riassunto cap. XXIV

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riassunto cap. XXIV
I promessi sposi – Cap. XXIV
La liberazione di Lucia
Lucia è appena uscita dalle «torbide visioni del sonno», quando la vecchia le si rivolge premurosa,
invitandola a mangiare; la fanciulla rifiuta. In quel momento si sente bussare: è l’innominato, che,
allontanata la vecchia, fa entrare subito don Abbondio con la buona donna. Lucia all’apparire di
persone nuove si agita, vede un prete, una donna, e li fissa attonita, «come incantata». Riconosce
don Abbondio, sembra riprendere a un tratto le forze: «è dunque la Madonna che vi ha mandati».
Entra l’innominato, al quale Lucia, superato un primo moto di istintivo «ribrezzo», accorda con
dolcezza il perdono: sorretta dal signore, entra poi nella lettiga, insieme con la buona donna; don
Abbondio e l’innominato seguono sulle loro cavalcature.
Il ritorno dal castello
La buona donna prende affettuosamente le mani di Lucia e si adopera a confortarla, reprimendo la
curiosità di sapere qualcosa di più preciso intorno alla grande avventura; le nomina il paese al quale
sono diretti, poco distante da quello della ragazza, che effonde la sua gioia al pensiero di veder
presto la madre. La buona donna rivela poi l’identità del signore e il suo miracoloso mutamento;
nella straordinarietà della circostanza - aggiunge - don Abbondio si è rivelato di ben poco aiuto: «è
più impicciato di un pulcino nella stoppa».
Per don Abbondio neppure il viaggio di ritorno è tranquillo; e infatti «non gli mancava purtroppo
materia di tormentarsi». Nella discesa per la valle, motivo di cruccio è la mula, che si ostina a
rasentare gli scoscendimenti e a cercare i pericoli, ma anche la possibilità che i bravi gli
attribuiscano la conversione dell’innominato e si vendichino è fonte di preoccupazioni. Alla fine
della discesa, dileguatisi i pericoli imminenti, don Abbondio precorre altri pericoli più lontani: le
possibili reazioni di don Rodrigo e, più che mai fastidiosa, l’eventualità di dover rendere conto
all’arcivescovo «dell’affare del matrimonio». Così decide di congedarsi appena arrivato e di
andarsene diritto a casa sua. In paese, la comitiva si divide: la lettiga va verso la casa della buona
donna; don Abbondio si accomiata in fretta dall’innominato con «i più sviscerati complimenti» e
con la preghiera di scusarlo con monsignore: affari urgenti lo costringono a partire. Poi, preso «il
suo cavallo», ossia il bastone, si avvia verso la sua parrocchia.
In casa del sarto
Intanto la buona donna, che è la moglie del sarto del paese, provvede a rifocillare Lucia. A Lucia,
però, insieme con le forze torna anche il ricordo del voto, che le suscita un moto di sgomento («oh
povera me, cos’ho fatto»), ma subito il pentimento le sembra «un’ingratitudine sacrilega» e, nella
lotta con se stessa, la fanciulla ricorre ancora alla preghiera, alla supplica accorata.
Torna dalle funzioni il sarto con la famigliola; è considerato in paese «uomo di talento e di
scienza», in quanto ha letto «il Leggendario de’ Santi, il Guerrin meschino e i Reali di Francia».
Il padrone di casa fa festa all’ospite e, quando tutti sono a tavola, disserta sul «miracolo» della
conversione (tale è ormai diventato per la voce popolare) e sulla predica del cardinale, soprattutto
sull’invito alla carità; invito che egli accoglie subito, mettendo insieme un piatto di vivande per una
povera vedova del vicinato.
Sul finire del pranzo compare Agnese: ha incontrato per strada don Abbondio, il quale l’ha
ragguagliata sull’accaduto e soprattutto le ha raccomandato di non far parola col cardinale del
matrimonio mancato. L’incontro tra madre e figlia avviene tra lacrime di commozione: Agnese
conferma che Renzo è in salvo nel Bergamasco e Lucia è sollevata: «Ah, se è in salvo sia
ringraziato il Signore!». Non dice pero nulla del voto.
La visita del cardinale
Dopo le funzioni, il cardinale va a tavola: l’innominato siede alla sua destra, «in mezzo a una
corona di preti» che lo scrutano con occhiate curiose, meravigliati del manifesto cambiamento.
Dopo un altro colloquio con Federigo, l’innominato parte per il castello e il cardinale, manifestato il
desiderio di visitare Lucia, si avvia alla dimora del sarto; per strada la gente accorre da ogni parte,
lo circonda, gli si affolla affettuosamente intorno. Anche il sarto è tra la gente: quando capisce che
il gran personaggio sta dirigendosi proprio verso la sua casa, si fa largo strepitando «lasciate passare
chi ha da passare». Agnese e Lucia sentono un ronzio crescente nella strada: quando compare
Federigo col parroco rimangono tutt’e due «mute dalla sorpresa e dalla vergogna», ma le parole
soavi di Federigo le rinfrancano: Dio ha messo in salvo la «povera giovine», si e servito di lei «per
una grand’opera»! Intanto entrano la padrona e, da un altro uscio, il sarto che si mettono
discretamente in un canto. Il cardinale continua a parlare con benevolenza alle due donne: Agnese
allora, preso coraggio, racconta la parte che don Abbondio ha avuto nella loro vicenda: «Voglio dire
che, se il nostro signor curato avesse fatto il suo dovere, la cosa non sarebbe andata così!». Il
cardinale è severo: «Il signor curato mi renderà conto di questo fatto». Ma Lucia interviene,
malgrado gli «occhiacci» della madre, e confessa il tentativo del matrimonio clandestino. Il
cardinale comprende il rigore morale di Lucia; promette di interessarsi di Renzo che, dice Lucia, è
«un giovine dabbene». «I poveri, ci vuol poco a farli comparir birboni», rincalza Agnese; il
porporato prende l’appunto del nome di Renzo «sur un libriccin di memorie». Chiede poi ai padroni
di casa se sarebbero disposti a ospitare per qualche tempo le due donne: e al sarto, nonostante la sua
dottrina, non viene in mente altra risposta che un emozionato: «si figuri!».
La sera, dopo essersi consultato col curato, Federigo decide di compensare il sarto saldando i debiti
che molti in paese hanno nei suoi confronti, e facendogli confezionare abiti per i più bisognosi.
L’innominato e i bravi
Lasciato Federigo, l’innominato giunge al castello: entra nel primo cortile e dà ordine ai bravi di
riunirsi «nella sala grande». Qui annuncia con misurate parole la sua conversione e il fermo
proposito di non infrangere più la legge di Dio. Esorta i suoi uomini ad abbandonare ogni impresa
delittuosa: chi non vorrà mutar vita, potrà lasciare il castello, dopo aver ricevuto salario e in più una
regalia. I bravi stanno in silenzio, avvezzi come sono a ubbidire al signore che temono ed
ammirano; alcuni di loro poi, «trovandosi la mattina fuor della valle», hanno visto e riferito «la
gioia la baldanza della popolazione, l’amore e la venerazione per l’innominato»; stanno quindi
«sbalorditi, incerti», ma nessuno si ribella e tutti infine, a un cenno del signore, «quatti quatti, come
un branco di pecore, […] se la batterono».
Sul far della notte l’innominato, dopo avere ispezionato i cortili e gli ingressi del castello, va
nella sua stanza e, confermandosi nel proposito di espiare i suoi peccati, recita le preghiere;
poi è colto da un sonno profondo.