Maria Luisa Raineri - Convegni
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Maria Luisa Raineri - Convegni
Prefazione Maria Luisa Raineri Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano A trent’anni dalla legge 184/83, si potrebbe ritenere che non vi sia più molto da dire sull’affidamento familiare, a parte doverose considerazioni connesse al monitoraggio dell’effettivo utilizzo di questo strumento. Eppure, questo libro adotta un approccio spiccatamente originale nel panorama della cospicua letteratura in materia, tanto da poter costituire un segnale di una nuova cultura dell’affido e, più in generale, di una nuova cultura dei processi di aiuto nell’ambito della tutela minorile. Per spiegare il perché, è opportuno partire da questa considerazione: qualsiasi provvedimento che dispone l’allontanamento di un bambino dalla sua famiglia (dai suoi genitori, o comunque dagli adulti che si prendono abitualmente cura di lui) causa sofferenza, anche se è disposto a fin di bene. La sofferenza generata da un allontanamento colpisce, anzitutto, il minore. Certo, non è poi così grave se si tratta di un allontanamento «a tempo parziale», che assomiglia ad andare a trovare una zia o la famiglia di un compagno. Tuttavia, sono uscite di casa che non si possono rifiutare, e possono creare disagio quando il bambino capisce che dispiace anche alla mamma, al papà o alla nonna. Una sofferenza ben più drammatica si crea quando l’allontanamento è a tempo pieno, forse anche senza la possibilità di vedere o sentire i familiari quando si vuole. E questa sofferenza è ancor più intensa quando il posto dove ci si trova costretti a vivere è un ambiente completamente diverso da quello familiare. © Raineri M. L. – Convegno internazionale “Prendiamoci cura di me. Pratiche e innovazioni in tutela dei minori” – 13 e 14 maggio 2016 8 L’AFFIDO PARTECIPATO Un posto per crescere La sofferenza del minore che non può restare nella sua famiglia è conosciuta da tempo, e da tempo si è cercato di affrontarla ragionando su come possano essere ridisegnati dei luoghi adatti in cui crescere, quando non è possibile stare con i propri genitori. Si tratta di un percorso che (limitandoci al nostro Paese) è passato attraverso la riorganizzazione degli Istituti in piccoli nuclei abitativi, attraverso le Comunità Alloggio per minori dai secondi anni Settanta in avanti (Maurizio e Peirone, 1984; Ministero dell’Interno, 1985; Babolin et al., 2000; Ricci e Spataro, 2006; Miragoli e Acquistapace, 2008; Tomisich, Castellanza e Corbani, 2008) e soprattutto attraverso l’affido familiare nelle sue varie forme (si vedano tra gli altri: Cirillo, 1988; Sanicola, 2002; Greco e Iafrate, 2001; Giordano, Iavarone e Rossi, 2011). Questo percorso ha generato molte riflessioni sull’ambiente che accoglie il bambino. Quando, dal 1983, la priorità da assegnare all’affido (a una famiglia, preferibilmente con figli minori) è stata infine sancita e prescritta dalla legge, l’attenzione è andata soprattutto alle famiglie affidatarie (si vedano, tra gli altri: CAM, 1988; Bramanti, 1993; Iafrate, 2007; Saviane, 2007; Sbattella, 2007): come reperirle, selezionarle, prepararle, sostenerle, ecc. Ciò non stupisce, perché la legge 184 ha innestato nel nostro sistema di welfare — e proprio in uno dei settori più normati, più vincolati alle procedure e anche più mediaticamente esposti — un tipo di intervento con un DNA completamente diverso dalle prestazioni previste per tutti gli altri problemi sociali e in tutti gli altri comparti. Questa differenza «genetica» sta nel prevedere per legge un diritto (alla famiglia) e un tipo di intervento che necessitano della disponibilità volontaria (e quindi non esigibile) di una coppia o di un singolo, che si prestino a sostituire in parte i genitori in difficoltà. Nel 1983, e in parte ancora oggi, il mondo dei Servizi ragionava (e ragiona) entro un orizzonte di pensiero da welfare istituzionale, in cui spetta principalmente allo Stato il compito di predisporre le prestazioni necessarie per rispondere ai bisogni della popolazione. Non è affatto strano, dunque, che l’interazione con la risorsa «famiglia affidataria» — né del tutto informale (tanto da essere prevista per legge), né del tutto formale (non può che trattarsi di volontari) — abbia creato non solo entusiasmi, ma anche interrogativi, fatiche, finanche resistenze. Non che il welfare istituzionale non contempli il volontariato: ma, tranne che nell’affido, è sempre un volontariato «integrativo», di appoggio agli operatori in seconda battuta, talvolta perfino a coraggiosa supplenza delle carenze del sistema… ma pur sempre «qualcosa di meno» rispetto all’intervento dei professionisti. La logica dell’affidamento familiare ribalta questa ottica di welfare istituzionale da capo a piedi: forse questo © Raineri M. L. – Convegno internazionale “Prendiamoci cura di me. Pratiche e innovazioni in tutela dei minori” – 13 e 14 maggio 2016 PREFAZIONE 9 può aiutare a comprendere perché, da trent’anni, si continua a parlare delle famiglie affidatarie (Raineri e Calcaterra, 2012). In questo dibattito, si è rischiato talvolta di lasciar sfumare sullo sfondo la consapevolezza che, anche riuscendo a chiudere gli istituti e a collocare il minore in affido piuttosto che in comunità, l’allontanamento genera comunque sofferenza. L’affidamento familiare è una risorsa preziosa perché questa sofferenza, quando ci sono gravi difficoltà, è preferibile alla situazione di trascuratezza o di maltrattamento che il bambino vivrebbe restando a casa sua, ma — comunque — resta pur sempre una sofferenza, anche se viene effettuato presso una famiglia «ideale» (ammesso che si possa capire quale sia). In altri termini, dovrebbe essere sempre visto come il male minore, l’ultima delle strade da percorrere quando altri possibili aiuti non bastano (Laera, 2006). A circa una ventina d’anni dalla sua prima emanazione, la legge 149/01 ha introdotto alcune importanti precisazioni che vanno appunto nella prospettiva di ridurre, ove possibile, la sofferenza dell’allontanamento: è stata rafforzata la caratteristica di temporaneità dell’affido e si è sottolineata l’importanza di interventi di sostegno alla famiglia, che prevengano la necessità di collocare altrove il minore (Zappa, 2008). Vergogna, rabbia, colpa, rinuncia Tuttavia, mi sembra che la sofferenza dell’allontanamento e dell’affido non sia stata ancora guardata in faccia fino in fondo e, di conseguenza, alcune vie per renderla più lieve (eliminarla, realisticamente, non si può) sono ancora poco esplorate. Mi riferisco, qui, alla sofferenza dei familiari (genitori, fratelli, altri significativi per il bambino, come un nonno, o una zia, ecc.), che si trovano a dover sospendere la loro vita quotidiana con il minore. Quando un genitore subisce l’allontanamento dei propri figli, l’unica cosa che pensa è che qualcuno è entrato in casa e ha portato via i minori senza il suo consenso. Non dimentichiamoci che, se un genitore maltratta i suoi bambini, non significa che non li ami. Il fatto che la responsabilità dell’allontanamento sia dei genitori biologici non fa che inasprire con il senso di colpa un dolore già forte. Come stupirsi se questi genitori, poi, si comportano in modo irrazionale e a volte violento? O se non sono in grado di accettare la realtà? Come biasimarli se sono riluttanti a instaurare una «buona» relazione con le persone a cui sono stati affidati i loro figli? (Burgheim, 2002, p. 2) I dati qualitativi raccolti da un crescente numero di ricerche (soprattutto straniere: il tema è un po’ meno presente nel panorama italiano) documentano le © Raineri M. L. – Convegno internazionale “Prendiamoci cura di me. Pratiche e innovazioni in tutela dei minori” – 13 e 14 maggio 2016 10 L’AFFIDO PARTECIPATO sfaccettature e i diversi modi di manifestarsi di questo dolore, tratteggiano i fattori che lo aggravano, ne evidenziano le conseguenze (Fernandez, 1996; Burgheim, 2002; Buckley, 2003; Cameron e Hoy, 2003; Freymond, 2003; Thomson e Thorpe, 2003; Dumbrill, 2006; Schofield et al., 2011). Ad esempio, nel report conclusivo di una significativa indagine qualitativa condotta in Australia (Harries, 2008) leggiamo: È risultato chiaro che i genitori e le famiglie dei minori presi in carico dai Servizi di Tutela costituiscono una categoria di persone il cui continuo stress è palpabile e spesso cronico. La maggior parte di loro vive con sentimenti irrisolti di rabbia, colpa, vergogna e disperazione, e l’esperienza dell’allontanamento li ha lasciati con la sensazione di non avere alcun potere e con la paura di quello che potrebbe succedere se chiedono aiuto. Sono persone giudicate fallimentari nel rapporto con il proprio figlio o il proprio nipote, e tutti parlano con molta intensità di ciò che ha significato questa «sentenza» nella loro vita, e in quella della loro famiglia. […] Alcuni riconoscono che era necessario allontanare il loro bambino per un periodo, in modo da poter rimettere ordine nella propria vita […] e la maggior parte non ha abbandonato la speranza. Tuttavia, tutti mostrano di aver bisogno di essere visti come persone che necessitano di aiuto, non solo per se stessi, ma anche per poter contribuire, per quanto possibile, alla vita del proprio figlio. Come ci hanno detto in un’intervista: «gli operatori sembrano non rendersene conto… i figli appartengono alla loro famiglia nel suo insieme, non solo ai genitori… la famiglia c’è per sempre anche se il bambino viene allontanato, alla fine tornerà, perché la sua famiglia è sempre la sua famiglia». (p. 34) Molti hanno parlato dell’«altra famiglia» che si prendeva cura dei loro bambini. In particolare, hanno riportato l’assenza di contatti con gli affidatari e la relazione spesso negativa che c’era con loro: «Così, io non faccio mai niente che va bene, mentre invece lui (il padre affidatario) non può sbagliare. O, almeno, non sbaglia mai troppo. Gli operatori lo adorano […]». (p. 26) Tutti gli intervistati [genitori o familiari di minori allontanati] hanno parlato dell’impatto corrosivo che l’intervento istituzionale ha avuto sulla loro vita e sulle loro relazioni: sul rapporto di coppia, sui rapporti interni alla famiglia, su quelli tra la famiglia e gli amici e i vicini […]: «Riesce a immaginare la vergogna che provo? Come si fa a dire a qualcuno che ti hanno portato via il figlio? Non ci si riesce». (p. 24) Quest’ultima citazione fa riferimento al senso di vergogna: è spesso proprio questo vissuto emotivo a caratterizzare maggiormente l’esperienza di dolore delle famiglie che affrontano l’allontanamento di un figlio. Scrive Walker (2011, p. 323 trad. it.): © Raineri M. L. – Convegno internazionale “Prendiamoci cura di me. Pratiche e innovazioni in tutela dei minori” – 13 e 14 maggio 2016 PREFAZIONE 11 Un dilemma peculiare del servizio sociale è legato al fatto che molti interventi professionali, come l’allontanamento dei minori dal nucleo familiare, rischiano di indurre un fortissimo senso di vergogna nei genitori. Gli assistenti sociali devono in qualche modo informare i genitori della necessità di cambiare i loro comportamenti, senza rinforzare per l’ennesima volta il loro senso di vergogna. Un modo di reagire alla vergogna è ritirarsi in se stessi: la vergogna può generare un blocco per cui la persona si sente sola, vulnerabile, terrorizzata e si sforzerà quindi di nascondersi agli altri, per evitare di esporre aspetti sgradevoli di sé (Erikson, 1950, cit. in Walker, 2011, p. 315 trad. it.). Una modalità alternativa di reagire alla vergogna è la rabbia: chi si sente umiliato può sforzarsi, a sua volta, di umiliare colui al quale attribuisce il proprio stato. Peraltro, ritrarsi in se stessi e arrabbiarsi non si escludono a vicenda: alcuni passano in continuazione da una modalità all’altra (Sheff e Retzinger, 1997, cit. in Walker, 2011, p. 316 trad. it.). Chi nutre vergogna ha bisogno di sentirsi compreso e sincronizzato con gli altri: un valido antidoto alla vergogna sta proprio nello sperimentare di essere capiti e tenuti in considerazione. Dunque, lasciare ai genitori il tempo e lo spazio necessari per raccontare la loro esperienza e le loro sensazioni rispetto all’intervento di tutela può essere un modo di alleviare la vergogna. Rischia invece di essere controproducente uno stile di intervento basato sul «confronto», cioè sul mettere la famiglia di fronte alle sue carenze, utilizzando il potere istituzionale e coinvolgendo anche soggetti terzi (ad esempio la scuola, l’autorità giudiziaria o gli operatori sanitari) per premere in direzione di un cambiamento. Questo stile di intervento, infatti, ha come effetto quello di far crescere il senso di vergogna, la qual cosa tende a rafforzare il comportamento problematico, anziché ridurlo. L’obiettivo dovrebbe essere invece quello di ridurre e alleviare sofferenza e vergogna: tendono così a ridursi anche la negazione e i motivi per coltivare rabbia e rancore (Walker, 2011). Così, se per gli operatori è comprensibilmente difficile accogliere un dolore che si sentono accusati di aver contribuito a creare, per la famiglia è molto difficile vedere accolto il proprio dolore in qualsiasi contesto, sia nei servizi sia fuori. Il dolore, come la vergogna, se non viene accolto si trasforma facilmente in rabbia e/o in reazioni di chiusura emotiva di evitamento. Dolore, rabbia, chiusura, sentimenti di lutto e perdita sono presenti anche quando la famiglia riconosce la necessità degli interventi degli operatori e dell’allontanamento. La rabbia porta a esacerbare la contrapposizione con gli operatori e ciò fa saltare le basi per qualsiasi relazione di aiuto. Anche se apparentemente l’atteggiamento può essere collaborativo, è probabile che la collaborazione sia puramente strumentale e quindi salti alla prima piccola difficoltà. L’evitamento e la chiusura © Raineri M. L. – Convegno internazionale “Prendiamoci cura di me. Pratiche e innovazioni in tutela dei minori” – 13 e 14 maggio 2016 12 L’AFFIDO PARTECIPATO emotiva sono anch’essi atteggiamenti che non permettono lo sviluppo di una relazione di aiuto e, cosa ancor più grave, portano i familiari a ritirarsi anche dal rapporto con il minore. La cosa più difficile per una mamma a cui hanno allontanato i figli è vederli, e poi doverli lasciare di nuovo. È quella la cosa più terrificante. È molto più facile non vederli più. (Harries, 2008, p. 24) La rabbia, l’evitamento o entrambi possono apparire ai Servizi come una conferma dell’inadeguatezza dei genitori, in un meccanismo molto simile alla profezia che si auto-avvera. Se gli operatori, di conseguenza, intensificano l’azione di tutela, i familiari possono verosimilmente sentirsi ancora di più giudicati e non accolti, e così i margini per costruire una relazione di aiuto si assottigliano ulteriormente. Non è strano, allora, che molti affidi diventino di fatto sine die, cioè a tempo indeterminato, al di là delle intenzioni e delle «prognosi» iniziali. Tutto ciò ha evidentemente delle conseguenze pesanti anche sulla vita del minore, sia rispetto alle prospettive di riunificazione alla famiglia, sia anche quando — per gravi difficoltà oggettive — fin dall’inizio dell’affido non sia realistico pensare a un rientro, se non nel lungo periodo. Infatti, è soprattutto nei casi in cui sembra ci siano poche possibilità che il figlio ritorni a casa che è importante chiedersi come fare in modo che i genitori non si scoraggino e chiudano ogni contatto (Thomson e Thorpe, 2010). Fare spazio alla speranza Dato che la sofferenza dei genitori e/o dei familiari è così rilevante per la vita presente e per il futuro di un bambino in affido, viene da chiedersi se sia una sofferenza proprio non alleviabile: è anch’essa una parte necessaria del «male minore», e gli operatori non possono fare altro che cercare di «attutire l’impatto» sul bambino e gli affidatari, facendo da tramite nei rapporti tra loro, da un lato, e la famiglia di origine, dall’altro? Questo libro ci mostra che non è affatto così. L’idea alla base del volume, e anche alla base dei molti anni di concreta sperimentazione delle pratiche che l’autrice ci propone, è che le persone e le famiglie, pur se in gravi difficoltà, non hanno soltanto problemi, ma anche risorse. Anzi, le risorse possono venir fuori proprio a partire dalle difficoltà (Folgheraiter, 2009). È però necessario fare spazio perché le risorse si manifestino e perché la vergogna possa trasformarsi in speranza, nella fiducia di un miglioramento possibile. Nel concreto, ciò significa anzitutto andare a valutare con molta attenzione © Raineri M. L. – Convegno internazionale “Prendiamoci cura di me. Pratiche e innovazioni in tutela dei minori” – 13 e 14 maggio 2016 PREFAZIONE 13 qual è il minimo di limitazione delle funzioni genitoriali necessario a tutelare il bambino in quella specifica situazione, e lavorare poi perché i genitori continuino a prendersi cura di tutto il resto, aiutandoli — se possibile — a farlo ancor meglio di prima (Raineri, 2010). Fare il genitore è l’unico modo per imparare a essere madre, padre. […] Come scriveva Winnicott: «Nel lavoro di crescere i figli, le cose importanti si fanno momento per momento, mentre accadono i fatti della vita. Non esistono lezioni, né momenti specifici per imparare» (Winnicott, 1939-1962, p. 31, ed. 1993).[…] «Si possono raggiungere ottimi risultati utilizzando ciò che la persona sente, pensa o fa, costruendo a partire da questa premessa una base di discussione per ottenere una comprensione più ampia. In questo modo, l’informazione circola e chi ascolta non perderà la fiducia in se stesso. Non è facile insegnare con questo sistema, perché bisogna rendersi conto di quanto noi stessi siamo in una condizione di ignoranza» (Winnicott, 1939-1962, p. 3, ed. 1993). (Formenti, 2008, p. 87) All’avvio di un affido, la limitazione necessaria è costituita dal collocamento extrafamiliare, ma ciò non significa che i genitori non possano o non vogliano più essere coinvolti nella vita del proprio figlio. Come andremo a leggere in questo volume, e come confermano anche alcuni dati di ricerca, se alla famiglia viene data la possibilità di partecipare, nella netta maggioranza dei casi questa possibilità viene accolta e utilizzata, anche quando la base di partenza è un provvedimento non consensuale, magari fortemente osteggiato. Si possono identificare alcuni tratti trasversali riguardo alle esperienze dei minori e delle famiglie coinvolte [in processi decisionali partecipativi]. È da notare che si tratta di elementi positivi quanto all’impatto di questo modello sul benessere dei minori. – La maggior parte delle famiglie ha, nella sua rete di parenti e di amici, persone desiderose e capaci di dare un contributo per aiutare a risolvere le difficoltà. – Le famiglie sono in grado di incontrarsi e pianificare senza ripercussioni negative sulla sicurezza e il benessere delle persone coinvolte. – Le famiglie sono disponibili a lavorare in maniera collaborativa con le autorità istituzionali. – Si rileva un incremento nella cura del minore da parte dei parenti, dei caregiver informali e dei professionisti. – La percentuale di soddisfazione nei minori e nelle famiglie è consistente. (Morris, 2008, p. 329) Come mai, allora, l’esperienza sul campo di tanti operatori sociali sembra riportare la presenza di due categorie di famiglie, quelle «collaboranti» e quelle © Raineri M. L. – Convegno internazionale “Prendiamoci cura di me. Pratiche e innovazioni in tutela dei minori” – 13 e 14 maggio 2016 14 L’AFFIDO PARTECIPATO «non collaboranti» (Premoli e Mairani, 2012), anche quando gli operatori stessi dicono che il progetto di affido viene «condiviso» con i genitori? Credo si tratti di intendersi bene su cosa significhi condividere un progetto e, più in generale, sul senso autentico della partecipazione e della collaborazione (Raineri, 2011). Condividere può voler dire comunicare ai genitori cosa gli operatori hanno pensato per il loro bambino (e per la loro famiglia). Ciò ha un suo valore, perché va nella direzione della trasparenza e della lealtà, indicate come punti critici nei report di ricerca (Bundy-Fazioli, Briar-Lawson e Hardiman, 2008; Harries, 2008). Tuttavia, mettere al corrente qualcuno non significa chiedere il suo parere, e ancor meno significa che lui o lei condivida, nel senso di essere d’accordo. Far partecipare i genitori e i familiari può voler dire suggerire o indicare loro dei compiti da svolgere, augurandosi poi che collaborino facendo effettivamente quello che abbiamo detto noi operatori. Anche questo può forse avere un suo valore, perché comunque non taglia fuori dalla vita del bambino delle persone così importanti per lui. Tuttavia, spesso non si tiene abbastanza in conto che questo tipo di collaborazione è a senso unico: sono i genitori che devono collaborare, adattandosi a quel che dicono gli operatori (Premoli e Mairani, 2012). I processi di partecipazione, nonostante le buone intenzioni, diventano paternalistici quando i professionisti, in quanto «esperti», manovrano l’utente verso un obiettivo che loro ritengono il migliore. C’è paternalismo anche quando i processi di empowerment vengono gestiti in modo che non vadano oltre certi confini ben definiti. (Kvarnström, Hedberg e Cedersund, 2013, pp. 361-362 trad. it.) Il paternalismo si percepisce in affermazioni degli operatori come: «[Questo genitore] sta iniziando ad accettare di lasciarsi guidare e si comporta benissimo». (Bundy-Fazioli, Briar-Lawson e Hardiman, 2008, p. 181 trad. it.) La partecipazione inquinata dal paternalismo porta a una collaborazione fragile, che fatica a reggere nel tempo e tende a sfilacciarsi appena si allenta il controllo sulla situazione, o perché i genitori fino a lì si sono adeguati strumentalmente, senza essere convinti che quelle indicazioni vadano davvero bene per loro, oppure perché le seguono in maniera passiva, senza maturare una qualche capacità di direzionamento autonomo. L’idea di partecipazione che viene delineata in questo libro è di tutt’altro tenore. Si tratta di una partecipazione che risulta effettivamente possibile, e porta frutti, perché si fonda su una distribuzione del potere diversa da quella a cui siamo abituati a pensare nella relazione tra famiglie e operatori della tutela minorile. Il potere è comunemente inteso in senso gerarchico, cioè come esercizio di controllo di una persona su un’altra, o come capacità di una persona (che detiene il potere) © Raineri M. L. – Convegno internazionale “Prendiamoci cura di me. Pratiche e innovazioni in tutela dei minori” – 13 e 14 maggio 2016 PREFAZIONE 15 di provocare cambiamenti in un’altra. È un dato di fatto che i provvedimenti di tutela impongono determinati interventi e gli operatori dei Servizi per minori sono tenuti a occuparsi della situazione con un mandato ben preciso: questo potere gerarchico non si può negare. Tuttavia, l’idea di condividere fin dove possibile le decisioni attraverso processi negoziali (Folgheraiter, 2005; Raineri, 2007) può essere realizzabile. In genere per «potere» si intende potere-su qualcuno — il potere di una persona o di un gruppo su un’altra persona o su un altro gruppo — ma è possibile sviluppare invece un potere-con, un potere congiunto, co-attivo, non coercitivo. (Follett, cit. in Graham, 1995, p. 103) È proprio questo che spiega il libro: come costruire questo potere con i familiari, contro le difficoltà che stanno attraversando. In altri termini: quale approccio e quali azioni degli operatori possono rendere fattibile e produttiva un’autentica partecipazione della famiglia di origine al percorso di affido. Ma il contributo del testo non si ferma qui: come si vedrà, lo sguardo metodologico dell’autrice, e assieme l’azione concreta dei vari professionisti coinvolti nella sperimentazione sul campo, si allargano a sviluppare un processo partecipativo in cui tutti i soggetti coinvolti abbiano spazio di voce, e di azione. Non solo la famiglia di origine, dunque, ma anche la famiglia affidataria, gli eventuali figli che ne fanno parte e, soprattutto, il bambino affidato (Dalrymple e Boylan, 2009). Questa partecipazione allargata è possibile a partire dalle stesse premesse su cui si basa la partecipazione della famiglia di origine. In sostanza, quando la direzione che orienta l’intervento degli operatori è quella di utilizzare il potere della loro posizione istituzionale e professionale per controllare e influenzare le azioni delle persone secondo un progetto che gli operatori, in quanto esperti, hanno in mente, allora non è solo la famiglia di origine a dover «collaborare», nel senso di adeguarsi. Anche la famiglia affidataria è pensata come un soggetto che dovrebbe collaborare allo stesso modo, e va quindi accuratamente selezionata e preparata per essere in grado di svolgere questo suo ruolo di coadiuvante dei professionisti. Il bambino o ragazzo, da parte sua, è concepito come il destinatario dell’intervento, e quindi è soprattutto lui, o lei, a dover fare ciò che decidono gli operatori per il suo bene. In quest’ottica, che è tutta incentrata sulla responsabilità dei professionisti, chiedere al diretto interessato cosa pensa di quanto sta accadendo, o cosa vorrebbe per se stesso, viene considerato un rischio, perché — sentiamo spesso dire dagli operatori — caricherebbe il bambino di una responsabilità eccessiva. In realtà, è facile comprendere che ascoltare il punto di vista di qualcuno non è la stessa cosa che lasciarlo decidere da solo: il fatto che queste due azioni © Raineri M. L. – Convegno internazionale “Prendiamoci cura di me. Pratiche e innovazioni in tutela dei minori” – 13 e 14 maggio 2016 16 L’AFFIDO PARTECIPATO vengano messe sullo stesso piano la dice lunga — credo — sulle difficoltà che vivono gli esperti dei Servizi minorili nella gestione del potere. Quando, invece, l’approccio che orienta gli operatori è quello della partecipazione e della collaborazione il più possibile paritaria (pur all’interno dei confini tracciati dall’eventuale provvedimento giudiziario), allora si può creare un contesto adatto ad ascoltare, ad accogliere le sofferenze e la rabbia, a prendere rispettosamente sul serio ogni aspettativa e ogni esigenza, a ragionarci sopra e a cercare assieme il modo di soddisfarla, o almeno di avvicinarvisi, se appena possibile. E, come ci racconta molto bene questo volume, difficilmente in un contesto del genere, in cui le persone non si sentono giudicate a priori ma accolte, emergono esigenze irragionevoli, oppure, le poche volte in cui questo succede, c’è il margine per rielaborarle cercando una mediazione accettabile per tutti. Una nuova cultura Il volume sa tenere assieme gli essenziali riferimenti metodologici al lavoro sociale relazionale (Folgheraiter, 2011) con una grande ricchezza di suggerimenti pratici e di esempi, che accompagnano passo per passo il lettore nel figurarsi come sia concretamente realizzabile la partecipazione. Tuttavia, il taglio operativo non deve ingannare: quanto viene descritto non va preso come un mero insieme di tecniche per migliorare gli interventi rivolti alle famiglie in difficoltà. Credo invece sia molto di più: come dicevo all’inizio, questo libro contribuisce a segnare una svolta nella cultura dell’affido, e più in generale nella cultura dei Servizi per la tutela dei minori, una svolta che da pochi anni sembra si stia avviando nel panorama italiano. Prendendo a prestito, da tutt’altro ambito, una schematizzazione di Tom Kitwood (1997, p. 136), possiamo forse parlare di una «vecchia» e di una «nuova» cultura dell’affidamento familiare e della tutela minorile. L’inadeguatezza nell’accudimento genitoriale, nella vecchia cultura, è vista tendenzialmente come indice di «patologie» familiari. Nella nuova cultura, è considerata una difficoltà che può derivare da varie cause, talvolta da patologie individuali o delle relazioni familiari, ma non solo: anche dalle condizioni strutturali in cui vive la famiglia, dalle capacità e dalle risorse di cui dispone, dalle scelte di vita dei suoi componenti. Quali che siano le cause, il modo e l’intensità con cui queste difficoltà si manifestano dipendono in maniera significativa dalla qualità degli aiuti su cui le famiglie possono contare. Nella vecchia cultura, i principali depositari delle conoscenze riguardo a come affrontare le difficoltà genitoriali e a come migliorare la situazione dei minori sono gli esperti di psicologia, di pedagogia e di lavoro sociale. Nella nuova cultu- © Raineri M. L. – Convegno internazionale “Prendiamoci cura di me. Pratiche e innovazioni in tutela dei minori” – 13 e 14 maggio 2016 PREFAZIONE 17 ra, viene attribuita altrettanta rilevanza al punto di vista delle famiglie (sia quella affidante sia quella affidataria) in merito a quanto sentono fattibile e positivo per loro stesse, nella cornice degli eventuali vincoli giudiziari. Soprattutto, il contributo dei bambini o dei ragazzi, per come lo possono e lo vogliono esprimere, viene considerato di centrale importanza. Nella vecchia cultura, l’intervento è concepito prevalentemente come erogazione, alle famiglie, di prestazioni valutate come opportune dagli operatori (prestazioni economiche se necessario, o di assistenza educativa domiciliare, o di semi-residenzialità, ecc.). Se ciò non è sufficiente, si procede al collocamento residenziale in affidamento o in comunità, o in casi estremi in adozione. Nella nuova cultura, l’aiuto è concepito soprattutto come creazione di contesti in cui le famiglie possano più agevolmente ragionare sulle proprie difficoltà e, pur nel quadro degli eventuali vincoli giuridici, possano decidere cosa fare, chi coinvolgere e quali aiuti concreti richiedere, se lo ritengono necessario. Nella vecchia cultura, è considerato prioritario individuare in maniera chiara e accurata le carenze delle famiglie e dei minori. Nella nuova cultura, è importante comprendere a fondo le preoccupazioni, le capacità, le preferenze, gli interessi, i valori, le aspirazioni delle famiglie e dei minori. Ogni genitore, ogni bambino o ragazzo e ogni famiglia ha le sue preoccupazioni, le sue difficoltà e i suoi punti di forza. Nella vecchia cultura, i comportamenti problematici sono considerati qualcosa da modificare utilizzando, ove non bastino i suggerimenti o i consigli, l’influenza (la pressione) basata sul potere istituzionale dei Servizi e/o sul potere professionale degli operatori. Nella nuova cultura, più che ai comportamenti problematici si guarda al desiderio di migliorare, per quanto fragile e contradditorio possa essere, si cerca di riconoscerlo, di rafforzarlo e di svilupparlo nelle direzioni che i diretti interessanti trovano più confacenti per loro stessi. Nella vecchia cultura, agli operatori viene chiesto di mettere da parte i propri sentimenti, le proprie preoccupazioni e le proprie fragilità per lavorare in maniera obiettiva. Nella nuova cultura, un aspetto molto importante sta nell’essere in contatto con le proprie preoccupazioni, i propri sentimenti e le proprie fragilità per poterle trasformare in risorse di empatia, da valorizzare nel proprio lavoro. La nuova cultura pone su uno stesso piano persone che appartengono a categorie molto diverse e cerca di abbassare le barriere «noi/loro» che ostacolano un incontro autentico, da cui può scaturire l’aiuto. La più ovvia di queste barriere è quella tra chi ha bisogno di aiuto (ed è fallimentare, incapace, «cattivo») e chi dà aiuto (che invece è competente, bravo, buono). Ma ce ne sono anche altre: tra i caregiver familiari, parenti o amici, e gli operatori professionisti; tra professionisti e volontari; tra la comunità locale e le famiglie in difficoltà. Il merito di questo © Raineri M. L. – Convegno internazionale “Prendiamoci cura di me. Pratiche e innovazioni in tutela dei minori” – 13 e 14 maggio 2016 18 L’AFFIDO PARTECIPATO volume sta nel tracciare una via precisa e accessibile per superare questi steccati, e riuscire davvero a lavorare assieme. Bibliografia Babolin L. et al. (2000), Il sapere e il sapore: Le comunità di accoglienza per minori, Milano, Paoline. Boylan J. e Dalrymple J. (2009), Understanding advocacy for children and young people, London, Open University Press. Trad. it. Cos’è l’advocacy nella tutela minorile, Trento, Erickson, 2012. Bramanti D. (1993), Le Famiglie accoglienti: un’analisi socio-psicologica dell’affidamento familiare, Milano, FrancoAngeli. Buckley H. (2003), Child protection work, beyond the rhetoric, London, Jessica Kingsley. Bundy-Fazioli K., Briar-Lawson K. e Hardiman E.R. (2008), A qualitative examination of power between child welfare workers and parents, «British Journal of Social Work», vol. 39, n. 8, 2009, pp. 1447-1464. First published online: April 8, 2008, doi: 10.1093/bjsw/bcn038. Trad. it. La questione del potere. Tra operatori sociali e genitori in difficoltà, «Lavoro Sociale», vol. 8, n. 2, 2008, pp. 173-187. Burgheim T. (2002), The grief of birth parents whose children have been removed: Implications for practice in out of home care. Paper delivered at What works!? 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