Guatemala Invincibili Maya
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Guatemala Invincibili Maya
Guatemala Invincibili Maya di Bruno Arpaia, da La Repubblica In Guatemala, a due anni dall’accordo tra governo e guerriglia, l’assassinio del vescovo Gerardi rimette in forse precari equilibri. E il popolo indio, minacciato dai generali e dai turisti, deve ancora difendersi: per sopravvivere. Centomila morti, quarantamila desaparecidos: dopo trentasei anni di guerra civile, di violazioni continue dei diritti umani, di assassinii di leader sindacali, uomini politici, intellettuali, contadini, studenti, il Guatemala stava appena tirando il fiato. Nel 1996, infatti, era stato firmato, con grande fatica, un accordo di pace tra governo e guerriglia. Poi, lo scorso 26 aprile, l’omicidio del vescovo Juan Gerardi, instancabile difensore dei diritti umani, ha rimesso in discussione il precario equilibrio. Due giorni prima di morire, Gerardi aveva reso pubblico un rapporto in cui si attribuiva all’esercito la responsabilità della maggior parte delle stragi di questi anni. Ma chi è il vero colpevole dell’assassinio? La Chiesa e Rigoberta Menchú, premio Nobel per la pace, puntano il dito verso l’alto, verso i vertici guatemaltechi. Il tempo del dolore e del lutto non è finito. Forse bisognerà ancora aspettare per dedicarsi alla ricerca affannosa dei corpi dei propri cari nelle fosse comuni in cui svaniscono migliaia di persone. Come nell’Argentina di Videla e Galtieri, come nel Cile di Pinochet. Ma l’assurda guerra guatemalteca è stata più terribile che negli altri paesi latinoamericani: qui era in gioco anche un elemento razziale. Non fosse stato per le coraggiose denunce di Rigoberta, sarebbe infatti passato sotto silenzio il tentativo di genocidio del popolo Maya (due terzi della popolazione) al quale, nei primi anni ‘80, si dedicò con tenacia il governo del generale Efrain Ríos Montt. In nome della superiorità degli europei e della lotta alla guerriglia contadina, centinaia di villaggi indigeni furono distrutti, sterminati gli abitanti, costretti all’esilio in Messico decine di migliaia di scampati al massacro. Ma i Maya, per fortuna, hanno sette vite. Sopravvissuti per undici secoli al misterioso crollo della loro civiltà nel 900 d.C., hanno resistito anche al generale Ríos Montt e continuano a colorare coi loro sgargianti costumi gli altipiani del Quiché e della Verapaz, la selva del Petén, le tranquille stradine di Antigua, i villaggi sparsi lungo la Carretera Atlantica e ai piedi dei vulcani che circondano il lago Atitlán. E ognuno di loro è abitato, come la Menchú descritta da Eduardo Galeano nell’introduzione al libro Rigoberta, i Maya e il mondo (Giunti editore), “da una moltitudine che cammina e parla. Nel suo tempo respirano altri tempi, tempi più antichi, sulle sue orme si posano molti passi”. Altri tempi, altri passi, spesso ancora avvolti dal mistero. Le rovine di Tikal, Copán, El Ceibal, Uaxactún, Altar de Sacrificios, sono là a testimoniarlo. Dopo aver raggiunto il proprio apogeo tra il 700 e il 900 d.C., la civiltà Maya si sgretolò all’improvviso. Più o meno inspiegabilmente, le arti sfiorirono, la popolazione diminuì, le città furono abbandonate, la vegetazione tropicale ricoprì i templi, i palazzi, le piramidi. Quando i conquistadores spagnoli, appesantiti dalle corazze, tormentati dagli insetti e dagli animali, si inoltrarono tra queste foreste in cerca di oro, incontrarono solo i resti di una civiltà che non conosceva nessun metallo: una beffa crudele, dal loro punto di vista. Eppure, quella civiltà, con semplici attrezzi di ossidiana e di giada, aveva innalzato edifici alti anche ottanta metri, aveva lavorato le pietre più dure in uno sfolgorìo di forme contorte, incidendovi i segni della propria scrittura, le figure degli dèi e dei re, aveva calcolato la durata dell’anno con una precisione che il calendario gregoriano è ben lontano dal raggiungere. Oggi restano le rovine, ma il fascino di quelle pietre non è diminuito. In tutta l’America latina, solo Machu Picchu, città perduta degli Inca, regge il confronto con Tikal, il più grande centro cerimoniale e amministrativo del periodo classico dei Maya, nel bel mezzo della foresta del Petén. Per arrivarci, meglio evitare l’aereo e affrontare la giornata di viaggio in jeep, lungo una pista che per 165 km si apre il cammino nella giungla. Tra scossoni, sobbalzi e forature, si potranno vedere armadilli, tucani bianchi e neri, falconi dal petto arancione, farfalle grandi come una mano aperta, alberi dal nome intraducibile, aspri ruscelli dai riflessi melmosi, lagunas in cui si riflettono i toni grigio-azzurri del cielo e gli infiniti verdi delle piante. Se poi si è segnati dal destino, ci potrà apparire davanti agli occhi uno degli ultimi esemplari del quetzal, l’uccello sacro dei Maya, dalla lunghissima coda variopinta. Se no, pazienza. Le rovine di Tikal compenseranno ogni disagio. È lì, a Tikal, che si elaborarono tutti gli elementi architettonici e artistici delle città Maya: la “falsa volta”, le creste dei templi che ne prolungavano l’altezza, gli elaborati glifi delle steli. Tutto per dare una sensazione di verticalità e di elevazione. Anche gli stucchi, gli intarsi e le decorazioni cospirarono con gli altri elementi architettonici per creare slancio e tensione negli edifici che puntano dritti verso il cielo: lassù, sulle cime dei templi, lontani dalla massa dei fedeli, seminascosti dai fumi dell’incenso, gli antichi sacerdoti officiavano i loro riti o scrutavano le stelle. Per questo, come dice Vladimiro, una guida locale, “chi non sale sul Tempio IV non conosce Tikal”. Meglio andarci un po’ prima del tramonto, dopo aver chiesto il permesso di restare nel recinto archeologico oltre l’orario di chiusura. Il Tempio IV è stato solo parzialmente liberato dalla vegetazione e dalla terra che lo ricoprono, e la scalata non è delle più agevoli. Però, una volta in alto, ci si siede rivolti a Est, in silenzio, col sole che ti muore alle spalle, e si contempla la foresta che pulsa a perdita d’occhio. Le creste degli altri templi di Tikal affiorano dal mare verde, come relitti di navi del tempo. Verso nord, si scorge qualche edificio di Uaxactún, un altro centro, forse consacrato agli studi astronomici, a 25 km di distanza. E poi Yaxché, El Mirador, El Ceibal, centinaia di città morte disseminate in una foresta oggi quasi disabitata... Nomi che leggi sulla mappa e che tenti di collocare nella compattezza verde della selva, chiedendoti dove andarono, cosa fecero i milioni di Maya che li abitavano e che lasciarono alla voracità della giungla le loro case e i loro palazzi. Oggi i loro discendenti, divisi in decine di etnie, sono sparpagliati dal Chiapas all’Honduras, ma è negli altipiani del Guatemala che in gran parte si concentrano. Hanno convissuto a fatica con gli spagnoli e i creoli, hanno resistito al progresso e alla globalizzazione, difendendo a denti stretti la loro cultura, assorbendo, per vocazione e necessità, gli apporti esterni. Ma sono lì, nel loro verde, verdissimo paese, tra foreste di conifere e piantagioni di banane e caffè, in villaggi dalle case dai tetti di paglia e dalle strade di fango, che all’inizio sembrano ospitare soltanto cani smilzi e smunti come Ronzinante, che si stiracchiano nella polvere. Sono lì con la loro dignità inscalfibile e i loro riti, mescolati agli aspetti più abbaglianti della modernità. Per rendersene conto, basta andare nei giorni di mercato a Chichicastenango, nell’altipiano, e scansare l’orda di turisti e di macchine fotografiche. Gli eredi dei Maya sono lì, sulla piazza del villaggio, dalla sera prima. Passano la notte al freddo, a 2000 metri, per non perdere il posto. Al crepuscolo, breve e brutale come sempre ai Tropici, cominciano a risuonare grida gutturali in quiché, e sulle scale delle chiese di Santo Tomás e del Calvario, pavesate di fiori, sale il fumo del coppale e dell’incenso. Uomini e donne pregano un dio e dei santi che in apparenza somigliano ai nostri, ma ne sono lontanissimi senza darlo troppo a vedere. Divinità meticce, sincretiche, nate dallo scontro e dalla fusione di culture distanti. Una, dal nome straordinariamente casereccio, si chiama Pascual Abaj, e sovrintende al raccolto del mais. Rivolti a lui, gli indios biascicano preghiere imparate da una storia antica, offrono cibo e lattine di Coca Cola, raccontano i propri guai, chiedono assistenza per sé, per i figli, per il proprio lavoro. Solo quando il buio si fa fitto, il brusìo delle preghiere si spegne, e sulla piazza cala il silenzio. Gli uomini bevono per sopportare il gelo e aspettare le 4 del mattino, quando il rumore dei camion che portano le ultime mercanzie dà la sveglia a chi è riuscito a dormire. È l’alba quando nelle chiese, su un tappeto di petali di fiori, si accendono le candele e si ravvivano le fiammelle votive, quando uomini con lo sguardo annebbiato dall’alcool agitano i turiboli dell’incenso per propiziare le vendite. Alle nove, il grande rito di colori, contrattazioni, preghiere, sguardi curiosi e turisti voraci è già in pieno svolgimento. Andrà avanti fino al pomeriggio. Allora i turisti saliranno sui loro autobus con l’aria condizionata e torneranno ai loro alberghi. Gli indios mangeranno una pannocchia di mais con dei fagioli, raccoglieranno le loro mercanzie e caricheranno i muli per riprendere la strada verso i villaggi dei dintorni. Forse, quello che non è riuscito agli spagnoli e al generale Ríos Montt, riuscirà ai turisti, i moderni conquistadores dei Maya. E non basta nemmeno cercare di “salvarli”. Il perché lo ha spiegato lapidariamente Rigoberta Menchú, intervenendo qualche anno fa a un summit dell’Onu sui diritti umani. “Gli indigeni”, disse, “non sono ascoltati con attenzione. Ascoltateli. È quello che desiderano, perché hanno conservato tanti valori controcorrente. Eppure nei vostri paesi nascono ancora istituti universitari per studiare gli indigeni. Noi non siamo e non vogliamo essere una “specie protetta”, come ha affermato il delegato brasiliano, certo di fare un’affermazione umanitaria. Non siamo farfalle, siamo esseri umani pensanti. Perché non si accetta l’idea che i popoli indigeni potrebbero, a loro volta, insegnare qualcosa al mondo di oggi?”.