La pianificazione territoriale ed urbana nell`integrazione europea

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La pianificazione territoriale ed urbana nell`integrazione europea
La pianificazione territoriale ed urbana nell’integrazione europea: alcuni
riferimenti storici
In assenza di competenza comunitaria nella disciplina della pianificazione territoriale,
dagli albori della storia dell’integrazione europea, la Commissione, sotto la spinta di
diverse esigenze e pressioni, perfeziona progressivamente una molteplicità di
strumenti che consentono di promuovere una strategia di coordinamento delle
localizzazioni delle infrastrutture e di promozione di forme di sviluppo locale che
rispecchino le priorità di un modello europeo di crescita nel rispetto delle differenze
storiche.
Al centro di questo compendio di misure, afferenti a diverse “politiche” europee,
nonché di elaborazioni teoriche, si trova la nozione di coesione territoriale, che
assume crescente, seppur ancora limitata, concretezza allorché si impone l’idea che
possa essere concepito un intervento sovra-nazionale per l’assetto del territorio
europeo.
Tale processo di costruzione di un armamentario di analisi e di intervento si trova
ostacolato o favorito a seconda delle fasi storiche dall’allargamento progressivo dei
confini europei, quindi della continua ridefinizione del quadro di disuguaglianze
territoriali prioritarie nella contrattazione tra governi. Decisive sono anche le svolte
imposte da singole personalità che, alla guida della Commissione, o nel semestre di
presidenza del Consiglio, ebbero la capacità di mutare il quadro delle priorità delle
politiche pubbliche europee, o la concezione delle relazioni tra livelli di governo e tra
istituzioni e cittadini.
Il movimento dalle sue fasi iniziali è accelerato da spinte provenienti dal Consiglio
d’Europa, si trova poi spesso fortemente sostenuto dal Parlamento europeo,
segnatamente da alcuni eletti con esperienza notevole di leadership locale e dalla
crescente attività di lobbying delle autonomie locali, nelle loro associazioni, poi nelle
loro reti tematiche. Negli ultimi decenni si trova piuttosto a convergere con
un’attività intergovernativa e di elaborazione culturale, offrendosi come esempio di
“soft policy”.
Nel contempo infatti, nelle procedure imposte negli interventi per i quartieri urbani in
difficoltà e per la tutela dell'ambiente, nella gestione dei fondi strutturali, si
costituiscono lentamente le basi di una cultura comune della pianificazione
territoriale tra gli Stati membri, simboleggiata nella timida diffusione del neologismo
accomunante proposto negli anni Novanta per designare la pianificazione territoriale,
quello di spatial planning, che trova appoggio nell'istituzionalizzazione progressiva
di una cospicua attività di studi descrittivi e prospettici del territorio europeo. Questo
processo culturale si sviluppa in numerosi luoghi della polis europea, nell’arena delle
istituzioni europee, in quella intergovernativa, ma anche nel mondo professionale,
costituito da chi fa urbanistica e pianificazione territoriale, come professionista, come
amministratore, e in una serie importante di enti e di reti di ricerca europea che
garantiscono l’acquisizione delle conoscenze necessarie all’approfondimento del
dibattito sui destini del territorio.
1. 1957-1967: l'affermazione del principio di solidarietà di fronte alle grandi
disparità regionali e alla questione urbana
La riduzione delle disuguaglianze tra regioni è uno degli obiettivi dell'istituzione di
una Comunità economica europea indicati nel Preambolo del Trattato di Roma. E'
ribadito nell’art. 2, che attribuisce alla CEE il dovere di vigilare ad “uno sviluppo
armonioso delle attività economiche nell’insieme della Comunità, un’espansione
continua ed equilibrata, una stabilità cresciuta, un miglioramento sempre più rapido
del tenore di vita”.
Preambolo del Trattato di Roma (25 marzo 1957)
SUA MAESTÀ IL RE DEI BELGI, IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA FEDERALE DI GERMANIA, IL PRESIDENTE DELLA
REPUBBLICA FRANCESE, IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA, SUA ALTEZZA REALE LA GRANDUCHESSA DEL
LUSSEMBURGO, SUA MAESTÀ LA REGINA DEI PAESI BASSI,
DETERMINATI a porre le fondamenta di una unione sempre più stretta fra i popoli europei,
DECISI ad assicurare mediante un’azione comune il progresso economico e sociale dei loro paesi, eliminando le barriere che dividono
l’Europa,
ASSEGNANDO ai loro sforzi per scopo essenziale il miglioramento costante delle condizioni di vita e di occupazione dei loro popoli,
RICONOSCENDO che l’eliminazione degli ostacoli esistenti impone una azione concertata intesa a garantire la stabilità nella
espansione, l’equilibrio negli scambi e la lealtà nella concorrenza,
SOLLECITI di rafforzare l’unità delle loro economie e di assicurarne lo sviluppo armonioso riducendo le disparità fra le differenti regioni
e il ritardo di quelle meno favorite,
DESIDEROSI di contribuire, grazie a una politica commerciale comune, alla soppressione progressiva delle restrizioni agli scambi
internazionali,
NELL’INTENTO di confermare la solidarietà che lega l’Europa ai paesi d’oltremare e desiderando assicurare lo sviluppo della loro
prosperità conformemente ai principi dello Statuto delle Nazioni Unite,
RISOLUTI a rafforzare, mediante la costituzione di questo complesso di risone, le difese della pace e della libertà e facendo appello agli
altri popoli d’Europa, animati dallo stesso ideale, perché si associno al loro sforzo,
HANNO DECISO di creare una Comunità Economica Europea….
Già dal 1955 la Repubblica Federale Tedesca, la Francia, il Belgio, il Lussemburgo,
l’Olanda, che nella CECA avevano intrapreso la strada della progressiva eliminazione
delle barriere doganali nel settore carbo-siderurgico, avevano poi dato inizio ad una
collaborazione più stretta per l’assetto del territorio e per migliorare la qualità urbana
nelle aree produttive corrispondenti.
Nei Trattati di Roma, malgrado l’accento posto su questi temi, la materia non è
riconosciuta come area di intervento comunitario: il processo di integrazione sarà
garantito, si assume, dall’eliminazione dei dazi, delle limitazioni al movimento delle
merci e degli ostacoli alla liberazione circolazione dei lavoratori e dei capitali, la
priorità non è l’adozione di misure correttive dei processi economici.
Contravvenendo ai principi libersiti ai quali ci si ispira, si riconosce tuttavia la liceità
degli aiuti nazionali alle aree meno sviluppate: al Mezzogiorno italiano è ad esempio
dedicato un protocollo allegato ai Trattati di Roma nel quale i governi prendono atto
dei programmi italiani per ridurre lo squilibrio Nord-Sud; vi si raccomanda alle
istituzioni della Comunità di attuare tutti i mezzi per sostenere il governo italiano in
questi interventi, evocando l’utilizzo della Banca europea per gli investimenti e il
Fondo sociale europeo, due strumenti la cui istituzione era stata richiesta proprio
dalla delegazione italiana durante i negoziati e che fino agli anni Settanta resteranno
gli unici strumenti comunitari utilizzabili per programmi di assetto del territorio.
La disparità cruciale individuata nella Relazione sulla situazione economica dei paesi
della Comunità presentata dalla Commissione nel 1958 è il divario tra le regioni
agricole poco sviluppate di alcuni dei paesi firmatari (Francia sud-occidentale e
Meridione italiano) e l'area di forte concentrazione urbana ed industriale che parte da
un paese allora terzo, dalle regioni sud-orientali della Gran-Bretagna, passando
dall’Olanda, il Belgio, il nord della Francia (Parigi inclusa) fino alla fascia centrooccidentale della Repubblica federale tedesca.
La relazione denuncia il rischio che, per effetti cumulativi, si accentuino gli squilibri
esistenti all’interno di ogni Stato, con crescente depauperamento delle zone rurali e
periferiche in via di spopolamento, in contraddizione con gli obiettivi comunitari. Un
gruppo di esperti delle diverse nazioni istituito immediatamente dopo dalla
Commissione stila nel 1961 il Saggio di delimitazione regionale della Comunità
europea, sulla base di una tipologia di regioni socio-economiche europee,
sottolineando ancora una volta il peso della città nella strutturazione degli spazi
regionali.
Già nel 1960, nella Terza relazione sulle attività della CEE, la Commissione si
pronuncia per la definizione di una politica regionale atta a “ ridurre le differenze tra i
livelli di sviluppo tra le diverse regioni della Comunità”, che non costituisca settore
nuovo di competenza ma garantisca un monitoraggio dei problemi regionali e
permetta di comparare i metodi con i quali i diversi Stati li affrontino.
I problemi evidenziati nei primi studi allora lanciati (in particolare nella
comunicazione Marjolin del 1960) corrispondono a quattro tipi di formazioni
territoriali: 1) eccessiva concentrazione di intensa attività economica con i relativi
problemi di costi delle infrastrutture e dei servizi, e inconvenienti sociali
dell’urbanizzazione eccessiva (richiedono appropriata politica di decentramento
industriale, accompagnata con l’istituzione di poli di sviluppo in altre regioni) – caso
dell’agglomerazione parigina e, in misura minore della Randstad e della Ruhr); 2)
sottosviluppo delle aree agricole a bassa produttività – Mezzogiorno italiano, Corsica,
Francia del Sud-Ovest, Massiccio centrale, Bretagna, Schleswig-Holstein, nord-est
bavarese); 3) declino delle aree dominate dai settori industriali tradizionali
(disoccupaizone, bassi redditi, strutttutre antiquate) – bacini carboniferi del Borinage
belga, centro e sud della Francia, centri tessili delle Fiandre, delle Vosgi, dell’Alta
Franconia, cantieri navali della Loira) e relativi centri urbani; 4) regioni frontaliere
limitate nel loro sviluppo da frontiere chiuse –situate soprattutto in Germania.
I lavori successivamente volti richiamano gli elementi fondanti della strategia
francese dei cosiddetti poli di sviluppo, un tema che si diffonderà in buona parte degli
Stati, ispirando ad esempio in Italia il programma di sviluppo del polo Taranto-Bari-
Brindisi. Nel 1962 il Primo programma di politica economica a medio termine
include un capitolo di politica regionale, che accenna alla necessità di definire
programmi pluriennali, e ribadisce la necessità di promuovere poli di sviluppo
riequilibranti, senza che indirizzi più precisi siano tuttavia definiti; la strumentazione
indicata rimane il sostegno agli interventi tramite Bei, FSE, nonché FEAOG, istituito
nello stesso anno.
2. 19681975. La costruzione
nell'Europa dei nove
dell'armatura
della
politica
regionale
Nel 1968, la politica regionale entra nell'organigramma amministrativo europeo:
entra in funzione la Direzione generale per la Politica regionale. Si intensifica
l'attività di studio sulla concentrazione urbana: nello studio sul tema affidato dalla
nuova direzione al Centro Piani di F. Archibugi, ma soprattutto nella più longeve
serie di studi sull'”urbanisme” lanciato da un'altra direzione, quella per gli Affari
industriali nel quadro della “politica di ricerca scientifica e tecnica”.
La questione dell'impatto del processo di integrazione economica sulle
disuguaglianze interne si ripropone con forza nel quadro delle discussioni preliminari
alla costituzione dell'Unione Economica e Monetaria. Da una parte la proposta del
Commissario van der Groeben alla fine del 1969 di accelerare il coordinamento per lo
sviluppo regionale, dall'altra le resistenze dei governi, evidente quella di uno dei
paesi che maggiormente aveva animato il dibattito, la Francia. Nella stessa
risoluzione sulla realizzazione dell’UEM adottata dal Consiglio dei Ministri nel
marzo 1971 si prevedono azioni necessarie a garantire lo sviluppo equilibrato della
Comunità. Nello stesso anno il Consiglio interviene per la prima volta per fornire
linee-guida agli Stati nazionali per le limitare la concentrazione delle attività: plafond
di aiuti alle attività nelle “regioni centrali, massimale di intensità degli aiuti, divieto
di cumulo di aiuti settoriali e regionali, obbligo di delimitazione delle aree
beneficiarie.
In quegli stessi anni si introduce l’idea che la difesa dell'equità alla quale è volta la
politica regionale concerni anche l'accesso alle ricchezze naturali. L’esecutivo entrato
in carica nel 1970 (diretto da Malfatti poi Mansholt) appare in effetti più sensibile ad
alcuni temi di società: ricerca, sviluppo industriale, ambiente, politica sociale. Mentre
appare il “modello sociale europeo”, negli Orientamenti preliminari per un
programma di politica sociale comunitaria del 1971, l’attenzione per la qualità della
vita accentua l’interesse per la struttura e la gestione delle città.
Dal 1968 il Consiglio d’Europa stimola l’istituzione della CEMAT (Conferenza
Europea dei Ministri Responsabili della Pianificazione Territoriale) destinata a
garantire una concertazione permanente sul tema. Questa Conferenza inizia ad
incontrarsi a partire dal 1970. Si creano anche sinergie con il gruppo di lavoro
dell’OCSE sulle questioni urbane. Vi è seguito con particolare interesse l’evoluzione
e i problemi di gestione della cosiddetta Megalopoli europea che viene allora così
delimitata: il pentagono Amburgo, Liverpool, Basilea, alto piano svizzero, costa
occidentale della Gran Bretagna, la cui base univa Southampton e Ginevra passando
appena sotto Parigi. Lo studio Problèmes de l’urbanisme et de l’aménagement du
territoire dans la Communauté européenne, appartenente alla serie di studi svolti
nella Direzione per la Ricerca dal gruppo di politica di ricerca scientifica e tecnica
(PREST, poi CREST) introduce nel 1972 il tema dell’immagine della città e della
protezione del patrimonio culturale urbano (se ne ispirerà il programma Città europea
della cultura della Commissione negli anni Ottanta).
I nuovi membri della Comunità (Gran Bretagna, Danimarca, Irlanda) presentano
anche loro problemi acuti sia di congestione urbana che di spopolamento delle aree
rurali, e, soprattutto in Gran Bretagna una tradizione forte di analisi ed interventi in
reazione al declino industriale. La Gran Bretagna lega la propria partecipazione alla
CEE alla previsione nel bilancio comunitario di voci adeguate a permettere la
definizione di una politica regionale comune, nella quale sperava di recuperare le
risorse impegnate per misure di aiuto al settore agricolo, nel suo contesto di minor
interesse. Il sistema di aiuti regionali attivi in Gran Bretagna viene nel contempo
faticosamente allineato sugli indirizzi europei. Nel programma delineato nel vertice
di Parigi del 1972 per la nuova Comunità a nove è inserito l’impegno a definire una
soluzione comunitaria alle disuguaglianze di sviluppo economico tramite il
coordinamento delle politiche regionali degli Stati e l’istituzione di un fondo a ciò
dedicato (sarà il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale).
Nel 1971 dal Commissario agli affari industriali, scientifici e tecnologici viene
proposta la promozione di un’azione comunitaria in materia ambientale. Lo sviluppo
non controllato dell’urbanizzazione, sostenuto dall’ideologia della crescita economica
illimitata, viene presentato come il principale fattore del deterioramento
dell’ambiente in Europa: tali problemi, si sosteneva, dovevano essere affrontati nel
quadro della nascenda politica regionale comunitaria. Il primo programma della
Comunità in materia ambientale del 1973 presenta un insieme di misure volte a
ridurre l’inquinamento ma anche a migliorare le condizioni di vita nei contesti urbani.
Si intensifica su questi temi la relazione con due associazioni internazionali di enti
locali, il Consiglio dei Comuni d’Europa e la IULA, che nel 1974 aprono il primo
ufficio di rappresentanza delle collettività locali a Bruxelles. Queste innovazioni si
inseriscono nel movimento diffuso che caratterizza gli anni Settanta, di apertura delle
istituzioni europee verso i cittadini: elezione diretta del parlamento (1979),
coinvolgimento delle rappresentanze dei lavoratori e delle imprese alla definizione
della politica economica, avvicinamento alle rappresentanze degli enti locali.
Nel 1975 dalla Commissione è stato creato quello che costituirà la vera struttura
portante della politica di coesione, il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale. Al
Fondo è attribuita la funzione di ridurre una serie definita di squilibri regionali, quelli
determinanti in quella fase della storia europea: quelli generati dalla “predominanza
agricola, dalle trasformazioni industriali e dalla sotto-occupazione strutturale ”; ciò
tramite il concorso comunitario ad investimenti in attività produttive o di servizi o in
infrastrutture in aree che già beneficiavano di aiuti nazionali con finalità “regionali”.
L’elencazione delle disuguaglianze alle quali il Fondo deve far fronte costituisce la
prima griglia di politica di spatial planning europeo; non si associa tuttavia ad alcuna
localizzazione sovra-nazionale di priorità. Il Fondo muove finanziamenti importanti
per l’attribuzione dei quali gli Stati nazionali definiscono le proprie priorità.
3. 1976-1987. L'abbozzo di una politica urbana e di uno spatial planning
condiviso nell'Europa dei dodici
Negli anni a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta si mantiene alta l'attenzione sui
problemi delle regioni a forte concentrazione economica ed urbana, ossia con più di
500 ab/kmq (dallo studio Eriplan al rapporto al Commissario Thomsom del 1975,
fino alla relazione del parlamentare Griffith sul rinnovamento delle inner cities del
1982) mentre in un'ottica più operativa lavori del CREST mettono in luce la diversità
delle politica di lotta a questo fenomeno. Nel 1980 il Parlamento istituisce
l’Intergruppo degli eletti locali e regionali, struttura consultiva che riunisce
parlamentari che hanno svolto o svolgono attività a livello locale.
In quegli stessi anni è anche particolarmente intensa l'attenzione del Consiglio
d’Europa per l'insieme dei temi legati al coordinamento delle politiche territoriali.
Esso promuove nel 1980 la Convenzione-quadro di Madrid, base legale per la
cooperazione trasfrontaliera tra autorità locali; lancia nel 1980 la campagna per la
“Rinacsita della città” e nel 1983 promuove l’adozione da parte dei ministri
responsabili della pianificazione territoriale della Carta europea della pianificazione
territoriale a Torremolinos. In questa Carta viene prospettata per la prima volta
l’elaborazione di uno schema spaziale europeo, sottolineata la necessità di
territorializzare le politiche settoriali ed elencati bisogni specifici di alcuni tipi di
territori. Il Parlamento europeo, riferendosi ai lavori della CEMAT, adotta nello
stesso anno la risoluzione detta Gendebien su uno Schema europeo di pianificazione
territoriale.
Nel contempo si intensificano gli sforzi degli Stati nazionali per il rinnovamento
urbano, in programmi che sempre più spesso si inseriranno nelle operazioni
consentite nel quadro del FESR. Su questo fondo una prima Operazione integrata di
Sviluppo (ante litteram) è destinata a Napoli nel 1978; beneficiano poi di questi fondi
le città italiane terremotate della Campania e della Basilicata, e, a seguire Belfast nel
1983, Birmingham e Bradford nel 1986.
In Spagna e in Portogallo (1986), la problematica si accentua mentre l'attenzione si
sposta sempre più spesso sulle aree urbane problematiche ed in crescita delle regioni
deboli (abusivismo, baraccopoli). Vi è dedicata buona parte della Relazione sullo
sviluppo socio-economico regionale del 1987, la base sulla quale si proporranno i
primi Progetti pilota urbani nel quadro dei nuovi regolamenti per i fondi strutturali
del 1988.
4. 1988-1999. L'accelerazione del processo di integrazione della pianificazione
urbana e territoriale nell’Europa dei quindici
Approfondendosi la costruzione economica europea, con l’Atto Unico del 1986,
appare sempre più cruciale la questione delle differenze territoriali delle strutture
produttive e delle possibilità di vita in uno spazio ormai detto unico. La nozione di
coesione economica e sociale è inserita nel Titolo V dell’Atto Unico.
Negli stessi anni si afferma nelle politiche europee la necessità di strutturare e rendere
più coeso questo spazio unico potenziando la rete dei cosiddetti TransEuropean
Networks. I TEN, infrastrutture di trasporto, di energia e di telecomunicazione
costituiscono una prima maglia di strumenti comuni per lo sviluppo locale.
Nel 1988 la dotazione del FESR è notevolmente aumentata ed è riformata la struttura
complessiva dei fondi strutturali (FESR, FSE). Ad essi viene anche attribuita la
funzione di stimolare la cooperazione transfrontaliera, alla quale due anni dopo
(1990) viene dedicata per la prima volta l'Iniziativa comunitaria INTERREG.
In questo frangente favorevole, beneficiari importanti degli interventi sono le città
portatrici di progetto di riqualificazione urbana. Il Libro verde sull’ambiente urbano
presentato nel 1990 dalla Direzione Ambiente non soltanto afferma che il controllo
globale della qualità dell’ambiente spetta in primo luogo ai governi locali, sostenuti
dai livelli superiori di governo, ma traccia anche un quadro all'estremo pessimistico
delle trasformazioni architettoniche ed urbanistiche, dei modi di vita, delle capacità di
inclusione delle grandi città europee.
I comuni europei simultaneamente si approntano a nuove forme di lobbying, non più
orientato ad un generico riconoscimento delle competenze degli enti locali, ma alla
difesa di specifici interessi condivisi da alcune categorie di città: nasce nel 1989 la
prima rete europea di città, Eurocities, formata da città grandi ma non capitali;
seguiranno le reti Quartiers en crise, Villes de banlieue. Queste reti di cooperazione
interurbane sono immediatamente sostenute finanziariamente dalle istituzioni
europee, dal 1990 con il programma RECITE.
E' in atto in effetti la cosiddetta “dinamica Delors”: dalla fine degli anni ottanta città e
regioni sono riconosciute a pieno titolo come attori delle politiche europee.
Con la riforma dei fondi strutturali del 1988, sono definiti sei obiettivi con relative
linee di finanziamento. Vengono individuate sette regioni ultra-periferiche (RUP) per
le quali le limitazioni geografiche si associano ad un forte ritardo socio-economico:
ricevono compensazioni specifiche per le attività del settore primario (POSEI:
programmi di opzioni specifiche alla distanza e all’insularità). Ma soprattutto viene
lanciata la politica europea della città.
L’obiettivo 2 prevede interventi per comunità urbane con tasso di disoccupazione
superiore del 50% alla media comunitaria e con regresso significativo
nell’occupazione industriale. Anche l’obiettivo 1 permette di finanziare numerose
città.
Nel 1989 sono approvati, sui fondi strutturali, i primi Progetti Pilota Urbani: Londra e
Marsiglia. I tre obiettivi del programma sono: competitività, lotta all’esclusione,
ambiente. Il riferimento è alle esperienze francesi di Développement Social des
Quartiers e di Quartiers en crise. I progetti pilota impongono particolari modalità
d'azione: approccio integrato (tra livelli di governo), partnership (privato-pubblico
per la realizzazione dell'intervento), coinvolgimento della popolazione. In alcuni
contesti nazionali propongono quindi una vera e propria rivoluzione delle pratiche
tradizionali di pianificazione, che poi si tradurrà concretamente in più o meno estesa
correzione dell'approccio tradizionale.
33 progetti al totale saranno finanziati nella prima serie di PPU (per una spesa a
livello europeo di 200 milioni di euro, per metà sul FESR)
Con il Libro bianco Delors “Crescita, competitività, occupazione”, avviene la svolta
che porta all'accentuazione della competitività tra gli obiettivi delle politiche europee.
Ad essa si associa tuttavia una grande e concreta attenzione per la coesione, anche
territoriale. Il secondo pacchetto Delors relativo agli anni 1994-1999 porta al
raddoppio dei fondi strutturali e alla creazione del fondo di coesione.
Introduce un Programma di Interesse Comunitario “Quartieri in crisi” all'interno del
quale dal 1994 è istituito il programma Urban. Finanzia progetti locali integrati e
innovativi destinati a quartieri in crisi in agglomerati con più di 100000 abitanti (o in
declino economico grave). Anche qui il riferimento è ad esperienze francesi, quelle
del Contrat de ville.
Molte città europee si impegnano simultaneamente alla tutela dell'ambiente. La
Conferenza di Ǻlborg (1994), porta alla creazione della rete Città europee sostenibili;
esse si impegnano a svolgere le Agenda 21, costruendo piani di azione locale
partecipati per la difesa dell'ambiente. Si sviluppa contemporaneamente, sostenuta
dalle istituzioni europee, l'Iniziativa LIFE, Local Initiatives Facility for Environment.
Più lenti sono i progressi dell'integrazione nelle politiche regionali vere e proprie.
Anche in questa fase, il Consiglio d’Europa agisce come stimolo; il Parlamento
Europeo si afferma anche come attore decisivo.
Il Consiglio d’Europa adotta nel 1990 una risoluzione su Une politique
d'aménagement concerté du territoire, nel 1998 (successivamente, a conclusione
della preparazione dello SSSE, approverà un’altra importante risoluzione che
constata l’impossibilità a procedere oltre per dinamiche intergovernative e richiede la
presa in considerazione della pianificazione territoriale nel quadro comunitario;
ancora nel 2005 il rapporto Guellec richiederà l’inserimento della coesione
territoriale come dimensione chiave nelle strategie (Lisbona, Göteborg) e le politiche
settoriali dell’Unione).
I governi nazionali, con le sole eccezioni dei Paesi Bassi e della Francia, sono tuttavia
poco ricettivi alle proposte nella direzione di una pianificazione territoriale integrata.
La Francia ne fa tuttavia il tema della prima riunione informale del ministri
responsabili della pianificazione territoriale a Nantes nel 1989, in presenza di Jacques
Delors, allora presidente della Commissione Europea.
I dieci anni successivi sono fitti di studi promossi dalla Commissione Europea e di
riunioni dei ministri responsabili della pianificazione territoriale. Un bilancio
comparato dei sistemi di pianificazione territoriale dei diversi paesi europei viene
proposto nell’European Compendium of Spatial Planning Systems (CE, 1997-2000),
che utilizza sistematicamente per la prima volta il neologismo Spatial Planning. Una
prima, flebile, griglia di pianificazione territoriale comune, è poi rintracciabile nei
due documenti di prospettiva Europa 2000 e Europa 2000+ del 1991 e del 1994.
Europe 2000, les perspectives de développement du territoire communautaire delinea
un’analisi e proposte di sostegno allo sviluppo per gruppi di regioni (urbane, rurali,
transfrontaliere) sulle grandi possibilità di evoluzione in aree chiave della vita
comunitaria: ambiente, energia, trasporti, telecomunicazioni. Europe 2000+,
Coopération pour l'aménagement du territoire européen, va oltre nella definizione di
una visione a lungo termine delle potenzialità di sviluppo concertato, sempre riferite a
grandi aggregati regionali.
Nel 1994, è così istituita l’Iniziativa Comunitaria INTERREG II.C, che ha per
obiettivo di promuovere, mediante interventi in aree chiave della pianificazione
territoriale (sviluppo sostenibile delle aree metropolitane, controllo delle acque,
metodi di pianificazione), la cooperazione transnazionale in seno agli spazi macroregionali individuati in Europa 2000+: Centro delle Capitali, Arco alpino, Diagonale
continentale, Länder della ex Germania Democratica, Arco latino, Area del
Mediterraneo centrale, Arco atlantico, Regioni del Mare del Nord, Regioni
ultraperiferiche.
Nel 1996 è adottato il Programma Europeo di Pianificazione Integrata delle Aree
Costiere.
A chiusura dei dieci anni di negoziazione politica e sulla base di questi tre grandi
studi è alfine approvato nella riunione dei Ministri di Postdam del maggio 1999 un
documento comune, lo Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo (SSSE), che
consacra l’introduzione di questa dimensione nelle politiche dell’Unione Europea.
Lo SSSE non ha capacità costrittiva e la difficoltà delle negoziazioni di cui è frutto
traspare nell’ambiguità di alcune sue indicazioni. E’ tuttavia il primo quadro di
riferimento per una pianificazione territoriale comune nel quale si costituisce
innanzitutto un glossario, che illustra obiettivi strategici condivisi, ancora soggetto a
diversità interpretative, ma sufficientemente indicativo per inserirsi nelle diverse
politiche settoriali.
La volontà primaria affermata è quella di uno sviluppo durevole del territorio
dell’Unione capace di combinare conservazione del patrimonio naturale e culturale e
competitività equamente distribuita; dalla quale discendono grandi indirizzi comuni:
- la presa in considerazione della dimensione europea nelle politiche di viluppo
nazionali e locali;
- il consolidamento della cooperazione e della creazione di reti tra territori;
- l’innovazione nella governance a sostegno della capacità decisionale e
competitiva delle autonomie locali.
I tre pilastri di tale sviluppo sostenibile, articolati in sessanta opzioni politiche, sono
indicati
- nello sviluppo policentrico e nel consolidamento del partenariato cittàcampagna;
- nella parità di accesso alle infra e info-strutture;
- nella gestione attenta del patrimonio, naturale e culturale.
Benché i temi sviluppati siano principalmente attinenti allo “sviluppo locale”, la
visione di spatial planning che ispira lo Schema, consone al modello francese di
aménagement du territoire o alla cultura neerlandese, non soltanto mal si attaglia,
come dimostra il Compendium, alle diverse culture nazionali della pianificazione
territoriali, ma non trova basi né nelle precedenti attività della Commissione né nel
quadro di competenze delegate dagli Stati all’Unione.
Trattato che istituisce la Comunità Europea (versione consolidata)
Articolo 2 (ex articolo 2)
La Comunità ha il compito di promuovere nell'insieme della Comunità, mediante l'instaurazione di un mercato comune e di un'unione
economica e monetaria e mediante l'attuazione delle politiche e delle azioni comuni di cui agli articoli 3 e 4, uno sviluppo armonioso,
equilibrato e sostenibile delle attività economiche, una crescita sostenibile e non inflazionistica, un elevato grado di convergenza dei
risultati economici, un elevato livello di protezione dell'ambiente e il miglioramento di quest'ultimo, un elevato livello di occupazione e di
protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra Stati
membri.
TITOLO XVII (ex titolo XIV)
COESIONE ECONOMICA E SOCIALE
Articolo 158 (ex articolo 130 A)
Per promuovere uno sviluppo armonioso dell'insieme della Comunità, questa sviluppa e prosegue la propria azione intesa a realizzare il
rafforzamento della sua coesione economica e sociale.
In particolare la Comunità mira a ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni ed il ritardo delle regioni meno favorite o
insulari, comprese le zone rurali.
Articolo 159 (ex articolo 130 B)
Gli Stati membri conducono la loro politica economica e la coordinano anche al fine di raggiungere gli obiettivi dell'articolo 158.
L'elaborazione e l'attuazione delle politiche e azioni comunitarie, nonché l'attuazione del mercato interno tengono conto degli obiettivi
dell'articolo 158 e concorrono alla loro realizzazione. La Comunità appoggia questa realizzazione anche con l'azione che essa svolge
attraverso fondi a finalità strutturale (Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia, sezione “orientamento”, Fondo sociale
europeo, Fondo
europeo di sviluppo regionale), la Banca europea per gli investimenti e gli altri strumenti finanziari esistenti.
La Commissione presenta ogni tre anni al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle
Regioni una relazione sui progressi compiuti nella realizzazione della coesione economica e sociale e sul modo in cui i vari strumenti
previsti dal presente articolo vi hanno contribuito. Tale relazione corredata, se del caso, di appropriate proposte.
Le azioni specifiche che si rivelassero eventualmente necessarie al di fuori dei Fondi, fatte salve le misure decise nell'ambito delle altre
politiche della Comunità possono essere adottate dal Consiglio, che delibera all'unanimità su proposta della Commissione e previa
consultazione del Parlamento europeo, del Comitato economico e sociale e del Comitato delle Regioni.
Articolo 160 (ex articolo 130 C)
Il Fondo europeo di sviluppo regionale destinato a contribuire alla correzione dei principali squilibri regionali esistenti nella Comunità,
partecipando allo sviluppo e all'adeguamento strutturale delle regioni in ritardo di sviluppo nonché alla riconversione delle regioni
industriali in declino.
Articolo 161 (ex articolo 130 D)
Fatto salvo l'articolo 162, il Consiglio, deliberando all'unanimità su proposta della Commissione, previo parere conforme del Parlamento
europeo e previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle Regioni, definisce i compiti, gli obiettivi prioritari
e l'organizzazione dei fondi a finalità strutturale, elemento quest'ultimo che può comportare il raggruppamento dei fondi. Il Consiglio
definisce inoltre, secondo la stessa procedura, le norme generali applicabili ai fondi, nonché le disposizioni necessarie per garantire
l'efficacia e il coordinamento dei fondi tra loro e con gli altri strumenti finanziari esistenti.
Un Fondo di coesione è istituito dal Consiglio secondo la stessa procedura per l'erogazione di contributi finanziari a progetti in materia di
ambiente e di reti transeuropee nel settore delle infrastrutture dei trasporti.
Articolo 162 (ex articolo 130 E)
Le decisioni d'applicazione relative al Fondo europeo di sviluppo regionale sono adottate dal Consiglio, che delibera secondo la
procedura di cui all'articolo 251 e previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle Regioni.
Per quanto riguarda il Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia, sezione “orientamento”, ed il Fondo sociale europeo
restano applicabili rispettivamente gli articoli 37 e 148.
Unico, importante ma non sufficiente riferimento rimane la nozione di coesione
economica e sociale, inserita nell’art. 158 del Trattato. L’ambiente è l’unico settore in
cui una competenza riferibile allo spatial planning possa essere incontestabilmente
esercitata dalla Commissione, ai termini dell’art. 175 del Trattato, ma limitata alle
questioni di “uso del suolo”.
La nozione di coesione territoriale, sotto l’impulso delle Associazione delle Regioni
d’Europa è inserita nel Trattato di Amsterdam all’art. 16, ma con discrezione:
l’articola recita in effetti che i servizi di interesse generale operano alla “coesione
sociale e territoriale”.
La Commissione in questo ambito può quindi rivestire un ruolo principalmente
indicativo e lo Schema (in inglese tradotto non per errore “Perspective”) è atto
politico di grande portata simbolica, la cui importanza culturale e “pedagogica” non è
contestabile, ma senza concretezza immediata, nei suoi contenuti e nel suo impatto
sulle politiche pubbliche nazionali.
5. 2000-2011. La pianificazione territoriale nell'integrazione dell'Europa a 27
Il Consiglio d’Europa, promuovendo l’approvazione a Firenze nel 2000 della
Convenzione europea del paesaggio, consacra l’interesse culturale crescente per il
tema e la sua crescente valenza politica, proponendo un mutamento profondo delle
pratiche di pianificazione territoriale, a partire da una ridefinizione del concetto
stesso di paesaggio, come componente fondamentale della sostenibilità. Lo SSSE
dedica largo spazio alla descrizione dei paesaggi europei, indica la tutela del
paesaggio come dimensione degli interventi per la sostenibilità. La Convenzione
Europea del Paesaggio vi individua un concetto chiave trasversale a tutte le politiche
che sull’assetto del territorio vanno ad incidere. La stessa definizione di paesaggio
come “determinata parte di territorio, cosi come è percepita dalle popolazioni, il cui
carattere deriva dall'azione di fattori naturali c/o umani e dalle loro interrelazioni”,
impone un forte coinvolgimento della popolazione nella definizione delle risorse e
degli obiettivi di piano e analisi preliminari multidisciplinari orientate a comprendere
come tradizioni e comportamenti si iscrivano nel territorio contemporaneo. La
Convenzione indica come strumenti piani paesaggistici di area vasta, raccomanda che
i piani di settore assumano il paesaggio come obiettivo prioritario nell’obiettivo della
sostenibilità. Ratificata oggi da 30 stati, di cui 23 dell’UE, la Convenzione inizia ad
essere recepita in alcuni ordinamenti nazionali, come nel caso italiano, e può
diventare fonte di innovazione importante nelle pratiche di pianificazione.
Nella fase delicata di riflessione sul progetto di costituzione e sulla struttura
istituzionale e gli stessi obiettivi dell’Unione, la nozione di coesione mantiene la sua
posizione di riferimento lessicale condiviso: si trova inserita nel Trattato di Lisbona
2007 e nei documenti strategici della Commissione elaborati negli stessi anni; con
esiti tuttavia incerti nella definizione degli interventi concreti, di fronte alla
ridefinizione rapida delle frontiere dell’Unione e dei problemi socio-economici
prioritari da affrontare.
La lista degli obiettivi si aggiorna e si arricchisce. Il secondo rapporto triennale sulla
coesione del 2001, «Unità dell’Europa, solidarietà dei popoli, diversità dei territori»,
elenca i principali squilibri territoriali, le difficoltà delle regioni transfrontaliere e
delle regioni geograficamente marginali. Il terzo "Un nuovo partenariato per la
coesione” del 2004, approfondisce l’analisi delle tendenze di sviluppo, in particolare
della cosiddetta peri-urbanizzazione e integra il tema dell’auspicabile sviluppo
policentrico. Gli Orientamenti strategici per la coesione adottate nel 2006 riprendono
gli stessi temi, così come gli Orientamenti strategici comunitari per lo sviluppo
rurale. La coesione in questi testi passa tuttavia, e sempre più marcatamente al
secondo piano rispetto alla priorità “competitività”, come declinata nell’Agenda di
Lisbona. Alla Lisbonizzazione, dal 2003 e il rapporto Sapir, Agenda per un’Europa
in espansione, corrisponde un atteggiamento critico diffuso verso la Politica Agricola
Comune e la politica di coesione. Il quarto rapporto sulla coesione Regioni in
crescita, Europa in crescita, del 2007 adotta un taglio sommamente descrittivo delle
tendenza evolutive: accentramento delle risorse nelle regioni-capitali, periurbanizzaizone, declino demografico di molte aree rurali.
Soltanto per quanto concerne le RUP è approntato nel 2007 un programma specifico
con relativi finanziamenti compensativi.
Dallo SSSE ed il suo Piano di azione (Tampere, ottobre 1999) discendono tuttavia in
quegli anni due strumenti importanti, costituiti immediatamente:
- INTERREG III, che consolida la cooperazione territoriale nelle sue tre dimensioni
(transnazionale, transfrontaliere, interregionale) e si sviluppa al punto da diventare
nel periodo 2007-2013 un obiettivo vero e proprio della politica di coesione di
“cooperazione territoriale europea”), ancorandosi sempre di più sulla nozione di
policentrismo;
- ESPON, rete di ricerca europea destinato a sviluppare analisi di bilancio e studi di
prospettiva, vero e proprio osservatorio della pianificazione territoriale, istituito dalla
Commissione e dagli Stati membri nel 2002.
Lo SSSE ha introdotto e diffuso nella comunità dei professionisti della pianificazione
territoriale una serie di concetti e di problemi che diventano base di riflessione
omogenea. Su, pochi, progetti e strategie regionali o nazionali, la sua influenza
apparirà direttamente evidente: la National Spatial Strategy irlandese, gli equivalenti
sloveni e portoghesi, lo Schéma dedéveloppement de l'espace régional wallone.
In molti paesi, la carenza di tradizione di politica geografica volontaristica o la
diffidenza verso ingerenze sovra-nazionali nel settore ridurranno il suo impatto.
Simile è la reazione di chi si occupa all’interno della Commissione di politiche
settoriali anche di grande impatto sull’uso del territorio (ambiente, infrastrutture di
trasporto, agricoltura).
Dopo anni di stasi del dibattito tra il 2001 e il 2004, la presidenza neerlandese del
Consiglio segna tuttavia un rilancio con l’avvio (Rotterdam 2004) di un rinnovato
confronto tra governi, istituzioni europee, rappresentanti di enti locali. Il “processo di
Rotterdam” porta nel maggio 2007 a Leipzig all’adozione dell’Agenda Territoriale e
della Carta di Lepizig sullo sviluppo sostenibile urbano da parte dei Ministri titolari
di competenze nella Pianificazione territoriale.
Nell’Agenda territoriale si definisce un piano di lavoro intergovernativo fino al 2011
e si riprendono principi e obiettivi dello SSSE aggiungendovi due priorità
(promozione di "clusters" regionali di sostegno all’innovazione e alla competitività
del territorio europeo; promozione della gestione transnazionale e transfrontaliera dei
rischi, specie relativi ai mutamenti climatici) e un’indicazione di strumento (la
valorizzazione del cosiddetto capitale territoriale, le potenzialità specifiche dei
sistemi locali).
La Carta registra per la prima volta il legame tra politica urbana e spatial planning.
Nel 2007 nelle Azzorre, gli stessi ministri stilano un Programma di Azione per
l’attuazione dell’Agenda territoriale, nel quale ribadiscono la volontà di far reinserire
sistematicamente la dimensione territoriale e urbana nei grandi atti e strategie
europei, migliorar la governance del territorio in Europa: affermazione di volontà ma
anche dichiarazione di consapevolezza degli ostacoli ai quali si trovano confrontati: il
budget concesso per la cooperazione transnazionale ad esempio risulta ben minore di
quanto proponessero.
L’Agenda territoriale richiedeva alla Commissione un rapporto sulla coesione
territoriale, richiesta sostenuta dal Parlamento europeo: essa adotta nell’ottobre del
2008, il Libro verde Far della diversità territoriale un atout. Vi si evidenziano tre
direzioni di azione: 1) ridurre gli scarti di densità degli insediamenti tramite un
addensamento ragionato; 2) controllare le distanze connettendo i territori; 3)
sormontare le divisioni tramite la cooperazione.
Le 22 questioni individuate concernono sei grandi are tematiche:
- definire la coesione territoriale: sviluppo equilibrato e sostenibile del territorio
europeo e necessità di aiutare tutti i territori a valorizzare i loro particolari potenziali,
ad invertire le dinamiche non sostenibili (diffusione urbana, urbanizzazione dei
litorali, in particolare), a prevenire gli effetti dei mutamenti climatici;
- precisare l'ampiezza e le scale dell’intervento europeo: deve intervenire
principalmente sui territori geograficamente marginalizzati, a livello NUTS2 o ad
altre scale di bisogni di sviluppo?;
- migliorare la cooperazione territoriale europea al di là dei confini;
- intensificare il coordinamento tra politiche territoriali e politiche settoriali con
impatto territoriale;
- identificare nuovi partenariati (riflettendo in particolare sulla posizione che devono
assumere gli attori locali);
- migliorare la conoscenza della coesione territoriale.
Esempi concreti di strategie comunitarie integrate per macro-aree appaiono infine.
La Road Map per la pianificazione dello spazio marittimo adottata nel novembre
2008 completa il quadro strategico definito l’anno precedente per questa nuova
politica pubblica europea, che concerne anche l’interfaccia mare-terra istituendo
un’architettura complessa di azioni integrate alle diverse scale, locale, regionale, di
bacino marittimo, nella quale convergono le diverse politiche europee interessate
(pesca, acquacoltura, turismo, energie rinnovabili, ambiente, ricerca). La Road Map
richiama tutti i principi della «coesione territoriale» (intervento al livello più
adeguato, approccio strategico, partenariato allargato, cooperazione territoriale,
coerenza degli strumenti, conoscenza scientifica), ed è ad oggi l’esempio più
completo di politica integrata «spazialmente» definita. La sua attuazione rileva della
responsabilità degli Stati membri ma il livello comunitario è garante della coerenza
del processo.
Per lo spazio del Mar Baltico (otto Stati membri, la Norvegia e uno spezzone di
territorio russo), sul quale si è sviluppata una delle più vecchie esperienze di
cooperazione dell’Unione europea, è richiesta dal Consiglio nel 2007 una strategia
attualizzante, definita nell’arco di tre anni. Le grandi questioni da affrontare
riguardano in prima istanza la tutela dall’inquinamento. La strategia è elaborata in
collaborazione tra enti territoriali, che saranno responsabili dell’attuazione, con
consultazioni della popolazione e sotto il coordinamento della Commissione.
Simile processo, sulla scia dell’esperienza, è intrapreso per lo spazio Danubio.
Il quinto rapporto sulla coesione “Investire sul futuro dell’Europa”, del novembre
2010, adotta per la prima volta un approccio intersettoriale proponendo, oltre ad un
tentativo di valutazione dell’impatto della politica regionale adottata dal 2007, un
bilancio delle misure di impatto territoriale delle diverse politiche europee.
Nelle pratiche di pianificazione degli enti locali, il processo di sostegno alla
riqualificazione lanciato con URBAN, si prolunga dal 2000 al 2006 con le nuove
URBAN II, con un impatto a volte evidente a volte solo formale sulla convergenza di
pratiche e culture: l’accento è posto sempre di più sullo scambio di esperienze tra enti
locali, oggetto di specifico finanziamento con URBACT.
Nella programmazione 2007-2013 dei Fondi strutturali il sostegno alla
riqualificazione urbana, in JESSICA (Joint European Support and Sustainable
Investisment in Urban Areas) come nelle altre iniziative di stimolo allo sviluppo
locale (JASPERS per i progetti infrastrutturali ed edilizi, JEREMIA per lo sviluppo
delle medie e piccole imprese), oltre a confermare le indicazioni di processo
(partecipazione dei cittadini, integrazione verticale ed orizzontale dei partenariati,
integrazione delle politiche settoriali) punta maggiormente sulla costituzione di
strutture finanziarie e tecniche di sostegno agli enti locali.
Ma è lo stesso processo di definizione delle priorità di investimento nel quadro dei
Fondi strutturali, un terzo del bilancio dell’Unione, a rendere conto, dei progressi
nella definizione di una politica di spatial planning europeo: definizione che procede
dalla stesura di documenti nazionali (National Strategic Reference Frameworks), nei
quali, secondo processi diversi da paese a paese Programmi Operativi Regionali,
recepiti in Country Strategic Guidelines europee. In questo processo è iniziato a
prendere forma concreta, in certi casi, molti flebilmente, in altri con evidenza, il
dibattito nazionale sulla localizzazione prioritaria degli investimenti per lo sviluppo e
la riduzione delle disuguaglianze alla luce dei concetti, ancora ambigui, ma utili per
strutturare le analisi, proposti dalla letteratura grigia europea, in primo luogo quelli di
coesione territoriale, di sviluppo policentrico, di paesaggio.