facendo ricorso all’esempio di albero. Possiamo dire che in italiano il significato (o senso o contenuto, o valore) del suono [´a l b e r o]30 è quel concetto che abbiamo rappresentato con un disegno nella parte superiore del cerchio nella figura 2.8. Nella figura, la linea rappresenta la barra della semiosi, o barra semiotica. La struttura linguistica “albero”, formata da una correlazione semiotica, ha due facce: una fonica (o fonetico-articolatoria), l’altra concettuale31. Qui naturalmente l’accezione in cui il termine albero viene utilizzato è quella, convenzionale e canonica, stabilita nella lingua italiana. Non vi è nessuna 29 Non poche volte si è verificato che l’attore che impersona Otello fosse ucciso sulla scena da soggetti psicotici, incapaci di distinguere il personaggio interpretato nella tragedia dal suo segno, ossia dall’attore che lo interpreta. 30 Per convenzione API (Alphabète Phonétique International) l’accento di parola si segnala con un accento acuto posto prima della sillaba accentata. Ogni suono ha poi una rappresentazione convenzionale, per esempio [e] rappresenta la e chiusa di albero e [ε] la e aperta di certo. 31 Per una presentazione critica di Saussure si veda l’edizione del Corso di Linguistica generale curata da Tullio De Mauro, Laterza, Bari 1970 ed edizioni successive. Si veda inoltre Eddo Rigotti, Principi di teoria linguistica, La Scuola, Brescia 1979, pp. 28-48. Capi2.pmd 34 11/02/2004, 9.02