MINORI STRANIERI TRA CONFLITTO

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MINORI STRANIERI TRA CONFLITTO
MINORI STRANIERI TRA CONFLITTO NORMATIVO E DEVIANZA:
LA SECONDA GENERAZIONE SI CONFESSA?
Dario Melossi, Alessandro De Giorgi, Ester Massa (Università di Bologna)
Introduzione
La ricerca che presentiamo assume come oggetto principale la questione della “socializzazione
normativa” dei minori nel quadro di una società sempre più orientata verso un modello multiculturale1.
Tale riferimento intende cogliere una trasformazione significativa del fenomeno migratorio nel
territorio italiano – e in particolare in quello bolognese – che vede emergere in questa fase la c.d.
“seconda generazione”.
Come è facile notare anche ad una prima osservazione del fenomeno, l’universo dell’immigrazione
minorile in Italia è composito e non omogeneo: i minori stranieri che raggiungono il territorio italiano
conoscono traiettorie di vita, storie personali e biografie soggettive alquanto diversificate. Vi sono
minori di seconda generazione nati in Italia da genitori stranieri, minori giunti qui attraverso un
ricongiungimento familiare, giovani entrati da soli o con le famiglie come profughi, e infine minori
non accompagnati. Il solo elemento che accomuna le loro storie è rappresentato dall’esperienza
dell’emigrazione/immigrazione, intesa non solo come spostamento da un contesto di vita a un altro,
ma soprattutto come mutamento, come ridefinizione spesso radicale dei legami sociali e delle
appartenenze culturali. Quale che sia la loro storia individuale, questa condizione espone i minori
stranieri a un complesso di fattori di rischio e di vulnerabilità con cui confrontarsi nel processo di
ridefinizione della propria identità e dei propri legami.
Le ricerche sinora condotte (anche nel contesto geografico cui si riferisce la presente indagine) sul
complesso rapporto tra migrazioni minorili e devianza hanno riguardato soprattutto la questione dei
“minori non accompagnati”, cioè dei minori che sono immigrati in Italia da soli e privi di un punto di
riferimento stabile. Ma non è difficile prevedere che la questione dell’integrazione, della
socializzazione normativa, dei conflitti e delle “devianze” che riguardano i minori stranieri andrà
sempre più addensandosi attorno alle problematiche della c.d. “seconda generazione”: cioè di quei
minori stranieri che sono nati nel territorio o che vi sono giunti in un’età così precoce da potersi dire
che la loro socializzazione primaria si è svolta, almeno per una parte considerevole, in Italia.
La letteratura sociologica e criminologica prevalente è peraltro concorde nell’indicare le seconde
generazioni immigrate come le più “a rischio” dal punto di vista dell’esposizione a fenomeni di
devianza e criminalità, in quanto le principali variabili che influiscono sull’insorgenza di
comportamenti problematici sono spesso rafforzate dagli svantaggi specifici legati allo status di
“immigrante” di “seconda generazione” (una sorta di contraddizione in termini!). In questo senso, non
si possono sottovalutare le condizioni di svantaggio e discriminazione cui i migranti – e in particolare i
minori – sono frequentemente esposti: una condizione di “vulnerabilità strutturale” che, nel passaggio
dalla prima alla seconda generazione, tende a trasferirsi dall’ambito giuridico e culturale a quello
economico e sociale. E’ proprio in questa fase che si coagula il rischio di una socializzazione
normativa problematica, ovvero di forme di socializzazione in qualche modo “alternative”, alimentate
dalle particolari condizioni di disagio spesso sperimentate dai giovani di seconda generazione.
L’indagine che presentiamo si propone dunque di tracciare una descrizione delle forme di
socializzazione emergenti fra le giovani generazioni che risiedono nel territorio di Bologna (con
particolare riferimento ai giovani di origine straniera), con l’obbiettivo di esaminare i possibili legami
fra tali modalità di socializzazione – soprattutto nei loro aspetti problematici e conflittuali – e
l’incidenza di fenomeni di devianza e criminalità.
1
Questo contributo è basato sui risultati di un’unità di ricerca all’interno di un progetto co-finanziato del
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, dal titolo “Cultura, diritti e socializzazione normativa
di bambini e adolescenti”, coordinato dal Prof. Guido Maggioni (Università di Urbino).
1
Specificità della situazione italiana
Diverse ipotesi possono essere formulate rispetto alle condizioni che “promuovono” modelli di
socializzazione alternativa, ipotesi che potremmo qualificare entro le tre ampie categorie dei fattori
socio-economici, dei fattori culturali e dei fattori legati alla discriminazione. Per ciascuno di questi
versanti – considerati sotto la particolare angolazione dell’esperienza migratoria – esiste ampia
letteratura. Vorremmo tuttavia fin da subito sottolineare la nostra preferenza per un approccio che
definiremmo “integrato”: capace cioè di tener conto tanto delle circostanze economiche e culturali
quanto dei processi di discriminazione nell’accesso all’integrazione, per come questi si profilano
nell’esperienza concreta dei minori. Non è difficile riscontrare, infatti, come – a livello nazionale ma
soprattutto a livello locale – i fenomeni di criminalità che coinvolgono specificamente i minori
(pensiamo soprattutto ai comportamenti devianti che ruotano attorno al commercio e al consumo di
sostanze stupefacenti, alla microcriminalità di carattere predatorio, ma anche e più in generale alle c.d.
“inciviltà urbane”) siano sempre più oggetto di sentimenti di insicurezza da parte dell’opinione
pubblica, di allarme sociale da parte dei mass-media e di preoccupazione politica da parte delle
amministrazioni locali. Anche al livello della legislazione nazionale, almeno sino ad ora la sensazione
di andare incontro a processi di “criminalizzazione selettiva” è molto forte.
Se la più forte testimonianza del “ritardo storico” del nostro paese nell’evolversi del fenomeno
migratorio è rappresentata dall’accidentata e spesso incoerente traiettoria delle disposizioni legislative
a riguardo, la disciplina espressa dalla l.40/98 e ancor più dalla l.189/2002 (la c.d. legge Bossi-Fini)
rende però palese come la breve – ma significativa – storia dell’Italia quale paese di immigrazione la
veda sostanzialmente partecipe della tendenza a livello europeo verso la definizione di politiche
restrittive in materia di circolazione delle persone. La l. 40/1998 delineava infatti una disciplina
complessiva dell’ingresso, del soggiorno e della condizione dello straniero sul territorio italiano che
riprendeva ampiamente le disposizioni della Convenzione di Schengen (1990), richiedendo ai
migranti, al fine di consentirne l’ingresso sul territorio nazionale, di possedere una serie di requisiti
relativi alla disponibilità di risorse economiche, all’assenza di segnalazioni ai fini della nonammissione, alla circostanza di non rappresentare un pericolo per l’ordine pubblico, la sicurezza
nazionale e le relazioni internazionali. Compiendo un primo passo verso la completa subordinazione
dello status giuridico del migrante alla sua condizione lavorativa, una serie di diritti fondamentali dal
punto di vista di una possibile integrazione (come, per esempio, il diritto al ricongiungimento
familiare) venivano subordinati alla disponibilità di un reddito sufficiente e legittimo. La c.d. legge
“Bossi Fini”del 2002 ha modificato in senso ulteriormente restrittivo la condizione giuridica degli
stranieri, imponendo ostacoli ancora più rigidi all’integrazione dei migranti e alla stabilizzazione di un
fenomeno ormai rilevante tanto in termini quantitativi, quanto dal punto di vista dell’apporto dei
migranti al mercato del lavoro e allo sviluppo economico del paese.
Sul versante della “criminalizzazione”, quindi, la disciplina normativa istituzionalizzava di fatto la
diffusa percezione sociale dei migranti quali potenziali criminali, predisponendo una serie di misure
restrittive orientate a neutralizzare questa presunta pericolosità. Appare innegabile quindi il
consolidamento di una percezione allarmata e ostile dell’immigrazione quale problema di ordine
pubblico: come diverse indagini sociologiche hanno ampiamente dimostrato (Ires, 1992, 1992; Dal
Lago, 1999), nell’opinione pubblica ha teso infatti a diffondersi la convinzione – peraltro alimentata
da alcuni mass media e da una parte delle forze politiche – che la presenza straniera nel paese
costituisca un importante veicolo di attività criminali.
Del resto, la questione del rapporto tra immigrazione e criminalità rappresenta un leitmotiv della
ricerca sociologica e criminologica contemporanea. In estrema sintesi si può dire che questo interesse
sociologico abbia teso a polarizzarsi intorno a due fondamentali prospettive. Nella prima ipotesi la
condizione di “immigrato” viene considerata quale fattore capace di contribuire in maniera
significativa all’eziologia di alcuni comportamenti criminali (Barbagli, 1998, 2002), nella seconda
l’attenzione si sposta decisamente sulla reazione sociale, istituzionale e penale nei confronti di una
presenza straniera rappresentata quale vettore di incremento del fenomeno criminale (Palidda, 2001,
Melossi 1999, 2003, De Giorgi, 2000).
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Self-report e ricerca criminologica
Nella rilevazione dei fenomeni delinquenziali i due principali strumenti alternativi – e tuttavia
complementari – alle statistiche ufficiali, sono costituiti rispettivamente dalle “inchieste di
vittimizzazione” e dalle “ricerche di auto-confessione”: mentre le prime si rivolgono alle potenziali
vittime di episodi criminali, le seconde interpellano i potenziali autori di comportamenti devianti.
Entrambi gli strumenti hanno conosciuto una progressiva diffusione negli ultimi anni – anche
sull’onda di una accresciuta consapevolezza circa i limiti euristici delle statistiche ufficiali (Kitsuse e
Cicouriel, 1963) – contribuendo così a disegnare mappe più attendibili circa la reale diffusione e
frequenza di comportamenti devianti all’interno di specifici gruppi di popolazione.
Quest’ultima considerazione sembra valere, in particolare, per le ricerche di auto-confessione (selfreport studies): se infatti, in base al principio di Sellin (1931), la veridicità delle descrizioni del
fenomeno criminale decresce con l’aumentare della distanza dal “fatto commesso” (e con la
moltiplicazione delle agenzie formali che registrano e “filtrano” i “fatti”), i self-reports tentano di
annullare ex-post tale distanza chiamando direttamente in causa l’esperienza dei potenziali autori di
condotte devianti. Un ulteriore aspetto rilevante – che a parere di chi scrive rende questo strumento più
attendibile di altri sistemi, soprattutto quando si tratti di “misurare” i comportamenti riferibili a
popolazioni già di per sé esposte a forme di criminalizzazione selettiva, come gli immigrati – consiste
nel fatto che i self-reports, a differenza delle inchieste di vittimizzazione, prescindono da eventuali
propensioni denunciatarie o discriminatorie presenti all’interno della popolazione, in quanto in
sostanza – e in particolare rispetto ai fenomeni di devianza che qui ci proponiamo di indagare – le
inchieste di vittimizzazione rischierebbero di replicare (sia pure a un livello diverso) dinamiche di
sovraesposizione dei comportamenti devianti posti in essere da soggetti più facilmente percepiti come
pericolosi, analoghe a quelle osservabili nelle statistiche ufficiali2.
La dimensione metodologica ha assorbito buona parte del dibattito recente sui self-reports: se infatti
sembra profilarsi tra i criminologi un consenso di massima circa l’importanza che queste indagini
hanno rivestito dal punto di vista di una più chiara comprensione della diffusione e della frequenza dei
comportamenti devianti, d’altra parte però è innegabile che – come del resto avviene in qualsiasi
rilevazione di tipo statistico – i risultati di queste ricerche dipendano almeno in parte dalle opzioni
metodologiche privilegiate dai ricercatori (Blakely et al. 1980). Riassumendo sinteticamente i termini
del dibattito, è possibile dire che i principali nodi metodologici riguardano: la definizione del
campione di popolazione da sottoporre a inchiesta - in genere, per ragioni logistiche questa viene
selezionata all’interno di istituzioni semi-chiuse (le scuole) o chiuse (le carceri), opzione che comporta
inevitabilmente la sovra-rappresentazione di alcune fasce di popolazione (Braithwaite, 1981;
Hindelang, Hirschi e Weis, 1981); lo spettro dei comportamenti devianti cui si riferisce l’inchiesta - i
primi self-reports tendevano ad annoverare solo fattispecie di devianza o criminalità di scarso rilievo
(Tittle, Villemez e Smith, 1978), una circostanza che tendeva a tradursi a sua volta nel riscontro
empirico di una notevole diffusione delle condotte devianti all’interno dei campioni di popolazione
osservati, indipendentemente dalle variabili utilizzate3; la coerenza e l’attendibilità delle risposte
ottenute attraverso le inchieste - a questo proposito, all’interno della letteratura sui self-reports si
segnala la tendenza ad impiegare strumenti di verifica della coerenza (internal consistency) delle
2
In altri termini, se in un paese come l’Italia è stato possibile osservare una maggior propensione dei cittadini
residenti a sporgere denunce relative a comportamenti criminali, devianti o anche solo “sospetti” da parte degli
stranieri (Palidda 2000), è ragionevole ritenere che un’analoga propensione si possa riflettere anche nelle
inchieste di vittimizzazione: una sorta di effetto “telescopio” etnicamente orientato.
3
A questo proposito, va detto però che gli studi più recenti tendono ad includere nelle inchieste anche fattispecie
criminali di maggior rilevanza (Elliott e Ageton, 1980; Hindelang, Hirschi e Weis, 1979; Junger-Tas, Haen
Marshall e Ribeaud, 2003), oltre a perseguire una maggiore chiarezza nella definizione dei comportamenti
indagati
3
risposte4. Rispetto invece alla questione dell’attendibilità (reliability), l’unico strumento di verifica
consiste nell’incrociare le risposte ottenute tramite l’inchiesta di auto-confessione con i dati ufficiali
forniti da diverse agenzie di controllo sociale: anche in questo caso si tratta di una metodologia sempre
più spesso impiegata all’interno dei self-report studies (Short e Nye, 1957; Hirschi 1969; Joliffe et al.,
2003; Farrington et al., 1996; Babinski, Hartshough e Lambert, 2001).
Le inchieste di auto-confessione hanno goduto di un notevole sviluppo soprattutto nel contesto angloamericano5; per quanto invece riguarda l’Italia, solo di rado questo metodo d’indagine sui fenomeni di
devianza ha incontrato l’interesse dei ricercatori (vedi, ad esempio Gatti e coll, 1994).
Infine vorremmo segnalare come i self-report studies abbiano costituito un fondamentale contributo al
superamento di una serie di “luoghi comuni” – criminologici e non – sulla devianza: al di là delle pur
notevoli divergenze metodologiche esibite dai ricercatori che ne hanno fatto uso, i self-reports hanno
nel complesso ridimensionato una serie di “certezze” sull’eziologia della devianza (pensiamo
soprattutto a quelle relative alla presunta maggior propensione al crimine da parte delle classi
svantaggiate, di alcune minoranze etniche o degli individui di sesso maschile) tracciando un quadro
spesso sorprendente, e in ogni caso significativamente diverso da quello disegnato dalle statistiche
ufficiali, circa la reale diffusione dei comportamenti devianti all’interno della popolazione6. Nelle
parole di Edwin Schur (1973: 155): “Le ricerche di auto-confessione hanno contribuito all’abbandono
dell’ipotesi che i delinquenti siano fondamentalmente diversi dai non-delinquenti, dimostrando che in
realtà la devianza è diffusa tra tutti i segmenti della società”.
A partire da queste constatazioni, riteniamo che i risultati di questa ricerca possano rivestire un
particolare interesse tanto sotto il profilo di una migliore comprensione delle problematiche sociali,
economiche e culturali connesse all’immigrazione minorile nei territori dell’Emilia Romagna, quanto
dal punto di vista dell’elaborazione di politiche di integrazione sociale e di prevenzione del disagio
fondate su una percezione realistica di tali problematiche.
4
Per esempio, il metodo del test/re-test che consiste nel ripetere a distanza di tempo la somministrazione del
questionario/intervista al medesimo campione di popolazione, per verificare la rispondenza tra le risposte fornite
nelle due (o più) occasioni (Huizinga e Elliott, 1986)
5
Oltre alle ricerche menzionate finora si vedano anche Braithwaite e Braithwaite (1978) per l’Australia;
Elmshorn (1965) per la Svezia; Vaz (1966) per il Canada
6
In particolare sul rapporto tra classi sociali e delinquenza auto-rilevata, si vedano Akers (1964), Clark e
Wenninger (1962), Dentler e Monroe (1961), Empey e Erickson (1966), Gold (1966), Williams e Gold (1972).
Su quello tra ethnicity e devianza auto-rilevata: Junger (1989). Particolare considerazione merita poi il lavoro,
già citato di Hirschi (1969), soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra “razza” e “delinquenza auto-rilevata”.
In Causes of Delinquency Hirschi riscontrò infatti da una parte tassi di devianza auto-rilevata sostanzialmente
analoghi tra i rispondenti bianchi e neri del campione considerato, ma dall’altra una consistente
sovrarappresentazione di questi ultimi dal punto di vista dei contatti con le forze dell’ordine: in sintesi, mentre
risultava aver avuto un contatto con la polizia solo il 55% dei rispondenti bianchi che avevano confessato a
Hirschi qualche comportamento deviante, questa percentuale arrivava al 76% per i rispondenti black,
evidenziando così un’esposizione differenziale alle agenzie di controllo sociale formale (Hirschi, 1969: 75-81).
4
La ricerca
Le ipotesi di partenza
Come già accennato precedentemente, a un livello generale il nostro oggetto di indagine è
rappresentato dalle forme di socializzazione normativa osservabili in una società sempre più
multiculturale, con particolare riferimento alla “seconda generazione” immigrata.
Tuttavia, occorre ribadire che l’universo dell’immigrazione minorile in Italia definisce un territorio
fortemente disomogeneo: i giovani migranti che approdano nel nostro paese conoscono infatti storie e
percorsi di vita molto diversi e spesso distanti tra loro (Melossi e Giovannetti, 2002). L’elemento
comune a queste complesse traiettorie esistenziali è costituito dall’esperienza della migrazione, intesa
– al di là della sua dimensione puramente geografica – come un cambiamento, spesso radicale, che
complica e pone in discussione i legami di appartenenza e affiliazione culturale: la migrazione può
delineare, in questo senso, un insieme di fattori di vulnerabilità e rischio sociale (Favaro, 2002) con
cui i minori stranieri devono confrontarsi nel ridefinire o ri-posizionare la propria identità nel nuovo
contesto di residenza.
Sono questi gli elementi di peculiarità che hanno reso la “seconda generazione” immigrata oggetto di
un interesse costante da parte della sociologia della devianza – come si sottolineava all’inizio. Gli
stessi elementi, del resto, hanno indotto tradizioni criminologiche anche notevolmente distanti dal
punto di vista sia teorico che politico a individuare nelle seconde generazioni una particolare
esposizione al rischio di devianza: le principali variabili predittive di comportamenti criminali o
devianti – siano esse di matrice “culturale” o “strutturale” – sembrerebbero infatti destinate ad
intensificarsi in virtù degli svantaggi specificamente connessi allo status di “immigrato seconda
generazione”.
In un tale contesto è ragionevole supporre che si dispieghino i margini per il consolidamento di
modelli di socializzazione e di comportamento alternativi a quelli proposti dalla cultura dominante: in
una società che si avvia verso un orizzonte multiculturale – anche se in maniera spesso contraddittoria
e per nulla al riparo da perversioni nazionalistiche ed etnocentriche – emerge inevitabilmente il tema
del conflitto culturale, e soprattutto dei posizionamenti e delle risorse identitarie accessibili ai giovani
immigrati di seconda generazione all’interno di uno scenario in trasformazione.
Sembra evidente a chi scrive che per poter cogliere – anche solo da un punto di vista assolutamente
parziale, qual è quello relativo alla devianza – gli elementi di complessità e contraddittorietà che
sembrano costellare l’esperienza dei giovani immigrati di “seconda generazione” in Italia, sia
necessario giustapporre tra loro le indicazioni teoriche e metodologiche che ci provengono da diverse
correnti della sociologia della devianza. Pur non essendo in alcun modo esaustive del quadro teorico e
delle differenti prospettive criminologiche considerate nell’elaborazione della ricerca, le principali
ipotesi criminologiche rivelatesi illuminanti per l’interpretazione dei risultati si possono riassumere
nella prospettiva del conflitto culturale (Sellin, 1938), in quella del controllo sociale (Hirschi 1969) e
nella ipotesi dell’etichettamento (Becker, 1963, Matza, 1969).
Ma prima di illustrare l’apporto specifico che questi diversi paradigmi hanno offerto al modello
analitico che ci siamo riproposti di costruire, vorremmo richiamare brevemente l’ipotesi di ricerca da
cui siamo partiti: la sperimentazione di barriere opposte dalla società di destinazione alla piena
integrazione sociale, economica e culturale del giovane immigrato di seconda generazione –
un’esperienza la cui interiorizzazione potrebbe manifestarsi nell’esibizione di atteggiamenti
conflittuali verso l’istituzione scolastica e più in generale verso gli “altri significativi” – sarebbe alla
base di forme di socializzazione alternative, decifrabili attraverso l’inchiesta di auto-confessione;
viceversa, coloro i quali – pur vivendo a propria volta la dimensione conflittuale e contraddittoria
tipica della “seconda generazione” – non avessero esperito tali barriere in modo significativo,
manifesterebbero forme di socializzazione prossime a quelle riscontrabili tra i minori italiani, tenendo
comunque conto delle fondamentali variabili relative allo status socio-economico e al genere.
5
L’ipotesi del conflitto culturale
Come è noto, Thorsten Sellin è stato uno fra i primi criminologi ad occuparsi in maniera sistematica
del rapporto tra conflitto culturale e universo della devianza (Sellin, 1938), individuando tre principali
forme di scontro tra “codici culturali” che possono a loro volta risolversi nel consolidamento di
modelli di condotta devianti (gruppi sociali che abitano zone culturali di frontiera, situazioni - tipiche
dei processi di colonizzazione – in cui le norme culturali relative a un gruppo sociale o nazionale
vengono estese d’autorità a un altro gruppo, fenomeni di immigrazione). In quest’ultimo caso, il
conflitto vede da una parte i codici culturali tipici della società di destinazione e dall’altra i modelli
culturali di cui sono portatori i migranti: tendendo a radicalizzarsi proprio nell’esperienza della
“seconda generazione”. I giovani immigrati sperimentano infatti (più intensamente dei loro genitori, il
cui attaccamento ai modelli culturali del paese d’origine tende a preservarli dallo scontro con la
società di arrivo) un attrito tra i codici comportamentali trasmessi loro dai genitori e quelli che essi
hanno modo di apprendere attraverso le forme di socializzazione cui sono avviati all’interno della
società di destinazione, prima di tutto la scuola. Inoltre, questo conflitto si approfondirebbe
ulteriormente in virtù di due dinamiche che interpellano soprattutto la “seconda generazione”: da una
parte i giovani immigrati sarebbero infatti testimoni delle difficoltà di integrazione sperimentate dai
genitori – anche in ragione della loro “differenza culturale” – e tenderebbero perciò a rifiutare i
modelli culturali che questi ultimi rappresentano; dall’altra, i giovani di seconda generazione
tenderebbero a riporre nella società di arrivo aspettative maggiori rispetto a quelle investite dai
genitori – per i quali, invece, l’ipotesi del “ritorno” non svanirebbe mai del tutto – e sarebbero quindi
maggiormente esposti a possibili delusioni derivanti dagli ostacoli che il nuovo contesto oppone alla
loro mobilità sociale. Da qui, secondo Sellin, la tendenza delle seconde generazioni ad esibire livelli di
criminalità più elevati rispetto ai genitori e a privilegiare forme di socializzazione devianti.
L’ipotesi del controllo sociale
La teoria del controllo sociale adotta una prospettiva che definiremmo “speculare” a quella
tradizionalmente utilizzata dalla letteratura criminologica: il punto di partenza è infatti costituito dalle
condizioni di possibilità del comportamento socialmente conforme, prima e più che dalle circostanze
che producono la devianza (Hirschi, 1969; Gottfredson e Hirschi, 1990). In altri termini, la teoria del
controllo indaga la funzione e il significato di determinati legami sociali nel promuovere
comportamenti aderenti ai valori convenzionali, a fronte di una “natura umana” che si suppone
“spontaneamente” predisposta alla devianza. La devianza non costituisce l’esito di circostanze esterne
al soggetto o di processi di apprendimento caratterizzati dall’interazione con gruppi sociali devianti: al
contrario, essa discende da un “allentamento” dei controlli sociali che normalmente si impongono
all’individuo attraverso pratiche e istituzioni come la famiglia, la scuola o il vicinato.
Il fondamentale testo di Travis Hirschi Causes of Delinquency (1969) presenta un’articolazione
esaustiva di questa ipotesi, arrivando a individuare i diversi elementi che concorrono a definire i
legami sociali fondamentali (attachment, commitment, involvement e belief), la cui assenza indurrebbe
gli individui (in questo caso, adolescenti in età scolare) a privilegiare modelli di comportamento
devianti o criminali.
Non è difficile cogliere la potenziale utilità di questa ipotesi criminologica rispetto alla questione della
devianza tra i giovani immigrati di seconda generazione: l’esperienza di sradicamento, i processi di
ridefinizione conflittuale dell’identità, l’eventuale distanza – fisica o culturale – dei giovani migranti
rispetto ai genitori o ad “altri significativi” potrebbero infatti pregiudicare proprio quei legami sociali
che secondo l’ipotesi del controllo rappresentano il principale dispositivo di inibizione della devianza.
Va inoltre sottolineato che l’interesse nei confronti di questa prospettiva, per quanto riguarda la nostra
particolare ricerca, risiede anche nell’utilizzo, da parte di Hirschi stesso, nella sua indagine, di uno dei
primi (e più celebri) questionari di auto-confessione, strumento che è servito anche d’ispirazione per
l’elaborazione del questionario da noi utilizzato.
6
L’ipotesi dell’etichettamento
L’ultima ipotesi criminologica che concorre a definire l’approccio “integrato” di cui ci siamo serviti
nella presente ricerca è costituita dalla teoria dell’etichettamento. Com’è noto, negli anni ‘60 i
labelling theorists sono stati protagonisti di una vera e propria “rivoluzione copernicana” all’interno
della sociologia della devianza: l’attenzione dei sociologi – secondo questi autori – doveva spostarsi
dai devianti alle dinamiche di interazione sociale attraverso le quali essi giungevano ad essere definiti
come tali. Nel momento in cui un soggetto è definito come deviante – dalle agenzie di controllo
sociale formale o informale – questa definizione isola un particolare aspetto del comportamento
individuale assegnandogli un carattere assoluto: si è “ladro”, “drogato” o “clandestino” in virtù di un
processo di stigmatizzazione sociale dell’individuo che determina una radicale disarticolazione della
personalità e della percezione di sé. La condizione di incertezza che ne deriva induce il soggetto a
identificarsi con la definizione stigmatizzante che “altri significativi” hanno ritenuto appropriata al suo
modo di essere, e ad agire di conseguenza – adeguandosi cioè allo stigma. La devianza quindi non
rappresenta una caratteristica innata dell’individuo o dei suoi comportamenti, bensì il risultato di un
processo di definizione sociale che – nell’atto stesso di esprimersi come stigma – costruisce di fatto
l’identità deviante: “Il deviante è una persona alla quale questa etichetta è stata applicata con successo.
Un comportamento deviante è un comportamento che la gente etichetta come tale” (Becker, 1963: 2728).
Sarebbe difficile sopravvalutare l’importanza del paradigma della “reazione sociale” rispetto a
un’analisi dell’esposizione dei giovani immigrati di seconda generazione alla devianza e soprattutto
alla criminalizzazione: è infatti la stessa esperienza migratoria – nei confronti della quale, come si è
detto, dobbiamo registrare una reazione spesso ostile da parte della società di destinazione – a
suggerire una seria considerazione delle dinamiche attraverso le quali la differenza si traduce in
stigma, come anche degli effetti che esse possono esercitare sui processi di definizione dell’identità
dei giovani immigrati.
Il campione e le scuole
L’indagine che presentiamo si è svolta attraverso la somministrazione di un questionario agli alunni
delle classi terze di alcune scuole secondarie di I grado presenti nel territorio di Bologna. La scelta di
operare la somministrazione all’interno di un ambiente scolastico si situa da una parte in continuità
con diverse altre ricerche di auto-confessione, come già accennato precedentemente, e dall’altra
risponde all’esigenza di individuare un contesto al cui interno sia possibile riscontrare una presenza
significativa di minori stranieri di seconda generazione.
Le terze classi definiscono sotto questo profilo un ambiente particolarmente promettente dal punto di
vista della presente ricerca: da una parte, infatti, la popolazione scolastica di queste classi esibisce una
presenza straniera piuttosto significativa; dall’altra, la fascia di età media di questa popolazione (13-14
anni) appare compatibile con la produzione di comportamenti devianti, anche se non necessariamente
dotati di rilevanza penale.
In base a una serie di contatti “esplorativi” – grazie ai quali è stato possibile ricostruire una geografia,
sia pure sommaria, della presenza straniera all’interno delle diverse scuole del territorio bolognese – si
è definita la selezione degli istituti scolastici da sottoporre a inchiesta, avendo cura di scegliere quattro
istituti distribuiti equamente tra centro e periferia, e selezionando scuole il cui bacino d’utenza
comprendesse sia famiglie benestanti e appartenenti alla “borghesia intellettuale” della città (residenti
nel centro città o nella famosa zona dei “colli bolognesi”) sia famiglie immigrate, spesso residenti nel
centro storico di Bologna, dove nella maggior parte hanno stabilito soprattutto attività commerciali di
piccole dimensioni (alimentari, posti telefonici pubblici, mercerie, etc.), oppure provenenti dalla zona
adiacente alla stazione ferroviaria - area che presenta numerose caratteristiche riconducibili al modello
delle “aree di transizione” identificate dalla scuola di Chicago: si tratta infatti di un quartiere abitato da
famiglie di reddito medio-basso e investito, negli ultimi anni, da un intenso fenomeno immigratorio
che ha riguardato soprattutto gruppi di provenienza asiatica e africana, che hanno comportato un forte
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cambiamento nella fisionomia della zona, ora caratterizzata in misura crescente dalla presenza di
attività commerciali “etnicamente definite” e orientate a una clientela fortemente caratterizzata in
termini nazionali.
Nel complesso, il campione statistico è dunque costituito dagli alunni frequentanti 19 classi terze di
scuole secondarie di I grado: complessivamente 335 alunni, di cui 177 maschi e 158 femmine.
Per ogni classe si è impiegato un tempo medio di somministrazione di 45/50 minuti. La
somministrazione si è verificata alla presenza di uno o due ricercatori, il cui ruolo era limitato alla
chiarificazione di eventuali dubbi circa la compilazione del questionario – una funzione rivelatasi
particolarmente utile soprattutto per i rispondenti stranieri.
Struttura del questionario e modalità di somministrazione
Il questionario impiegato nella ricerca è composto da 108 domande e si articola su diverse aree di
indagine variamente connesse al tema della socializzazione normativa. L’unità di ricerca ha infatti
strutturato lo strumento di indagine partendo da alcuni “nuclei tematici” che sono sembrati
particolarmente utili a delineare un’immagine per quanto possibile completa tanto dei contesti di
interazione al cui interno i minori sono inseriti, quanto anche delle diverse dotazioni di “capitale”
(economico, culturale e sociale) di cui i minori possono beneficiare nel momento in cui entrano in
contatto con tali contesti. I nuclei tematici riguardano in particolare:
• fattori socio-anagrafici (luogo di nascita del minore; luogo di residenza dei familiari;
estensione del nucleo familiare, etc.).
• fattori socio-economici (condizione abitativa del minore; accesso a determinati “beni
posizionali”; accesso al “capitale culturale” e livello di consumo culturale della famiglia;
condizione del quartiere di residenza del minore, etc.).
• orientamenti valoriali (attitudini del minore nei confronti della famiglia, della scuola, della
città e della società in genere).
Particolare rilievo assume poi, all’interno del questionario, l’insieme delle domande volte ad indagare
l’incidenza quantitativa e qualitativa di eventuali comportamenti devianti. In particolare – come si è
già accennato in precedenza – nella predisposizione delle domande orientate a sollecitare l’autoconfessione da parte dei minori, l’unità di ricerca ha privilegiato un approccio criminologico di tipo
integrato – capace cioè di intrecciare le diverse ipotesi criminologiche di riferimento.
I dati e le variabili
La maggior parte delle domande presenti nel questionario è strutturata a risposta multipla, con le
diverse opzioni graduate in termini di intensità e dunque traducibili numericamente in altrettante
variabili quantitative; salvo alcuni pochi casi in cui al campione è stato richiesto di esprimere un punto
di vista o di compilare un campo aperto, con risultante variabile qualitativa.
Com’è noto, le variabili numeriche presentano il vantaggio di poter essere utilizzate per un’ampia
serie di elaborazioni e di operazioni volte alla costruzione di variabili complesse. Questa circostanza
ha consentito all’unità di ricerca di affrontare un problema già segnalato da buona parte della
produzione sociologica su immigrazione e devianza: la questione della definizione di straniero.
Uno degli obbiettivi della ricerca era infatti quello di verificare se – e in che misura – la condizione di
“straniero” (e in particolare di “seconda generazione”) potesse influire sull’auto-confessione di
comportamenti devianti da parte dei minori sottoposti a inchiesta: e tuttavia, l’attribuzione della
qualità di “straniero” si è rivelata un’operazione particolarmente complessa in virtù della varietà di
condizioni anagrafiche e familiari rintracciabili all’interno del campione.
Chiedersi a che particolare variabile si possa affidare il compito di distinguere tra la condizione di
italiano e quella di straniero, e in particolare da che caratteristica si riconosca la seconda generazione
8
non è affatto una domanda retorica, in quanto non esiste una vera e assoluta definizione di questo
concetto. Come ha giustamente puntualizzato Jacqueline Andall (2002), le prime difficoltà a trattare
questo argomento nascono proprio dal mancato accordo degli studiosi e dei ricercatori in questo senso.
Negli studi classici su questo argomento sono state proposte le definizioni più disparate: Irving Child
(1943) considerò appartenenti alla seconda generazione i figli degli stranieri nati negli Stati Uniti
(dove si svolgeva la ricerca) o lì arrivati in tenera età, senza ulteriori specificazioni. Portes e Zhou
(1993) invece considerarono tali gli stranieri nati nella terra d’adozione da almeno un genitore nato
all’estero, o i soggetti giunti negli Stati Uniti prima dei 12 anni; in Europa, Wilpert (1988) incluse
nella seconda generazione i bambini non necessariamente nati nella terra d’origine dei genitori, mentre
Modood et al.(1997a), in uno studio svoltosi in Inghilterra, incluse nella categoria considerata i figli
degli stranieri lì nati o arrivati nel paese prima di aver compiuto 15 anni.
Con questi metodi di catalogazione, il rischio di ottenere risultati affetti da errori è molto grande: da un
lato restringendo il capo di indagine con criteri molto severi si corre il rischio di ridurre il campione ad
un numero di soggetti piuttosto scarno e quindi non realmente rappresentativo, ma balza agli occhi che
includere nella stessa categoria un bambino nato nel paese d’adozione e un quindicenne fino quel
momento vissuto in un’altra società potrebbe comportare difficoltà nell’identificare chiaramente
l’identità in cui si riconoscono maggiormente i soggetti, il loro livello di integrazione sociale, la
cultura in cui si identificano maggiormente (Andall, 2002).
Una proposta un po’ più “flessibile” è proprio quella proveniente in tempi più recenti da Jacqueline
Andall (2002), e si incentra sul prendere come punto di riferimento l’essere arrivati nel Paese
d’adozione entro l’età che corrisponde, nella maggior parte dei casi, all’entrata del bambino nella
comunità e quindi all’inizio della sua socializzazione: l’età dell’ingresso nella scuola dell’obbligo (5-6
anni).
Per scongiurare l’evidente inadeguatezza di una misurazione puramente binaria (stranieri/italiani) a
rendere conto di tale varietà – ma dovendo d’altronde costruire una variabile idonea a tradurre la
rilevanza statistica degli elementi che concorrono a definire la condizione di straniero/a – si è dunque
optato per la costruzione di una variabile complessa denominata ESTERITÁ: si tratta di una variabile
che considera la qualità dell’essere straniero come una qualità graduabile e quindi continua, che
misura la distanza tra italiani e stranieri, senza però polarizzare eccessivamente il campione. Per
costruire la variabile infatti, sono stati sommati i punteggi riportati dai soggetti nelle domande
riguardanti le caratteristiche anagrafiche idonee a connotare il rispondente come italiano o straniero: il
luogo di nascita, gli anni trascorsi in Italia, la nazionalità dell’intervistato e quella dei genitori, la
residenza di questi ultimi e l’esistenza di uno o più nonni residenti all’estero.
Il valore della variabile complessa risultante da queste operazioni è dunque continuo, e cresce con
l’aumentare degli indicatori di un’identità connotata da elementi di distanza dalla nazionalità italiana:
tale valore varia da un minimo di 0 (che descrive la condizione dell’individuo a tutti gli effetti
“italiano”) a 4.45 (che rappresenta la situazione-limite del soggetto interamente identificato come
straniero).
A partire da questi presupposti, dunque, il campione risulta costituto da 240 “italiani” (con ESTERITÁ
=0) e da 59 soggetti che presentano un qualche grado di ESTERITÁ (ESTERITÁ > 0); si segnalano
poi 38 unità rispetto alle quali non è stato possibile calcolare con esattezza l’indice suddetto, poiché
non hanno risposto ad una o più domande incluse nel calcolo della variabile.
Un’altra variabile di estrema importanza è quella relativa alla devianza: anche in questo caso si è
proceduto alla costruzione di una variabile complessa denominata DEVIANZA AUTORILEVATA,
alla cui definizione hanno concorso le diverse domande di “auto-confessione”, vale a dire quelle
orientate a verificare l’eventuale produzione di comportamenti devianti da parte dei soggetti indagati.
In particolare, le domande (contenute nel questionario) di cui ci si è serviti per l’elaborazione della
variabile suddetta sono le seguenti:
9
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Ti è mai capitato di prendere qualcosa da un negozio senza pagarla?
Ti capita di disubbidire ai tuoi insegnanti solo per divertimento?
Ti capita di disubbidire ai tuoi genitori solo per divertimento?
Ti capita di fumare delle sigarette?
Ti è capitato di portare via qualcosa ai tuoi amici di nascosto?
Ti capita di bere alcolici?
Ti è capitato di non andare a scuola perché non ne avevi voglia?
Ti è capitato di rompere qualcosa per divertimento?
Ti è capitato di guidare un motorino (domanda rilevante per i minori di anni 14)
Ti è capitato di picchiare qualcuno?
Ti è capitato di andare in autobus senza pagare il biglietto?
Ti è capitato di fare male a un gatto o a un cane per vedere come reagiva?
Queste, dunque, le domande che compongono il versante self-report del questionario utilizzato in
questa indagine. Tutte le domande di auto-confessione prevedevano una sola risposta, che poteva
essere selezionata tra quattro possibilità (MAI – RARAMENTE – QUALCHE VOLTA – SPESSO).
Esaurite queste notazioni preliminari sulla DEVIANZA AUTORILEVATA, possiamo rivolgerci alla
traduzione statistica delle diverse teorie criminologiche che costituivano il background teorico della
nostra indagine: come si è anticipato, abbiamo preso in considerazione diverse ipotesi sulla devianza –
e in particolare sulla questione della seconda generazione di immigrati – chiedendoci se e in che
misura tali ipotesi criminologiche potessero offrire una base euristica efficace rispetto al nostro tema
di indagine.
Le diverse teorie criminologiche sono state operazionalizzate attraverso la costruzione di ulteriori
variabili complesse intese a misurare la riconducibilità dei comportamenti confessati dai rispondenti
alle stesse teorie: a questo scopo, nel questionario sono state incluse alcune domande “spia”, volte cioè
ad evidenziare la presenza o meno dei presupposti eziologici significativi dal punto di vista di ciascuna
ipotesi criminologica. In questo modo è stato possibile elaborare una serie di variabili criminologiche,
tra le quali le più significative, come è stato già precedentemente segnalato, sono risultate:
•
•
•
STIGMA/TECNICHE DI NEUTRALIZZAZIONE - attraverso cui si intendeva misurare
rispettivamente la possibile incidenza di fenomeni di auto-stigmatizzazione da parte dei
rispondenti, nonché l’eventuale impiego di “tecniche di neutralizzazione” (secondo la nota
formula di Sykes e Matza 1957) capaci di facilitare l’adozione di comportamenti devianti.
CONFLITTO CULTURALE/GENERAZIONALE – si tratta di una variabile complessa,
definita a partire dalle ipotesi di Thorsten Sellin già ampiamente citate, intesa per misurare il
livello di conflitto con l’ambiente familiare del rispondente – nell’ipotesi che, soprattutto per
quanto riguarda i giovani di seconda generazione, la devianza possa costituire l’esito di un
conflitto tra le sollecitazioni culturali cui il giovane è esposto nella società di destinazione e i
modelli di comportamento trasmessi dai genitori.
CONTROLLO SOCIALE e LEGAME CON LA FAMIGLIA - queste variabili misurano
la solidità e l’estensione dei legami sociali che vincolano i minori a una serie di ambiti
(formali e informali), considerati fattori importanti dal punto di vista dell’eziologia della
devianza. In particolare molto significativa nell’interpretazione dei dati ricavati è risultata,
come vedremo in specifico, la misura dell’intensità e della solidità del legame tra i rispondenti
e i genitori – per come si può desumere tanto dal giudizio che i primi esprimono sui secondi,
quanto dal grado di sostegno materiale e psicologico che i figli si aspettano dai genitori.
In fase di trattamento dei dati si è poi proceduto all’elaborazione di ulteriori variabili complesse,
relative ad altri aspetti significativi dal punto di vista delle circostanze (sociali, economiche, culturali o
familiari) che possono incidere sull’adesione a forme di socializzazione alternative o a modelli di
comportamento devianti, in particolare considerando la situazione abitativa dell’intervistato
(misurata come rapporto tra numero di vani disponibili e numero delle persone che risiedono nel
10
medesimo nucleo abitativo, e considerando in particolare la disponibilità o meno di un ambiente
domestico riservato al rispondente), la percezione del proprio benessere, in particolare riguardante la
casa e il quartiere di residenza, la condizione socio-economica della famiglia di appartenenza (in
particolare la condizione di prestigio sociale associata alla professione paterna) e il capitale culturale
della famiglia (misurato attraverso la presenza di libri non scolastici in casa e la regolarità della
fruizione dei servizi di informazione, quali telegiornali e stampa, da parte del nucleo familiare).
Il modello
Sulla base di una prima ricognizione dei risultati di un’analisi di correlazione, l’ipotesi di una maggior
propensione deviante da parte dei giovani stranieri di seconda generazione non sembra verificata:
dall’analisi delle frequenze relative alla variabile DELINQUENZA AUTORILEVATA, risulta infatti
che – a fronte di una percentuale comunque molto elevata di rispondenti che confessano qualche
comportamento deviante – gli italiani sopravanzano leggermente gli stranieri. In particolare, confessa
di aver tenuto almeno uno dei comportamenti elencati sopra, il 93% circa dei rispondenti “stranieri”
(cioè con ESTERITA’ > 0) e il 97% circa degli “italiani” (cioè con ESTERITA’ = 0). Un’ulteriore
indicazione in questo senso, si ottiene poi confrontando le medie dei valori della variabile
DEVIANZA AUTORILEVATA per gli italiani e gli “straneri”: in questo caso si evince che – sebbene
gli stranieri risultino in media leggermente più devianti – la differenza tra i valori si limita a un solo
punto, essendo il valore medio della variabile suddetta pari a 19,3 per gli italiani, e di 20,4 per gli
stranieri.
Le correlazioni che invece interessano in modo significativo la variabile ESTERITA’ sono quelle
relative al livello socio-economico della famiglia e al “prestigio sociale” delle professioni svolte dai
genitori. In altri termini, la condizione di “stranieri” è significativamente correlata – in senso negativo
– con il livello di prestigio sociale riconosciuto alla professione paterna: un dato che rivela una
maggior concentrazione di professioni socialmente percepite come “umili” tra le famiglie dei minori
annoverabili come “stranieri” (ESTERITA’ > 0). Peraltro, questo dato trova riscontro anche nella
correlazione – anch’essa significativa – tra la condizione di “straniero” e la situazione abitativa, o
ancora tra la condizione di “straniero” e la percezione del benessere da parte dell’intervistato.
In sintesi, i nostri risultati evidenziano come con l’aumentare degli indici di ESTERITA’ dei
rispondenti tenda a diminuire la posizione sociale della famiglia di appartenenza – tanto dal punto di
vista della situazione abitativa, quanto da quello della percezione dell’abitazione in cui si risiede e del
quartiere in cui si vive.
Non potendosi riscontrare – come già detto – alcuna correlazione significativa tra la condizione di
“straniero” e la maggior propensione a confessare comportamenti devianti, si è proceduto
nell’elaborazione del modello di riferimento selezionando solo alcune variabili: in sintesi, si sono
mantenute le variabili complesse già descritte e le variabili semplici relative al SESSO, all’ETA’, e al
punteggio associato alla professione paterna (CONDIZIONE SOCIO-ECONOMICA – misurata dalla
variabile PUNTI PADRE)7.
Di nuovo, in base alle correlazioni operate tra queste variabili, è risultata ancora una volta confermata
la scarsa significatività della condizione di “straniero” rispetto alla variabile DELINQUENZA
AUTORILEVATA che d’altra parte evidenzia invece delle correlazioni significative con le seguenti
variabili:
•
SESSO: la correlazione è significativa e indica una maggior propensione a confessare
comportamenti devianti da parte dei rispondenti maschili rispetto a quelli di sesso femminile;
7
Nella traduzione statistica delle risposte fornite dagli intervistati in merito alla professione del padre e della
madre, ci siamo serviti della tabella prodotta da De Lillo e Schizzerotto (1985) che misura, attraverso diversi
punteggi, il diverso livello di prestigio sociale riconosciuto nella società italiana a vari ambiti occupazionali.
11
•
•
•
PERCEZIONE DEL BENESSERE: la correlazione è significativa e indica una maggior
propensione a confessare comportamenti devianti da parte di coloro che esprimono una
percezione di minor benessere (relativamente al quartiere di residenza e all’abitazione);
LEGAME CON LA FAMIGLIA: la correlazione è significativa e indica una maggior
propensione a confessare comportamenti devianti da parte di coloro che evidenziano una
minor intensità e solidità dei legami familiari;
STIGMA: la correlazione è significativa e indica una maggior propensione a confessare
comportamenti devianti da parte di coloro che esibiscono indici di stigmatizzazione (o di autostigmatizzazione).
Sul versante delle teorie criminologiche considerate si segnala una duplice correlazione significativa
con la variabile DEVIANZA AUTORILEVATA: tale correlazione riguarda in particolare il
CONFLITTO CULTURALE/GENERAZIONALE e le TECNICHE DI NEUTRALIZZAZIONE. In
particolare, abbiamo riscontrato da una parte una maggior propensione a confessare comportamenti
devianti da parte dei soggetti che esibiscono un forte livello di conflittualità con la famiglia di
provenienza, e dall’altra la tendenza – da parte di quanti effettivamente riportano di aver tenuto
comportamenti devianti – a ricorrere a giustificazioni “tipizzate” (quali sono, appunto, le tecniche di
neutralizzazione).
In base a queste indicazioni è stato possibile definire alcuni modelli esplicativi, da testare poi
attraverso un’analisi di regressione. Nel modello figurano quali variabili indipendenti le variabili
esogene maggiormente significative – ETA’, SESSO, ESTERITA’, CONDIZIONE SOCIOECONOMICA – e le singole variabili criminologiche. Successivamente, si è proceduto a testare il
modello proposto computando le variabili criminologiche come indipendenti e considerando come
dipendente la variabile DELINQUENZA AUTORILEVATA – in modo da verificare la validità
esplicativa delle diverse ipotesi criminologiche rispetto all’auto-confessione di comportamenti
devianti. Infine, si sono operate delle regressioni multiple con l’obbiettivo di verificare la validità
complessiva del sistema, che possiamo illustrare come segue:
Variabili esogene: xetà, xsesso, xesterità, xpunti_p, xleg. fam
Equazione n.1: ystigma = xetà + xsesso + xesterità + xpunti_ p + xleg. fam + u
Equazione n.2: yconfl.cult = xetà + xsesso + xesterità + xpunti_ p + xleg.fam + xstigma + u
Equazione n.3: ydev.aut. = xetà + xsesso + xesterità + xpunti_p + xleg. fam + xstigma + xconfl.cult + u
dove:
xetà, xsesso, xesterità, xpunti_p e xleg. fam sono variabili esogene;
xstigma e xconfl.cult sono variabili intermedie;
u è un termine residuo che esprime sia altri fattori influenti sul sistema sia elementi di tipo casuale.
12
I risultati
Nella figura e nella tabella che seguono illustriamo graficamente i risultati delle varie equazioni di
regressione:
Fig. 1 Modello per l’intero campione
Tab. 1 Risultati∗ delle equazioni di regressione operate sull’intero campione
Equazione n.1 (R2 = 0,12)
Variabili indipendenti
Variabile dipendente
STIGMA
ETÀ
--------------
SESSO
-1,05 (-0,17)
ESTERITÀ
--------------
CONDIZIONE SOCIO-ECONOMICA
(PUNTI PADRE)
0,23 (0,17)
LEGAMI FAMILIARI
-0,39 (-0,26)
Coefficienti e coefficienti standardizzati (tra parentesi) delle correlazioni lineari con una significatività
superiore allo 0,05; i trattini indicano che il coefficiente non è significativo; R2: test R quadro, che indica
l’attendibilità dell’equazione testata
∗
13
Equazione n.2 (R2 = 0,41)
Variabili indipendenti
ETÀ
Variabile dipendente
CONFLITTO CULTURALE
GENERAZIONALE
------------------
SESSO
1,05 (0,09)
ESTERITÀ
------------------
CONDIZIONE SOCIO-ECONOMICA
(PUNTI PADRE)
------------------
LEGAMI FAMILIARI
-1,06 (-0,42)
STIGMA
0,66 (0,38)
Equazione n.3 (R2 = 0,32)
Variabili indipendenti
ETÀ
SESSO
Variabile dipendente
DEVIANZA AUTORILEVATA
------------------1,88 (-0,17)
ESTERITÀ
------------------
CONDIZIONE SOCIO-ECONOMICA
(PUNTI PADRE)
------------------
LEGAMI FAMILIARI
------------------
STIGMA
0,25 (0,14)
CONFLITTO CULTURALE
0,40 (0,40)
Riassumendo i nostri dati, una particolare caratteristica di stabilità si riscontra rispetto alla variabile
SESSO, la cui correlazione con la DEVIANZA AUTORILEVATA è significativa e si attesta su valori
che oscillano tra 0,17 e 0,25: questo suggerisce chiaramente una maggior propensione dei maschi,
rispetto alle femmine, a confessare comportamenti devianti.
Altre due variabili il cui effetto sulla DEVIANZA AUTORILEVATA non appare trascurabile sono
rispettivamente il CONFLITTO CULTURALE – la cui correlazione con la devianza auto-confessata è
particolarmente significativa (0,50 se la variabile “conflitto” è considerata separatamente; 0,40 quando
è associata ad altre variabili) – e lo STIGMA, anche se in misura minore (0,14).
A questo punto ci si è chiesti quali fattori potessero incidere tanto sul conflitto culturale, quanto sullo
stigma, e attraverso ulteriori analisi di regressione si è giunti alla conclusione che le variabili
maggiormente significative dal punto di vista del conflitto culturale sono il SESSO – le rispondenti di
sesso femminile sembrano maggiormente esposte al conflitto culturale rispetto ai maschi – la scarsa
intensità e solidità dei LEGAMI CON LA FAMIGLIA e la percezione di uno STIGMA: su
quest’ultimo poi, esercitano particolare influenza circostanze come il sesso maschile, l’appartenenza a
una famiglia di status economico medio-alto e soprattutto la scarsa solidità dei legami familiari.
In definitiva, la variabile LEGAMI CON LA FAMIGLIA sembra essere la più significativa all’interno
del modello che abbiamo proposto, dal momento che sembra influire tanto sul consolidamento di
forme di auto-stigmatizzazione – le quali, come si è detto, quando si associano a indici di conflitto
culturale incidono significativamente sulla propensione a confessare episodi di devianza – quanto sullo
14
stesso CONFLITTO CULTURALE – a sua volta correlato significativamente alla devianza autoconfessata.
In sintesi, il modello suggerisce che la propensione alla devianza (o quanto meno alla sua confessione)
sia maggiormente accentuata tra coloro che si sentono investiti da uno stigma (e in particolare si tratta
di maschi provenienti da famiglie di status medio-alto, e con scarsi legami familiari), e tra quanti
sembrano esperire un forte livello di conflitto culturale/generazionale nei confronti della propria
famiglia di origine.
Le considerazioni fin qui proposte si riferiscono ovviamente al campione considerato nella sua
interezza; come si è più volte ripetuto, non è stato possibile riscontrare alcuna influenza significativa
della variabile ESTERITA’ sulle altre qui considerate; può comunque essere interessante impiegare la
medesima variabile quale fattore discriminante del campione – cioè operando analoghe regressioni
statistiche sul campione disaggregato tra italiani (ESTERITA’ =0) e stranieri (ESTERITA’ >0).
Fig. 2 Modello per il campione degli italiani
15
Tab. 2 Risultati delle equazioni di regressione operate sul campione degli italiani
Equazione n.1 (R2 = 0,14)
Variabili indipendenti
Variabile dipendente
STIGMA
ETÀ
--------------
SESSO
-0,88 (-0,14)
ESTERITÀ
--------------
CONDIZIONE SOCIO-ECONOMICA
(PUNTI PADRE)
0,28 (0,20)
LEGAMI FAMILIARI
-0,43 (-0,28)
Equazione n.2 (R2 = 0,43)
Variabili indipendenti
Variabile dipendente
CONFLITTO CULTURALE
GENERAZIONALE
ETÀ
------------------
SESSO
------------------
ESTERITÀ
------------------
CONDIZIONE
(PUNTI PADRE)
SOCIO-ECONOMICA
------------------
LEGAMI FAMILIARI
-0,99 (-0,41)
STIGMA
0,67 (0,40)
Equazione n.3 (R2 = 0,34)
Variabili indipendenti
ETÀ
------------------
SESSO
------------------
ESTERITÀ
CONDIZIONE
(PUNTI PADRE)
-----------------SOCIO-ECONOMICA
LEGAMI FAMILIARI
STIGMA
CONFLITTO CULTURALE
16
Variabile dipendente
DEVIANZA AUTORILEVATA
------------------0,45 (-0,19)
-----------------0,35 (0,37)
Come si può constatare, gli italiani sembrano rispondere a un modello del tutto simile a quello
generale – anche in virtù della loro presenza maggioritaria all’interno del campione generale – ad
eccezione dell’influenza qui minore, rispetto al campione considerato complessivamente, della
variabile SESSO sulla DEVIANZA AUTORILEVATA. Risultano invece del tutto confermate le
correlazioni che legano quest’ultima tanto al LEGAME CON LA FAMIGLIA, quanto allo STIGMA,
quanto infine al CONFLITTO CULTURALE. Rispetto a questo campione, poi, si riscontra anche un
rapporto diretto tra la scarsa solidità del LEGAME CON LA FAMIGLIA e la DEVIANZA
AUTORILEVATA: quest’ultimo aspetto riveste un particolare rilievo, dal momento che tale legame
diretto si riscontra soltanto per gli italiani.
Fig. 3 Modello per il campione degli stranieri (ESTERITA’ > 0)
Tab. 3 Risultati delle equazioni di regressione operate sul campione degli stranieri
Equazione n.1 (R2 = 0,13)
Variabili indipendenti
Variabile dipendente
STIGMA
ETÀ
---------------
SESSO
-1,72 (-0,28)
ESTERITÀ
---------------
CONDIZIONE SOCIO-ECONOMICA
(PUNTI PADRE)
---------------
LEGAMI FAMILIARI
---------------
17
Equazione n.2 (R2 = 0,42)
Variabili indipendenti
Variabile dipendente
CONFLITTO CULTURALE
GENERAZIONALE
ETÀ
---------------
SESSO
---------------
ESTERITÀ
---------------
CONDIZIONE SOCIO-ECONOMICA
(PUNTI PADRE)
---------------
LEGAMI FAMILIARI
-1,28 (-0,49)
STIGMA
0,57 (0,29)
Equazione n.3 (R2 = 0,47)
Variabili indipendenti
Variabile dipendente
DEVIANZA AUTORILEVATA
ETÀ
---------------
SESSO
---------------
ESTERITÀ
---------------
CONDIZIONE SOCIO-ECONOMICA
(PUNTI PADRE)
---------------
LEGAMI FAMILIARI
---------------
STIGMA
0,56 (0,51)
CONFLITTO CULTURALE
0,40 (0,40)
Come si può constatare dalla Tab. 3, guardando ai soli stranieri del campione si riscontrano alcune
differenze significative rispetto al campione generale: qui infatti, l’unica variabile che sembra
significativamente correlata con la DEVIANZA AUTORILEVATA
è costituita dal CONFLITTO
CULTURALE, la cui incidenza risulta addirittura rafforzata se tale variabile viene considerata
congiuntamente alle altre inserite nel modello. E tuttavia, giova ricordare ancora una volta che questa
variabile complessa include tanto indici capaci di misurare il conflitto legato a differenze di tipo
culturale, etnico o di aspettative – tipiche della seconda generazione immigrata – quanto, e più in
generale, indicatori di una conflittualità più “generazionale” – riferibile, in questo senso, tanto ai
minori “stranieri” quanto agli italiani.
Ancora una volta, risulta confermata la rilevanza della variabile SESSO – che influisce però più sullo
STIGMA (percepito con maggiore intensità dai maschi) che non sulla DEVIANZA
AUTORILEVATA; il LEGAME CON LA FAMIGLIA, invece, influisce sensibilmente sul
CONFLITTO CULTURALE che a sua volta risulta influenzato anche dallo STIGMA. In definitiva – e
in maniera non sorprendente, alla luce della più attenta ricerca sociologica sul tema – rispetto agli
“stranieri” del nostro campione il conflitto culturale si presenta come la variabile più
significativamente correlata con la confessione di comportamenti devianti.
18
In margine ai risultati
Alla luce di quanto si è detto, possiamo dire che non risulta, dalla ricerca, una generale maggior
propensione a delinquere da parte degli stranieri, e che, in particolare, non sembra essere consistente la
più volte ipotizzata relazione positiva tra il crescere dell’identità straniera e il crescere dei livelli di
devianza autorilevata. Le uniche relazioni positive trovate con il livello di “esterità” dell’alunno,
abbiamo visto, sono legate al suo livello socio-economico, sia oggettivo (attraverso l’identificazione
del prestigio sociale attribuito alla famiglia, come riflesso del prestigio attribuito dalla società alla
professione paterna) sia percepito (attraverso l’opinione del ragazzo sulla propria casa, quartiere,
ambiente in generale).
Questo, ovviamente, non ci dice molto sui livelli di delinquenza, che invece rimangono legati a
condizioni diverse (che possono appartenere sia agli stranieri che agli italiani), quali il sesso maschile,
la scarsa percezione del benessere e i deboli legami con la famiglia, oltre che a presentarsi
generalmente appaiati con quelle variabili complesse che avrebbero permesso l’interpretazione del
modello secondo le teorie criminologiche ricordate (come l’applicazione delle tecniche di
neutralizzazione, il livello di auto-stigmatizzazione da parte dell’alunno e la presenza di un forte
conflitto culturale/generazionale).
La condizione degli stranieri rispetto ai livelli di devianza autorilevata, sembra invece essere piuttosto
omogenea rispetto a quella degli italiani: in entrambi i sotto-gruppi del campione la quasi totalità degli
intervistati ha ammesso di aver tenuto almeno una volta un comportamento deviante (dato in linea con
quanto trovato da tutta la ricerca criminologica effettuata con metodi di auto-confessione) e, anzi, pare
che il gruppo “un po’ più deviante” sia proprio quello degli italiani (ma con differenze davvero poco
significative) .
Dall’analisi complessiva, pare quindi essere chiaro che la condizione chiave nella scelta di
comportamento degli adolescenti è legata alla loro condizione familiare: al livello di controllo che i
genitori hanno sui figli, ma soprattutto al livello di confidenza, fiducia e stima che i figli nutrono nei
confronti dei genitori, visti come guida e proiezione di se stessi nel futuro.
Il non possedere forti legami con la famiglia influenza un po’ tutto il modello che abbiamo considerato
come miglior spiegazione dei dati empirici: nei ragazzi italiani, esso può portare sia a sviluppare un
conflitto generazionale, che alla formazione di una visione stigmatizzata di sé, portando il ragazzo ad
identificarsi come cattivo, inutile, fallito rispetto alle aspettative che i genitori nutrono nei suoi
confronti. Queste condizioni sono senz’altro sufficienti per convincere un ragazzo ad assumere
atteggiamenti contrastanti con la maggior parte dei suoi coetanei, sia nel caso che questo
atteggiamento sia assunto per rendere in qualche modo “ufficiale” la sua diversità (nella prospettiva
dell’etichettamento), sia nel caso che questo serva per affermare con forza una sua individualità.
Se negli italiani l’avere legami familiari deboli, abbiamo visto, può causare, in parte la decisione di
delinquere già di per sé, negli stranieri questa caratteristica si riversa totalmente nel conflitto
culturale/generazionale, acuendo i rapporti tra genitori e figli, già resi fragili dalla differenza di
mentalità dovuta ai diversi luoghi in cui le due generazioni sono nate e cresciute, e dal diverso sistema
di aspettative per il futuro che le anima. Si può pertanto affermare che più che condizioni oggettive di
differenza, come lo stato di straniero o la propria maggiore identificazione con una nazionalità diversa
da quella italiana, o anche il proprio stato socio-economico, sembrano essere fattori personali e
psicologici a spingere i giovani, stranieri e non, ai primi atti di devianza. Rimane, evidentemente, da
indagare se la riconferma di questi atteggiamenti nel tempo sia causata dagli stessi fattori che
influiscono sugli adolescenti, o se nel corso degli anni intervengano ulteriori fattori esterni (per
esempio di natura economica, o forse più legati alla frustrazione delle proprie aspettative di crescita) a
meglio definire una carriera criminale; così come rimane ancora da chiarire quali siano, nel caso degli
stranieri, quelle condizioni, diverse dai rapporti familiari, che generano lo stigma sul soggetto (come
appare evidente dal modello) e che lo spingono a delinquere.
Rimane inoltre il dubbio, come in tutte le ricerche di auto-confessione fin qui esaminate, che l’aver
trovato una correlazione così forte con le difficoltà dei rapporti coi genitori non derivi da una maggior
propensione dei ragazzi che si auto-denunciano a scaricare la responsabilità delle proprie azioni
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(percepite come “colpe”) sulle spalle di genitori severi, assenti o poco comprensivi, o che addirittura
gli stessi rapporti difficili in casa non siano dovuti ad una sorta di “effetto feed-back”, ossia siano
causati, a loro volta, dalla reazione dei genitori alla devianza o, addirittura, delinquenza del figlio.
In conclusione
In questa prima analisi appare dunque una conferma di un risultato comune alla ricerca basata sulla
cosiddetta “autoconfessione”. Categorie come quella di “classe sociale” o di “etnicità” sembrano
giocare un ruolo abbastanza marginale. Mentre nella ricerca basata sulla criminalità registrata
ufficialmente il ruolo della classe sociale e dell’etnicità è di grande importanza, nella ricerca di selfreport lo è assai meno (si veda ad esempio il caso di quella che fu pioniera a queste ricerche, quella di
Travis Hirschi (1969:75-81)) e nel nostro caso specifico addirittura scompare. Ciò che permane
invece, così come nelle altre ricerche di questo tipo, è da un lato l’importanza del genere – forse anche
perché il tipo di devianze qui descritte e identificate si prestano di più ad una declinazione “maschile”?
– e dall’altro dell’autorità e dell’affetto, siano rappresentanti di questi i genitori o gli insegnanti. E’
certamente chiaro che per ragazzi che hanno in media quattordici anni è problematico distinguere
l’intenzione dichiarata sulla devianza, le “opinioni”, dai “comportamenti”, sia dal punto di vista della
veridicità delle loro dichiarazioni sia soprattutto dal punto di vista dello statuto epistemologico, per
così dire, delle medesime. L’eterno problema delle ricerche basate su interviste – se l’intervista ci
parli, come in teoria dovrebbe, di situazioni altre da quella dell’intervista o se invece ci dia
informazioni unicamente sulla situazione dell’intervista, come taluni credono – si pone in maniera
particolarmente acuta qui. E’ difficile mettere in relazione l’espressione di una credenza o convinzione
sul rispetto o meno di particolari norme e la dichiarazione dell’averle infrante, così come se si trattasse
di un rapporto di causa ed effetto. Può essere che tali dichiarazioni esprimano fondamentalmente la
stessa cosa. Più difficile però sembra essere negare che l’una e le altre esprimano una situazione di
disagio, e che tale situazione di disagio sia più acuta nei maschi e soprattutto in coloro che soffrono
nei loro rapporti con quelle figure che dovrebbero trasmettere affetto e al tempo stesso – sostenuta
dall’affetto – l’influenza della loro autorità. Qui ci sembra di avere individuato una fonte di disagio
che assume caratteri quasi universali, almeno nel nostro campione. La problematicità del rapporto con
i genitori, in qualche modo correlata con opinioni e comportamenti anticonvenzionali, può essere
propria del figlio di immigrati i quali lavorano lunghe ore in mansioni umili e monotone, o del figlio di
professionisti autoctoni benestanti i quali sono costretti dalle loro professioni a trascorrere molte ore
fuori casa. Se si obietta che nel primo caso si aggiungeranno alla solitudine del figlio anche le
difficoltà inerenti ad un sentimento di frustrazione da parte dei genitori – oltre alle solite disavventure
proprie del “conflitto culturale” – si dovrà tener presente che la condizione dei figli dei secondi è
acuita dalle elevate aspettative che in genere vengono riservate alla progenie di questa classe sociale,
come se i giovani di tale classe dovessero nascere valenti e prodi dalla testa di Giove!
Sembra, in altre parole, che l’emergere di comportamenti che si discostano da quanto la società si
aspetta da questi giovani, abbia la propria matrice in difficoltà, di cui essi fanno esperienza, con ciò
che gli psicologi chiamano l’“autostima”. Se in taluni casi i problemi con l’autostima possono avere la
propria origine in processi di discriminazione – di cui peraltro non abbiamo trovato traccia diretta – in
altri forse i problemi d’autostima nascono in contesti di elevata aspirazione ed ambizione sociale.
Varia inoltre probabilmente anche la concezione che i discendenti dei vari gruppi sociali hanno
dell’importanza di osservare le norme. Viene alla mente la ricerca basata su di un’osservazione diretta
dei due gruppi che, oramai quaranta anni fa, William Chambliss (1973) fece di quelli che chiamò i
Saints, i Santi, e i Roughnecks, gli Scavezzacolli, giovani dei ceti medi i primi, delle classi lavoratrici i
secondi. E nonostante che i Santi non indulgessero in azioni meno pericolose per l’incolumità
pubblica rispetto agli Scavezzacolli, tuttavia la frequenza ed intensità degli incontri dei Santi con le
forze dell’ordine, che fossero queste di origine scolastica o extra-scolastica, erano talmente inferiori a
quelle degli Scavezzacolli, che le biografie personali degli uni e degli altri alla fine ne rimasero
indelebilmente marcate.
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Se l’esperienza sociale degli Scavezzacolli è tale da suggerire esperienze di frustrazione che possono
facilitare l’insorgere di condotte devianti, d’altronde quella dei Santi non solo non è scevra di possibili
frustrazioni, come si suggeriva sopra, ma si accompagna anche ad altre due condizioni che possono
predisporre alla condotta deviante. Cioè, da un lato la maggiore disponibilità di risorse – la maggiore
mobilità, le risorse economiche per acquistare alcol o droghe, ecc. – e dall’altro, e crediamo
crucialmente in un paese come l’Italia, il senso di impunità che caratterizza soprattutto gli strati più
alti della popolazione e che i giovanissimi apprendono velocemente dai loro maggiori. Abbiamo visto
che la relazione tra classe sociale e devianza, se non si rovescia nell’opposto di ciò che ci si
aspetterebbe, in quanto essenzialmente priva di relazioni statisticamente significative e quindi
indeterminata, tuttavia vede un addensarsi di comportamenti maggiormente devianti nello strato
socialmente più alto della popolazione, quello composto dai figli di liberi professionisti, alti dirigenti,
eccet. Questi sono, si può ben dire, altrettanto vittime del loro privilegio quanto opportunistici
sfruttatori dello stesso, sia che si tratti di ragazzi con esperienza di ciò che abbiamo chiamato
“esterità” sia che non lo siano. Fra coloro che tale esperienza hanno, tendenze ultraconformiste si
bilanciano con comportamenti maggiormente devianti. Sarà compito di analisi future e condotte su
campioni più ampi e diversificati giungere a determinare se tali primi suggerimenti d’analisi
posseggano radici più poderose di quelle che si possano desumere dalla limitatezza di questo nostro
campione.
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