Il racconto di fantasmi parte I

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Il racconto di fantasmi parte I
Il racconto di fantasmi parte I
Il racconto di fantasmi narra una vicenda che, per alcuni suoi aspetti, si colloca al di fuori della
realtà, in una dimensione che assume caratteristiche irreali, misteriose, soprannaturali. In
questo tipo di racconti più che le vicende vere e proprie sono importanti le suggestioni, le
atmosfere ricche di suspense, tali da coinvolgere totalmente il lettore sul piano emotivo.
Riporto di seguito un racconto appartenente a questo genere del famoso narratore Dino
Buzzati.
di Dino Buzzati
Dopo interminabile attesa quando la speranza già cominciava a morire, Giovanni ritornò alla
sua casa. Non erano ancora suonate le due, sua mamma stava sparecchiando, era una
giornata
grigia
di
marzo
e
volavano
cornacchie.
Egli comparve improvvisamente sulla soglia e la mamma gridò: «Oh benedetto!» correndo ad
abbracciarlo. Anche Anna e Pietro, i due fratellini molto più giovani, si misero a gridare di gioia.
Ecco il momento aspettato per mesi e mesi, così spesso balenato nei dolci sogni dell’alba, che
doveva
riportare
la
felicità.
Egli non disse quasi parola, troppa fatica costandogli trattenere il pianto. Aveva subito deposto
la pesante sciabola su una sedia, in testa portava ancora il berretto di pelo. «Lasciati vedere»
diceva tra le lacrime la madre, tirandosi un po’ indietro «lascia vedere quanto sei bello. Però
sei
pallido,
sei.»
Era alquanto pallido infatti e come sfinito. Si tolse il berretto, avanzò in mezzo alla stanza, si
sedette. Che stanco che stanco, perfino a sorridere sembrava facesse fatica. «Ma togliti il
mantello, creatura» disse la mamma, e lo guardava come un prodigio, sul punto d’esserne
intimidita; com’era diventato alto, bello fiero (anche se un po’ troppo pallido). «Togliti il
mantello, dammelo qui, non senti che caldo?» Lui ebbe un brusco movimento di difesa,
istintivo, serrandosi addosso il mantello, per timore forse che glielo strappassero via.
«No, no lasciami» rispose evasivo «preferisco di no, tanto tra poco devo uscire…»
«Devi uscire? Torni dopo due anni e vuoi subito uscire?» fece lei desolata, vedendo subito
ricominciare, dopo tanta gioia. l’eterna pena delle madri. «Devi uscire subito? E non mangi
qualcosa?»
«Ho già mangiato, mamma» rispose il figlio con un sorriso buono. e si guardava attorno
assaporando le amate penombre. «Ci siamo fermati a un’osteria, qualche chilometro da qui…»
«Ah, non sei venuto solo? E chi c’era con te? Un tuo compagno di reggimento? Il figliolo della
Mena
forse?»
«No, no, era uno incontrato per via. È fuori che aspetta adesso.-«E lì che aspetta? E perché
non
l’hai
fatto
entrare?
L’hai
lasciato
in
mezzo
alla
strada?»
Andò alla finestra e attraverso l’orto, di là del cancelletto di legno, scorse sulla via una figura
che camminava su e giù lentamente; era tutta intabarrata e dava sensazione di nero. Allora
nell’animo di lei nacque, incomprensibile, in mezzo ai turbini della grandissima gioia, una pena
misteriosa
ed
acuta.
«E meglio di no» rispose lui, reciso. «Per lui sarebbe una seccatura, è un tipo così.»
«Ma un bicchiere di vino? glielo possiamo portare, no, un bicchiere di vino?»
«Meglio di no, mamma. È un tipo curioso, è capace di andar sulle furie.»
«Ma chi è allora? Perché ti ci sei messo insieme? Che cosa vuole da te?»
«Bene non lo conosco» disse lui lentamente e assai grave. «L’ho incontrato durante il viaggio.
E
venuto
con
me,
ecco.»
Sembrava preferisse altro argomento, sembrava se ne vergognasse. E la mamma, per non
contrariarlo, cambiò immediatamente discorso, ma già si spegneva nel suo volto amabile la
luce
di
prima.
«Senti» disse «ti figuri la Marietta quando saprà che sei tornato? Te l’immagini che salti di
gioia?
È
per
lei
che
volevi
uscire?»
Egli sorrise soltanto, sempre con quell’espressione di chi vorrebbe essere lieto eppure non può,
per
qualche
segreto
peso.
La mamma non riusciva a capire: perché se ne stava seduto, quasi triste, come il giorno
lontano della partenza? Ormai era tornato, una vita nuova davanti, un’infinità di giorni
disponibili senza pensieri, tante belle serate insieme, una fila inesauribile che si perdeva di là
delle montagne, nelle immensità degli anni futuri. Non più le notti d’angoscia quando
all’orizzonte spuntavano bagliori di fuoco e si poteva pensare che anche lui fosse là in mezzo,
disteso immobile a terra, il petto trapassato, tra le sanguinose rovine. Era tornato, finalmente,
più grande, più bello, e che gioia per la Marietta. Tra poco cominciava la primavera, si
sarebbero sposati in chiesa, una domenica mattina, tra suono di campane e fiori. Perché
dunque se ne stava smorto e distratto, non rideva di più, perché non raccontava le battaglie? E
il mantello? perché se lo teneva stretto addosso, col caldo che faceva in casa? Forse perché,
sotto, l’uniforme era rotta e infangata? Ma con la mamma, come poteva vergognarsi di fronte
alla mamma? Le pene sembravano finite, ecco invece subito una nuova inquietudine.
Il dolce viso piegato un po’ da una parte, lo fissava con ansia, attenta a non contrariarlo, a
capire subito tutti i suoi desideri. O era forse ammalato? O semplicemente sfinito dai troppi
strapazzi?
Perché
non
parlava,
perché
non
la
guardava
nemmeno?
In realtà il figlio non la guardava, egli pareva anzi evitasse di incontrare i suoi sguardi come se
ne temesse qualcosa. E intanto i due piccoli fratelli lo contemplavano muti, con un curioso
imbarazzo.
«Giovanni» mormorò lei non trattenendosi più. «Sei qui finalmente, sei qui finalmente! Aspetta
adesso
che
ti
faccio
il
caffè.»
Si affrettò alla cucina. E Giovanni rimase coi due fratelli tanto più giovani di lui. Non si
sarebbero neppure riconosciuti se si fossero incontrati per la strada, che cambiamento nello
spazio di due anni. Ora si guardavano a vicenda in silenzio, senza trovare le parole, ma ogni
tanto sorridevano insieme, tutti e tre, quasi per un antico patto non dimenticato.
Ed ecco tornare la mamma, ecco il caffè fumante con una bella fetta di torta. Lui vuotò d’un
fiato la tazza, masticò la torta con fatica. «Perché? Non ti piace più? Una volta era la tua
passione!» avrebbe voluto domandargli la mamma, ma tacque per non importunarlo.
«Giovanni» gli propose invece «e non vuoi rivedere la tua camera? C’è il letto nuovo, sai? ho
fatto imbiancare i muri, una lampada nuova, vieni a vedere… ma il mantello, non te lo levi
dunque?…
non
senti
che
caldo?»
Il soldato non le rispose ma si alzò dalla sedia movendo alla stanza vicina. I suoi gesti avevano
una specie di pesante lentezza, come s’egli non avesse venti anni. La mamma era corsa avanti
a spalancare le imposte (ma entrò soltanto una luce grigia, priva di qualsiasi allegrezza).
«Che bello!» fece lui con fioco entusiasmo, come fu sulla soglia alla vista dei mobili nuovi, delle
tendine immacolate, dei muri bianchi, tutto quanto fresco e pulito. Ma, chinandosi la mamma
ad aggiustare la coperta del letto, anch’essa nuova fiammante, egli posò lo sguardo sulle sue
gracili spalle, sguardo di inesprimibile tristezza e che nessuno poteva vedere. Anna e Pietro
infatti stavano dietro di lui, i faccini raggianti, aspettandosi una grande scena di letizia e
sorpresa.
Invece niente. «Com’è bello! Grazie, sai? mamma» ripeté lui, e fu tutto. Muoveva gli occhi con
inquietudine, come chi ha desiderio di conchiudere un colloquio penoso. Ma soprattutto, ogni
tanto, guardava, con evidente preoccupazione, attraverso la finestra, il cancelletto di legno
verde
dietro
il
quale
una
figura
andava
su
e
giù
lentamente.
«Sei contento, Giovanni? sei contento?» chiese lei impaziente di vederlo felice. «Oh, sì, è
proprio bello» rispose il figlio (ma perché si ostinava a non levarsi il mantello?) e continuava a
sorridere
con
grandissimo
sforzo.
«Giovanni» supplicò lei. «Che cos’hai? che cos’hai, Giovanni? Tu mi tieni nascosta una cosa,
perché
non
vuoi
dire?»
Egli si morse un labbro, sembrava che qualcosa gli ingorgasse la gola. «Mamma» rispose dopo
un
po’
con
voce
opaca
«mamma,
adesso
io
devo
andare.»
«Devi andare? Ma torni subito, no? Vai dalla Marietta, vero? dimmi la verità, vai dalla
Marietta?»
e
cercava
di
scherzare,
pur
sentendo
la
pena.
«Non so, mamma» rispose lui sempre con quel tono contenuto ed amaro; si avviava intanto
alla porta, aveva già ripreso il berretto di pelo «non so, ma adesso devo andare, c’è quello là
che
mi
aspetta.»
«Ma torni più tardi? torni? Tra due ore sei qui, vero? Farò venire anche zio Giulio e la zia,
figurati che festa anche per loro, cerca di arrivare un po’ prima di pranzo…»
«Mamma» ripeté il figlio, come se la scongiurasse di non dire di più, di tacere, per carità, di
non aumentare la pena. «Devo andare, adesso, c’è quello là che mi aspetta, è stato fin troppo
paziente.»
Poi
la
fissò
con
sguardo
da
cavar
l’anima.
Si avvicinò alla porta, i fratellini, ancora festosi, gli si strinsero adso e Pietro sollevò un lembo
del mantello per sapere come il fratello fosse vestito di sotto. «Pietro, Pietro! su, che cosa fai?
lascia stare. Pietro!» gridò la mamma, temendo che Giovanni si arrabbiasse.
«No, no!» esclamò pure il soldato, accortosi del gesto del ragazzo. Ma ormai troppo tardi. I
due
lembi
di
panno
azzurro
si
erano
dischiusi
un
istante.
«Oh, Giovanni, creatura mia, che cosa ti han fatto?» balbettò la madre, prendendosi il volto tra
le
mani.
«Giovanni,
ma
questo
è
sangue!»
«Devo andare, mamma» ripeté lui per la seconda volta, con disperata fermezza. «L’ho già
fatto
aspettare
abbastanza.
Ciao
Anna,
ciao
Pietro,
addio
mamma.»
Era già alla porta. Uscì come portato dal vento. Attraversò l’orto quasi di corsa, aprì il
cancelletto, due cavalli partirono al galoppo, sotto il cielo grigio, non già verso il paese, no, ma
attraverso le praterie, su verso il nord, in direzione delle montagne. Galoppavano,
galoppavano.
E allora la mamma finalmente capì, un vuoto immenso, che mai e poi mai nei secoli sarebbero
bastati a colmare, si aprì nel suo cuore. Capì la storia del mantello, la tristezza del figlio e
soprattutto chi fosse il misterioso individuo che passeggiava su e giù per la strada. in attesa,
chi fosse quel sinistro personaggio fin troppo paziente. Così misericordioso e paziente da
accompagnare Giovanni alla vecchia casa (prima di condurselo via per sempre), affinché
potesse salutare la madre; da aspettare parecchi minuti fuori del cancello, in piedi, lui signore
del
mondo,
in
mezzo
alla
polvere,
come
pezzente
affamato.
(da D. Buzzati, Sessanta racconti, Mondadori, Milano 1994)
Il protagonista di questo racconto è un fantasma: Pietro, un giovane soldato che torna a casa
per salutare i suoi affetti più cari, la madre e i fratelli. La sua vera natura però non è svelata
subito dall’autore che lascia trasparire a poco a poco la verità attraverso una serie di indizi. E’
proprio questa rivelazione che crea l’atmosfera di tensione e di paura nel lettore, che culmina
con il finale a sorpresa.
La scena iniziale si apre descrivendo una situazione apparantemente tranquilla e normale se non fosse
per la presenza di quelle cornacchie, immagine che generalmente si accomuna alla morte. Subito dopo
gli abbracci affettuosi che Pietro scambia con la madre ecco un altro indizio: il pallore del volto e una
stanchezza enorme che gli rendeva persino difficile sorridere. Il terzo indizio è rappresentato dal
mantello che dà il titolo al racconto, è proprio questo l’elemento che crea una iato tra la vita e la morte,
perché esso cela la ferita che ha ucciso il soldato, cela il suo corpo martoriato. E su di esso si
appunterà a partire da un certo momento l’attenzione della madre e del lettore. Segue poi la tristezza
inspiegabile di Pietro alla vista del nuovo arredamento della sua vecchia stanza che la madre ha
comprato per lui, segue il contrasto tra la gioia dei suoi famigliari e la sua tristezza. Fino a quando il
mantello che si apre per un istante lascerà intravedere la ferita che lo ha ucciso.
ESERCITAZIONE
seguendo come modello il racconto di Buzzati, inventa un racconto che abbia come protagonista un
fantasma che si presenta a qualcuno, rivelando a poco a poco la sua condizione. Soffermati su una
serie di indizi che disseminerai nel testo fino a farli culminare in una situazione finale a sorpresa. Prova
anche tu ad introdurre un elemento rivelatore come il mantello di Pietro.
il racconto di fantasmi parte 2
Ho scelto anche questa volta un racconto di Dino Buzzati: il fantasma del
granaio per esaminare alcuni caratteri del racconto di fantasmi
IL FANTASMA DEL GRANAIO
Sono seduto sul pianerottolo della scala, di fianco a me, per terra, un candeliere di latta con una
candela accesa. Di fronte, una porta a due battenti, appena appena socchiusa.
È la porta del vecchio granaio che sorge di fianco alla casa dove sono nato. Intorno, la notte della
campagna,
e
i
ricordi.
Tra poco, di là dalla porta, si farà vivo lo spirito che frequenta questo granaio da tempo immemorabile.
Forse.
Non è lo spirito di un antenato ma semplicemente di un antico fattore del principio dell’Ottocento.
È leggenda si chiamasse Fontana, è leggenda che defraudasse i padroni e gli altri contadini nel
conteggiare le misure di granturco; e perciò fu condannato a rimanere quaggiù nel preciso luogo delle
sue
malefatte.
Fino
a
quando?
Da bambino sentivo dire che lo udivano spesso rimestare tra i mucchi di grano e di mais e far rotolare
sul pavimento il cilindro di legno con cui si livellano le staia. Poi lo si è udito sempre meno,
progressivamente, come se si apprestasse a lasciarci. (Stupidaggini, vero. Ridicole superstizioni da
analfabeti,
si
intende.)
Ore 23.10. Sono solo. Le luci delle due stanzette sono spente. Avevo detto all’Amabile che sarei
venuto, mi ha preparato una sedia e una candela, non ha riso né sorriso del mio sopralluogo, anche lei
ci crede a queste storie e dice che certe notti «quello lì» si dà un gran daffare soprattutto nella soffitta.
Però adesso l’Amabile dorme. E la vicina nostra casa, dove sono nato, stanotte è chiusa, deserta e
nera. E di fuori un ticchettio di pioggia morente sulle foglie della vite selvatica arrampicata sul muro.
Un’automobile
che
si
avvicina
e
dilegua
uno
svogliato
ronzio
di
mosca.
Ore 23.25. Sì, sono stato abbastanza coraggioso, forse una volta non ce l’avrei fatta a venire qui solo di
notte, sullo spirito del granaio c’è poco da ridire. Undici anni fa, come adesso, in una notte di settembre,
appostati su questo medesimo pianerottolo, al lume di una candela anche allora, mio cognato e io col
batticuore
lo
udimmo
camminare.
Inconfondibilmente, dal fondo dello stanzone, un essere umano avanzò senza fretta in direzione della
porta dietro la quale stavamo noi due. Era un passo scandito e pesante, come di scarponi chiodati.
Tramp,
tramp,
ormai
doveva
essere
a
non
più
di
quattro
metri.
«Apriamo?»
domandò
mio
cognato.
«Apriamo» dissi e lui si alzò con la candela in mano, si avvicinò alla porta e d’impeto spinse il battente
socchiuso.
E il passo di colpo è cessato, e là dentro non si è vista anima viva, i mucchi e i sacchi di grano
giacevano
immobili
al
posto
di
prima,
apparentemente
addormentati.
Ore 0.07. Un colpetto, sì un minimo colpetto di là dalla porta, laggiù in fondo, ma forse è un banale
scricchiolio, forse è niente, sì, non è niente. Un’auto, un’altra auto, dove corrono a quest’ora, dove
vanno?
Ore 0.17. Un tenue breve trapestio di sopra, soffice. Topi. Non piove più. Un cane lontano chiama. La
finestrella,
di
sotto,
come
due
occhi
fosforescenti.
Sì, sì, non ci può essere errore, un passo. Un passo umano che si avvicina, un po’ strascicato,
pesante.
Il
tonfo
del
cuore
all’urto
dello
spavento.
Poi capisco. E la paura svanisce. Il passo non viene dal granaio bensì risuona alle mie spalle, dalle due
stanzette dell’Amabile. È chiaro: l’Amabile, che avevo preavvertita, si è alzata e viene a vedere.
Ecco infatti il cigolìo dell’uscio dietro di me. Accendo la torcia elettrica, dirigo il raggio alla porta. Un
battente si schiude un poco, muovendosi con lentezza. Vedo di là una fetta di buio, lei Amabile non la
vedo,
ma
so
che
è
lei,
venuta
a
controllare.
«Sì, sono io. Buonanotte» dico. Il battente adagio si richiude senza parole. Ancora il passo strascicato
che
si
allontana
e
si
perde
nel
silenzio.
Così si è rotto l’incantesimo, banalmente. Sono le 0.46, tardi oramai. Un aereo altissimo che passa; da
dove? Verso dove? Un clic clic che si ripete tre quattro volte giù all’ingresso, forse una goccia. Addio,
spirito antico, anche tu consumato dal tempo a poco a poco, simbolo di una età felice e defunta, della
remota fanciullezza, delle favole, delle parole che dissi e che udii, dei vecchi che non conobbi, del
padre,
della
mamma,
addio.
Prima di ripartire, la mattina dopo, sono passato a salutare l’Amabile. La porta del granaio era chiusa.
«Amabile! Amabile!» chiamo. Risplendeva il sole bianco e bellissimo sull’erba ancora imperlata di
tempesta, le montagne così nitide si erano fatte vicine. Il coccodè idiota delle galline, un contadino che
batte
col
martello
la
falce,
il
rumore
metallico
si
spandeva
lontano.
La Amabile si è affacciata alla finestra. «Ah, buongiorno, signor Dino. Ieri sera non è venuto, poi? Io
l’ho
aspettato
fino alle
11.
Poi
mi
scuserà
ma
sono
andata
a
dormire.»
«Dopo
però
si
è
alzata
per
vedere
se
c’ero,
no?»
«Io?
Quando?
Mi
deve
scusare,
sa,
ero
così
stanca…»
«Ma se ho sentito i suoi passi, se ho visto la sua porta che si apriva!» Scuote la testa: «Oh, signor
Dino,
a
lei
piace
scherzare».
Un gallo ritardatario cantò.
Una caratteristica di questo racconto è che l’autore narratore descrive con ricchezza di partcolari ciò
che vede e che sente contribuendo ad aumentare la suspense, così da coinvolgere totalmente il lettore
sul piano emotivo. A tal proposito è molto interessante la strategia di scandire passo passo sul piano
temporale quello che avviene: ore 23.25; ore 0,07; ore 0.17 ecc. Si noti, inoltre, la coordinazione
ipotattica dei periodi, che sono brevi, intervallati da molti punti. Particolare l’attenzione che, nella
desolazione della stanza, il protagonista presta ad oggetti vivi, in movimento come un auto in
lontananza o un aereo che passa altissimo, come per rompere il senso di isolamento che lo attanaglia
e rende alla perfezione il senso di smarrimento che provi chiunque si trovi in un contesto isolato di cui
ha paura.
ESERCITAZIONE
prova a raccontare un episodio in cui ti sforzi di fare immedesimare il più possibile il lettore, usando le
stesse tecniche narrative di questo racconto:
- scansione temporale: espandi descrivendo dettagliatamente quello che avviene in poche ore. Puoi
inserire anche, come ha fatto l’autore un breve flashback che serve a chiarire meglio la situazione che
racconti.
-descrizione dettagliata degli stati d’animo e degli oggetti su cui si accentra l’attenzione del protagonista
- usa periodi brevi
02
Il bambino protagonista della storia Pit pat, pit pat di cui propongo la lettura è un fantasma invisibile agli
occhi degli adulti che possono soltanto udirne il pianto. L’ambientazione tipicamente misteriosa
accresce il senso di ignoto che avvolge gli altri personaggi della vicenda. La caratterizzazione del
personaggio fantasma è particolarmente tragica. Generalmente i fantasmi sono creature che hanno
vissuto un’esperienza tragica che ha lasciato loro un conto in sospeso con la vita.
ESERCIZIO
Prendendo spunto da questo racconto prova a delineare un personaggio fantasma che ha avuto una
vita sfortunata, segnata da una particolare vicenda che anche dopo la morte non gli permette di trovare
pace.
Agatha Christie
“Pit pat, pit pat
Nessuno parlava di quella casa come di «una casa infestata»; tuttavia
era rimasta, per anni, nell’albo dei VENDESI o AFFITTASI.
La signora Lancaster guardò la casa con aria d’approvazione mentre
l’agente immobiliare, ben lieto di potersene sbarazzare, apriva la
porta e inondava la cliente di informazioni e commenti elogiativi.
«Ma da quanto tempo è vuota?», tagliò corto la signora Lancaster.
Il signor Raddish, l’agente immobiliare, si fece un pochino confuso:
«E… ehm… da un po’ di tempo».
«Questo lo capisco anch’io», osservò seccamente la signora Lancaster.
L’ingresso, scarsamente illuminato, era gelido, gelido in modo quasi
sinistro. Una donna con più immaginazione sarebbe rabbrividita,
ma la signora Lancaster era una persona pratica.
Ispezionò la casa dall’attico alla cantina, facendo di quando in quando
una domanda pertinente. Finita l’ispezione tornò in una delle
stanze frontali (quelle che davano sulla piazza) e squadrò l’agente
con aria risoluta.
«Cosa c’è che non va, qui dentro?»
Il signor Raddish fu colto di sorpresa.
«Beh una casa senza mobili è sempre un po’ triste», tentò di parare.
«Sciocchezze», ribatté la Lancaster. «L’affitto che chiede è ridicolo,
per una casa del genere. Puramente simbolico. Quindi, dev’esserci
una ragione. La casa è infestata?»
Il signor Raddish trasalì, ma non disse niente.
La signora Lancaster lo fissò in modo penetrante. Dopo qualche
istante parlò di nuovo.
«Naturalmente io non credo ai fantasmi e alle baggianate del genere,
quindi se il motivo per cui la casa è rimasta sfitta è questo, non
m’importa affatto. Mi dica però che cosa infesta esattamente questo
posto. C’è stato un assassinio?»
«Oh, no!», protestò il signor Raddish, sconvolto. «Si tratta solo…
solo di un bambino.»
«Un bambino?»
«Sì. Non conosco la storia in tutti i particolari», continuò riluttante
l’agente immobiliare. «E inoltre esistono parecchie varianti. Comunque,
circa trent’anni fa un uomo di nome Williams prese in affitto
questa casa. Non si sapeva niente di lui, e non aveva servitori; non
aveva amici e nelle ore diurne usciva raramente. Aveva però un
bambino, un ragazzetto che si supponeva fosse suo figlio. Dopo un
paio di mesi si recò a Londra, ma aveva appena messo piede nella
metropoli che fu riconosciuto come l’autore di un misterioso crimine.
Doveva trattarsi di qualcosa di grave, perché piuttosto che consegnarsi
alla polizia l’uomo si sparò. Nel frattempo il bambino continuò
a vivere in questa casa, dalla quale non si era mai mosso. Per
un po’ il cibo gli fu sufficiente, ed egli si limitò ad aspettare giorno
dopo giorno l’arrivo del padre. Per sua sfortuna questi gli aveva ordinato
di non uscire per nessuna ragione e di non rivolgere la parola
a sconosciuti. Era un bambino piccolo, debole, fragile, e non si sarebbe
mai sognato di disobbedire all’ordine. Di notte i vicini, ignari
della partenza del padre, lo sentivano piangere e lamentarsi nella
spaventosa desolazione della casa vuota. Alla fine il bimbo morì
d’inedia.»
«E sarebbe il fantasma del bambino, quello che infesta la casa?»,
chiese la signora Lancaster.
«Non c’è niente di fondato, mi creda», si affrettò a rassicurarla
Raddish. «Nessuno ha mai visto niente. I sostenitori di questa storia
dicono di aver sentito, è ridicolo, un bambino che piange e si
lamenta.»
La signora si diresse alla porta d’ingresso.
«La casa mi piace», annunciò. «Per un prezzo simile non troverò
niente di così adatto. Ci penserò e le darò la risposta.»
«È molto accogliente, vero, papà?»
La signora Lancaster dette un’occhiata di approvazione alla nuova
casa. Tappeti dai colori vivaci, mobili lucidi, suppellettili e ninnoli
avevano trasformato il lugubre aspetto della casa.
«Certo», rispose il vecchietto con un sorriso. «A nessuno verrebbe
in mente che è una casa infestata.»
«Papà, non dire sciocchezze! È il nostro primo giorno qui! E per favore
», disse la signora Lancaster, «non dire una parola davanti a
Geoff. È così impressionabile!»
Geoff era il figlio della signora Lancaster, e con il nonno e la mamma
completava la famiglia.
La pioggia cominciava a battere contro i vetri: pit-pat, pit-pat.
«Senti», disse il vecchietto. «Non sembrano piedini?»
«Sembra più che altro pioggia», rispose lei con un sorriso.
«Ma questo, questo è un rumore di passi!», gridò il padre, piegandosi
per ascoltare meglio.
La signora scoppiò a ridere di cuore.
Anche suo padre si mise a ridere. Stavano prendendo il tè in sala, e
lui sedeva con le spalle alla scala. Ora si voltò e vide il nipote, il piccolo
Geoff, che scendeva con circospezione, affascinato e al tempo
stesso intimidito dalla casa nuova.
Il bambino attraversò la sala e si fermò accanto a sua madre. Il nonno trasalì, perché aveva udito distintamente un altro paio di piedini
sulle scale, come se qualcuno seguisse Geoffrey. Piedini che si trascinavano,
che facevano fatica… Scrollò le spalle, incredulo. «La
pioggia, non c’è dubbio», pensò fra sé.
«Vorrei un pasticcino», disse Geoff.
La madre si affrettò a esaudire la richiesta.
«Ebbene, ragazzo, che te ne pare della casa nuova?»
«Mi piace un sacco», rispose Geoffrey con la bocca piena.
Fatto sparire l’ultimo dolce dalla coppa riprese a parlare.
«Mamma, Jane dice che c’è una soffitta, qui. Posso esplorarla? Troverò
una porta segreta, vero? Jane dice che non c’è, ma invece c’è; e
le condutture dell’acqua, che bellezza, le vedrò e mi metterò a giocare!
E la caldaia? Posso vedere la caldaia?»
«Andremo in soffitta domani, caro», disse la signora Lancaster.
«Perché non fai un po’ di costruzioni, eh? Potresti creare una bella
casa, o un apparecchio, non so.»
«Non voglio fare una casa.»
«Allora costruisci una caldaia», suggerì il nonno.
Geoffrey s’illuminò.
«Con le condutture?»
«Con quante condutture vuoi.»
Geoffrey corse felice a prendere le costruzioni.
Continuava a piovere. Il nonno ascoltava. Sì, era senz’altro la pioggia
quella che aveva udito, ma il suono era identico ai passi di un
bambino.
Quella notte fece uno strano sogno.
Sognò di trovarsi in una città tutta popolata di bambini. Quando lo
videro, gli corsero incontro e gridarono: «L’hai portato?». Come se
capisse ciò che intendevano, il nonno scosse la testa tristemente, in
segno di diniego. A questo punto i bimbi scappavano e cominciavano
a singhiozzare amaramente.
Il sogno si dileguò e il nonno si ritrovò nel suo letto, ma il pianto
continuò a risuonargli nelle orecchie. Era perfettamente sveglio, eppure
lo sentiva distintamente. Poi ricordò che Geoffrey dormiva al
piano di sotto, mentre il lamento veniva dall’alto. Si mise a sedere e
accese un fiammifero. I singhiozzi cessarono di colpo.
L’anziano signore non parlò alla figlia né del sogno né di ciò che
aveva udito poi; ma col passare delle ore il fenomeno si ripeté, e
in pieno giorno. Certo, il vento sibilava nel camino, ma questo era
di-verso: un suono distinto, inconfondibile. Piccoli disperati singhiozzi.
E non era il solo a udirli. Anche la cameriera li aveva sentiti.
Solo la signora Lancaster non sentiva niente. Forse le sue orecchie
non erano abbastanza fini per percepire i suoni di un altro mondo.
Un giorno, tuttavia, anche lei ricevette una sorpresa.
«Mammina», disse Geoffrey in tono lamentoso, «vorrei che mi lasciassi
giocare con quel ragazzino.»
Lei alzò gli occhi dallo scrittoio e sorrise.
«Che ragazzino, Geoff?»
«Non so come si chiama. Era su in soffitta, seduto sul pavimento e
piangeva. Quando mi ha visto è scappato. Penso che sia timido. Poi,
quando mi sono messo a giocare con le costruzioni, l’ho visto di nuovo
che mi spiava dalla porta. Allora gli ho detto: “Entra e costruisci
un apparecchio”, ma lui non ha risposto ed è rimasto a guardare.»
La signora Lancaster si alzò.
«Geoff», disse, «non c’è nessun ragazzo in soffitta.»
«Ma l’ho visto! Oh, mamma, fammici giocare. È così solo e triste!
Voglio fare in modo che si senta meglio.»
La signora stava per replicare, ma suo padre scosse la testa.
«Geoff», disse il nonno con dolcezza, «quel ragazzino è veramente
solo. Forse puoi fare qualcosa per alleviarlo, ma devi scoprire tu il
modo, come in un indovinello. Hai capito?»
«Devo scoprirlo da solo perché sto diventando grande, è così, nonno?
»
«Perché stai diventando grande, sì.»
Quando il bambino uscì la signora Lancaster ebbe un moto d’impazienza
verso il padre.
«Papà è assurdo! Incoraggiare Geoffrey a credere che ci sia un ragazzino
in soffitta.»
«Lui ha visto ciò che io ho solo udito. Forse lo vedrei anch’io, se
avessi la sua età.»
«Ma sono sciocchezze! Perché io non vedo e non sento nessun ragazzino,
eh?»
L’anziano signore sorrise: un sorriso stanco, curioso, e non disse
niente.
«E dimmi perché», insisté la figlia, «gli hai messo in testa che può
aiutare quella… cosa. È impossibile.»
Il vecchio la fissò col suo sguardo pensieroso.
«Geoffrey ha… un sesto senso, come tutti i bambini. È solo quando
cresciamo che perdiamo questa facoltà. Ecco perché credo che
Geoffrey possa aiutare il suo amico.»
«Non capisco», mormorò debolmente la signora Lancaster.
«Nemmeno io, ma quel… quel bambino è in pena e vuol essere liberato.
Come? Non lo so, però è spaventoso pensarci: è un bimbo,
una creatura, e gli si spacca il cuore dal dolore.»
Un mese dopo questa conversazione Geoffrey si ammalò gravemente.
Il medico disse che non c’erano speranze per la sua malattia polmonare.
Accudendo il figlio malato, la signora Lancaster sentì per la prima
volta la presenza dell’altro bambino. Dapprima i singhiozzi le parvero confondersi col vento, poi pian piano si fecero più distinti, inconfondibili:
singhiozzi di bimbo, di un bimbo solo, disperato e affranto.
Man mano che Geoffrey peggiorava, parlava con sempre maggior
frequenza del piccolo amico. Nel delirio gridava:
«Voglio aiutarlo ad andar via, lo voglio!».
Al delirio seguì uno stato letargico. Non si poteva far altro che
guardare e aspettare. Poi venne una notte chiara, calma, senza un
alito di vento.
Improvvisamente il ragazzo tremò, aprì gli occhi e fissò la porta aperta
alle spalle di sua madre. Cercò di parlare, e chinandosi la signora
Lancaster colse le sue ultime parole.
«Eccomi, sto arrivando.» Poi reclinò il capo.
La madre attraversò la stanza in preda al terrore e andò in cerca del
padre. Da qualche parte, intorno a loro, l’altro bambino era scoppiato
a ridere. Felici, irrefrenabili, argentine, le risate echeggiavano
fra le pareti.
«Ho paura, ho paura», gemette lei.
L’anziano signore le mise un braccio intorno alle spalle, con aria protettiva.
Un alito improvviso di vento li fece trasalire.
Le risate erano cessate, e al loro posto si sentiva un debole rumore,
così debole che a stento si riusciva a distinguerlo. Passi, passi leggeri
che si allontanavano.
Pit-pat, pit-pat, il fruscìo alternato dei piedini. Ma ora… che strano…
pareva che un altro paio di piedini si fosse unito al primo, e che
si muovesse in modo più rapido e leggero.
Il fruscio giunse alla porta, la superò, i passettini erano chiarissimi.
Pit-pat, pit-pat, due bambini che marciavano insieme.
La signora Lancaster alzò gli occhi, terrorizzata.
«Adesso sono due! Sono due!»
Bianca di paura guardò il lettino del figlio, nell’angolo, ma suo padre
la invitò a guardare nella direzione opposta, oltre la porta.
«Là», disse semplicemente.
Pit-pat, pit-pat… sempre più deboli e lontani.
E poi silenzio.”
(da Appuntamento con il brivido, a cura di R. Zordan, Sansoni, Milano, rid. e adatt.)
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Il racconto di fantasmi parte I
Il racconto di fantasmi narra una vicenda che, per alcuni suoi apsetti, si colloca al di fuori della
realtà, in una dimensione che assume caratteristiche irreali, misteriose, soprannaturali. In
questo tipo di racconti più che le vicende vere e proprie sono importanti le suggestioni, le
atmosfere ricche di suspense, tali da coinvolgere totalmente il lettore sul piano emotivo.
Riporto di seguito un racconto appartenente a questo genere del famoso narratore Dino
Buzzati.
di Dino Buzzati
Dopo interminabile attesa quando la speranza già cominciava a morire, Giovanni ritornò alla
sua casa. Non erano ancora suonate le due, sua mamma stava sparecchiando, era una
giornata
grigia
di
marzo
e
volavano
cornacchie.
Egli comparve improvvisamente sulla soglia e la mamma gridò: «Oh benedetto!» correndo ad
abbracciarlo. Anche Anna e Pietro, i due fratellini molto più giovani, si misero a gridare di gioia.
Ecco il momento aspettato per mesi e mesi, così spesso balenato nei dolci sogni dell’alba, che
doveva
riportare
la
felicità.
Egli non disse quasi parola, troppa fatica costandogli trattenere il pianto. Aveva subito deposto
la pesante sciabola su una sedia, in testa portava ancora il berretto di pelo. «Lasciati vedere»
diceva tra le lacrime la madre, tirandosi un po’ indietro «lascia vedere quanto sei bello. Però
sei
pallido,
sei.»
Era alquanto pallido infatti e come sfinito. Si tolse il berretto, avanzò in mezzo alla stanza, si
sedette. Che stanco che stanco, perfino a sorridere sembrava facesse fatica. «Ma togliti il
mantello, creatura» disse la mamma, e lo guardava come un prodigio, sul punto d’esserne
intimidita; com’era diventato alto, bello fiero (anche se un po’ troppo pallido). «Togliti il
mantello, dammelo qui, non senti che caldo?» Lui ebbe un brusco movimento di difesa,
istintivo, serrandosi addosso il mantello, per timore forse che glielo strappassero via.
«No, no lasciami» rispose evasivo «preferisco di no, tanto tra poco devo uscire…»
«Devi uscire? Torni dopo due anni e vuoi subito uscire?» fece lei desolata, vedendo subito
ricominciare, dopo tanta gioia. l’eterna pena delle madri. «Devi uscire subito? E non mangi
qualcosa?»
«Ho già mangiato, mamma» rispose il figlio con un sorriso buono. e si guardava attorno
assaporando le amate penombre. «Ci siamo fermati a un’osteria, qualche chilometro da qui…»
«Ah, non sei venuto solo? E chi c’era con te? Un tuo compagno di reggimento? Il figliolo della
Mena
forse?»
«No, no, era uno incontrato per via. È fuori che aspetta adesso.-«E lì che aspetta? E perché
non
l’hai
fatto
entrare?
L’hai
lasciato
in
mezzo
alla
strada?»
Andò alla finestra e attraverso l’orto, di là del cancelletto di legno, scorse sulla via una figura
che camminava su e giù lentamente; era tutta intabarrata e dava sensazione di nero. Allora
nell’animo di lei nacque, incomprensibile, in mezzo ai turbini della grandissima gioia, una pena
misteriosa
ed
acuta.
«E meglio di no» rispose lui, reciso. «Per lui sarebbe una seccatura, è un tipo così.»
«Ma un bicchiere di vino? glielo possiamo portare, no, un bicchiere di vino?»
«Meglio di no, mamma. È un tipo curioso, è capace di andar sulle furie.»
«Ma chi è allora? Perché ti ci sei messo insieme? Che cosa vuole da te?»
«Bene non lo conosco» disse lui lentamente e assai grave. «L’ho incontrato durante il viaggio.
E
venuto
con
me,
ecco.»
Sembrava preferisse altro argomento, sembrava se ne vergognasse. E la mamma, per non
contrariarlo, cambiò immediatamente discorso, ma già si spegneva nel suo volto amabile la
luce
di
prima.
«Senti» disse «ti figuri la Marietta quando saprà che sei tornato? Te l’immagini che salti di
gioia?
È
per
lei
che
volevi
uscire?»
Egli sorrise soltanto, sempre con quell’espressione di chi vorrebbe essere lieto eppure non può,
per
qualche
segreto
peso.
La mamma non riusciva a capire: perché se ne stava seduto, quasi triste, come il giorno
lontano della partenza? Ormai era tornato, una vita nuova davanti, un’infinità di giorni
disponibili senza pensieri, tante belle serate insieme, una fila inesauribile che si perdeva di là
delle montagne, nelle immensità degli anni futuri. Non più le notti d’angoscia quando
all’orizzonte spuntavano bagliori di fuoco e si poteva pensare che anche lui fosse là in mezzo,
disteso immobile a terra, il petto trapassato, tra le sanguinose rovine. Era tornato, finalmente,
più grande, più bello, e che gioia per la Marietta. Tra poco cominciava la primavera, si
sarebbero sposati in chiesa, una domenica mattina, tra suono di campane e fiori. Perché
dunque se ne stava smorto e distratto, non rideva di più, perché non raccontava le battaglie? E
il mantello? perché se lo teneva stretto addosso, col caldo che faceva in casa? Forse perché,
sotto, l’uniforme era rotta e infangata? Ma con la mamma, come poteva vergognarsi di fronte
alla mamma? Le pene sembravano finite, ecco invece subito una nuova inquietudine.
Il dolce viso piegato un po’ da una parte, lo fissava con ansia, attenta a non contrariarlo, a
capire subito tutti i suoi desideri. O era forse ammalato? O semplicemente sfinito dai troppi
strapazzi?
Perché
non
parlava,
perché
non
la
guardava
nemmeno?
In realtà il figlio non la guardava, egli pareva anzi evitasse di incontrare i suoi sguardi come se
ne temesse qualcosa. E intanto i due piccoli fratelli lo contemplavano muti, con un curioso
imbarazzo.
«Giovanni» mormorò lei non trattenendosi più. «Sei qui finalmente, sei qui finalmente! Aspetta
adesso
che
ti
faccio
il
caffè.»
Si affrettò alla cucina. E Giovanni rimase coi due fratelli tanto più giovani di lui. Non si
sarebbero neppure riconosciuti se si fossero incontrati per la strada, che cambiamento nello
spazio di due anni. Ora si guardavano a vicenda in silenzio, senza trovare le parole, ma ogni
tanto sorridevano insieme, tutti e tre, quasi per un antico patto non dimenticato.
Ed ecco tornare la mamma, ecco il caffè fumante con una bella fetta di torta. Lui vuotò d’un
fiato la tazza, masticò la torta con fatica. «Perché? Non ti piace più? Una volta era la tua
passione!» avrebbe voluto domandargli la mamma, ma tacque per non importunarlo.
«Giovanni» gli propose invece «e non vuoi rivedere la tua camera? C’è il letto nuovo, sai? ho
fatto imbiancare i muri, una lampada nuova, vieni a vedere… ma il mantello, non te lo levi
dunque?…
non
senti
che
caldo?»
Il soldato non le rispose ma si alzò dalla sedia movendo alla stanza vicina. I suoi gesti avevano
una specie di pesante lentezza, come s’egli non avesse venti anni. La mamma era corsa avanti
a spalancare le imposte (ma entrò soltanto una luce grigia, priva di qualsiasi allegrezza).
«Che bello!» fece lui con fioco entusiasmo, come fu sulla soglia alla vista dei mobili nuovi, delle
tendine immacolate, dei muri bianchi, tutto quanto fresco e pulito. Ma, chinandosi la mamma
ad aggiustare la coperta del letto, anch’essa nuova fiammante, egli posò lo sguardo sulle sue
gracili spalle, sguardo di inesprimibile tristezza e che nessuno poteva vedere. Anna e Pietro
infatti stavano dietro di lui, i faccini raggianti, aspettandosi una grande scena di letizia e
sorpresa.
Invece niente. «Com’è bello! Grazie, sai? mamma» ripeté lui, e fu tutto. Muoveva gli occhi con
inquietudine, come chi ha desiderio di conchiudere un colloquio penoso. Ma soprattutto, ogni
tanto, guardava, con evidente preoccupazione, attraverso la finestra, il cancelletto di legno
verde
dietro
il
quale
una
figura
andava
su
e
giù
lentamente.
«Sei contento, Giovanni? sei contento?» chiese lei impaziente di vederlo felice. «Oh, sì, è
proprio bello» rispose il figlio (ma perché si ostinava a non levarsi il mantello?) e continuava a
sorridere
con
grandissimo
sforzo.
«Giovanni» supplicò lei. «Che cos’hai? che cos’hai, Giovanni? Tu mi tieni nascosta una cosa,
perché
non
vuoi
dire?»
Egli si morse un labbro, sembrava che qualcosa gli ingorgasse la gola. «Mamma» rispose dopo
un
po’
con
voce
opaca
«mamma,
adesso
io
devo
andare.»
«Devi andare? Ma torni subito, no? Vai dalla Marietta, vero? dimmi la verità, vai dalla
Marietta?»
e
cercava
di
scherzare,
pur
sentendo
la
pena.
«Non so, mamma» rispose lui sempre con quel tono contenuto ed amaro; si avviava intanto
alla porta, aveva già ripreso il berretto di pelo «non so, ma adesso devo andare, c’è quello là
che
mi
aspetta.»
«Ma torni più tardi? torni? Tra due ore sei qui, vero? Farò venire anche zio Giulio e la zia,
figurati che festa anche per loro, cerca di arrivare un po’ prima di pranzo…»
«Mamma» ripeté il figlio, come se la scongiurasse di non dire di più, di tacere, per carità, di
non aumentare la pena. «Devo andare, adesso, c’è quello là che mi aspetta, è stato fin troppo
paziente.»
Poi
la
fissò
con
sguardo
da
cavar
l’anima.
Si avvicinò alla porta, i fratellini, ancora festosi, gli si strinsero adso e Pietro sollevò un lembo
del mantello per sapere come il fratello fosse vestito di sotto. «Pietro, Pietro! su, che cosa fai?
lascia stare. Pietro!» gridò la mamma, temendo che Giovanni si arrabbiasse.
«No, no!» esclamò pure il soldato, accortosi del gesto del ragazzo. Ma ormai troppo tardi. I
due
lembi
di
panno
azzurro
si
erano
dischiusi
un
istante.
«Oh, Giovanni, creatura mia, che cosa ti han fatto?» balbettò la madre, prendendosi il volto tra
le
mani.
«Giovanni,
ma
questo
è
sangue!»
«Devo andare, mamma» ripeté lui per la seconda volta, con disperata fermezza. «L’ho già
fatto
aspettare
abbastanza.
Ciao
Anna,
ciao
Pietro,
addio
mamma.»
Era già alla porta. Uscì come portato dal vento. Attraversò l’orto quasi di corsa, aprì il
cancelletto, due cavalli partirono al galoppo, sotto il cielo grigio, non già verso il paese, no, ma
attraverso le praterie, su verso il nord, in direzione delle montagne. Galoppavano,
galoppavano.
E allora la mamma finalmente capì, un vuoto immenso, che mai e poi mai nei secoli sarebbero
bastati a colmare, si aprì nel suo cuore. Capì la storia del mantello, la tristezza del figlio e
soprattutto chi fosse il misterioso individuo che passeggiava su e giù per la strada. in attesa,
chi fosse quel sinistro personaggio fin troppo paziente. Così misericordioso e paziente da
accompagnare Giovanni alla vecchia casa (prima di condurselo via per sempre), affinché
potesse salutare la madre; da aspettare parecchi minuti fuori del cancello, in piedi, lui signore
del
mondo,
in
mezzo
alla
polvere,
come
pezzente
affamato.
(da D. Buzzati, Sessanta racconti, Mondadori, Milano 1994)
Il protagonista di questo racconto è un fantasma: Pietro, un giovane soldato che torna a casa
per salutare i suoi affetti più cari, la madre e i fratelli. La sua vera natura però non è svelata
subito dall’autore che lascia trasparire a poco a poco la verità attraverso una serie di indizi. E’
proprio questa rivelazione che crea l’atmosfera di tensione e di paura nel lettore, che culmina
con il finale a sorpresa.
La scena iniziale si apre descrivendo una situazione apparantemente tranquilla e normale se non fosse
per la presenza di quelle cornacchie, immagine che generalmente si accomuna alla morte. Subito dopo
gli abbracci affettuosi che Pietro scambia con la madre ecco un altro indizio: il pallore del volto e una
stanchezza enorme che gli rendeva persino difficile sorridere. Il terzo indizio è rappresentato dal
mantello che dà il titolo al racconto, è proprio questo l’elemento che crea una iato tra la vita e la morte,
perché esso cela la ferita che ha ucciso il soldato, cela il suo corpo martoriato. E su di esso si
appunterà a partire da un certo momento l’attenzione della madre e del lettore. Segue poi la tristezza
inspegabile di Pietro alla vista del nuovo arredamento della sua vecchia stanza che la madre ha
comprato per lui, segue il contrasto tra la gioia dei suoi famigliari e la sua tristezza. Fino a quando il
mantello che si apre per un istante lascerà intravedere la ferita che lo ha ucciso.
ESERCITAZIONE
seguendo come modello il racconto di Buzzati, inventa un racconto che abbia come protagonista un
fantasma che si presenta a qualcuno, rivelando a poco a poco la sua condizione. Soffermati su una
serie di indizi che disseminerai nel testo fino a farli culminare in una situazione finale a sorpresa. Prova
anche tu ad introdurre un elemento rivelatore come il mantello di Pietro.