Nel bosco - Mondolibri

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Nel bosco - Mondolibri
LIBRO
IN ASSAGGIO
NEL BOSCO
DI TARA FRENCH
Nel bosco
DI TARA FRENCH
PER MIO PADRE. DAVID FRENCH, E MIA MADRE, ELENA HVOSTOFFLOMBARDI.
1
Quello che vi consiglio di ricordare è che sono un detective. Il nostro rapporto
con la verità è fondamentale ma incrinato, sprigiona riflessi confusi come
vetro in frantumi. La verità è l’essenza delle nostre carriere, il finale di partita
di ogni nostra mossa e la perseguiamo con strategie diligentemente costruite
con bugie, dissimulazioni e ogni possibile declinazione dell’inganno. È la
donna più desiderabile al mondo e noi gli amanti più gelosi, che ne negano
per reazione a chiunque altro anche il minimo barlume. La tradiamo
abitualmente, trascorriamo ore e giorni in un torpore di menzogne e poi
torniamo a lei brandendo l’ultimo nastro di Mobius dell’amante: l’ho fatto solo
perché ti amo alla follia.
Me la cavo piuttosto bene con le immagini, soprattutto quelle spicce, un po’
banali. Non lasciatevi fregare da me, la nostra categoria non è una banda di
cavalieri parfit gentil con tanto di farsetto, lanciati all’inseguimento della
Signora Verità sul suo destriero bianco Quello che facciamo è rozzo,
grossolano e brutto. Una giovane fornisce l’alibi al suo ragazzo per la sera in
cui lui è sospettato di avere rapinato uno dei negozi Centra, quelli sempre
aperti che vendono un po’ di tutto, su a nord, e di avere accoltellato il
commesso all’inizio flirto con lei, le dico che capisco perché lui voglia restare
a casa, con la fidanzata che si ritrova.
La tipa in questione ha i capelli ossigenati e unti, i tratti poco marcati e un che
di rachitico dovuto a generazioni di malnutrizione.
Tra me e me penso che se fossi il suo fidanzato non esiterei a scambiarla
persino con un compagno di cella peloso che chiamano Rasoio. Poi le dico
che nei pantaloni della sua tuta bianca così di classe abbiamo trovato delle
banconote segnate provenienti da quel negozio e che lui sostiene che è stata
lei a uscire quella sera e a dargliele quando è rientrata.
Lo faccio in maniera così convincente, con appena un’ombra di disagio e
compassione per il tradimento del suo uomo, che alla fine la certezza di
quattro anni trascorsi insieme a lui si disintegra come un castello di carte, e
tra lacrime e moccio, mentre lui nella stanza degli interrogatori a fianco se ne
sta con il mio collega e non fa altro che dire: «Vaffanculo, io ero a casa con
Jackie», lei mi racconta tutto, dall’ora in cui è uscito di casa ai dettagli delle
sue défaillance sessuali. Allora le do una pacchetta gentile sulla spalla e le
offro un fazzolettino di carta e una tazza di tè, senza dimenticare il modulo
con la dichiarazione.
Questo è il mio lavoro e non lo cominci nemmeno, oppure, se lo fai, non duri,
senza una specie di naturale affinità con le priorità e le richieste che impone.
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Quello che sto cercando di dirvi, prima che vi mettiate a leggere la mia storia,
è che... be’, sono due cose: io desidero ardentemente la verità. E mento.
Ecco cosa lessi nel fascicolo, il giorno dopo essere stato promosso al grado di
detective. Tornerò un sacco di volte su questa vicenda, in molti modi diversi.
Forse è un evento minore, ma è il mio: è l’unica storia al mondo che solo io
potrò raccontare.
Il pomeriggio del 14 agosto 1984, tre bambini, Germaine (Jamie) Elinor
Rowan, Adam Robert Ryan e Peter Joseph Savage, tutti di dodici anni,
stavano giocando nella strada dove abitavano, nella cittadina di Knocknaree,
contea di Dublino. Era un giorno caldo e limpido e molti residenti erano in
giardino, perciò furono innumerevoli i testimoni che videro i ragazzini in più
occasioni nel corso del pomeriggio, in equilibrio sul muro in fondo alla strada,
in sella alle loro biciclette, o su un dondolo fatto con un copertone.
All’epoca, Knocknaree non era molto sviluppata e un bosco piuttosto esteso
confinava con l’abitato, separato solo da un muro di un metro e mezzo.
Intorno alle 15.00 i tre bambini lasciarono le bici nel giardino davanti alla casa
dei Savage, dicendo alla signora Angela Savage, che stava stendendo il
bucato, che sarebbero andati a giocare nel bosco. Lo facevano spessissimo e
conoscevano molto bene quella zona, così la signora Savage non si
preoccupò che potessero perdersi. Peter aveva al polso un orologio e la
madre gli ricordò di essere a casa per le 18.30, ora di cena. La conversazione
venne confermata dalla vicina, la signora Mary Therese Corr e molti testimoni
videro i bambini scavalcare il muro in fondo alla strada e addentrarsi nel
bosco.
Quando alle 18.45 Peter Savage non era ancora rientrato, sua madre chiese
notizie alle madri degli altri due compagni, dando per scontato che fosse
andato a casa di uno di loro. Ma neanche gli altri erano tornati. Di solito Peter
Savage era un bambino affidabile, ma i genitori non si allarmarono perché
convinti che i ragazzini, completamente assorbiti dal gioco, avessero
dimenticato di controllare l’ora. Cinque minuti prima delle 19, la signora
Savage si incamminò verso il bosco, in fondo alla strada, vi si addentrò per un
breve tratto e li chiamò. Non udì risposta né vide o senti qualcosa che
potesse indicare che vi fosse qualcuno nelle vicinanze.
Tornò a casa per servire la cena al marito, Joseph Savage, e ai loro quattro
figli minori. Dopo cena, il signor Savage e il signor John Ryan, padre di Adam
Ryan, sì spinsero un po’ più in là nel bosco, chiamarono e di nuovo non
ricevettero risposta. Alle 20.25, quando già cominciava a fare buio, i genitori
iniziarono seriamente a preoccuparsi che i bambini potessero essersi persi e
la signorina Alicia Rowan (madre single di Germaine), che disponeva di un
telefono, chiamò la polizia.
Ebbero inizio le ricerche. A quel punto il timore era che i bambini fossero
scappati di casa. La signorina Rowan aveva deciso che Germaine avrebbe
frequentato un collegio a Dublino per restarvi durante la settimana e tornare a
Knocknaree solo il sabato e la domenica; sarebbe dovuta partire due
settimane dopo e tutti e tre i bambini erano particolarmente turbati al pensiero
dell' imminente separazione. Tuttavia, una prima perquisizione nelle stanze
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dei ragazzini rivelò che non mancavano né abiti, né denaro, ne oggetti
personali. Il salvadanaio di Germaine, a forma matrioska, era intatto e
conteneva 5 sterline e 85 centesimi. Alle 22.20 un poliziotto con una torcia
trovò Adam Ryan in una zona particolarmente fitta di alberi e vegetazione, al
centro del bosco, in piedi con la schiena e le palme delle mani contro una
grossa quercia. Le unghie erano conficcate così in profondità nel tronco che si
erano spezzate all’interno della corteccia. Sembrava essere li da un po’, ma
non aveva risposto ai richiami del gruppo di ricerca. Venne trasportato
all’ospedale. Fu fatta intervenire l’Unità cinofila e i cani seguirono le tracce
degli altri due bambini fino a un punto non lontano da quello in cui era stato
trovato Adam Ryan; poi cominciarono a confondersi e non riuscirono a
proseguire.
Quando mi trovarono indossavo un paio di calzoncini blu di tela, una maglietta
bianca a maniche corte, calzini bianchi di cotone e scarpe da ginnastica,
bianche anche quelle. Sulle scarpe c’erano numerose chiazze di sangue, sui
calzini un po’ meno. Le successive analisi della modalità di diffusione delle
chiazze rivelarono che il sangue era passato dall’interno delle scarpe
all’esterno: c’era infatti sangue anche dentro i calzini ma in concentrazioni
inferiori. Questo significava che le scarpe mi erano state tolte e che il sangue
vi era finito dentro; solo dopo, quando il sangue aveva iniziato a coagularsi, le
scarpe mi erano state rimesse ai piedi, trasferendo il liquido ematico ai calzini.
La maglietta presentava quattro strappi paralleli, tra gli otto e i tredici
centimetri, che correvano diagonalmente lungo la schiena dalla zona mediana
della scapola sinistra alle costole posteriori destre.
Non avevo ferite, tranne qualche piccolo graffio sui polpacci, schegge sotto le
unghie, che in seguito vennero ritenute compatibili con il legno della quercia,
e profonde abrasioni sulle ginocchia, dove già iniziavano a formarsi delle
croste. Si discusse se i graffi me li fossi procurati nel bosco oppure no, poiché
una bambina più piccola (Aideen Watkins, 5 anni), che stava giocando in
strada, affermò di avermi visto cadere dal muro quel giorno, qualche ora
prima, e atterrare proprio sulle ginocchia; tuttavia, la sua dichiarazione cambiò
nel corso dei vari interrogatori e non venne più considerata affidabile. Io ero
praticamente in uno stato catatonico: per quasi trentasei ore non feci un solo
movimento volontario e non parlai per le due settimane successive. Quando
finalmente aprii bocca, non avevo ricordi tra il momento in cui ero uscito di
casa, quel pomeriggio, e il momento in cui mi avevano visitato in ospedale.
Il sangue trovato su scarpe e calzini fu analizzato per individuarne il gruppo —
l’analisi del DNA non era disponibile in Irlanda nel 1984 — e si scoprì che era
di tipo A positivo. Anche il mio sangue era di tipo A positivo, tuttavia si ritenne
improbabile che le abrasioni sulle ginocchia, per quanto profonde, avessero
prodotto una quantità di sangue tale da impregnare in quel modo le scarpe da
ginnastica. Il sangue di Germane Rowan era stato analizzato due anni prima
in occasione di un’appendicectomia e la cartella riportava anche per lei A
positivo. L’ipotesi che il sangue appartenesse a Peter Savage, sebbene non
vi fossero dati disponibili, fu scartata: entrambi i suoi genitori, si scoprì,
appartenevano al tipo O e questo rendeva impossibile che lui fosse di
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qualsiasi altro gruppo. In assenza di un’identificazione certa, gli investigatori
non poterono non tenere in considerazione la possibilità che il sangue fosse
di un quarto individuo, né che provenisse da più fonti.
La ricerca continuò per tutta la notte del 14 agosto, e nelle settimane che
seguirono squadre di volontari passarono al setaccio le colline e i campi vicini;
tutti gli acquitrini e le zone paludose dell’area vennero esplorati, i
sommozzatori scandagliarono il fondale del fiume che attraversava il bosco,
senza alcun risultato. Quattordici mesi dopo, il signor Andrew Raftery. che si
trovava a passeggiare con il suo cane nel bosco, scorse tra la sterpaglia un
orologio da polso, a una sessantina di metri da dove mi avevano trovato.
L’orologio era molto particolare: sul quadrante era raffigurato un calciatore
stilizzato e la lancetta dei minuti terminava a forma di pallone. I signori
Savage lo riconobbero come quello che portava Peter. La signora Savage
confermò che lo aveva il pomeriggio della sparizione. Il cinturino di plastica
pareva essere stato strappato dalla cassa dì metallo con forza, forse dopo
essersi impigliato in un ramo mentre Peter correva. La Scientifica identificò un
certo numero di Impronte digitali parziali sul cinturino e sul quadrante: tutte
compatibili con quelle trovate sugli oggetti personali di Peter Savage.
Nonostante gli innumerevoli appelli della polizia e una campagna mediatica
d’alto profilo, non furono trovate altre tracce
di Peter Savage e di Germaine Rowan.
Aggiornata il giovedì 17 aprile 2008
Edizione Mondolibri S.p.A., Milano
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