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La Distruzione della Città di Lipari ad opera di
Ariadeno Barbarossa
Nel 1519 Carlo V ingrandiva il suo dominio ottenendo la corona
imperiale di Germania contesagli da Francesco I, re di Francia.
Fra questi due regnanti a più riprese furono combattute aspre
battaglie che trasformarono l'Europa intera in un teatro di lotte.
Dopo più di venti anni di lotte, Francesco I, per disfarsi
dell'avversario e soddisfare la sua feroce passione di vendetta e
di ambizione, stimandosi inferiore di forza, dimentico di essere
cristiano, strinse alleanza con Solimano il Grande, re dei Turchi,
il quale ben comprese che era il momento propizio di
approfittare della discordia dei due re cristiani per espandere,
mercé l'opera dei pirati che avevano le loro sedi lungo le coste
dell'Africa, la sua potenza e trarre dall'azione di essi lauto
bottino.
Una flotta di 150 triremi, alla quale fu posto a capo Ariadeno (Khair ad-dín),
re dei pirati, conosciuto volgarmente sotto il nome di Barbarossa per la sua
barba folta e rossiccia, e che già aveva a Tunisi lasciato triste ricordo della sua
persona durante il tempo che ne era stato il dominatore, fu pertanto spedita
nel 1543 da Solimano in aiuto del re dei Francesi. Dopo avere costeggiato
l'Italia, arrecando considerevoli danni in alcune località marittime giunse in
Francia, dove per circa un anno si trattenne nei pressi di Marsiglia; dopo di che
il re Francesco I, ravvedutosi della scandalosa lega con quegli infedeli, che gli
aveva fruttato soltanto immense spese e l'odio dei popoli cristiani, rimandò
Barbarossa in Oriente, consegnandogli molti doni. Spinto dalla sua indole, il re
dei pirati pensò di compiere, anche durante il viaggio di ritorno, azioni di forza
onde trarre da esse il maggiore bottino possibile. Le intenzioni del corsaro furono note prima ancora
che egli intraprendesse il ritorno e molto si temette per la città di Lipari, sita sul percorso che
l'armata navale turca doveva fare per tornarsene in patria. Il viceré di Napoli, don Pietro di Toledo,
alla fine del mese di maggio 1544, inviò a tal proposito ai Liparesi un naviglio per avvertirli della
minaccia che gravava sulla loro città. Posti sull'avviso, i Liparesi, per nulla sbigottiti dalla forza del
nemico, si diedero con animo e fervore a preparare la difesa della loro città. Da Messina provvidero
a ritirare, con denaro raccolto fra loro stessi, copiose armi e munizioni. Era antica consuetudine che
in caso di pericolo le città vicine si aiutassero fra loro con l'inviare soccorsi di uomini ben armati,
provvedendoli di viveri di tre giorni in tre giorni, e col dare inoltre temporaneamente qualche pezzo
di artiglieria, per cui anche la città di Patti, come si rileva da un documento del secolo XVI che si
conserva nell'Archivio Municipale di quella città, prestò in quell'occasione artiglieria a Lipari. Fu
vagliata dai Liparesi la opportunità di inviare in Sicilia tutte le donne, i bimbi e gli inadatti alle armi
per toglierli dal pericolo e nel contempo alleggerire il peso del vettovagliamento necessario per
affrontare un lungo assedio; prevalse però l'opinione di coloro che stimavano che nessuno dovesse
allontanarsi dall'isola in modo che gli uomini di Lipari, avendo l’impegno di difendere con il suolo
della patria, anche la propria famiglia, avrebbero così combattuto con maggiore accanimento e con
maggior fede. Anche la tesi avanzata da alcuni di fare venire da Messina una forte guarnigione di
soldati spagnoli per accrescere il numero dei difensori, non ebbe felice esito, fidando che le sole
forze dell'isola sarebbero state sufficienti alla difesa della città. Né migliore fortuna ebbe la richiesta
fatta al Viceré di Napoli di avere una guarnigione in aiuto; Pietro di Toledo infatti richiese agli
abitanti di Lipari di sopportare le spese dell'invio della guarnigione; condizione che non fu dai
Liparesi accettata, importando essa un'ingente spesa e non essendo quei cittadini in grado di
sostenerla.
Lipari si apprestò cosi a subire l'assalto dell'imponente forza di Ariadeno Barbarossa. Giunse nel
frattempo da Napoli una fregata inviata ai Liparesi dal viceré Pietro Toledo, carica di munizioni da
guerra, la quale recò pure l'avviso che non sarebbe passato molto tempo dal sopraggiungere di
Barbarossa. Costui infatti, partito da Tolone per Costantinopoli, si diede prima a saccheggiare la
riviera di Napoli ed indi espugnò l'isola di Ischia. Non contento di queste devastazioni, egli mosse
quindi contro Lipari per espugnarla; ciò alla fine del giugno 1544. Il Maurolico, storico di quel tempo,
scrive che la flotta turca al 30 giugno
era arrivata fino a Policastro e che
l'indomani, dalle più alte cime del
Peloro, fu vista avvicinarsi alle isole
Eolie e che il numero delle navi
ascendeva a 144. I Liparesi, che
conoscevano per fama la crudeltà del
Barbarossa,
appena
seppero
dell'avvicinarsi del terribile pirata,
confidando nel sito della città, forte
per natura, si ritirarono tutti, per
come era stato prestabilito, entro il
Castéllo, fiduciosi di potere sostenere
un lungo assedio. Questo Castello,
entro il quale era costruita la città
propriamente detta, sorge sopra una
rupe scoscesa bagnata da più parti dal mare, il che rendeva difficile espugnarlo, ed esso era inoltre
fornito di un'ottima fortezza. Su questa rupe era possibile accedere semplicemente da una strada,
che poteva essere guardata da poche persone ed il cui ingresso era recinto da muraglie e da
bastioni. Ai piedi di questa rupe si trovava un borgo abitato che, al primo sentore dell'avvicinarsi del
famoso corsaro, fu abbandonato dagli abitanti i quali corsero a rinchiudersi entro il Castello.
Barbarossa, giunto a Lipari, entrato risolutamente nel porto e posto l'assedio
al Castello, senza porre tempo in mezzo, inviò una ambasceria per chiedere la
resa della città. Essendosi però gli abitanti mostrati risoluti a combattere
anziché ad arrendersi, Barbarossa provvide a fare sbarcare i suoi uomini sulla
spiaggia dell'insenatura detta Portinenti. Gia un forte nucleo aveva posto
piede a terra e vari cannoni erano stati sbarcati, quando l'artiglieria liparese
cominciò il suo fuoco, arrecando ai nemici gravi danni, per cui le navi degli
assalitori furono costrette ad allontanarsi dalla detta spiaggia ed a porsi al
riparo dietro la punta denominata Capistello. Con bene aggiustati colpi, i
Liparesi riuscirono, prima ancora che le navi di Barbarossa potessero mettersi
al sicuro, ad affondare due galee nemiche. L'audacia dei Liparesi non disarmò
gli assalitori, i quali attesero il favore della notte per potere ritentare
l'impresa ed indisturbati procedere allo sbarco di altre truppe e di altri
cannoni, che furono collocati presso la vecchia chiesa di S. Bartolomeo, alla
quale era congiunto il convento dei francescani. In questa località, che
restava alquanto rialzata nei confronti del vicino terreno, fu, oltre l'artiglieria,
sistemato pure l'accampamento per le truppe sbarcate. Solo le luci del giorno
resero edotti i Liparesi di quanto nella notte era stato operato dai nemici. Un duello feroce,
incessante, ebbe cosi inizio fra le artiglierie dei due contendenti. Giorno e notte, senza tregua
alcuna, la città di Lipari venne battuta dai cannoni di Barbarossa che, con colpi bene aggiustati,
mandavano in rovina le muraglie del Castello, arrecando fra le file dei difensori gravi perdite. Solo
per poco gli assediati poterono controbattere i nemici con efficaci colpi, perché al terzo giorno la loro
artiglieria fu resa inservibile, ma non per questo l'animo dei Liparesi venne meno. Mentre essi si
difendevano coraggiosamente, il corsaro spedì trenta galee a Patti per provvedersi di acqua;
impediti nel potersela procacciare, per i continui assalti dati dalla cavalleria siciliana, i Turchi
saccheggiarono per vendetta la città di Patti, asportando un ricco bottino e bruciando circa
centocinquanta
case.
I Liparesi, considerato che ogni resistenza sarebbe stata vana, inviarono al Barbarossa quattro
ambasciatori per chiedere le condizioni di resa e supplicarlo di risparmiare la loro città da una sicura
distruzione. Ingente fu la taglia richiesta dal Barbarossa, domandando egli ben centomila scudi per
allontanarsi. Tornati gli ambasciatori entro le mura della loro città, e riferita ai concittadini la risposta
data dal Barbarossa, furono ampiamente discusse le condizioni di resa; ma non essendo i Liparesi
nella possibilità di far fronte ad un pagamento così ingente, fu sollecitato l'assalitore di volere
ricevere piú mite somma. La proposta esacerbò il re dei pirati che, senza indugio, diede ordine che
fosse ripreso il bombardamento della città. Le macchine furono accostate alle mura del Castello e
nessun mezzo fu tralasciato per arrecare fra i difensori danni e vittime, reputando Barbarossa cosa
disonorevole
partire
senza
avere
espugnato
la
città
di
Lipari.
II 4 luglio, mentre a Lipari fortemente si combatteva, avvenne un'eclisse totale di luna, che diede
luogo alle più strane fantasticherie. I Turchi intanto, resi ancor più feroci dall'eroica resistenza dei
Liparesi, provvidero a raddoppiare gli sforzi e gli assalti; resistevano gli assediati, convinti che se i
nemici fossero penetrati entro il Castello, tutti sarebbero stati massacrati senza differenza di
persona, di età e di sesso. Percosso dai colpi nemici, cadde nel frattempo parte di un muro principale
del Castello, ferendo nella sua rovina molti difensori. Superbi nella difesa, sprezzanti della vita, per
nulla scoraggiati, resistevano gli assediati, avendo cura di riparare alla meglio, con pietre, terra e
legname, ogni falla prodotta dai proiettili nemici. Per più intimorire gli assediati, Barbarossa, sicuro
di non potere ricevere alcuna molestia da parte dell'artiglieria liparese, fece allora avanzare le galee
che erano rimaste al sicuro dietro la punta del Capistello, e fattele entrare nell'insenatura di
Portinenti, fece sbarcare da esse altre truppe ed altri pezzi di artiglieria. I nuovi preparativi
spinsero i Liparesi ad inviare l'8 luglio, nel campo di
Barbarossa, una nuova ambasceria, composta di tre fra i
più eminenti cittadini del luogo, onde scongiurare il nemico
di sospendere l'assalto ed avanzare richieste adeguate alle
condizioni economiche degli assediati. L'ambasceria ebbe
esito negativo ed il bombardamento della città di Lipari
continuò con più violenza e più accanimento, per cui il
Comandante la fortezza di Lipari ed i giurati della stessa
città pensarono di rivolgersi a certo lacopo Camagna, uomo
stimato da tutti, di molta autorità e pratica negli affari, per
chiedere il suo intervento presso Barbarossa. Il Camagna,
vedendo che la patria era ridotta a mal partito e che non vi
era alcuna speranza di soccorso, circondata per come era
dal nemico per terra e per mare, osservando che i suoi
concittadini erano profondamente abbattuti d'animo,
mentre i nemici erano diventati più arditi, pur trovandosi in precarie condizioni, data la gravezza
degli anni e la sua malferma salute, accettò l'incarico di trattare con il nemico. Giunto al cospetto di
Barbarossa, il Camagna, con parola facile e piena di blandizie, si sforzò di ottenere clemenza per i
suoi concittadini, dichiarando che essi erano pronti ad aprire le porte del loro Castello purché fosse
assicurata l'immunità a quanti dentro vi si trovavano. La proposta non fu accettata dal nemico, il
quale promise invece di lasciare libere da ogni tributo soltanto ventisei famiglie. Tale notizia fu dal
Camagna recata ai suoi concittadini, i quali furono dallo stesso con una forte orazione esortati ad
arrendersi.
Gli assediati decisero di inviare un nuovo ambasciatore da Barbarossa nella persona di Bartolo
Comito, con l'incarico di offrire, come condizione di resa, che ogni uomo potesse essere libero
mediante il pagamento di venti scudi. Sembra che la proposta sia stata accettata dal Barbarossa,
per cui i Liparesi, convinti dalle promesse fatte al Camagna ed al Comito, stanchi del lungo assedio e
mancando
loro
le
vettovaglie
e
le
munizioni,
decisero
di
arrendersi.
La mattina del venerdì 11 luglio, dopo ben dieci giorni di aspra lotta, tutto il popolo liparese, con in
testa il Capitano d'armi ed i giurati della città, si recò al campo di Barbarossa per fare atto di
omaggio e consegnare le chiavi della città. I re dei pirati, accettando la sottomissione, rimandò tutti
entro il Castello, dando ordine ad uno dei suoi ufficiali di compilare l'elenco delle ventisei famiglie più
cospicue che, giusto i patti, dovevano essere lasciate libere da qualunque molestia e dal pagamento
di qualunque tributo. Nel pomeriggio dello stesso giorno Barbarossa, seguito dai suoi ufficiali e da un
trionfante stuolo di giannizzeri, si recò dentro le mura della città di Lipari e diede ordine che fosse
trasportata nella casa del Camagna tutta la mobilia delle ventisei famiglie libere, onde cosi
preservarla dal saccheggio che i suoi soldati avrebbero compiuto nella città occupata. Provveduto a
ciò, egli concesse ai Turchi il saccheggio della città. Turbe feroci si precipitarono dovunque,
commettendo ogni sorta di nefandezze, di ruberie e di atti inumani. Tutte le case furono spogliate, e
molte di esse furono dalla ferocia dei devastatori ridotte a mucchi di pietre. Per accelerare l'opera
vandalica di distruzione, fu in molte parti della città dato il fuoco. Nulla riuscì a frenare la furia
devastatrice degli assalitori, non le chiese, non le immagini sacre, che furono calpestate, imbrattate
di fango e trascinate per terra. La chiesa di S. Bartolomeo, vicino al porto, ed il nobile monastero dei
religiosi di San Francesco dell'Osservanza ad essa attaccato, furono devastati e dati alle fiamme.
Anche alla Cattedrale, eretta dalla munificenza del normanno conte Ruggiero, fu appiccato il fuoco,
dopo di essere stata saccheggiata dagli infedeli. Il grande soffitto e gli splendidi lavori in pittura ed
in legname che rendevano quel tempio pregevole anche dal lato artistico, rimasero cosi inceneriti. Fu
in quell'occasione distrutto pure l'Archivio Municipale in cui erano conservate tante pubbliche
scritture sia della Chiesa che della città di Lipari. Compiuta l'opera di devastazione della città,
contrariamente ai patti stabiliti, la mattina del sabato 12 luglio, il Barbarossa fece trasportare sulle
navi tutta quanta la mobilia che era stata raccolta nella casa del Camagna e di proprietà delle
ventisei famiglie che dovevano essere lasciate libere, e quindi fece dare fuoco alla stessa casa del
Camagna. Ma non solo per questo atto il Barbarossa si rese spergiuro; contrariamente alle
condizioni di resa, dopo avere fatto caricare sulle navi il bottino, fece prendere e condurre sulle
stesse galee gli abitanti di Lipari senza esentarne neppure uno dalla schiavitù.
Dopo avere cosi saccheggiata ed incendiata quasi tutta la città ed avere ridotto nella più squallida
desolazione l'isola, il corsaro si parti da Lipari portando seco un ingente bottino, iniquo trofeo di
guerra, e più di ottomila prigionieri di ogni sesso ed età, lasciando la città completamente spopolata.
Il 14 luglio i corsari saccheggiarono Milazzo e si avvicinarono a Reggio, e precisamente a Catona,
ove molti dei Cristiani che erano stati fatti prigionieri nelle varie incursioni di Barbarossa furono,
specie ad opera dei Messinesi, riscattati, e fra questi molti Liparesi. Grave era la condizione dei
prigionieri, i quali, non convenientemente nutriti, venivano lasciati morire di fame, di stenti e poscia
gettati come inutile e funesto ingombro nel mare. Dopo essersi fermato alcuni giorni lungo la costa
calabra, Barbarossa riprese il suo viaggio, portando in Oriente migliaia di schiavi cristiani ed un ricco
bottino. Tra coloro che furono riscattati fu anche il Camagna, contro il quale molte furono le voci che
si levarono, accusandolo di essere stato traditore della patria, per cui, subito dopo liberato, venne
dal Governatore di Messina trattenuto sotto si grave imputazione. Il Camagna riuscì però ben presto
a giustificare la sua condotta e provare la sua innocenza per cui, dopo alcuni mesi, poté fare ritorno
nella sua città di Lipari. I Liparesi che ottennero il riscatto, tornarono in patria e con quelli che si
erano salvati con la fuga nelle vicine campagne, presero a ripopolare la città duramente provata.