Maria Luisa Raineri - Convegni

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Maria Luisa Raineri - Convegni
Prefazione
Maria Luisa Raineri
Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
A trent’anni dalla legge 184/83, si potrebbe ritenere che non vi sia più
molto da dire sull’affidamento familiare, a parte doverose considerazioni connesse al monitoraggio dell’effettivo utilizzo di questo strumento. Eppure, questo
libro adotta un approccio spiccatamente originale nel panorama della cospicua
letteratura in materia, tanto da poter costituire un segnale di una nuova cultura
dell’affido e, più in generale, di una nuova cultura dei processi di aiuto nell’ambito della tutela minorile.
Per spiegare il perché, è opportuno partire da questa considerazione:
qualsiasi provvedimento che dispone l’allontanamento di un bambino dalla sua
famiglia (dai suoi genitori, o comunque dagli adulti che si prendono abitualmente
cura di lui) causa sofferenza, anche se è disposto a fin di bene.
La sofferenza generata da un allontanamento colpisce, anzitutto, il minore.
Certo, non è poi così grave se si tratta di un allontanamento «a tempo parziale», che assomiglia ad andare a trovare una zia o la famiglia di un compagno.
Tuttavia, sono uscite di casa che non si possono rifiutare, e possono creare
disagio quando il bambino capisce che dispiace anche alla mamma, al papà o
alla nonna.
Una sofferenza ben più drammatica si crea quando l’allontanamento è
a tempo pieno, forse anche senza la possibilità di vedere o sentire i familiari
quando si vuole.
E questa sofferenza è ancor più intensa quando il posto dove ci si trova
costretti a vivere è un ambiente completamente diverso da quello familiare.
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L’AFFIDO PARTECIPATO
Un posto per crescere
La sofferenza del minore che non può restare nella sua famiglia è conosciuta
da tempo, e da tempo si è cercato di affrontarla ragionando su come possano
essere ridisegnati dei luoghi adatti in cui crescere, quando non è possibile stare
con i propri genitori. Si tratta di un percorso che (limitandoci al nostro Paese)
è passato attraverso la riorganizzazione degli Istituti in piccoli nuclei abitativi,
attraverso le Comunità Alloggio per minori dai secondi anni Settanta in avanti
(Maurizio e Peirone, 1984; Ministero dell’Interno, 1985; Babolin et al., 2000;
Ricci e Spataro, 2006; Miragoli e Acquistapace, 2008; Tomisich, Castellanza e
Corbani, 2008) e soprattutto attraverso l’affido familiare nelle sue varie forme
(si vedano tra gli altri: Cirillo, 1988; Sanicola, 2002; Greco e Iafrate, 2001;
Giordano, Iavarone e Rossi, 2011).
Questo percorso ha generato molte riflessioni sull’ambiente che accoglie il bambino. Quando, dal 1983, la priorità da assegnare all’affido (a una
famiglia, preferibilmente con figli minori) è stata infine sancita e prescritta dalla
legge, l’attenzione è andata soprattutto alle famiglie affidatarie (si vedano, tra
gli altri: CAM, 1988; Bramanti, 1993; Iafrate, 2007; Saviane, 2007; Sbattella, 2007): come reperirle, selezionarle, prepararle, sostenerle, ecc. Ciò non
stupisce, perché la legge 184 ha innestato nel nostro sistema di welfare — e
proprio in uno dei settori più normati, più vincolati alle procedure e anche più
mediaticamente esposti — un tipo di intervento con un DNA completamente
diverso dalle prestazioni previste per tutti gli altri problemi sociali e in tutti gli
altri comparti. Questa differenza «genetica» sta nel prevedere per legge un
diritto (alla famiglia) e un tipo di intervento che necessitano della disponibilità
volontaria (e quindi non esigibile) di una coppia o di un singolo, che si prestino
a sostituire in parte i genitori in difficoltà. Nel 1983, e in parte ancora oggi, il
mondo dei Servizi ragionava (e ragiona) entro un orizzonte di pensiero da welfare
istituzionale, in cui spetta principalmente allo Stato il compito di predisporre le
prestazioni necessarie per rispondere ai bisogni della popolazione. Non è affatto
strano, dunque, che l’interazione con la risorsa «famiglia affidataria» — né del
tutto informale (tanto da essere prevista per legge), né del tutto formale (non
può che trattarsi di volontari) — abbia creato non solo entusiasmi, ma anche
interrogativi, fatiche, finanche resistenze. Non che il welfare istituzionale non
contempli il volontariato: ma, tranne che nell’affido, è sempre un volontariato
«integrativo», di appoggio agli operatori in seconda battuta, talvolta perfino a
coraggiosa supplenza delle carenze del sistema… ma pur sempre «qualcosa di
meno» rispetto all’intervento dei professionisti. La logica dell’affidamento familiare ribalta questa ottica di welfare istituzionale da capo a piedi: forse questo
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può aiutare a comprendere perché, da trent’anni, si continua a parlare delle
famiglie affidatarie (Raineri e Calcaterra, 2012).
In questo dibattito, si è rischiato talvolta di lasciar sfumare sullo sfondo la
consapevolezza che, anche riuscendo a chiudere gli istituti e a collocare il minore
in affido piuttosto che in comunità, l’allontanamento genera comunque sofferenza. L’affidamento familiare è una risorsa preziosa perché questa sofferenza,
quando ci sono gravi difficoltà, è preferibile alla situazione di trascuratezza o di
maltrattamento che il bambino vivrebbe restando a casa sua, ma — comunque
— resta pur sempre una sofferenza, anche se viene effettuato presso una famiglia «ideale» (ammesso che si possa capire quale sia). In altri termini, dovrebbe
essere sempre visto come il male minore, l’ultima delle strade da percorrere
quando altri possibili aiuti non bastano (Laera, 2006).
A circa una ventina d’anni dalla sua prima emanazione, la legge 149/01 ha
introdotto alcune importanti precisazioni che vanno appunto nella prospettiva
di ridurre, ove possibile, la sofferenza dell’allontanamento: è stata rafforzata
la caratteristica di temporaneità dell’affido e si è sottolineata l’importanza di
interventi di sostegno alla famiglia, che prevengano la necessità di collocare
altrove il minore (Zappa, 2008).
Vergogna, rabbia, colpa, rinuncia
Tuttavia, mi sembra che la sofferenza dell’allontanamento e dell’affido non sia
stata ancora guardata in faccia fino in fondo e, di conseguenza, alcune vie per renderla più lieve (eliminarla, realisticamente, non si può) sono ancora poco esplorate.
Mi riferisco, qui, alla sofferenza dei familiari (genitori, fratelli, altri significativi per il bambino, come un nonno, o una zia, ecc.), che si trovano a dover
sospendere la loro vita quotidiana con il minore.
Quando un genitore subisce l’allontanamento dei propri figli, l’unica cosa
che pensa è che qualcuno è entrato in casa e ha portato via i minori senza
il suo consenso. Non dimentichiamoci che, se un genitore maltratta i suoi
bambini, non significa che non li ami. Il fatto che la responsabilità dell’allontanamento sia dei genitori biologici non fa che inasprire con il senso di colpa
un dolore già forte. Come stupirsi se questi genitori, poi, si comportano in
modo irrazionale e a volte violento? O se non sono in grado di accettare la
realtà? Come biasimarli se sono riluttanti a instaurare una «buona» relazione
con le persone a cui sono stati affidati i loro figli? (Burgheim, 2002, p. 2)
I dati qualitativi raccolti da un crescente numero di ricerche (soprattutto
straniere: il tema è un po’ meno presente nel panorama italiano) documentano le
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sfaccettature e i diversi modi di manifestarsi di questo dolore, tratteggiano i fattori
che lo aggravano, ne evidenziano le conseguenze (Fernandez, 1996; Burgheim,
2002; Buckley, 2003; Cameron e Hoy, 2003; Freymond, 2003; Thomson e
Thorpe, 2003; Dumbrill, 2006; Schofield et al., 2011).
Ad esempio, nel report conclusivo di una significativa indagine qualitativa
condotta in Australia (Harries, 2008) leggiamo:
È risultato chiaro che i genitori e le famiglie dei minori presi in carico dai
Servizi di Tutela costituiscono una categoria di persone il cui continuo stress è
palpabile e spesso cronico. La maggior parte di loro vive con sentimenti irrisolti
di rabbia, colpa, vergogna e disperazione, e l’esperienza dell’allontanamento li
ha lasciati con la sensazione di non avere alcun potere e con la paura di quello
che potrebbe succedere se chiedono aiuto. Sono persone giudicate fallimentari
nel rapporto con il proprio figlio o il proprio nipote, e tutti parlano con molta
intensità di ciò che ha significato questa «sentenza» nella loro vita, e in quella
della loro famiglia. […] Alcuni riconoscono che era necessario allontanare il
loro bambino per un periodo, in modo da poter rimettere ordine nella propria
vita […] e la maggior parte non ha abbandonato la speranza. Tuttavia, tutti
mostrano di aver bisogno di essere visti come persone che necessitano di aiuto,
non solo per se stessi, ma anche per poter contribuire, per quanto possibile,
alla vita del proprio figlio. Come ci hanno detto in un’intervista: «gli operatori
sembrano non rendersene conto… i figli appartengono alla loro famiglia nel
suo insieme, non solo ai genitori… la famiglia c’è per sempre anche se il
bambino viene allontanato, alla fine tornerà, perché la sua famiglia è sempre
la sua famiglia». (p. 34)
Molti hanno parlato dell’«altra famiglia» che si prendeva cura dei loro
bambini. In particolare, hanno riportato l’assenza di contatti con gli affidatari
e la relazione spesso negativa che c’era con loro: «Così, io non faccio mai
niente che va bene, mentre invece lui (il padre affidatario) non può sbagliare.
O, almeno, non sbaglia mai troppo. Gli operatori lo adorano […]». (p. 26)
Tutti gli intervistati [genitori o familiari di minori allontanati] hanno parlato
dell’impatto corrosivo che l’intervento istituzionale ha avuto sulla loro vita e
sulle loro relazioni: sul rapporto di coppia, sui rapporti interni alla famiglia, su
quelli tra la famiglia e gli amici e i vicini […]: «Riesce a immaginare la vergogna
che provo? Come si fa a dire a qualcuno che ti hanno portato via il figlio?
Non ci si riesce». (p. 24)
Quest’ultima citazione fa riferimento al senso di vergogna: è spesso proprio
questo vissuto emotivo a caratterizzare maggiormente l’esperienza di dolore delle
famiglie che affrontano l’allontanamento di un figlio. Scrive Walker (2011, p.
323 trad. it.):
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Un dilemma peculiare del servizio sociale è legato al fatto che molti interventi professionali, come l’allontanamento dei minori dal nucleo familiare,
rischiano di indurre un fortissimo senso di vergogna nei genitori. Gli assistenti
sociali devono in qualche modo informare i genitori della necessità di cambiare
i loro comportamenti, senza rinforzare per l’ennesima volta il loro senso di
vergogna.
Un modo di reagire alla vergogna è ritirarsi in se stessi: la vergogna può
generare un blocco per cui la persona si sente sola, vulnerabile, terrorizzata e si
sforzerà quindi di nascondersi agli altri, per evitare di esporre aspetti sgradevoli di
sé (Erikson, 1950, cit. in Walker, 2011, p. 315 trad. it.). Una modalità alternativa
di reagire alla vergogna è la rabbia: chi si sente umiliato può sforzarsi, a sua volta,
di umiliare colui al quale attribuisce il proprio stato. Peraltro, ritrarsi in se stessi e
arrabbiarsi non si escludono a vicenda: alcuni passano in continuazione da una
modalità all’altra (Sheff e Retzinger, 1997, cit. in Walker, 2011, p. 316 trad. it.).
Chi nutre vergogna ha bisogno di sentirsi compreso e sincronizzato con gli
altri: un valido antidoto alla vergogna sta proprio nello sperimentare di essere
capiti e tenuti in considerazione. Dunque, lasciare ai genitori il tempo e lo spazio
necessari per raccontare la loro esperienza e le loro sensazioni rispetto all’intervento di tutela può essere un modo di alleviare la vergogna. Rischia invece di
essere controproducente uno stile di intervento basato sul «confronto», cioè sul
mettere la famiglia di fronte alle sue carenze, utilizzando il potere istituzionale e
coinvolgendo anche soggetti terzi (ad esempio la scuola, l’autorità giudiziaria o
gli operatori sanitari) per premere in direzione di un cambiamento. Questo stile
di intervento, infatti, ha come effetto quello di far crescere il senso di vergogna,
la qual cosa tende a rafforzare il comportamento problematico, anziché ridurlo.
L’obiettivo dovrebbe essere invece quello di ridurre e alleviare sofferenza e vergogna: tendono così a ridursi anche la negazione e i motivi per coltivare rabbia
e rancore (Walker, 2011).
Così, se per gli operatori è comprensibilmente difficile accogliere un dolore
che si sentono accusati di aver contribuito a creare, per la famiglia è molto difficile
vedere accolto il proprio dolore in qualsiasi contesto, sia nei servizi sia fuori. Il
dolore, come la vergogna, se non viene accolto si trasforma facilmente in rabbia e/o in reazioni di chiusura emotiva di evitamento. Dolore, rabbia, chiusura,
sentimenti di lutto e perdita sono presenti anche quando la famiglia riconosce la
necessità degli interventi degli operatori e dell’allontanamento.
La rabbia porta a esacerbare la contrapposizione con gli operatori e ciò fa
saltare le basi per qualsiasi relazione di aiuto. Anche se apparentemente l’atteggiamento può essere collaborativo, è probabile che la collaborazione sia puramente
strumentale e quindi salti alla prima piccola difficoltà. L’evitamento e la chiusura
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emotiva sono anch’essi atteggiamenti che non permettono lo sviluppo di una
relazione di aiuto e, cosa ancor più grave, portano i familiari a ritirarsi anche dal
rapporto con il minore.
La cosa più difficile per una mamma a cui hanno allontanato i figli è vederli,
e poi doverli lasciare di nuovo. È quella la cosa più terrificante. È molto più
facile non vederli più. (Harries, 2008, p. 24)
La rabbia, l’evitamento o entrambi possono apparire ai Servizi come una
conferma dell’inadeguatezza dei genitori, in un meccanismo molto simile alla
profezia che si auto-avvera. Se gli operatori, di conseguenza, intensificano l’azione di tutela, i familiari possono verosimilmente sentirsi ancora di più giudicati e
non accolti, e così i margini per costruire una relazione di aiuto si assottigliano
ulteriormente. Non è strano, allora, che molti affidi diventino di fatto sine die,
cioè a tempo indeterminato, al di là delle intenzioni e delle «prognosi» iniziali.
Tutto ciò ha evidentemente delle conseguenze pesanti anche sulla vita del
minore, sia rispetto alle prospettive di riunificazione alla famiglia, sia anche quando — per gravi difficoltà oggettive — fin dall’inizio dell’affido non sia realistico
pensare a un rientro, se non nel lungo periodo. Infatti, è soprattutto nei casi in
cui sembra ci siano poche possibilità che il figlio ritorni a casa che è importante
chiedersi come fare in modo che i genitori non si scoraggino e chiudano ogni
contatto (Thomson e Thorpe, 2010).
Fare spazio alla speranza
Dato che la sofferenza dei genitori e/o dei familiari è così rilevante per la
vita presente e per il futuro di un bambino in affido, viene da chiedersi se sia una
sofferenza proprio non alleviabile: è anch’essa una parte necessaria del «male
minore», e gli operatori non possono fare altro che cercare di «attutire l’impatto»
sul bambino e gli affidatari, facendo da tramite nei rapporti tra loro, da un lato,
e la famiglia di origine, dall’altro?
Questo libro ci mostra che non è affatto così. L’idea alla base del volume,
e anche alla base dei molti anni di concreta sperimentazione delle pratiche che
l’autrice ci propone, è che le persone e le famiglie, pur se in gravi difficoltà, non
hanno soltanto problemi, ma anche risorse. Anzi, le risorse possono venir fuori
proprio a partire dalle difficoltà (Folgheraiter, 2009).
È però necessario fare spazio perché le risorse si manifestino e perché la
vergogna possa trasformarsi in speranza, nella fiducia di un miglioramento possibile. Nel concreto, ciò significa anzitutto andare a valutare con molta attenzione
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qual è il minimo di limitazione delle funzioni genitoriali necessario a tutelare il
bambino in quella specifica situazione, e lavorare poi perché i genitori continuino
a prendersi cura di tutto il resto, aiutandoli — se possibile — a farlo ancor meglio
di prima (Raineri, 2010).
Fare il genitore è l’unico modo per imparare a essere madre, padre. […]
Come scriveva Winnicott: «Nel lavoro di crescere i figli, le cose importanti si
fanno momento per momento, mentre accadono i fatti della vita. Non esistono
lezioni, né momenti specifici per imparare» (Winnicott, 1939-1962, p. 31,
ed. 1993).[…] «Si possono raggiungere ottimi risultati utilizzando ciò che la
persona sente, pensa o fa, costruendo a partire da questa premessa una base
di discussione per ottenere una comprensione più ampia. In questo modo,
l’informazione circola e chi ascolta non perderà la fiducia in se stesso. Non è
facile insegnare con questo sistema, perché bisogna rendersi conto di quanto
noi stessi siamo in una condizione di ignoranza» (Winnicott, 1939-1962, p.
3, ed. 1993). (Formenti, 2008, p. 87)
All’avvio di un affido, la limitazione necessaria è costituita dal collocamento
extrafamiliare, ma ciò non significa che i genitori non possano o non vogliano più
essere coinvolti nella vita del proprio figlio. Come andremo a leggere in questo
volume, e come confermano anche alcuni dati di ricerca, se alla famiglia viene
data la possibilità di partecipare, nella netta maggioranza dei casi questa possibilità
viene accolta e utilizzata, anche quando la base di partenza è un provvedimento
non consensuale, magari fortemente osteggiato.
Si possono identificare alcuni tratti trasversali riguardo alle esperienze dei
minori e delle famiglie coinvolte [in processi decisionali partecipativi]. È da
notare che si tratta di elementi positivi quanto all’impatto di questo modello
sul benessere dei minori.
– La maggior parte delle famiglie ha, nella sua rete di parenti e di amici,
persone desiderose e capaci di dare un contributo per aiutare a risolvere le
difficoltà.
– Le famiglie sono in grado di incontrarsi e pianificare senza ripercussioni
negative sulla sicurezza e il benessere delle persone coinvolte.
– Le famiglie sono disponibili a lavorare in maniera collaborativa con le autorità
istituzionali.
– Si rileva un incremento nella cura del minore da parte dei parenti, dei caregiver informali e dei professionisti.
– La percentuale di soddisfazione nei minori e nelle famiglie è consistente.
(Morris, 2008, p. 329)
Come mai, allora, l’esperienza sul campo di tanti operatori sociali sembra
riportare la presenza di due categorie di famiglie, quelle «collaboranti» e quelle
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«non collaboranti» (Premoli e Mairani, 2012), anche quando gli operatori stessi
dicono che il progetto di affido viene «condiviso» con i genitori? Credo si tratti
di intendersi bene su cosa significhi condividere un progetto e, più in generale,
sul senso autentico della partecipazione e della collaborazione (Raineri, 2011).
Condividere può voler dire comunicare ai genitori cosa gli operatori hanno
pensato per il loro bambino (e per la loro famiglia). Ciò ha un suo valore, perché
va nella direzione della trasparenza e della lealtà, indicate come punti critici nei
report di ricerca (Bundy-Fazioli, Briar-Lawson e Hardiman, 2008; Harries, 2008).
Tuttavia, mettere al corrente qualcuno non significa chiedere il suo parere, e ancor
meno significa che lui o lei condivida, nel senso di essere d’accordo.
Far partecipare i genitori e i familiari può voler dire suggerire o indicare loro
dei compiti da svolgere, augurandosi poi che collaborino facendo effettivamente
quello che abbiamo detto noi operatori. Anche questo può forse avere un suo
valore, perché comunque non taglia fuori dalla vita del bambino delle persone così
importanti per lui. Tuttavia, spesso non si tiene abbastanza in conto che questo
tipo di collaborazione è a senso unico: sono i genitori che devono collaborare,
adattandosi a quel che dicono gli operatori (Premoli e Mairani, 2012).
I processi di partecipazione, nonostante le buone intenzioni, diventano
paternalistici quando i professionisti, in quanto «esperti», manovrano l’utente
verso un obiettivo che loro ritengono il migliore. C’è paternalismo anche
quando i processi di empowerment vengono gestiti in modo che non vadano
oltre certi confini ben definiti. (Kvarnström, Hedberg e Cedersund, 2013,
pp. 361-362 trad. it.)
Il paternalismo si percepisce in affermazioni degli operatori come: «[Questo
genitore] sta iniziando ad accettare di lasciarsi guidare e si comporta benissimo».
(Bundy-Fazioli, Briar-Lawson e Hardiman, 2008, p. 181 trad. it.)
La partecipazione inquinata dal paternalismo porta a una collaborazione
fragile, che fatica a reggere nel tempo e tende a sfilacciarsi appena si allenta il
controllo sulla situazione, o perché i genitori fino a lì si sono adeguati strumentalmente, senza essere convinti che quelle indicazioni vadano davvero bene per
loro, oppure perché le seguono in maniera passiva, senza maturare una qualche
capacità di direzionamento autonomo.
L’idea di partecipazione che viene delineata in questo libro è di tutt’altro
tenore. Si tratta di una partecipazione che risulta effettivamente possibile, e porta
frutti, perché si fonda su una distribuzione del potere diversa da quella a cui siamo
abituati a pensare nella relazione tra famiglie e operatori della tutela minorile. Il
potere è comunemente inteso in senso gerarchico, cioè come esercizio di controllo
di una persona su un’altra, o come capacità di una persona (che detiene il potere)
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di provocare cambiamenti in un’altra. È un dato di fatto che i provvedimenti di
tutela impongono determinati interventi e gli operatori dei Servizi per minori sono
tenuti a occuparsi della situazione con un mandato ben preciso: questo potere
gerarchico non si può negare. Tuttavia, l’idea di condividere fin dove possibile le
decisioni attraverso processi negoziali (Folgheraiter, 2005; Raineri, 2007) può
essere realizzabile.
In genere per «potere» si intende potere-su qualcuno — il potere di una
persona o di un gruppo su un’altra persona o su un altro gruppo — ma è
possibile sviluppare invece un potere-con, un potere congiunto, co-attivo, non
coercitivo. (Follett, cit. in Graham, 1995, p. 103)
È proprio questo che spiega il libro: come costruire questo potere con i
familiari, contro le difficoltà che stanno attraversando. In altri termini: quale
approccio e quali azioni degli operatori possono rendere fattibile e produttiva
un’autentica partecipazione della famiglia di origine al percorso di affido.
Ma il contributo del testo non si ferma qui: come si vedrà, lo sguardo metodologico dell’autrice, e assieme l’azione concreta dei vari professionisti coinvolti
nella sperimentazione sul campo, si allargano a sviluppare un processo partecipativo in cui tutti i soggetti coinvolti abbiano spazio di voce, e di azione. Non
solo la famiglia di origine, dunque, ma anche la famiglia affidataria, gli eventuali
figli che ne fanno parte e, soprattutto, il bambino affidato (Dalrymple e Boylan,
2009). Questa partecipazione allargata è possibile a partire dalle stesse premesse
su cui si basa la partecipazione della famiglia di origine.
In sostanza, quando la direzione che orienta l’intervento degli operatori
è quella di utilizzare il potere della loro posizione istituzionale e professionale
per controllare e influenzare le azioni delle persone secondo un progetto che
gli operatori, in quanto esperti, hanno in mente, allora non è solo la famiglia di
origine a dover «collaborare», nel senso di adeguarsi. Anche la famiglia affidataria
è pensata come un soggetto che dovrebbe collaborare allo stesso modo, e va
quindi accuratamente selezionata e preparata per essere in grado di svolgere
questo suo ruolo di coadiuvante dei professionisti.
Il bambino o ragazzo, da parte sua, è concepito come il destinatario dell’intervento, e quindi è soprattutto lui, o lei, a dover fare ciò che decidono gli operatori per il suo bene. In quest’ottica, che è tutta incentrata sulla responsabilità dei
professionisti, chiedere al diretto interessato cosa pensa di quanto sta accadendo,
o cosa vorrebbe per se stesso, viene considerato un rischio, perché — sentiamo
spesso dire dagli operatori — caricherebbe il bambino di una responsabilità eccessiva. In realtà, è facile comprendere che ascoltare il punto di vista di qualcuno
non è la stessa cosa che lasciarlo decidere da solo: il fatto che queste due azioni
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vengano messe sullo stesso piano la dice lunga — credo — sulle difficoltà che
vivono gli esperti dei Servizi minorili nella gestione del potere.
Quando, invece, l’approccio che orienta gli operatori è quello della partecipazione e della collaborazione il più possibile paritaria (pur all’interno dei
confini tracciati dall’eventuale provvedimento giudiziario), allora si può creare un
contesto adatto ad ascoltare, ad accogliere le sofferenze e la rabbia, a prendere
rispettosamente sul serio ogni aspettativa e ogni esigenza, a ragionarci sopra e
a cercare assieme il modo di soddisfarla, o almeno di avvicinarvisi, se appena
possibile. E, come ci racconta molto bene questo volume, difficilmente in un contesto del genere, in cui le persone non si sentono giudicate a priori ma accolte,
emergono esigenze irragionevoli, oppure, le poche volte in cui questo succede,
c’è il margine per rielaborarle cercando una mediazione accettabile per tutti.
Una nuova cultura
Il volume sa tenere assieme gli essenziali riferimenti metodologici al lavoro
sociale relazionale (Folgheraiter, 2011) con una grande ricchezza di suggerimenti
pratici e di esempi, che accompagnano passo per passo il lettore nel figurarsi
come sia concretamente realizzabile la partecipazione. Tuttavia, il taglio operativo
non deve ingannare: quanto viene descritto non va preso come un mero insieme
di tecniche per migliorare gli interventi rivolti alle famiglie in difficoltà. Credo
invece sia molto di più: come dicevo all’inizio, questo libro contribuisce a segnare
una svolta nella cultura dell’affido, e più in generale nella cultura dei Servizi per la
tutela dei minori, una svolta che da pochi anni sembra si stia avviando nel panorama italiano. Prendendo a prestito, da tutt’altro ambito, una schematizzazione
di Tom Kitwood (1997, p. 136), possiamo forse parlare di una «vecchia» e di una
«nuova» cultura dell’affidamento familiare e della tutela minorile.
L’inadeguatezza nell’accudimento genitoriale, nella vecchia cultura, è vista
tendenzialmente come indice di «patologie» familiari. Nella nuova cultura, è
considerata una difficoltà che può derivare da varie cause, talvolta da patologie
individuali o delle relazioni familiari, ma non solo: anche dalle condizioni strutturali
in cui vive la famiglia, dalle capacità e dalle risorse di cui dispone, dalle scelte di
vita dei suoi componenti. Quali che siano le cause, il modo e l’intensità con cui
queste difficoltà si manifestano dipendono in maniera significativa dalla qualità
degli aiuti su cui le famiglie possono contare.
Nella vecchia cultura, i principali depositari delle conoscenze riguardo a
come affrontare le difficoltà genitoriali e a come migliorare la situazione dei minori
sono gli esperti di psicologia, di pedagogia e di lavoro sociale. Nella nuova cultu-
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ra, viene attribuita altrettanta rilevanza al punto di vista delle famiglie (sia quella
affidante sia quella affidataria) in merito a quanto sentono fattibile e positivo per
loro stesse, nella cornice degli eventuali vincoli giudiziari. Soprattutto, il contributo
dei bambini o dei ragazzi, per come lo possono e lo vogliono esprimere, viene
considerato di centrale importanza.
Nella vecchia cultura, l’intervento è concepito prevalentemente come erogazione, alle famiglie, di prestazioni valutate come opportune dagli operatori
(prestazioni economiche se necessario, o di assistenza educativa domiciliare, o
di semi-residenzialità, ecc.). Se ciò non è sufficiente, si procede al collocamento
residenziale in affidamento o in comunità, o in casi estremi in adozione. Nella
nuova cultura, l’aiuto è concepito soprattutto come creazione di contesti in cui
le famiglie possano più agevolmente ragionare sulle proprie difficoltà e, pur nel
quadro degli eventuali vincoli giuridici, possano decidere cosa fare, chi coinvolgere
e quali aiuti concreti richiedere, se lo ritengono necessario.
Nella vecchia cultura, è considerato prioritario individuare in maniera chiara
e accurata le carenze delle famiglie e dei minori. Nella nuova cultura, è importante
comprendere a fondo le preoccupazioni, le capacità, le preferenze, gli interessi,
i valori, le aspirazioni delle famiglie e dei minori. Ogni genitore, ogni bambino o
ragazzo e ogni famiglia ha le sue preoccupazioni, le sue difficoltà e i suoi punti
di forza.
Nella vecchia cultura, i comportamenti problematici sono considerati
qualcosa da modificare utilizzando, ove non bastino i suggerimenti o i consigli,
l’influenza (la pressione) basata sul potere istituzionale dei Servizi e/o sul potere
professionale degli operatori. Nella nuova cultura, più che ai comportamenti problematici si guarda al desiderio di migliorare, per quanto fragile e contradditorio
possa essere, si cerca di riconoscerlo, di rafforzarlo e di svilupparlo nelle direzioni
che i diretti interessanti trovano più confacenti per loro stessi.
Nella vecchia cultura, agli operatori viene chiesto di mettere da parte i propri
sentimenti, le proprie preoccupazioni e le proprie fragilità per lavorare in maniera obiettiva. Nella nuova cultura, un aspetto molto importante sta nell’essere in
contatto con le proprie preoccupazioni, i propri sentimenti e le proprie fragilità
per poterle trasformare in risorse di empatia, da valorizzare nel proprio lavoro.
La nuova cultura pone su uno stesso piano persone che appartengono a
categorie molto diverse e cerca di abbassare le barriere «noi/loro» che ostacolano
un incontro autentico, da cui può scaturire l’aiuto. La più ovvia di queste barriere
è quella tra chi ha bisogno di aiuto (ed è fallimentare, incapace, «cattivo») e chi dà
aiuto (che invece è competente, bravo, buono). Ma ce ne sono anche altre: tra i
caregiver familiari, parenti o amici, e gli operatori professionisti; tra professionisti
e volontari; tra la comunità locale e le famiglie in difficoltà. Il merito di questo
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L’AFFIDO PARTECIPATO
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