Lo sguardo come relazione liberante nel Vangelo di

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Lo sguardo come relazione liberante nel Vangelo di
Lo sguardo come relazione liberante
nel Vangelo di Marco
Quando mi è stato chiesto questo contributo, all’interno del tema del convegno
“Comunicazione, sguardo e costruzione della speranza”, fui invitato a sviluppare la dinamica dello
sguardo nella pericope del cosiddetto “giovane ricco” (Mc 10,17-31), ma da subito mi resi conto
che questo testo non si poteva isolare dal “gioco degli sguardi” di tutto il Vangelo di Marco, dove
ha un significato strutturale decisivo per la comprensione dell’insieme stesso del secondo Vangelo.
In questo senso c’è lo sguardo di Gesù, rivelativo della bella notizia – una delle volte che
ricorre è proprio nel nostro testo! – e lo sguardo dei discepoli e/o di coloro che ne prendono
provocatoriamente e fortunosamente il posto.
Parto da quest’ultimo sguardo, che poi è il nostro, quello degli uomini. Dopo la seconda
moltiplicazione (o condivisione) dei pani Mc 8,14ss racconta: “ E si dimenticarono di prendere pani
e non avevano che un unico pane con sé nella barca. E comandava loro dicendo: Vedete!
Guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode! E discutevano tra loro che non avevano
pane. E, saputolo, dice loro: Perché discutete che non avete pane? Non capite e non intendete
ancora? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete? Avete orecchi e non udite?”.
Di fatto già dopo la prima scena dei pani, durante la burrascosa traversata notturna del lago,
“vedendo Gesù camminare sul mare, pensarono che era un fantasma” e l’evangelista annota che
“non avevano capito il fatto dei pani, ma il loro cuore era indurito” (6,49.52).
È interessante che cecità (e sordità) sono intimamente legati al cuore. Viene in mente la
parola finale che la volpe dice al Piccolo Principe: “Non si vede bene che col cuore, l’essenziale è
invisibile agli occhi”. Io dico sempre che l’occhio è l’organo del cuore e chi mi conosce sa che io
amo tantissimo i gufi, perché vedono nella notte.
La durezza di cuore affiora quasi subito nel vangelo, anche qui espressa nello sguardo. “Ed
entrò di nuovo nella sinagoga, e c’era lì un uomo che aveva la mano essiccata. E lo osservano se lo
avrebbe curato di sabato per accusarlo. E dice all’uomo che aveva la mano essiccata: Svegliati, nel
mezzo! E dice loro: È lecito di sabato fare il bene o fare il male, salvare una vita o ucciderla? Ma
essi tacevano. E guardandoli intorno con ira, contristato per la durezza del loro cuore, dice
all’uomo: Tendi la mano! E la tese e fu ristabilita la mano. E usciti i farisei subito con gli erodiani
tenevano consiglio contro di lui per farlo perire” (3,1-6). Qui c’è anche lo sguardo circolare di Gesù
“con ira” un’ira non per chi fa il male ma contro il male che possiede colui che lo fa. Già subito si
annuncia che questa durezza di cuore ucciderà Gesù. Se qui è propria dei farisei e degli erodiani, a
poco a poco emergerà che è anche dei discepoli.
Dapprima si manifesta in loro come incomprensione della scelta di Gesù di andare altrove e
di non approfittare del successo della giornata messianica a Cafarnao (1,37), poi come
incomprensione della parabola della semina (4,13), poi ancora nella loro paura durante la tempesta
notturna sul lago, contrario della fede (4,40). Ma è soprattutto nella “sezione dei pani” (6,6b-8,30)
che viene fuori, proprio mentre i discepoli sono associati alla missione di Gesù, con un orizzonte
sempre più universalistico. Il mondo pagano, affamato di salvezza, bussa alle porte, è a portata di
mano, appena oltre il confine, eppure Gesù non varca quel confine se non occasionalmente e a mo’
di prefigurazione, per poi ogni volta riattraversarlo ritornando sulla riva ebraica. Il mondo pagano
sarà raggiunto a suo tempo attraverso i discepoli, attraverso la Chiesa. Il futuro dell’evangelo passa
ormai attraverso il rapporto tra Gesù e quel piccolo gruppo di uomini, ancora ostacolati dalla loro
perdurante cecità. Al crescendo della loro associazione all’opera di Gesù, fa riscontro, quasi come
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contro-tema il crescendo della loro inintelligenza. La situazione sembra senza via di uscita. Ed è
interessante che emerge proprio in rapporto al pane.
In realtà questa sezione, che porta a compimento tutta la prima parte del vangelo di Marco,
si conclude non con la cecità, ma con l’illuminazione. Dopo la guarigione di un cieco (8,22-26) –
stranissima guarigione in due fasi – la cui collocazione non può essere causale, tanto più che
assieme a quella precedente di un sordo (7,31-37) richiama proprio la cecità e la sordità dei
discepoli - segue infatti la scena di Cesarea, in cui i discepoli riescono finalmente a riconoscerlo,
per bocca di Simon Pietro, come il Messia.
Dicevo che la guarigione del cieco di Betsaida è assai particolare, perché avviene in due fasi.
La prima parte del miracolo serve ad evidenziare la necessità del secondo intervento. È lungo curare
la nostra cecità. Due condivisioni di pani, due viaggi in barca, due interventi sul sordo e ora due sul
cieco. Un poco è riuscito nel suo intento. Tra breve lo riconosceremo finalmente come il Cristo. Ma
sarà una comprensione ancora molto imperfetta, che ignora il mistero profondo del pane. Subito
dopo comincerà a dire chiaramente la “Parola”, che il nostro orecchio non vuole ascoltare e a cui il
nostro occhio è completamente daltonico. È quella adombrata nel seme che muore e porta frutto.
Tutta la seconda parte del vangelo sarà infatti scandita da un triplice confronto con la “Parola” che
spiega il pane. È la Parola che ha il colore della croce. Il brano è tutto un gioco sulla parola
“vedere” (blepo), “guardare in alto” (anablepo), “vedere perfettamente attraverso” (diablepo), a cui
si aggiungono gli avverbi “chiaro e a distanza”. Troviamo pure il verbo horào, che indica anch’esso
il vedere.
Questa sezione (8,27-10,52) è detta hodòs (strada) perché è il cammino di Gesù, seguito dai
discepoli, verso Gerusalemme, verso la sua passione, morte e resurrezione. Scandito appunto
dall’annuncio della passione, ripetuto tre volte, è ogni volta seguito da reazioni di incomprensione e
di rifiuto da parte dei discepoli, a cui Gesù reagisce senza sconti, ribadendo l’annuncio con una
ricaduta sulla loro vita. È interessante che alla reazione di rifiuto da parte di Pietro al primo
annuncio, segue: “Ora egli voltatosi e vedendo i suoi discepoli, sgridò Pietro e dice: Va’ dietro di
me, satana, perché non pensi le cose di Dio ma quelle degli uomini”. Di nuovo uno sguardo! In
questo sezione, dopo il secondo annuncio, si trova anche il brano del “giovane ricco”. La cecità dei
discepoli sembra invincibile, ma l’episodio del cieco Bartimeo, che una volta guarito “lo seguiva
lungo la strada” (10,46- 52), collocato a conclusione di questa sezione, assume una portata
simbolica, aprendo una prospettiva di speranza. Nonostante la cecità umana la sequela sarà
possibile, come dono di grazia. Così, dopo, le tre predizioni della passione, si compie pienamente in
Bartimeo la seconda parte del miracolo del primo cieco, quello di Betsaida.
Sostiamo un po’ su questa scena. Anzitutto l’urlo di Bartimeo, che prima sedeva al lato della
strada, evidentemente abituato a chiedere; la parola “mendicante” con cui è definito indica, più che
la povertà, la qualità di uno che desidera, brama e domanda. Probabilmente è abituato a convivere
col suo male, anzi a farne uno strumento di sopravvivenza. È il passaggio di Gesù che libera in lui
questo urlo incontenibile e sconveniente, che inutilmente gli astanti (i discepoli stessi?) cercano di
far tacere: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”. Lui urla più forte. Come risposta a Gesù che
lo chiama attraverso gli stessi che prima volevano farlo tacere, “egli, gettato il suo mantello, balzò
in piedi e venne da Gesù”. Questo povero getta via ogni sua sicurezza, senza esserne richiesto, e va
da Gesù, a differenza del giovane ricco, che ne fu richiesto e si allontanò triste. Questa è la fede che
salva (10,52). Da Gesù può sentire finalmente rivolgersi la domanda fondamentale : “Che cosa vuoi
che io faccia per te?”. È la stessa domanda appena rivolta ai discepoli Giacomo e Giovanni, che non
sanno che cosa chiedere. Lui invece lo sa: “Che io veda in alto?” (anablepo). Che cosa sarà questo
vedere in alto? Intanto viene esaudito “e lo seguiva sulla strada”. S. Ignazio, prima di ogni
meditazione o contemplazione degli Esercizi, ci invita a “chiedere ciò che voglio e desidero”, che p.
Enrico Deidda traduce come “il grido del cuore”.
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La speranza aperta da Bartimeo, da chi sarà sperimentata nella Passione? Chi ci sarà a
“vedere in alto?”. Abbiamo nella Passione due compagni di strada, che giocano un ruolo
fondamentale quanto al vedere.
Il primo è nostro fratello Pietro, che un po’ era stato guarito, come il cieco di Betsaida nella
prima fase, così da essere proprio lui, a Cesarea, a riconoscere Gesù come il Cristo. Fermiamoci su
ciò che avviene nel cortile del sommo sacerdote, mentre Gesù viene giudicato e condannato, e
paradossalmente, rivela se stesso.
“E mentre Pietro era da basso nel cortile, viene una delle serve del sommo sacerdote, e, vedendo
Pietro che si scalda, guardandogli dentro, dice, anche tu eri col Nazareno, Gesù. Ma egli negò
dicendo: Né so né capisco che tu dici! E uscì fuori nell’atrio, e un gallo cantò. E la serva,
vedendolo, cominciò di nuovo a dire ai presenti: Costui è di quelli! Ma egli di nuovo negava. E
dopo un po’, di nuovo i presenti dicevano a Pietro: Veramente sei di quelli! Infatti sei anche galileo.
Ma egli incominciò a imprecare e a giurare. Non conosco quest’uomo di cui dite. E subito, per la
seconda volta un gallo cantò. E ricordò Pietro la parola, come gli disse Gesù: Prima che il gallo
canti due volte, tre volte mi disconoscerai. E si gettò a piangere.” (14,66-72).
Normalmente si interpreta questa scena come la “caduta” di Pietro, che è certo riprovevole –
il “rinnegamento” - ma è comprensibile per la debolezza umana, e che poi Gesù, che è tanto buono,
ha perdonato. Certo noi dobbiamo fare diversamente! Noi non rinnegheremo Gesù!
Invece questo brano è il punto di arrivo dell’esperienza di Pietro, esemplare per ogni
discepolo, per tutti noi. Pietro, non riconoscendo e rinnegando per tre volte il suo maestro, non
mente, come a prima vista può apparire. Confessa la propria verità, non è “con lui”, non è “di
quelli” che sono suoi discepoli, “non conosce quest’uomo”. Lui conosce un altro Cristo, per il quale
era anche disposto a morire; questo invece, povero e umiliato, lo sconcerta e lo scandalizza. La
scena – un cerchio di fuoco nella notte – è tutta un gioco di occhi. Uno è come visto, ossia giudicato
dall’altro. Pietro vedrà la propria realtà riflessa successivamente, e in modo diverso, negli occhi
della gente, nei suoi propri e in quelli di Gesù. Luca 23,61 infatti aggiunge un dettaglio: “Gesù
guardò dentro Pietro”. A lui decidere con quale sguardo identificarsi. È una scelta tra la morte e la
vita. La morte è una vita sacrificata all’idolatria, al culto delle buone immagini di sé da produrre per
accattivarsi lo sguardo altrui, la vita è morire allo sguardo proprio e altrui, per vivere di quello del
Signore. Infatti “quanto ciascuno è ai tuoi occhi, tanto vale e nulla più”, dice San Francesco
nell’Imitazione di Cristo (III,L,37). Pietro non è quello che crede di essere; si accorge di essere uno
che non può gestire la propria vita come vuole; vede di non saper morire per Gesù. È invece Gesù
che muore per lui. In quello “sguardo dentro” è tutta la bella notizia per Pietro (già dalla prima
chiamata Gesù aveva “visto” Pietro e gli altri. Ma ora Pietro comprende la portata di questo
sguardo, fin dove arriva): Gesù lo accoglie nel suo rifiutarlo, lo riconosce nel suo disconoscerlo.
Veramente così muore per lui! Pietro qui lo può finalmente sperimentare per la prima volta. Luca
dice che “uscito fuori, pianse amaramente”: Pietro non sopporta questo sguardo e se ne va, per
piangere sui cocci della propria autosufficienza e del proprio orgoglio, espressi poco prima nella sua
risposta alla predizione di Gesù “Tutti sarete scandalizzati”: “Anche se tutti saranno scandalizzati,
io però no!”(14,27-31). La frana di tutti i suoi buoni desideri lascerà emergere la Roccia che non
crolla: l’amore di Gesù per lui, espresso in quello sguardo. L’acqua amara del pianto di Pietro è il
mare in cui affoga il suo faraone che lo tiene schiavo, l’orgoglio religioso, la presunzione di essere
bravo. O farà la fine di Giuda – ultimo gesto di autoaffermazione come autodistruzione – o cercherà
inutilmente di dimenticare tutto, o si volgerà a Gesù, vivendo del suo sguardo “gentile e cortese”
(Giuliana di Norwich). Ma ci vorrà del tempo. Pietro dovrà passare dalla propria giustizia alla
giustificazione, dalla legge all’evangelo. È questa infatti la vera conversione, quella “evangelica”, la
“rivoluzione copernicana” della propria vita! Alla croce, i discepoli, secondo la predizione di Gesù
non ci saranno, e neanche Pietro. Sarà necessario un nuovo incontro col Risorto che – come attesta
Lc 24,34 e 1 Cor 15,5 – egli riserverà dapprima proprio a Pietro. Gli riproporrà una seconda volta lo
stesso sguardo! È quanto il giovane avvolto in veste bianca nel sepolcro vuoto annuncerà alle
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donne “È risorto, non è qui… ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: Vi precede nella Galilea;
lì lo vedrete, come vi ha detto.” (16,6-7).
Chi invece alla croce c’è, in posizione molto ravvicinata, e può guardare in alto
sperimentando l’illuminazione di Bartimeo, è, scandalosamente, chi meno ci aspetteremmo: il capo
del plotone di esecuzione, il centurione pagano. Di per sé ci sono anche i due ladroni, crocifissi con
lui. È Luca che ci conduce a seguire il loro percorso mentre Marco ci conduce a seguire il percorso
del centurione. “Ora vedendo il centurione, che stava lì davanti a lui, che così era spirato, disse:
Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!” (15,39). È il punto di arrivo del vangelo di Marco.
A differenza di Pietro non l’ha incontrato risorto, gli è bastato vederlo morire, vedere come
moriva. Cosa vide il centurione quel giorno?
Vide Gesù spendere fino in fondo la sua vita nella ricerca dell’incontro con l’uomo,
facendosi carico, allo stesso modo, di tutti: degli altri due condannati a morte e della folla, dei
presenti, di lui stesso, il centurione, e dei soldati… Vide Gesù, l’ultimo della lunga serie di uomini
che aveva dovuto giustiziare, morire in una maniera radicalmente diversa dagli altri, senza avercela
con lui, il suo carnefice. Al contrario! Quanta ostilità e quanta rabbia, quanto disprezzo e quanto
odio il cuore del centurione, ormai corazzato, aveva imparato ad incassare da parte di tutti coloro
che aveva condotto al patibolo! Quel giorno fu diverso. Di tre condannati, tutti e tre in pessimo
arnese, uno, quello che stava peggio, si discostava sorprendentemente dal copione tipico del
condannato a morte: invece di imprecare, taceva; invece di insultare e maledire, benediva; invece di
rifiutare ed odiare, accoglieva…
Da quel relitto di umanità che era Gesù. Il centurione si sentì, come uomo ancor prima che
come soldato e carnefice, accettato, compreso ed amato. Quel giorno egli si vide invitato da Gesù,
dal suo sguardo e dal suo sorriso, ad essere se stesso, liberamente, fino in fondo: ad essere cioè
liberamente il suo carnefice. E, stupito, si rese conto che quell’essere se stesso, che anch’egli, come
ogni uomo, inseguiva da sempre, e, per conquistare il quale, fino ad allora aveva dovuto tanto
combattere, quel giorno gli veniva offerto in dono. Nientemeno che dall’ultimo povero cristo di
questo mondo: l’ultima delle sue vittime. Quel giorno il centurione, per la prima volta in vita sua, si
sentì libero. Libero di essere semplicemente quello che era: un uomo, uno straniero,un soldato delle
forze di occupazione, un carnefice… Libero di essere quello che era, senza per questo restare solo.
Al contrario! Libero, perché finalmente liberato dalla necessità di conquistare ed imporre il suo
essere se stesso a qualcuno. Quel giorno il centurione gustò la libertà, e comprese cosa vuol dire, a
questo mondo, essere liberi. Comprese che la libertà vera – quella di essere se stessi fino in fondo –
è sempre un dono: frutto cioè di un’esperienza di liberazione, che passa attraverso l’accoglienza di
un altro. Accoglienza gratuita, che comporta spesso, per l’altro, un prezzo assai caro… Dono
inatteso, non cercato; che ti viene offerto da chi meno te lo aspetti, quasi che ti piovesse addosso
dall’alto, come nel caso di Gesù, dalla croce. La libertà di essere se stessi, al di là di ogni conflitto, è
il presupposto di ogni incontro vero.
Quel giorno il centurione visse un incontro vero: si incontrò davvero con se stesso e con un
altro uomo. Un uomo di nome Gesù che attraverso la croce gli era venuto incontro. Un incontro
vero, che neppure il rapporto fra carnefice e vittima riuscì ad impedire. Quel giorno per il
centurione cadde un muro. Cadde il muro che da che mondo è mondo separa irrimediabilmente i
forti dai deboli, i vincitori dagli sconfitti, i carnefici dalle vittime, i giusti dagli ingiusti… e
viceversa. Il centurione questo muro lo conosceva bene. Era uno dei suoi artefici e custodi. Ne
conosceva l’altezza, lo spessore, l’insormontabilità. Ne riconosceva la legittimità, quasi esso
rispondesse ad una insopprimibile esigenza di natura; e l’assoluta autorità, necessaria a garantire
qualsiasi tipo di ordine nel mondo. Quel giorno il centurione, con i suoi occhi, vide questo muro
cadere. Per iniziativa dell’ultimo: la vittima che si faceva incontro al suo carnefice, e lo
abbracciava.
Quel giorno, attraverso il modo di morire di Gesù, il centurione colse qualcosa che non
immaginava neppure che esistesse: la possibilità di incontrarsi umanamente nella libertà di essere
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ciascuno se stesso, al di là di tutte le contrapposizioni e di tutte le divisioni provocate dalla paura
della morte. Attraverso il modo di morire di Gesù passò una luce, un’intelligenza, una
comprensione nuova della realtà. Come se un sipario si aprisse ed un mondo sconosciuto si
svelasse: essere se stessi è un dono… essere se stessi insieme, l’uno di fronte all’altro, è possibile…
questo è incontrarsi davvero… questa è la realizzazione della vita… a dispetto di qualsivoglia paura
della morte.
Tutto ciò diventa possibile, perché un uomo di nome Gesù, come si consegnava ai suoi
simili, così si consegnava anche a lui, il centurione. Contemplando Gesù morire, proprio lui, il
centurione, intuì che quel morire era un dono, che offriva all’uomo di entrare in una dimensione
nuova, autentica di umanità, sulla quale la paura della morte non aveva potere. Questo dono il
centurione lo accolse, e nella nuova dimensione che esso gli schiudeva, dapprima sorpreso, poi via
via sempre più affascinato, accettò di inoltrarsi. Fu per lui un’esperienza di rivelazione e di
riconciliazione con la vita e con la morte. Quel giorno, vedendo come Gesù moriva, il centurione
vide morire la morte. Vide cioè, nel morire di Gesù, morire il potere della morte sulla vita. Quel
potere che è la vera morte di ogni uomo.
Dalla contemplazione di quella morte egli si scosse soltanto quando udì il grido lanciato da
Gesù prima di morire. In quel grido egli colse tutta la passione di Gesù per la vita: il suo entusiasmo
e la sua speranza che se Gesù avesse avuto una, due, dieci, cento altre vite da spendere, non avrebbe
esitato a spenderle tutte allo stesso modo. Allora, toccato dall’immensità del dono, si lasciò
zampillare dal cuore e dalle labbra l’esclamazione: “Veramente quest’uomo era figlio di Dio!”. Per
affermare che quel modo di morire non poteva avere qualcosa a che fare con Dio.
Così il centurione fece la sua scelta di campo. Non fu la sua una scelta in favore
dell’ebraismo a discapito della sua cultura di origine; né contro il sistema in favore delle sue
vittime, come a tanti, superficialmente, dovette sembrare. Fu la sua una scelta libera dalla paura
delle sue conseguenze – perché al di delle parti – in favore di un’umanità nuova. L’umanità che egli
aveva potuto toccare con mano nella persona di Gesù e di cui, accogliendo il dono del suo morire,
era divenuto anch’egli partecipe. Una scelta libera dalla paura della morte, perché generata alla
libertà dalla libertà con cui aveva visto Gesù consegnare la propria vita nelle sue mani, abbattendo il
muro d’inimicizia che li separava.
Alla croce, secondo il vangelo di Marco, oltre al centurione e ai soldati, oltre ai due
crocifissi con Gesù, troviamo alcune donne. “Ora c’erano anche delle donne che guardavano da
lontano, tra le quali anche Maria di Magdala e Maria, madre di Giacomo il minore e Giosè, e
Salome, le quali, quando era in Galilea, lo seguivano, e lo servivano; e molte altre, che erano salite
con lui a Gerusalemme” (15,40-41). Questa piccola scena conclusiva incornicia, insieme a quella
brevissima del Cireneo, tutto il racconto al calvario, come una sosta importante. “E angariano un
tale che passa, Simone Cireneo, che viene dalla campagna, il padre di Alessandro e Rufo, a prender
su la croce di lui” (15,21). Questi sono i “piccoli” che com-patiscono con Gesù. Discepolo è colui
che fa i conti con la croce, Simon Pietro lo sapeva e lo voleva. Ma la ventura tocca a un altro
Simone, che non sa e non vuole, anzi è costretto dalla violenza altrui. Il tutto è per lui come un
incubo spiacevole, un non senso gratuito. Essere discepoli non è scelta nostra, ma dono di Dio. Ci
viene dalla storia, al di ogni nostro buon proposito. Ci cade addosso quando dobbiamo portare la
croce che non comprendiamo e non vogliamo, perché insensata e ingiusta. Anche Gesù porta la sua
non perché gli piace, ma perché non può farne a meno. Chi ama “deve”portare il male dell’amato. Il
Cireneo e le donne rappresentano il vangelo vivo. I discepoli maschi si sono eclissati. L’uomo resta
finché ha qualcosa da dare o da fare. Dopo rimane solo chi ama. Cessata l’azione, inizia la compassione, che mette in gioco la persona stessa. Qui, e non prima inizia l’amore, che rende
vulnerabili a tutto il male dell’altro. E alla fine uccide. La com-passione è la qualità del debole, da
cui ci si difende con cura. Ma è anche la forza più grande che esista, l’unica che non abbandona
l’amato neanche nell’impotenza della morte. A ben guardare, ogni azione che non è mossa dalla
com-passione non è amore dell’altro, ma affermazione di sé. La com-passione ha come mezzo
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l’occhio, che è la porta del cuore. Lo sguardo delle donne sul Crocifisso corrisponde allo sguardo
suo sul mondo, pieno dello stesso “amore crociato” che l’ha portato a quel punto. Le stesse donne
guarderanno dove sarà posto (15,47), e l’alba del mattino di Pasqua “guardando su, osservano che è
stata rotolata via la pietra…ed entrate nel sepolcro videro un giovane, seduto alla destra, avvolto in
veste bianca” (16,3-5). Da lui riceveranno l’annuncio “È risorto non è qui!” e la missione di
annunciarlo ai discepoli (16,6-7). Il racconto della passione e della resurrezione di Gesù in tutti e
quattro i vangeli è piena dei verbi di “vedere”!
A questo punto due parole sul brano dell’uomo ricco (10,17-31), che per Matteo è un
giovane e per Luca un notabile. Il centro del racconto è nel v 21 : “Ora Gesù, guardandolo dentro lo
amò e gli disse: Una cosa sola ti manca: va, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro
in cielo; e vieni, segui me”. Lasciarsi prendere da questo sguardo e da questo amore è il problema
stesso della vita eterna. Il percorso dei discepoli nel vangelo di Marco ci ha mostrato come è
difficile. Mi viene da pensare a tanti di noi, anche a tanti giovani, pieni come quest’uomo delle
migliori disposizioni (a me piace chiamarli B.G. = Bravi Giovani) che di fronte alla proposta di
Gesù, di fronte al Magis (che non è un optional, un consiglio, ma ciò che manca per ereditare la vita
eterna), reagiamo come quest’uomo: “Inorridito per la parola se ne andò intristito, perché aveva
molti beni”. Ma lasciarsi prendere da questo sguardo è anche facile. “Impossibile presso gli uomini,
ma non presso Dio, perché tutto è possibile presso Dio” (10,27), dice Gesù ai discepoli guardando
anche loro dentro. E di fronte allo sguardo di Gesù che “guardandosi intorno” (v 23) e “guardando
loro dentro” li raggiunge, Pietro costata, con sorpresa, che per lui e gli altri è già avvenuto
l’impossibile: “Ecco noi abbiamo lasciato tutto e abbiamo seguito te” (v 28). Senza che se ne
accorgessero, è stato loro donato ciò che al ricco è stato richiesto. Nonostante il cammino che sta
loro davanti! Ma anche per il ricco si adombra un’apertura. Infatti il particolare “guardandolo
dentro lo amò” può essere colto e riferito solo dall’interessato. Che il giovane sia Marco stesso, alla
cui madre appartiene la stanza superiore (14,12-15; At 12,12)? Sarà lui che segue Gesù da lontano,
fino a quando nell’orto fuggirà nudo e abbandonerà tutto, lasciando l’involucro di morte per
rivestirsi delle vesti gloriose dell’annunciatore del vangelo? (14,51s; 16,5s).
Raccontano che Don Lorenzo Milani, un altro dei testimoni del Concilio Vaticano II, mentre
stava morendo, chiamò vicino a sé uno dei suoi ragazzi della scuola di Barbiana e gli disse “Sta
succedendo un miracolo: un ricco sta passando per la cruna di un ago!”.
* Ringrazio i miei confratelli P. Silvano Fausti e P. Virginio Spicacci per il loro aiuto ad
entrare nello sguardo di Gesù. Dalle loro opere, rispettivamente “Ricorda e racconta il vangelo. La
catechesi narrativa di Marco” e “Gesù di Nazaret una buona notizia?” ho preso ampi stralci, quasi
alla lettera, per elaborare questa mia relazione. Ringrazio anche il mio docente Vittorio Fusco, poi
vescovo ed ora a contemplare pienamente il Volto, per il suo aiuto ad entrare nella dinamica
narrativa del Vangelo di Marco.
Giancarlo Gola s.j.
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