“Il mio vicino non è uno straniero” di Francesco Condoluci

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“Il mio vicino non è uno straniero” di Francesco Condoluci
IL MIO VICINO NON
E’ UNO STRANIERO
"Il tuo Cristo è ebreo. La tua macchina è giapponese. La tua pizza è italiana. La tua democrazia greca. Il tuo caffé
brasiliano. La tua vacanza turca. I tuoi numeri arabi. Il tuo alfabeto latino. Solo il tuo vicino è uno straniero".
(da un manifesto apparso sui muri di Berlino nel 1994)
Uno
Rumori. Il motore di una macchina. Il clang di uno sportello. Mohamed spense la sigaretta e rimase
immobile ad ascoltare, acquattato dietro il tavolo dello stanzone. Voci concitate. La sua fronte si
ricoprì di sudore. Gelido. Si sentiva i muscoli atrofizzati mentre i pensieri si accavallavano veloci.
Realizzò subito cosa stava per succedergli. Tra poco sfonderanno la porta e saranno qui. Non ho scampo.
«Nigri i mmerda… aundi siti?»1. Una voce impastata di rabbia gracchiò dietro la porta, Dentro lo
stanzone, Mohamed sentì forte l’odore della sua paura. Sbam! Sbam! Sbam! Colpi sordi tirati a mano
aperta contro la porta si susseguirono rapidi e incalzanti. Non ebbe più il tempo di pensare. Uno
spiraglio di luce illuminò la stanza prima immersa nel buio e nel silenzio, riempiendola di voci e
movimenti. Subito se ne trovò addosso tre. Avevano gli occhi fuori dalle orbite e digrignavano i
denti come animali in assetto da caccia. Parlavano nel dialetto di Rosarno. Mohamed non riuscì, o
forse nemmeno provò, a difendersi.
«Nigru bastardu… ccà si? Mò tu ‘mparamu nui i cu è ‘stu paisi!»2. La voce feroce e rozza gli arrivò
alle orecchie una frazione di secondo prima che un dolore fortissimo gli si conficcasse nelle costole,
come un pugnale.
«Pigghiati chistu, nigru!»3. Il primo calcio lo fece stramazzare a terra. Il terrore e la fitta al fianco gli
fermarono in gola anche l’urlo che stava per cacciare dalla bocca. Subito un’altra scarica di pedate lo
colpì in faccia, allo stomaco, alle gambe. La testa aveva già cominciato ad annebbiarsi e il sangue a
sgorgare quando inaspettatamente i suoi aggressori si fermarono. Lo straniero ormai per il dolore
aveva perso i sensi.
***
Quando si risvegliò su qualcosa di insolitamente morbido, la prima cosa che udì fu una voce di
donna. Parlava italiano.
«Va un po’ meglio?».
Mohamed riuscì ad aprire soltanto un occhio, l’altro era gonfio e tumefatto.
«Mi chiamo Norina, riesci a capirmi?».
Il ragazzo annuì. Davanti a lui, c’era una donna, bianca. Anziana. Capelli grigi, rughe profonde e un
paio di occhi grandi e luminosi dietro occhiali molto spessi.
«Dove è qui…. chi sei tu?» farfugliò Mohamed nell’italiano approssimativo che aveva appreso nei
suoi due anni di permanenza a Rosarno.
«Io sono Norina. Ti ho portato qui per curarti».
1
«Dove siete, negri di merda, dove siete?».
2
«Negro bastardo… qui sei? Ora ti insegniamo noi di chi è questo paese!».
«Prenditi questo, negro!».
3
Lentamente Mohamed ricordò, sentiva dolori in tutto il corpo ma la sua mente ora era lucida.
Ripercorse mentalmente i fotogrammi delle ultime ore: la casupola in campagna dove si era
nascosto per paura, l’arrivo dei tre ragazzi, i calci, gli insulti, il dolore, la paura di morire. E il
momento in cui l’aggressione si era inaspettatamente interrotta. Ora si trovava su un letto vero, in
una casa italiana, pulita e accogliente.
«Sei stata tu…? Tu fermato uomini cattivi?».
«Sì. Li ho fatti scappare io, dicendogli che avevo chiamato la Polizia. Tu eri svenuto, ti ho caricato in
macchina con l’aiuto di mio nipote e ti ho portato qui. Ho chiamato anche un dottore per
medicarti».
«Perché fatto questo per me? Tu non vuoi che neri vanno via da qua?».
Norina sorrise. La sua mano bianca e rugosa si posò sulla pelle liscia e scura del giovane viso di
Mohamed. «Non voglio che i neri vadano via. Anche se si sono rivoltati e hanno sbagliato ad usare la
violenza, io vi voglio bene. Siete gli ultimi del mondo. Ma per me siete come figli. Molti dei tuoi
fratelli che vengono a mangiare qui, a casa mia, mi chiamano Mamma Africa».
«Ma-ma… Africa?» ripeté Mohamed incredulo.
«Sì, Mamma Africa. Puoi chiamarmi così anche tu. Io non ho avuto figli, ma sono sicura che se ne
avessi avuto, non li avrei amati più di quanto amo voi. Qual è il tuo nome?».
«Io Mohamed… ma tu… no paura di uomini cattivi?».
«No, io non ho paura. Loro sono arrabbiati per quello che è successo. Vorrebbero farvi andare via da
Rosarno. Ma io, finché Dio mi darà la forza, mi opporrò a questo. Sono 15 anni che aiuto i ragazzi
africani che vengono a Rosarno a lavorare nei campi. Mio marito è morto tanti anni fa e voi siete la
mia unica compagnia, la mia speranza, la mia missione. Quando ero giovane sono andata anch’io a
lavorare lontano dall’Italia. Ero senza soldi e non è stato facile. Ma le persone che ho conosciuto, mi
hanno aiutata, sostenuta e insegnato tante cose. Soprattutto mi hanno educato a non usare mai la
parola “straniero”. Chi divide con noi la terra, non è più uno straniero, anche se ha la pelle di un
altro colore, parla un’altra lingua o crede in un altro Dio. E quando sono tornata in Italia, dopo
essere rimasta vedova, ho deciso di dedicare la mia vita a quelli che non hanno avuto la mia stessa
fortuna. Anche se ho quasi 80 anni, continuo a cucinare ogni giorno per i miei ragazzi. La mia casa è
aperta a tutti coloro che hanno bisogno di cure, coperte, vestiti o anche solo di una parola di
conforto. Vuoi essere anche tu un figlio mio, Mohamed?».
Il dolore e lo shock quasi non li avvertiva più, Mohamed. Aveva finito di mangiare, ascoltando
Norina con attenzione. E adesso le labbra gli disegnavano un mezzo sorriso sulla faccia. Guardò
negli occhi l’anziana donna che lo aveva salvato e, per un attimo, gli sembrò di vedere il volto di sua
madre, lontana migliaia di chilometri. Gli occhi gli si riempirono di lacrime. Ma il suo cuore ora non
aveva più paura. Adesso sapeva di avere anche a Rosarno, una mamma.
«Sì… Ma-ma Africa….», rispose,«Mohamed…figlio tuo».
Fine