Jacques Nobécourt: Vaticano dietro le quinte - Rocca
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Jacques Nobécourt: Vaticano dietro le quinte - Rocca
Rivista della Pro Civitate Christiana Assisi 70 ANNO periodico quindicinale Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post. dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Perugia € 2.70 14 15 luglio 2011 Afghanistan si tratta e si combatte una valanga di sì e adesso? ritorno dei cattolici alla politica l’inamovibile provincia evoluzione l’intreccio può essere la moralità un prodotto politico-religioso del di selezione naturale? fondamentalismo ebraico la libertà religiosa nell’età moderna scuola pianeta disabili TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE ISSN 0391 – 108X Rocca in ascolto dei suoi lettori vedi p. 31 Rocca 4 7 sommario 11 13 14 16 18 21 22 25 26 27 15 luglio 2011 31 39 42 14 45 Ci scrivono i lettori 47 Anna Portoghese Primi Piani Attualità Vignette Il meglio della quindicina Raniero La Valle Resistenza e pace Perché i cattolici Maurizio Salvi Afghanistan Si tratta e si combatte Roberta Carlini Pubblico/privato Gli italiani hanno cambiato idea Ugo Leone Una valanga di sì E adesso? Romolo Menighetti Oltre la cronaca L’inamovibile provincia Fiorella Farinelli Scuola: Rapporto Fondazione Agnelli Pianeta disabili Tonio Dell’Olio Camineiro Il bello della diretta Oliviero Motta Terre di vetro Lavoro e psiche Pietro Greco Giannino Piana Evoluzione Può essere la moralità un prodotto di selezione naturale? Inserto Inchiesta tra i Lettori Rocca compie 70 anni e ti interpella Rosella De Leonibus I volti del disagio Solitudini in rosa Marco Gallizioli Israele L’intreccio politico-religioso del fondamentalismo ebraico Stefano Cazzato Maestri del nostro tempo Ferdinand de Saussure L’invenzione dello strutturalismo 49 50 52 54 56 57 58 58 59 59 59 60 61 62 63 Giuseppe Moscati Nuova Antologia Inoue Yasushi La penna come una lama Filippo Gentiloni Vizi & Virtù Giancarlo Zizola Jacques Nobécourt Vaticano dietro le quinte Arturo Paoli Amorizzare il mondo Dio ha bisogno di te Carlo Molari Teologia La libertà religiosa nell’età moderna Lidia Maggi Giobbe Come se niente fosse accaduto? Paolo Vecchi Cinema Tutti per uno Roberto Carusi Teatro Vivere in città Renzo Salvi Rf&Tv Hatel Patria Mariano Apa Arte Roma/Milano Alberto Pellegrino Immagini La lunga calza verde Alberto Pellegrino Musica Marinai, profeti e balene Giovanni Ruggeri Siti Internet Europa digitale Libri Carlo Timio Rocca Schede Organizzazioni in primo piano Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) Luigina Morsolin Fraternità Burundi: cibo per il corpo e per la mente Numero 14 – 15 luglio 2011 70 ANNO Gruppo di redazione GINO BULLA CLAUDIA MAZZETTI ANNA PORTOGHESE il gruppo di redazione è collegialmente responsabile della direzione e gestione della rivista Progetto grafico CLAUDIO RONCHETTI Fotografie Andreozzi B., Ansa-LaPresse, Associated Press, Ballarini, Berengo Gardin P., Berti, Bulla, Carmagnini, Cantone, Caruso, Cascio, Ciol E., Cleto, Contrasto, D’Achille G.B., D’Amico, Dal Gal, De Toma, Di Ianni, Felici, Foto Express, Funaro, Garrubba, Giacomelli, Giannini G., Giordani, Grieco, Keystone, La Piccirella, LaPresse, Lucas, Luchetti, Martino, Merisio P., Migliorati, Natale G. M., Oikoumene, Pino G., Riccardi, Raffini, Robino, Rocca, Rossi-Mori, Turillazzi, Samaritani, Sansone, Santo Piano, Scafidi, Scarpelloni, Scianna, Zizola F. Redazione-Amministrazione Via Ancaiani, 3 - 06081 ASSISI tel. 075.813.641 e-mail redazione: [email protected] e-mail ufficio abbonamenti: [email protected] www.rocca.cittadella.org - www.cittadella.org http://procivitate.assisi.museum Fax Redazione 075/3735197 Fax Uff.abbonamenti 075/3735196 conto corrente postale 15157068 Bonifico bancario: UniCredit - Assisi intestato a: Pro Civitate Christiana - Rocca IBAN: IT 26 A 02008 38277 000041155890 (Paese IT Cin 26 Cin A Abi 02008 Cab 38277 n. 0000 41155890) dall’estero IBAN: IT 26 A 02008 38277 000041155890 BIC (o SWIFT) UNCRITM1J46 Quote abbonamento 2011 Annuale: Italia € 60,00; estero € 85,00; Sostenitore: € 150,00 Semestrale: per l’Italia € 35,00 una copia € 2,70 - numeri arretrati € 4,00 ROCCA 15 LUGLIO 2011 Spedizione in abbonamento postale 50% Fotocomposizione e stampa: Futura s.n.c. Selci-Lama Sangiustino (Pg) Responsabile per la legge: Gesuino Bulla Registrazione del Tribunale di Spoleto n. 3 del 3/12/1948 Numero di iscrizione al ROC: 5196 Codice fiscale e P. Iva: 00164990541 Editore: Pro Civitate Christiana Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono riservati. Manoscritti e foto anche se non pubblicati non si restituiscono Questo numero è stato chiuso il 25/06/2011 e spedito da Città di Castello il 28/06/2011 4 ci scrivonoi lettori quindicinale della Pro Civitate Christiana Il male oscuro della sinistra In risposta alla lettera di Giuseppe Piscopo (Rocca, n. 13). Col mio articolo volevo solo invitare la sinistra ad essere meno pessimista, meno astiosa, meno diffidente. E magari più fiduciosa e speranzosa nel popolo e negli elettori. Mi era venuto il dubbio che il pessimismo, come spesso l’indignazione fine a se stessa, fossero un modo comodo per non cercare alternative e vie d’uscita. I risultati dei referendum e delle elezioni mi danno un po’ di ragione. C’erano motivi di speranza. Ora c’è il problema di passare alla politica, di tradurre quello che gli elettori hanno mandato a dire in progetto di cambiamento della società. La sinistra ci riuscirà? Non lo so. Sarà capace di prendere il governo di questo paese per fare cose diverse da quelle che ha fatto il centro destra? Non lo so. So che le cittadine e i cittadini glielo hanno chiesto. E questo non è poco. Ritanna Armeni Nativi digitali Gli interventi qui pubblicati esprimono libere opinioni ed esperienze dei lettori. La redazione non si rende garante della verità dei fatti riportati né fa sue le tesi sostenute Sono un insegnante di scuola superiore, nonché genitore di quattro nativi digitali. È con grande interesse, quindi, che ho letto gli ultimi articoli di G. O. Longo, nonché Homo zappiens da lui recensito. Ho apprezzato l’appello a prendere sul serio la rivoluzione neurale che i nuovi media stanno determinando nelle giovani generazioni, ma ho anche avuto l’impressione che per sfuggire alla tecnofobia di tanti, si sia incappati in un filoneismo acritico. Capisco che McLuhan, non avendo potuto conoscere la rivoluzione informatica, rischi di passare per trogloditico, ma è mai possibile che ci si sia così facilmente sbarazzati del principio che il mezzo è il messaggio? Quando Longo sostiene che CI SCRIVONO I LETTORI tutti con tutti: come si può sviluppare la riflessione? Anche i libri, in particolare quelli scolastici, sono infarciti di rimandi ipertestuali e di immagini, e propongono ogni genere di attività che possa coinvolgere studenti che ci si immagina sempre più annoiati. Non ci si rende conto che pretendendo di competere con i nuovi media, non solo saremo comunque sempre perdenti, ma sottrarremo alle nuove generazioni una opportunità, piccola ma pur sempre importante, di sviluppare profondità di pensiero? La marginalità, l’alienazione rispetto al contesto sociale, non erano i tratti caratteristici dell’adolescenza? Non è per questa alienazione che è stata inventata la scuola, ossia per dare un tempo libero (scholé) con cui potersi liberare – almeno in parte – dagli orizzonti angusti e preconfezionati della socializzazione primaria? Davvero noi adulti dobbiamo intimorirci davanti agli sguardi annoiati dei nostri ragazzi e accendere la Lavagna Interattiva Multimediale per dare loro la scossa? È vero che tutte le informazioni di cui necessita un ragazzo per entrare a far parte della civiltà che si profila possono benissimo esser acquisite al di fuori della scuola. Ma questo non ci deve affatto spaventare, anzi, è positivo, non solo perché libera l’apprendimento dai meccanismi costrittivi che la scuola dell’obbligo ha sempre adottato; ma anche perché libera la scuola dall’obbligo di favorire la socializzazione secondaria, di sviluppare conoscenze e competenze preconfezionate. Nel villaggio non c’è mai stato bisogno della scuola e così forse sarà anche nel villaggio globale. Longo non me ne voglia, ma credo che la scuola o è la scuola della lezione frontale o non è. Giuseppe Manildo Treviso Intanto ringrazio il lettore per l’attenzione, anche se dalla sua lettera desumo che non abbia (ancora) letto tutti gli articoli che Rocca mi ha pubblicato sul tema dei «nativi digitali». Attribuirmi un «filoneismo acritico» mi sembra francamente esagerato, come mi pare un tantino provocatorio asserire che non mi rendo conto di barattare la primogenitura con un piatto di lenticchie quando invito non tanto a educare ai nuovi media (sarebbe puro tecnicismo) ma a educare mediante i nuovi media (è un ampliamento degli strumenti didattici). E poi: quale primogenitura, quali lenticchie? Mi pare proprio il contrario. Il lettore sembra irritato dalla piega che hanno preso la società, la scuola e l’insegnamento sotto l’urto della tecnologia, e anch’io per certi versi lo sono, ma non può ragionevolmente concludere arroccandosi in una posizione di difesa a oltranza di un panorama e di una temperie culturali e scolastici che risalgono a un tempo in cui le tecnologie non esistevano ancora. Altrimenti dovrebbe anche rifiutare le intuizioni e le innovazioni di McLuhan. Tra l’altro il concetto che ogni individuo esiste sotto il profilo cognitivo, affettivo e pratico solo in quanto è immerso in una società e nel suo flusso comunicativo risale agli Stoici: come potrebbe un individuo essere responsabile in toto di ciò che scrive o dice? Infine lo tranquillizzo: non gliene voglio per la sua convinzione che «la scuola o è la scuola della lezione frontale o non è». Come potrei volergliene per un’opinione? Solo che non condivido il suo conservatorismo. Io ho studiato greco per cinque anni e latino per otto, ed ero innamorato di queste lingue: ma era un altro mondo. Mi sforzo di tener distinta l’analisi dei fenomeni dalla valutazione personale che ne dò. Concludo citando Gregory Bateson, il quale, in una sorta di preghiera laica, chiedeva a Dio di dargli la forza di cambiare le cose che poteva cambiare, la pazienza di tollerare le cose che non poteva cambiare e la saggezza di distinguere tra le due. Giuseppe O. Longo Gorizia Energie alternative Ho letto sul n. 12 del 15 giugno l’articolo di Ugo Leone «se la terra agricola sparisce» e a questo proposito espongo una mia considerazione riguardante appunto le energie alternative al nucleare. Se l’Italia mettesse pannelli solari ai lati di tutte le autostrade e superstrade esistenti nel territorio e se mettesse altrettanti pannelli solari ai lati di tutta la rete ferroviaria esistente in Italia, quanti chilometri quadrati di pannelli potremmo attivare? e quanta energia elettrica potremmo ricavare? Probabilmente una quantità maggiore a quella che occorre, forse potremmo anche venderla all'estero. Inoltre non avremmo nessun impatto ambientale ed eviteremmo di deturpare colline a pianure evitando di sottrarle alla agricoltura. Si dirà che è impossibile, ma se arriviamo su Marte dire che è impossibile mi sembra ridicolo. Si dirà che i costi sarebbero altissimi, perché forse le centrali nucleari si fanno gratis? E i tempi dove li mettiamo? il nucleare che poi per fortuna è stato respinto dal referendum poteva entrare in funzione fra dieci dodici anni, questo subito. Nelvio Cesaroni [email protected] Errata corrige ROCCA 15 LUGLIO 2011 dobbiamo educare con i nuovi mezzi più che ai nuovi mezzi, sembra non rendersi conto che si rischia di barattare la primogenitura per un piatto di lenticchie: per far in modo che gli studenti si interessino – che so – a Petrarca, la scuola dovrebbe accettare acriticamente l’approccio multimediale e interattivo (‘freddo’, direbbe McLuhan), seguendo il main stream olistico che caratterizza la nostra epoca globalizzante? Sempre McLuhan spiegava che l’era dei media elettrici (ancora non si parlava di elettronica!) ci riporta alla condizione tribale (il famoso villaggio globale) in cui ognuno è immerso in un flusso continuo di stimoli sensoriali provenienti da ogni dove e in cui la comunicazione è possibile solo a patto di coinvolgere attivamente il ricevente perché integri tutti questi stimoli in un tutto significativo; dato però che tutti questi stimoli non possono essere analizzati uno alla volta, il ricevente è costretto ad adottare per acquiescenza proprio quegli schemi interpretativi che la cultura di appartenenza gli fornisce, finendo per diventare, sì, parte del tutto sociale, ma a scapito della sua individualità. La capacità di analisi, il pensiero astratto e critico sono invece il dono prezioso della scrittura e poi della stampa, di un mezzo (‘caldo’) che consente di processare linearmente l’informazione e che ci induce a rispondere a nostra volta spiegando con la maggior precisione possibile ciò che vogliamo dire, proprio perché di ciò che diciamo e scriviamo (oltre che della violenza intrinseca ad ogni atto comunicativo) vogliamo essere responsabili in toto, senza attenderci dagli altri – se possibile – alcuna complicità comunicativa. Ora la multimedialità ci assedia da ogni dove: qualsiasi schermata di internet è un profluvio di link colorati e di immagini, per non parlare di Facebook e della connessione permanente di L’autore della lettera «L’altro che è in noi» (Rocca n. 12) non è di Aldo Abenavoli, ma di Aldo Antonelli. Ci scusiamo con gli Autori e con i lettori. 5 2010 TUTTA Rocca 2010 cioè quasi 1500 pagine spessore 5 mm la comodità di trovare nel CD-rom i 23 NUMERI integrali dell’anno gli INDICI per numero per autore per rubrica per tematiche principali con un click cerchi un autore scegli un articolo stampi quello che ti serve uno strumento funzionale per l’informazione la ricerca lo studio la documentazione TUTTA ROCCA con € 15,00 spedizione compresa ROCCA 15 LUGLIO 2011 PUOI SCEGLIERE IN OMAGGIO IL CD ROM SE DONI O PROCURI UN NUOVO ABBONAMENTO ANNUALE Sono disponibili i CD-ROM 2004-2005-2006-2007-2008-2009 € 10,00 ciascuno spedizione compresa richiedere a Rocca ccp 15157068 o con bonifico bancario (vedi p. 4) 6 Italia calcio giovani legalità Vaticano incontro con la cultura zingara Le partite a tema «Bravo... a scuola di calcio» e «Calcio integrato» (tra allievi disabili e non) hanno dato vita a tornei di calcio giovanile svoltisi anche quest’anno in parecchie città italiane a dimostrare che esistono legami effettivi tra il calcio giocato ed il rispetto della legalità. Porte aperte, quindi, nel prestigioso Centro tecnico di Coverciano, il 18 e 19 giugno scorsi, alla manifestazione sportiva conclusiva, organizzata dal settore giovanile e scolastico della Figc, che nell’ospitare il 3°Convegno Grassroots Football hanno dato risalto all’obiettivo di promuovere il calcio di base e hanno sottolineato che «Rispetto, sport, giovani, legalità» sono termini che si intrecciano nella proposta operativa dello sport come importante motore educativo. Su questi temi si è sviluppato un incontro/dibattito nel quale sono intervenuti come relatori ed esperti don Luigi Ciotti, Gianni Rivera, Mark Milton e Barbara Benedetti. Essi hanno evidenziato come uno sport di squadra, quale il calcio di base, può veicolare operativamente il rispetto di se stessi, dell’avversario e delle regole; intanto sui campi di gioco del Centro si sfidavano 1500 ragazzi e ragazze, allievi provenienti dalle scuole di calcio di diverse regioni italiane. Un calcio che sceglie l’onestà e perciò si pone in modo alternativo, perchè intende mantenersi del tutto estraneo a quella logica di mercato che incrementa un vivaio dove si «allevano pulcini» per farne campioni di guadagno facile o di incontri truccati. Un calcio che fa scoprire la bellezza del gioco, dove si impara che fare squadra è impegnativo ma che un goal segnato ben ripaga lo sforzo e la fatica che lo preparano. Luigina Morsolin Del giugno appena trascorso non si può dimenticare, tra le udienze vaticane, una singolare, storica udienza: quella del Papa con gli zingari, l’11 giugno, provenienti da diversi Paesi europei, da varie regioni e città italiane, dagli ancora numerosi campi di Roma. Rom, sinti, gruppi, famiglie di questa galassia che raggruppa 12 milioni di persone in Europa, 170.000 in Italia: arrivati in 2.000 per la celebrazione del loro beato Zefirino, puntuali, ordinati, coloratissimi, felici dell’incontro. Benedetto XVI ha dichiarato: è importante considerare i rom, perché proprio perché ultimi nella considerazione, sono i primi nell’amore della Chiesa: non ai margini, ma nel cuore della Chiesa stessa. Il Papa non può fare a meno di ricordare il genocidio dei 500.000 Rom durante il nazismo e il fascismo, peccato dell’Europa cristiana. «Mai più, ha aggiunto, il vostro popolo sia oggetto di discriminazioni, offese». «Vi invito, cari amici – ha poi continuato rivolgendosi ai gruppi presenti – a scrivere insieme una nuova pagina di storia per il vostro popolo e per l’Europa». Le giovani generazioni rom e sinti «desiderano istruirsi e vivere con gli altri e come gli altri». I vostri figli, ha scandito rivolto ai genitori presenti, «hanno diritto a una vita migliore». «Sia il loro bene la vostra più grande aspirazione. Custodite la dignità e il valore delle vostre famiglie, piccole Chiese domestiche, perché siano vere scuole di umanità». Le istituzioni religiose e politiche si adoperino per accompagnare adeguatamente il vostro cammino, ha sottolineato fortemente, richiamando alcuni doveri basilari. L’udienza per noi laici, educatori e politici è stata anche un’interrogazione interiore. Riccardi e Impagliazzo di Sant’Egidio qualche anno fa curarono un’attenta indagine storico-politica: «Il caso Zingari», Ed. Leonardo International, Milano, da rileggere. Pakistan Sohana bambina Kamikaze Velo bianco sulla testa, braccialetti colorati ai polsi, strano giubbotto, una bambina di otto/nove anni è stata scoperta il 20 giugno dalle guardie frontaliere del distretto del basso Dir nella provincia Nord Occidentale del Pakistan. Sohana Javaid (così ha detto di chiamarsi la bimba) aveva il giubbotto imbottito da otto chili di tritolo; ha detto di essere stata rapita mentre andava a scuola a Pechawar da due donne che l’hanno costretta a salire su una macchina, drogata, fatta scendere e poi risalire dopo averle fatto indossare il giubbotto. L’avrebbero lasciata vicino alla frontiera dopo averle indicato il bottone da premere all’avvicinarsi dei soldati, ma lei è riuscita a liberarsi dalla mano che la teneva stretta e a fuggire verso le guardie. Kamikaze a nove anni? Per ritorsione a un attacco del 2009 ai Telebani della zona? Un brivido ci assale guardando gli occhi profondi di Sohana. 7 ROCCA 15 LUGLIO 2011 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ Torino un master su scienza e fede Arte angeli & Grandi Madri ad Assisi Giovani sfortunati a vivere in Italia Un master da molti auspicato e da tempo preparato, «Scienza e Fede» che nasce dalla collaborazione tra il Politecnico di Torino e la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale. «Una preziosa sinergia – precisa don Valter Danna, preside della Facoltà teologica di Torino – che permetterà di affrontare a livello universitario, in modo interdisciplinare e nel rispetto delle autonomie, i rapporti tra la fede e la scienza, tenendo conto del punto di vista degli scienziati, dei filosofi e dei teologi sui temi decisivi per il nostro presente e per il nostro futuro». Il programma 2011-2012 affronterà gli argomenti legati alle scienze della natura (origine dell’universo, strutture matematiche, relatività) e alle scienze della vita (evoluzione, origine della specie e dell’uomo). «Il rapporto tra teologia e scienze è spesso concepito in maniera conflittuale – fa notare don Ferruccio Ceragioli, del Comitato scientifico del master –. Oggi però si allargano nuovi spazi di confronto». «Angeli e Grandi Madri» è la mostra di scultura e disegni preparatori che sarà inaugurata il 22 agosto prossimo, presso la Galleria d’Arte Contemporanea della Pro Civitate Christiana di Assisi, nell’ambito del 69° Corso di Studi Cristiani. Essa nasce dall’incontro e dal confronto sul piano estetico e spirituale di due scultori di diversa nazionalità, Franco Prosperi di Assisi e Svetlana Melnichenko di San Pietroburgo, su temi che hanno unito fin dalle origini della specie umana civiltà diverse. L’intento degli autori, come scrive il maestro Prosperi, è di «proporre un messaggio culturale di alto profilo estetico e spirituale accessibile sotto tutte le latitudini, compatibile con i contenuti di tutte le religioni e promotore di pace». La mostra durerà fino al 30 agosto per proseguire poi per Roma, Museo della Via Ostiense, e per San Pietroburgo, Istituto Italiano di Cultura e Atelier Melnichenko. Dal VI° Rapporto della Fondazione Migrantes, reso noto a metà giugno, risulta che il 40,6% dei giovani italiani sarebbe pronto a trasferirsi da subito all’estero. Perchè? Qui le opportunità di studio e di lavoro che trovano sono poche e le strutture inadeguate. Di chi la colpa? La crisi economica, la classe politica, la situazione del welfare, lo scarso senso civico, la corruzione. Dove si dirige questa emigrazione? Al primo posto delle scelte gli Stati Uniti e la Francia, ma ci si indirizza anche verso la Spagna, dove la disoccupazione al 21%. Sono 54,2% gli italiani tra i 25 e i 29 anni che hanno un’occupazione, mentre risulta che un giovane su cinque né lavora né studia e nella graduatoria di genere, le giovani inattive raggiungono la percentuale del 49%. I numeri degli italiani che vivono l’estero è cresciuto di 90 mila unità rispetto al 2010. Commenta Delfina Licata, curatrice del Rapporto: «L’idea di movimento è cambiata. Il nostro Paese dovrebbe rendersi più appetibile». Luigina Morsolin Migranti un milione in fuga dalla Libia ROCCA 15 LUGLIO 2011 Il 20 giugno, Giornata mondiale del rifugiato, l’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i profughi (Hcr) ha presentato le statistiche del 2010: nel mondo sono 15,4 milioni a cui vanno aggiunte 27,5 milioni di persone costrette a spostarsi, e 850mila domande di asilo. Riassumendo, 43, 75milioni di «sradicati» provenienti principalmente da Colombia, Sudan, Somalia, Repubblica democratica del Congo, Eritrea, Serbia, Iraq, Afghanistan, Cina, Birmania, Vietnam. Non vengono inclusi i rifugiati dei movimenti del mondo arabo, ma secondo l’Hcr, dall’inizio del 2011 oltre un milione di persone sono fuggite dalla Libia. Circa 530mila ne ha accolte la Tunisia, 350mila l’Egitto, l’Europa 18.500. Dalla Siria sono fuggite 9000 persone accolte in Turchia e 4000 in Libano. L’esodo continua. 8 notizie seminari & convegni Per la pubblicazione in questa rubrica occorre inviare l’annuncio un mese prima della data di realizzazione dell’iniziativa indirizzando a: a.portoghese@ cittadella.org Trento. Al Castello del Buonconsiglio dal 1° luglio al 13 novembre è allestita la Mostra «Le grandi vie della civiltà», curata da Franco Marzatico, Rupert Gebhard e Paul Gleirscher. Ricchissima di reperti (oltre 800, moltissimi di eccezione provenienti da 72 musei), la mostra segue i fili millenari a partire da quando si diffusero, a Sud come a Nord delle Alpi, le espressioni dell’arte e le figure delle cosiddette dee madri, fino ai tempi del cosmopolitismo e della globalizzazione. Informazioni: [email protected] Ginevra. Il Consiglio dei diritti umani dell’Onu ha adottato il 17 giugno una decisione su «Orientamento sessua- le e identità di genere» definita storica. Invita l’alto Commissariato dell’Onu a presentare entro dicembre 2011 uno studio che «documenti le leggi discriminatorie, le pratiche e gli atti di violenza posti in atto in tutte le regioni del mondo contro gli individui in base al loro orientamento sessuale e identità di genere». Alla luce dei risultati. Il Consiglio terrà nel corso della propria 19esima sessione una tavola rotonda fondata «su un dialogo costruttivo, trasparente e consapevole sulla questione delle leggi e delle pratiche». Campobasso. Il vescovo mons. Giancarlo Bregantini ha commentato le ultime proposte della Lega sullo spostamen- to dei ministeri al Nord. «Io mi chiedo come vedranno dalla Calabria o dalla Sicilia il fatto di dover andare a Milano per affrontare dei problemi. È un gesto di grandissimo disprezzo per il sud. A meno che non ci siano ministeri spostati anche a Palermo», ha osservato. «Il nord non ha bisogno di strutture amministrative e per motivi di lavoro, ma ha bisogno di progettualità, ovvero di quella parola magica già emersa alle Settimane Sociali: intraprendere. Ci vuole coraggio. È un tempo di speranza da rimettere in gioco, non di tecnicismo. Ciò che ci manca – ha aggiunto – non è la capacità manuale, ma è la forza motivazionale che è in crisi». 16-17 luglio. Assisi (Pg). Presso la Cittadella cristiana San Francescuccio (Piazzetta Garibaldi), 2° seminario «Un discorso al femminile» sul tema «Donna è bellezza». Relazioni (Lucia Russo, Rosanna Virgili, Rosella De Leonibus, Tiziana Lucani, Lorella Natalizi, Loredana Alicino, Giuseppe Moscati, Ilenia Beatrice Protopapa, Leila Carbonara), laboratori artistici. Informazioni: Cittadella Formazione, via Ancajani 3 – 06081 Assisi tel. 075 812308- 075 813231; e-mail: [email protected]; [email protected] 23-30 luglio. Roma. Presso il Monastero benedettino san Giovanni Battista a Monte Mario, Corso di iconografia bizantina guidato dal M. Giuseppe Bottone per principianti e avanzati. Informazioni; tel. 33870 45 235, e-mail: [email protected] 31 luglio-7 agosto. Vicoforte di Mondovì (Cn). Settimana per famiglie di bambini con sindrome di Down alla Casa Regina montis regalis. I partecipanti vengono organizzati in gruppi: bambini, genitori, fratelli e sorelle, nonni. Attività di logopedia, neuropsicomotricità, musica, massaggi. Informazioni: Servizio consulenza pedagogica, Via Druso 7, 38122 Trento, tel 0461 8286 93; e-mail: [email protected] 2-6 agosto. Barcellona (Me). Settimana di spiritualità sul tema: «Il coraggio di sperare oggi» guidata dai Fratelli della Comunità carmelitana. Informazioni: tel. 0909762800, email: [email protected] 13-16 agosto. Assisi (Pg). Alla Cittadella cristiana Convegno «Bibbia e Spiritualità». Lo smarrimento delle radici ebraico-cristiane nella civiltà europea (e italiana), della trascendenza e della speranza, spingono alla rivisitazione delle grandi figure bibliche, del Dio «di Abramo, di Isacco, Giacobbe» (Gen 12.25). Si ascolterà «la eco che ognuno di loro fa di Cristo» (San Girolamo), per una rinnovata rilettura cristologica. Relatori: Leila Carbonara e Bruno Baioli della Pro Civitate Christiana, p. Guglielmo Spirito ofc di Assisi, Porzia Quagliarella teologa, Sennen Nunziale del Gruppo Famiglia della Parrocchia di Salzano (Ve): Informazioni: Gruppo Missioni, Cittadella cristiana, Via Ancaiani 3, 06081 Assisi, tel. 075812308/ 813231. 17-19 agosto Assisi (Pg). A cura del Gruppo Missioni, rilettura alla Cittadella cristiana delle lettere di Paolo nella sua prima prigionia romana (ai Colossesi, agli Efesini, a Filemone) nelle quali l’Apostolo ribadisce la supremazia di Cristo su ogni altra potenza. Confronto con l’attuale società frammentata. Relatori: Leila Carbonara, Bruno Baioli, Carmela Randazzo e Pino Valenti della Pro Civitate Christiana, Annamaria Bettuzzi, insegnante. Informazioni: 06081 Assisi tel. 075 812308- 075 813231; email: [email protected] 22-26 agosto. Camaldoli (Ar). Settimana teologica del Meic (Movimento ecclesiale impegno culturale) sul tema. «Le religioni nella città. Sfide per la responsabilità del credente». Informazioni: Meic, Via della Conciliazione 1 – 00193 Roma, tel. 06 686 1867. 22-26 agosto. Trieste. 62° Settimana liturgica nazionale sul tema: «Dio educa il suo popolo. La liturgia sorgente inesauribile di catechesi». Relatori: i vescovi Angelo Scola, Giampaolo Crepaldi, Felice di Molfetta, Angelo Camastri, Andrea Bruno Mazzoccato, Luciano Monari, Josip Bazanic, Anton Stres, Dino De Antoni, Giuseppe Pellegrini, Bruno Forte, Bruno Marini, Giuseppe Bertello; i docenti specialisti: Lorenzo Magarelli, Giuseppe Biancardi, Giuseppe Cuscito, Crispino Valenziano, Luca Diotallevi, Guido Genero, Ubaldo Mentisci, Luigi Girardi, Daniele Pinton, Antonio Scattolini, Loris della Pietra. Informazioni e iscrizioni: Segreteria: Via san Nicolò, 14 -34121 Trieste, tel. 040 368808; e-mail: [email protected] ROCCA 15 LUGLIO 2011 ATTUALITÀ 9 ROCCA 15 LUGLIO 2011 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ 10 Marocco referendum per la nuova Costituzione Caporalato il grido di 800 mila lavoratori Il Marocco si appresta a diventare una vera «monarchia costituzionale»?. La nuova Costituzione viene sottoposta all'approvazione del popolo con un referendum il 1° luglio del quale il re si è dichiarato pronto ad accettare i risultati. Basteranno a placare la piazza?. Nel testo costituzionale ci sono novità a cominciare dalla figura dello stesso re che non sarà più considerato persona sacra in senso religioso, ma cittadino, non più rappresentante della nazione, ma dello Stato. Verranno dati più poteri al primo ministro e al Parlamento e il berbero, lingua del popolo, sarà riconosciuto come lingua ufficiale accanto all’arabo. Le altre disposizioni annunciate sono di avanguardia e se fossero pienamente attuate, permetterebbero al Paese magrebino di entrare in una nuova fase politica fondata sulla giustizia, la legalità e il rispetto dei diritti e delle libertà. Altro punto importante sul quale da sempre Mohammed VI ha dimostrato grande attenzione, già con altre riforme come per esempio la Moudawana, è il fattore «donne». Per loro verrà stabilita una quota al consiglio superiore della magistratura. Nuovo gradino che si aggiunge agli altri, per dare il valore alla presenza femminile. Intanto, il movimento giovanile 20 febbraio (prende il nome dal giorno in cui iniziarono le proteste nel mondo arabo) non è soddisfatto delle modifiche e reagisce. A cominciare da Casablanca ha organizzato pacifiche proteste e ne ha annunciate altre in diverse città. Inoltre, si fa notare da altre parti, nella vita socio-politica che la Costituzione prefigura c’è un vuoto, quello dei partiti politici che in Marocco praticamente non esistono. Forse camminando s’aprirà cammino? Secondo i dati della Cgil sono 800mila, dal Trentino alla Sicilia, le persone in situazione di grave sfruttamento nei campi e nell’edilizia: lavoro nero e lavoro grigio (contrassegnato da irregolarità parziali) sotto il ricatto dei caporali. Più precisamente 400mila gli «schiavi» in agricoltura; 150mila nell’edilizia... Si tratta di lavoratori italiani e stranieri, nei campi o sulle impalcature senza sicurezza dei cantieri, affittati ai datori di lavoro da «caporali» che lucrano su una intermediazione illegale, specie sugli stranieri. Questi ultimi, infatti, si trovano in situazioni talora drammatiche perché, senza permesso di soggiorno, non hanno alcuna possibilità di far valere i loro diritti, pena l’espulsione. Ricordiamo i fatti dei braccianti di Rosarno, nel gennaio dell’anno scorso, quando fu scoperto che per una giornata di lavoro, da 10 a 14 ore, gli immigrati ricevevano 22 euro di cui un euro era dato agli intermediari. Ci furono 30 arresti, è vero, dopo le indagini di Polizia e Guardia di Finanza, per associazione a delinquere e sfruttamento di mano d’opera. Ora viene l’estate: il Foggiano con la sua calura, ma anche i campi abruzzesi e di Emilia Romagna hanno avviato il lavoro. Le categorie edili e dell’agroindustria Cgil, Filea e Flai lanciano una campagna per la raccolta di firme per proporre una legge che equipari questo reato a quello del traffico degli esseri umani. Nel catechismo che gli anziani ricorderanno c’era elencato, tra i peccati che «gridano vendetta al cospetto di Dio» quello di defraudare la mercede agli ‘operai’. Cambia la forma ma la sostanza del grido resta intatta. Gaza progetti di scuole e case Il 22 giugno l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi ha comunicato che Israele ha approvato la costruzione di due progetti edilizi nel sud della Striscia di Gaza. I due progetti maggiori dovrebbero essere costruiti per ospitare le famiglie di Rafah e Khan Younis, le cui abitazioni sono state demolite da Israele nel 2001. Il Maggiore Guy Inbar, portavoce del ministero della Difesa e responsabile dei contatti con i Territori palestinesi, ha riferito che Israele ha approvato il transito dei materiali necessari alla costruzione di 1.200 case e 18 scuole. Ricordiamo come una devastante offensiva militare israeliana di 22 giorni, conclusasi nel gennaio 2009, abbia ridotto in macerie gran parte delle infrastrutture di Gaza e molte case di civili. I materiali da costruzione possono essere portati a Gaza solo da organizzazioni internazionali, le quali gestiscono progetti specificamente approvati. Israele impone ancora un rigido blocco navale sul territorio. il meglio della quindicina vignette ATTUALITÀ da L’UNITÀ, 15 giugno da L’UNITÀ, 22 giugno da L’UNITÀ, 19 giugno da IL CORRIERE DELLA SERA, 23 giugno ROCCA 15 LUGLIO 2011 da L’UNITÀ, 15 giugno da LA REPUBBLICA, 23 giugno 11 cittadella convegni 2011 16-17 luglio 2° seminario ‘un discorso al femminile’ donna è bellezza Ci sono ‘bisogni dell’anima’, come scrive Simone Weil, per cui oggi si devono “creare spazi aperti nei quali sperimentare forme di relazione, di riflessione, di azione consapevole, luoghi di conoscenza reciproca, di confronto, di progettazione del fare inserito in un territorio, in una situazione sociale concreta… una forma autentica di socialità in cui fare esperienza del privilegio del parlare e dell’ascoltare, del rispetto effettivo, della ricerca in comune, dell’apprendimento di linguaggi politici generati da situazioni vissute in determinati contesti umani e sociali”. partecipano: Leila CARBONARA, Volontaria Pro Civitate Christiana; Rosella DE LEONIBUS, psicologa e psicoterapeuta; Giuseppe MOSCATI, dottore di ricerca; Ilenia Beatrice PROTOPAPA, docente di filosofia e psicopedagogia; Lucia RUSSO, counsellor; Rosanna VIRGILI, biblista per i laboratori: Loredana ALICINO, esperta in tecniche artistiche; Tiziana LUCIANI, arteterapeuta; Lorella NATALIZI, didatta teatrale 25-31 luglio - a Santa Cesarea Terme (Le) vacanza-studio uno sguardo inedito sul vivere quotidiano riflessioni guidate dal teologo Andrea GRILLO La formula vacanza-studio è nata da 18 anni per rispondere all’esigenza di coniugare momenti di autentica vacanza e relax con la riflessione e con la scoperta della cultura e della bellezza del Salento. Il programma delle giornate prevede un tempo di preghiera e la conversazione del relatore nella prima parte della mattinata, per proseguire con il mare, la pineta, le passeggiate. Dopo pranzo, visite ai luoghi e ai monumenti della provincia, alla ricerca della storia, dell’arte, delle tradizioni, della vita culturale salentina. Sono previste anche serate artistiche e musicali. 2-4 settembre 19° incontro biblico versetti pericolosi lo scandalo della misericordia nella Chiesa con padre Alberto MAGGI, servo di Maria, direttore del ‘Centro Studi Biblici’ di Montefano ‘Valori non negoziabili’…’tolleranza zero’… sempre più nella Chiesa si sentono espressioni che appartengono più a strutture di potere che difendono se stesse, che all’annuncio di Gesù. Il potere quando si sente minacciato erige barriere difensive, si rifà all’ordine, alla disciplina e all’obbedienza. Ma la Chiesa che non deve in alcun modo assomigliare alle strutture di potere esistenti, non può in alcuna maniera imitare il linguaggio e i metodi del mondo: ‘I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il loro potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo’ Mt 20, 25-26. Il tema si rifà allo scandalo della predicazione e del comportamento di Gesù, e alla difficoltà con cui le sue parole furono accolte (ma spesso censurate) dalle prime comunità cristiane. 7-11 novembre esercizi spirituali per presbiteri, suore, laici ROCCA 15 LUGLIO 2011 libertà sulle Tavole: il Libro dell’Esodo con don Daniele Moretto, monaco di Bose Il libro che è il “lieto annuncio” dell’Antico Testamento, la “lettera” in cui dobbiamo entrare per cercare il volto di Dio e il volto dell’uomo. Nella storia di un pugno di uomini Dio ha scelto di svelarsi, di dare le coordinate del suo agire verso tutti, di offrire una relazione. Conoscere Dio, me stesso, il mondo, la storia per rispondere ad un appello di comunione nella libertà. Un tuffo nell’Esodo, relativizzandolo in nome dell’oggi, attenti all’azione di Dio che è in atto (cf. Is 43,16-21). informazioni iscrizioni soggiorno Cittadella Convegni – via Ancajani 3 – 06081 ASSISI/Pg tel. 075/812308; 075/813231; fax 075/812445; [email protected]; ospitassisi.cittadella.org; www.cittadella.org 12 RESISTENZA E PACE Raniero La Valle esta da chiedersi come mai tra il maggio e il giugno di quest’anno c’è stato il grande ritorno dei cattolici alla politica, quale si è manifestato sia nei sorprendenti risultati delle elezioni amministrative sia nel quadruplice voto referendario. Ciò che è accaduto è che mentre nelle ultime sciagurate elezioni politiche il voto cattolico si era ripartito tra gli schieramenti e i partiti esattamente nelle stesse proporzioni in cui si era distribuito il voto degli italiani in generale, risultando perciò irrilevante, ora invece l’elettorato cattolico si è polarizzato nel voto «di liberazione» di città come Milano, Napoli, Cagliari e altre città del Nord, e si è concentrato nella valanga dei «sì». L’imponente spostamento di voti dalla Lega e dal Popolo della Libertà alle posizioni opposte, è spiegabile solo col mutato atteggiamento dei cattolici praticanti, del resto anticipato da un sondaggio commissionato dai «cristiano-sociali» alla Swg, da cui risultava che il 57-59 per cento dei cattolici praticanti provavano «disgusto per il comportamento di Berlusconi» o lo ritenevano «una vergogna per l’immagine del Paese» non potendosi separare vita privata e funzione pubblica, che dal novembre 2010 al gennaio 2011 il gradimento del governo presso gli elettori cattolici era sceso dal 42 al 33 per cento e che la quota di quelli che avendolo votato non lo avrebbero votato più raggiungeva il 22 per cento. Una simile vitalità della componente cattolica nella vita politica non si registrava da anni. La stagione d’oro della partecipazione politica dei cattolici ha coperto molti decenni del Novecento, dalla straordinaria scelta laica e popolare di don Sturzo all’antifascismo della Resistenza, dalle «idee ricostruttive della Democrazia Cristiana» di De Gasperi all’apporto decisivo dato alla concezione e alla formulazione della Carta Costituzionale, dal baliatico della Repubblica e della ripresa economica esercitato dalla Dc alla nuova creatività di forme politiche e di lotte per i diritti indotta dal Concilio Ecumenico Vaticano II, fino alla vetta della strategia innovatrice di Moro, violentemente interrotta col suo sequestro ed assassinio. Da allora è scesa la notte ed altri protagonisti, altri gestori, altri progetti e altri metodi hanno invaso l’Italia per farne una cosa del tutto diversa. Fino alla fiammata di ora. Come si spiega? La scomparsa dei cattolici organizzati dalla R scena politica (pur essendo rimasta la loro presenza individuale nei diversi partiti) è essenzialmente legata al venir meno degli strumenti attraverso cui si era esercitata la loro azione, prima di tutto la Dc ma anche le organizzazioni «collaterali» (Acli, associazioni, sindacati) e, sull’altro versante, la Sinistra Indipendente. A questa causa strutturale si è aggiunto il passaggio del sistema politico italiano dal pluralismo al bipolarismo maggioritario, con la conseguente perdita del concetto di bene comune, che è la ragione stessa del cattolicesimo politico, e si è unito il fatto che la Chiesa dei vescovi si è assunta direttamente la gestione dei rapporti col potere, mettendo fuori gioco e rendendo superfluo, se non fastidioso, il laicato. Questo pertanto si è confinato nel volontariato, nell’azione sociale, nel «progetto culturale» e, nei casi migliori, nella «scelta religiosa». È molto significativo che il ritorno della fiamma politica sia avvenuto nel momento in cui la Chiesa dei vescovi è sembrata ritornare sui suoi passi e prendere qualche distanza dal potere politico, e che i cattolici si siano mobilitati non per le questioni a cui la Chiesa ha finito per ridurre tutta la «dottrina sociale cristiana», cioè bioetica, matrimonio e scuola, ma per altri grandi temi cristiani e umani universali come la rivendicazione di legalità ed eguaglianza contro i prìncipi arroganti e ingiusti, la difesa del povero, dello straniero, del musulmano, la tutela dell’acqua, simbolo pasquale e battesimale di una vita non statica ma che sempre rinasce, il lavoro come «bene divino» (lo ha detto Benigni) da mettere a frutto e da trasmettere alle future generazioni, l’uso mite dell’energia, la cura dei beni comuni e la salvaguardia del creato. Ora si tratta di non lasciare più queste cose, ma di rimetterle dentro una robusta e costante azione politica perché non si debba aspettare, per una significativa riapparizione dei cattolici, la fine della legislatura per il giorno del giudizio taumaturgico delle urne, o un altro referendum (e già si annuncia, come da non perdere, quello sul risanamento della legge elettorale). Ma una costante ed efficace azione politica dei cattolici è possibile solo se non è impedita dalla Chiesa, e se ne vengono inventati e approntati gli strumenti, che per i cristiani devono essere strumenti laici, sempre disponibili al dialogo, al negoziato e alla fecondazione reciproca con tutte le culture ❑ politiche e con tutti i cittadini. 13 ROCCA 15 LUGLIO 2011 perché i cattolici AFGHANISTAN si tratta e si combatte ROCCA 15 LUGLIO 2011 Maurizio Salvi 14 abul. Abbiamo vinto? Abbiamo perso? Esperti, diplomatici, politici e giornalisti hanno ingaggiato un acceso dibattito sull’Afghanistan all’indomani del discorso di Barack Obama che ha spiegato come con l’uscita di scena di Osama bin Laden e i progressi obiettivi realizzati dalla Forza internazionale di assistenza alla sicurezza (Isaf, sotto comando Nato), si può pensare ad un graduale ritorno a casa di decine di migliaia di soldati americani nel giro di due anni. Questo nella speranza che nel 2014 l’intero contingente di 140.000 uomini possa fare le valigie e congedarsi da un paese ormai pacificato e con un governo stabile. Un obiettivo che però è per il momento relegato fra gli auspici più desiderabili, ma pur sempre auspici. In tutti questi anni in cui si sono confrontati con l’Operazione internazionale Enduring Freedom, promossa nel 2001 dal presidente George W. Bush, gli afghani hanno imparato che le belle parole non contano nulla e che la vita quotidiana resta particolarmente dura. Che sia per i micidiali rudimentali ordigni esplosivi (ied), per le autobomba e per i kamikaze dei talebani, oppure per i rastrellamenti ed i raid notturni delle forze militari afghane o della Nato a caccia di terroristi, la gente preferisce non farsi illusioni. E si ripete che per il momento si tratta di continuare a far fronte ad ogni tipo di sofferenza, mentre per la promessa di un futuro migliore, si vedrà. I talebani racchiudono questo futuro nella costituzione di uno Stato islamico in cui sia vigente la Sharia (Legge coranica), mentre il governo del presidente Hamid Karzai e le forze occidentali si sforzano di lavorare all’idea di una nazione pluralista in cui trovino rispetto i diritti umani e le conquiste sociali, soprattutto nei confronti delle donne. Da osservatori occidentali, ovviamente la scelta fra le due visioni del mondo non porrebbe dubbi. Abbiamo lottato e costruito anche con rivoluzioni e lotte di libera- K zione in Francia, Stati Uniti ed Italia progetti di società giuste e includenti che, va detto, alla prova dei fatti non sempre ha veramente permesso a tutti di vivere esistenze degne. Ma certamente l’Afghanistan proviene da un’esperienza completamente diversa. Le grandi città, soprattutto del centro-nord del paese, hanno a poco a poco recepito alcuni valori del mondo occidentale. Ma pur sempre nel quadro di un processo lento e di una esperienza storica che ha avuto al suo centro l’Islam. E nel caso afghano e pachistano, l’Islam più ortodosso e, diciamo così, più conservatore. I governi filo-occidentali qui a Kabul e ad Islamabad hanno cercato di spingere il più possibile per modificare le situazioni. Ma i drammatici casi di uccisione quest’anno di personalità di governo che hanno osato criticare la Legge sulla blasfemia, e di condanne a morte di umili donne (la cristiana Asia Bibi) in Pakistan, sono là a dimostrare che il percorso verso una emancipazione sociale come la intendiamo noi, è ancora molto lungo. Ovviamente lo stesso discorso vale per l’Afghanistan, dove le donne completamente coperte dal burqa color carta da zucchero fanno parte della quotidianità. «Portare o no quell’abito – ci ha detto l’attivista afghana Hamida Barmaki – attiene alla sfera sociale e così la questione deve essere affrontata». Impegnata da anni nella lotta per l’emancipazione femminile, ed attualmente responsabile per la ricerca nella Commissione indipendente per i diritti umani dell’Afghanistan (Aihrc), Barmaki ha aggiunto: «Per me la scelta di indossarlo riguarda l’ambito dei diritti umani personali e sarebbe grave che vi si interferisse per legge». con chi e come trattare Questo ragionamento ci porta quindi a capire meglio cosa sia scattato nella visione dei governanti occidentali quando hanno cominciato a ipotizzare la possibilità tati sono continuati quotidianamente con gravi bilanci di vittime, anche fra la popolazione civile. Questo stato di cose è stato considerato «fisiologico» dal Rappresentante speciale dell’Onu a Kabul Staffan de Mistura. Con alle spalle decenni di attività in zone di conflitto, il diplomatico italo-svedese ha detto che «l’esperienza mi ha insegnato che sempre nelle fasi pre-negoziali si registra una recrudescenza della violenza, perchè le parti vogliono arrivare al tavolo delle trattative nella migliore posizione possibile». le opzioni Dato che di fatto nessuno sa se gli incontri «molto preliminari» ammessi dagli Stati Uniti hanno permesso già di stabilire un ipotesi di accordo, possiamo dire che sul tavolo vi sono più opzioni. La più drastica sarebbe quella di una spartizione dell’Afghanistan in due stati (uno meridionale agli insorti, uno settentrionale ad una coalizione multietnica) che verrebbero comunque confederati. Ma si tratterebbe di una sorta di ultima spiaggia, da esplorare nel caso la possibilità di creare un governo di coalizione dovesse fallire. I tempi non sono maturi per capire il corso deldialogo, e il vicepresidente del Consiglio per la Pace, Ataullah Ludin, ci ha detto che «dopo 33 anni di guerra, ci vorranno da uno a tre anni per discutere tutti gli aspetti e meccanismi di questo processo». E una risposta all’interrogativo iniziale su vincitori o vinti, non c’è. Certamente l’unica sconfitta è l’opzione di quanti alla Casa Bianca hanno avviato l’Operazione Enduring Freedom oltre dieci anni fa pensando di poter facilmente avere ragione del nemico, come creduto erroneamente in Vietnam, come in Iraq. Magari riuscendo a porre basi militari in questa zona strategica dell’Asia. In Afghanistan fra il 2007 e il 2010, l’ex ambasciatore britannico Sherard Cowper-Coles ha scelto di andare in pensione a 56 anni e pubblicare un volume (‘Cables from Kabul’) in cui incoraggia l’Occidente a riconoscere i propri errori ed a sedersi ad un tavolo delle trattative con i talebani, «per quanto questo possa apparire spiacevole». Per lui questa opzione è stata scelta già troppo tardi ed adesso, sottolinea significativamente, perchè dia risultati costringerà le parti «a correre una lunga maratona con i tempi disponibili dei 10.000 metri». ROCCA 15 LUGLIO 2011 di una trattativa con i talebani, che ovviamente rappresentano l’elemento frenante di questo discorso. Per la verità, per organizzare meglio il discorso, bisognerà ricordare che prima del semaforo verde al tavolo negoziale con gli insorti, è venuta la convinzione che nonostante l’immane sforzo umano e finanziario, la guerra in Afghanistan non poteva essere vinta sul terreno solo militare. Una coscienza che deve essere maturata anche nel Mullah Omar e nei suoi collaboratori, che hanno formalmente sempre ribadito di avere «tempo da vendere» e di poter aspettare che «la bancarotta finanziaria travolga le forze della Coalizione» come avvenne 30 anni fa con i sovietici. Così, una volta consolidata la tesi della necessità di un compromesso, è venuto fuori il dilemma di con chi e come trattare. Con le prime condizioni poste dagli Stati Uniti, gli insorti da inserire nella trattativa avrebbero dovuto praticamente cospargersi il capo di cenere e ammettere di avere sbagliato tutto. Poi, con il passare del tempo, il quadro si è chiarito e si è stabilito che gli interlocutori del governo di Karzai avrebbero dovuto: 1) Abbandonare le armi; 2) Rompere ogni legame con Al Qaida e 3) Accettare la Costituzione afghana. Su questa base, prima il Segretario di Stato americano Hillary Clinton, poi lo stesso Obama, hanno finito per dichiarare che «negoziare con i talebani era una necessità». Nei mesi trascorsi nella definizione di questo quadro per il dialogo, il governo afghano ha creato un Alto Consiglio per la pace con l’incarico di ricercare un colloquio volto alla riconciliazione, mentre le diplomazie americana e britannica hanno attivato i loro canali per realizzare i contatti. Con i militanti. Intanto, per contribuire a rasserenare gli animi, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha accolto una richiesta da tempo avanzata dal governo afghano, e cioè che si separassero nella lista dei «cattivi» esistente nel Palazzo di Vetro i membri di Al Qaida che sono considerati convenzionalmente «terroristi globali», dai talebani che combattono solo all’interno dei confini dell’Afghanistan. E così è stato fatto, mentre ora Karzai attende che dalla nuova lista degli afghani vengano cancellate numerose personalità che oggi siedono nel Parlamento di Kabul, che sono membri dell’Alto Consiglio per la Pace, o addirittura che sono morti. Sul terreno, le cose non sono nel frattempo affatto migliorate. Gli scontri e gli atten- Maurizio Salvi 15 PUBBLICO/PRIVATO Roberta Carlini gli italiani hanno ca H anno vinto i beni comuni, è stato il commento ricorrente dopo la inattesa e straordinaria vittoria della partecipazione e dei «sì» ai referendum di giugno. Ed è vero, ma non è tutto. Perché che l’acqua e la tutela dell’ambiente siano beni comuni forse era opinione corrente anche prima, anche nei due decenni appena trascorsi e forse conclusi in quei due giorni di giugno. Che hanno dato semmai una risposta diversa alla domanda: se i beni sono comuni, chi se ne deve occupare? Il pubblico o il privato, lo Stato o il mercato? Di fronte a questa domanda, la risposta è stata inequivocabile: non ci fidiamo del privato, ha detto il 95,80% dei votanti, bocciando i quesiti che sostanziavano l’affidamento del servizio idrico alla gestione privata. 1993, abolizione ministero partecipazioni statali ROCCA 15 LUGLIO 2011 Diciotto anni fa, non in un giugno ma in un aprile – il 18 aprile del 1993 – si era tenuto un altro referendum. Era mischiato con altri che forse oggi si ricordano di più (sistema elettorale, sanità, droghe...), e recitava più o meno così: «volete abolire il ministero delle partecipazioni statali»? Sì, rispose con nettezza il 90,11% dei votanti. Certificando la fine di quel modello italiano pubblico/privato che aveva segnato la ricostruzione e lo sviluppo dal dopoguerra, e avviando la stagione della privatizzazione dei grandi complessi industriali e di servizi prima partecipati dallo Stato. Cos’è successo in questi anni? Gli italiani hanno cambiato idea, hanno imparato dall’esperienza, o hanno dimenticato il passato? O i voti non sono comparabili? Cominciamo dai paragoni numerici. Nel 1993 andarono a votare quasi 37 milioni di persone (su 47), la partecipazione fu altissima: il 76,86% degli aventi diritto. La lunga stagione della crisi dei referendum, quella nella quale il raggiungimento del quorum del 50 per cento più 1 è diventato un evento miracoloso, doveva ancora iniziare. All’epoca, si espressero per il «sì» all’abrogazione del ministero delle partecipazioni statali (ppss, si scriveva in breve) più di 31 milioni di votanti, il 90,11% per l’appunto. Nel 2011, diciotto anni e dieci referendum dopo, il numero totale di aventi 16 diritto al voto è salito (siamo quasi 50 milioni e mezzo, compresi gli italiani all’estero), e il difficile quorum è stato raggiunto e superato con 27.637.943 votanti: dieci milioni in meno, rispetto al ’93. Il numero assoluto di coloro che hanno votato sì è stato di 25.935.362 persone. In termini relativi, l’adesione al sì è stata maggiore, superando il 95%. Ricapitolando: nel ’93 circa 37 milioni «proprivato», nel 2011 circa 26 milioni «pro-pubblico». In sé, i numeri paiono indicare un netto mutamento di opinione dell’elettorato italiano sulla questione dei rapporti tra pubblico e privato. tangentopoli e l’era delle privatizzazioni Più complicato il paragone sostanziale, quello che si può abbozzare andando al di là dei numeri. Le partecipazioni statali e l’acqua del sindaco, si dirà, non sono la stessa cosa. La seconda evoca un’immagine rassicurante e fresca di un bene primario che vogliamo sottrarre alla logica del profitto a tutti i costi, mentre le prime evocano grandi industrie, grand commis, spesso sperpero e corruzione. Il pacchetto dei referendum del ’93 giungeva al culmine di uno scandalo – Tangentopoli – che aveva inciso proprio nella zona grigia dei rapporti tra politica ed economia e scoperchiato un’intera classe dirigente pubblica e privata, rivelando la gestione privatistica di beni pubblici fatta da entrambi. Sotto processo erano finiti intoccabili della politica e intoccabili dell’economia, un mondo era crollato a pochi anni dal crollo del muro di Berlino e del socialismo reale. La caduta degli ultimi dèi di quella progenie – colti con le mani nel sacco pubblico – aveva fatto dimenticare anni e anni di storia economica del paese, il ruolo positivo svolto dalle ppss, l’epoca in cui quelle società miste, un po’ pubbliche e un po’ private, facevano da modello anche per altre parti del mondo. Avevano sbagliato – più che sbagliato: avevano malversato, compiuto reati, spolpato la cosa pubblica – tutti, élite pubblica ed élite privata. Pagò la prima, soprattutto. Vuoi per la forza dei vincoli europei, vuoi (soprattutto) per il dissesto del bilancio pubblico, vuoi per il vento culturale che spirava fortissimo d’oltreoceano e in tutto il continente, vuoi per antidoto a quanto fino ad allora successo, ci si no cambiato idea 2011 non ci fidiamo Facciamo un salto, e arriviamo subito a giugno 2011. Pochi giorni prima dello svolgimento dei referendum, mentre ancora infuriavano i tentativi pasticciati da parte del governo per annullarli, a Trento si svolgeva l’annuale meeting del Festival dell’economia. Un incontro molto partecipato, che richiama studenti, cultori della materia, Nobel e ricercatori, ma anche cittadini qualsiasi che hanno voglia di farsi un’idea. Il festival è co-organizzato dal gruppo degli economisti de lavoce.info, un’area che ha portato avanti negli anni le ragioni del mercato, della concorrenza, dell’equilibrio finanziario: insomma, abbastanza «mainstream», ossia nel flusso della corrente principale, e spesso molto critici verso le politiche fiscali ed economiche italiane. Quest’anno gli economisti del festival hanno posto un quesito al proprio pubblico, chiedendogli di votare in anticipo, pro o contro la privatizzazione dell’acqua. Anzi, poiché sanno bene che il modo in cui le domande si pongono spesso condizionano le risposte, l’avevano posta così: la gestione dell’acqua deve essere totalmente pubblica? Bene, nel consesso di quel festival, che ama il mercato e frequenta i suoi pregi e le sue debolezze, ci si poteva aspettare una prevalenza dei «no». Invece al 59% il pubblico ha detto sì, che «la gestione dell’acqua deve essere totalmente pubblica». Anticipando quello che, in percentuale molto più alta, avrebbero detto gli italiani al voto qualche giorno dopo. Due voti (quello microscopico di Trento e quello macroscopico degli italiani) che dicono una cosa semplice: non ci fidiamo. Non ci fidiamo della ricetta miracolosa del mercato, non ci fidiamo di quel che passa il convento privato, non ci fidiamo di un’ennesima delega a poteri che non possiamo conoscere né controllare. Di sicuro c’è, in questa svolta, l’impatto forte della crisi economica e finanziaria, una crisi del debito privato nata ed esplosa nel mercato: un piccolo crollo del Muro, per il capitalismo di Wall street. Ma c’è anche una sua declinazione specificamente italiana, legata alla nostra storia e cronaca politico-economica-giudiziaria. Non ci fidiamo, sembra dire il voto del 12 e 13 giugno, di un’apparente soluzione che in realtà ripropone e amplifica lo stesso problema, che ci portiamo dietro da Tangentopoli e oltre: che non è solo il problema del pubblico ipertrofico che non funziona, o di un privato arretrato che non ce la fa; ma che è esattamente il problema della zona grigia tra i due, dell’area in cui hanno prosperato entrambi senza mettersi mai in discussione e a disposizione del controllo dei cittadini. una gestione davvero pubblica Coerentemente, dopo aver vinto il referendum che ha rifiutato la soluzione privatistica, i movimenti vanno avanti e chiedono una gestione davvero pubblica: cioè non affidata al potere del politico di turno e all’invasione dei suoi amici e parenti, ma gestita dai competenti al servizio del bene pubblico. Cosa che, dicono, può essere possibile, se guardiamo a modelli di gestione avanzata, a buone pratiche italiane e straniere, alla trasparenza dell’informazione. Tra un bene comune saccheggiato dai famigli del sindaco, e un bene comune svenduto al principale costruttore della città (che per averlo, deve a sua volta allearsi con il sindaco e i suoi famigli), un’altra via deve esserci. E quasi 26 milioni di italiani l’hanno imboccata. ROCCA 15 LUGLIO 2011 affidò alle privatizzazioni – la vendita del patrimonio pubblico, in particolare degli asset industriali delle ex ppss, a soggetti privati. La scelta era già stata compiuta, tra i marosi della crisi finanziaria del 1992, e il referendum non fece che sancirla. E fu una scelta strutturale, guidata carismaticamente da Ciampi e dalla sua squadra, condivisa dalla sinistra dell’ex-Pci e sostenuta (più nelle parole che nei fatti) dal centrodestra. Una scelta che aprì una lunga era, della quale si può dire tutto (e si possono dare giudizi divergenti, le librerie ne sono piene), ma purtroppo non si può dire la cosa essenziale: ossia che quel taglio, quella cesura dei primi anni ’90 abbia bonificato la zona infetta dei rapporti abusivi politica/economia. Del resto, ci si poteva aspettare davvero questo, in un paese che intanto si era affidato, con il ’94, al più brillante dei privati che si erano formati e pasciuti nella zona grigia dei rapporti tra politica ed economia, il cavalier Silvio Berlusconi? Roberta Carlini 17 ROCCA 15 LUGLIO 2011 Ugo Leone referendum, tra gli altri, hanno il merito, abrogando una legge, di costringere il legislatore ad intervenire. Ma come riempire il «vuoto» in aderenza alle indicazioni dei votanti? Specialmente quando sono una strepitosa maggioranza? Che cosa, in particolare, dopo gli ultimi tre referendum? Per cominciare bisogna obiettivamente e realisticamente riconoscere che se non vi fosse stata una diffusa, martellante campagna di informazione e di «orientamento», non uno degli oltre 27 milioni di votanti, entrati in cabina e messo davanti al quesito contenuto nella scheda, avrebbe saputo su che cosa gli si chiedeva di esprimersi con un sì o con un no. Né era in grado di sapere quali sarebbero state le conseguenze della vittoria di sì o no. Perciò, tanto più, ora si pone un altro quesito: dopo il voto, dopo le abrogazioni, che cosa cambia? Proviamo ad andare con ordine e facciamolo per i primi tre referendum dal momento che il quarto, quello sul legittimo impedimento, ha la evidente conseguenza che tutti gli imputati sono uguali e devono avere uguali comportamenti processuali. I un profitto illecito Nel primo caso il lungo, abbastanza incom18 prensibile quesito attineva ad un tema espresso in modo più chiaro come «Abrogazione delle modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica». Nel secondo il quesito riguardava l’«abrogazione parziale della norma che riguarda la determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito». In entrambi i casi i cambiamenti sono di medio periodo più che con riflessi immediati. Anche se è evidente e fondamentalmente evidente, che la cosiddetta privatizzazione dell’acqua è scongiurata e che è da considerare illecito il profitto ricavabile dagli investimenti tramite interventi sulla tariffa. Intanto il voto referendario «congela» l’attuale situazione della gestione della risorsa idrica. Avessero prevalso i no tutti i contratti attualmente in vigore per l’affidamento della gestione sarebbero venuti a scadenza entro il prossimo 31 dicembre. Ora possono andare verso la naturale, contrattuale, scadenza. Ciò significa che nella grandissima quantità dei casi la gestione continuerà ad essere a lungo pubblica dal momento che su 106 affidamenti 66 sono totalmente pubblici e che gli affidamenti stessi sono avvenuti molto di recente. Tuttavia, i Comuni che lo volessero potrebbe- UN VALANGA DI SÌ e adesso? chi e con quali soldi? Resta teoricamente irrisolto il problema che costituiva la ragione portata avanti dai sostenitori del no: chi, con quali soldi effettuerà gli investimenti necessari per ristrutturare la sconquassata rete acquedottistica? Come trovare, cioè, i 60 miliardi di euro che secondo recenti valutazioni sarebbero necessari alla bisogna? La rispo- sta con la quale si tentava di spaventare i sostenitori del sì e che ora viene proposta con un sottinteso «ve l’avevamo detto», è che se la gestione è pubblica sono i Comuni, cioè i cittadini che devono accollarsi la spesa. E poiché i Comuni soldi non ne hanno, gli interventi non si faranno oppure si faranno ricavando il danaro necessario aumentando le tariffe. Tariffe che, come sostengono alcuni, negli ultimi tempi sono schizzate verso l’alto. A me non pare che la questione stia in questi termini. È perciò che, dicevo, va messo ordine nelle tariffe: rendendole il più possibile omogenee sull’intero territorio; stabilendo un prezzo che garantisca il minimo quotidiano necessario alle famiglie meno abbienti; e, se necessario (ma sarà necessario), aumentare le tariffe per tutte le altre categorie di utenti per ricavare il necessario per gli investimenti. Investimenti che non sono fine a se stessi perché nel ristrutturare la rete, si dà lavoro e si risolve in modo duraturo il problema delle perdite d’acqua lungo il percorso. Sono, cioè, investimenti veri e propri, il cui profitto consiste non nella remunerazione del capitale, ma nella riparazione duratura delle falle della rete con ricadute evidentemente positive sulla salvaguardia della risorsa e sulla sua disponibilità nel tempo. A sostegno della apparentemente impo- ROCCA 15 LUGLIO 2011 ro anche affidare la gestione ad una società «mista» con l’inserimento del privato nella gestione. Per farlo, secondo la normativa europea che è quella a tutti gli effetti vigente dopo l’abrogazione referendaria della legge Ronchi, dovrà sempre ricorrere ad una gara. E, comunque, il tutto potrà avvenire non prima della scadenza delle attuali convenzioni. Il che significa che i Comuni hanno tempo per riflettere come ne ha il legislatore che, senza ripercorrere le linee della legge abrogata e tenendo rigorosamente conto della volontà dei votanti, dovrà lavorare ad una normativa che sia di riferimento omogeneo all’intero Paese. Ciò soprattutto con riferimento alle tariffe nell’ambito delle quali c’è oggi una giungla simile a quella che caratterizzava le tariffe elettriche prima della nazionalizzazione del 1962. 19 UNA VALANGA DI SÌ polare proposta vorrei solo aggiungere che, mediamente (con un calcolo per eccesso) costano 300 euro i 200 metri cubi annui distribuiti ai cittadini nelle varie regioni. Ciò significa che ogni metro cubo costa, mediamente, 1,5 euro. Ricordando che un metro cubo equivale a 1.000 litri, se ne ricava che un litro di (ottima) acqua distribuita dagli acquedotti costa 0,0015 euro. Mi sembra che non siano necessari particolari commenti. Se non per aggiungere che non è un caso, se, in Europa, l’Italia è il Paese nel quale ogni cittadino ha mediamente più acqua a disposizione e ne spreca di più. energia a domanda ROCCA 15 LUGLIO 2011 Infine il terzo quesito, quello più temuto dagli antireferendari essendo in grado di trainare gli elettori fino al raggiungimento del quorum, riguardava l’«abrogazione delle nuove norme che consentono la produzione nel territorio nazionale di energia nucleare». Con la plebiscitaria abrogazione gli italiani si sono espressi una seconda volta, dopo il referendum del 1987, contro la produzione di energia in centrali nucleari. E il discorso è chiuso. Ma non lo è certamente per quanto riguarda il modo in cui rispondere alla domanda di energia. Per farlo il legislatore dovrà innanzitutto colmare il vuoto gravissimo costituito dalla storica mancanza di un Piano energetico nazionale. Ma le scelte e le soluzioni proposte dovranno dare risposte proprio partendo dalla domanda. Cioè dal modo in cui oggi vengono soddisfatti i consumi finali di energia avendo ben presente che questo modo non ha solo risposte quantitative come avviene da quando la domanda di energia viene soddisfatta col ricorso a fonti fossili. Al contrario, una volta classificati i consumi finali nei quattro grandi comparti costituiti da agricoltura, industria, trasporti e consumi domestici, si dovrà anche individuare la qualità della risposta. Cioè il tipo di energia meglio ed economicamente più rispondente al soddisfacimento della domanda. Con il ricorso a fonti che, in taluni casi, possono considerarsi anche effettivamente alternative ai combustibili fossili. Tenendo nel dovuto conto l’impatto ambientale di alcuni modi di utilizzazione di queste fonti (solare termodinamico ed eolico). E con politiche di risparmio, che non sono politiche di sacrificio, ma di razionalizzazione dei consumi e di lotta agli sprechi. In modo più esplicito, occorre realisticamente partire da quei bisogni che, oggi e ancora per qualche tempo, non trovano fon20 ti quantitativamente valide in «alternativa» ai combustibili fossili. Essenzialmente si tratta della produzione di energia elettrica e del variegato settore dei trasporti. Ciò significa che là dove le fonti cui far ricorso sono non solo integrative ma sempre più alternative, queste vanno incentivate al massimo con l’obiettivo tra gli altri di liberare quote aggiuntive per il soddisfacimento di quei consumi ancora non svincolati dalla disponibilità dei fossili. obiettivo 20-20-20 Il tutto, fra l’altro nel rispetto di quanto contenuto nel «pacchetto clima-energia», approvato dal Parlamento europeo nel 2008, che si è dato l’obiettivo 20-20-20. L’obiettivo, cioè, per il 2020 di ridurre del 20% le emissioni di gas a effetto serra, portare al 20% il risparmio energetico e aumentare al 20% il consumo di fonti rinnovabili. Oggi in Italia si consumano circa 200 milioni di tonnellate di equivalente petrolio. Il 25% serve per produrre energia elettrica; un altro 25% è consumato dai trasporti; il 20% dall’industria; il 22% nelle abitazioni; il restante 8% da agricoltura, pesca e «altro». Allo stato è difficile immaginare una rapida e significativa sostituzione dei combustibili fossili con fonti rinnovabili nella produzione di energia elettrica e nei mezzi di trasporto. Mentre fonti rinnovabili, essenzialmente il solare (termodinamico e fotovoltaico) e l’eolico possono svolgere un ruolo anche quantitativamente sempre più rilevante nel settore domestico (climatizzazione degli ambienti) e, in parte, nell’industria. Ma il «20-20-20» impone non solo il progressivo ricorso a fonti rinnovabili, ma anche un sostanzioso risparmio che, come dicevo, significa soprattutto lotta agli sprechi e razionalizzazione dei consumi. Ciò può avvenire soprattutto nell’altro grande consumatore di combustibili fossili (quasi esclusivamente derivati del petrolio) cioè nel settore dei trasporti. In questo caso il risultato si potrà ottenere non solo con il ricorso a motori diversamente alimentati quando la lobby petrolifera comincerà a perdere colpi e la ricerca sui motori alternativi andrà più celermente avanti, ma anche nell’immediato con politiche dei trasporti che più coraggiosamente disincentivino il trasporto di persone e merci su gomma incentivandone il trasferimento su ferro. E via mare se si pensa che l’Italia è una penisola con 8.000 chilometri di coste. Ugo Leone OLTRE LA CRONACA Romolo Menighetti dello stesso Autore LE IDEE CHE DIVENTANO POLITICA linee di storia dalla polis alla democrazia partecipativa pagg. 112 - € 13,00 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca € 10,00 anziché € 13,00 spedizione compresa richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail [email protected] L ’abolizione delle Province: tutti i partiti la chiedono ma nessuno la vuole. E nei giorni scorsi c’è stata l’ennesima conferma di tale atteggiamento. È, infatti, slittata a data da destinarsi l’esame della proposta di legge dell’Italia dei Valori che appunto proponeva la loro soppressione. Solo il partito di Di Pietro e l’Udc si sono opposti al rinvio. Questo è stato chiesto da Dario Franceschini del Partito Democratico, seguito a ruota da Roberto Calderoli della Lega. Il motivo: il Governo intenderebbe «razionalizzare» ma non sopprimere le Province. Non si può, sostiene il leghista, abbandonare il cittadino, che vive nelle valli di montagna, avendo come unici riferimenti il Comune o la Regione. E allora, nel timore di una bocciatura nel voto d’aula che chiuderebbe ogni possibilità di riforma futura, meglio ritirare la proposta di legge. E così Pd e Lega, la strana coppia, hanno rimesso nei cassetti la bandiera dell’abolizione delle Province, in attesa di tirarle nuovamente fuori in future occasioni elettorali. Perciò, in attesa di una razionalizzazione molto di là da venire, le 107 Amministrazioni Provinciali potranno continuare a finanziare costose e folkloristiche saghe, ad avere partecipazioni di dubbia utilità pubblica. Contemporaneamente le Province continueranno a essere la vetrina di politici in ascesa, àmbiti dove si dibatte del testamento biologico e dei diritti civili in Cina, piuttosto che la sede per affrontare temi inerenti al territorio. Soprattutto continueranno ad essere una formidabile opportunità di clientelismo. Il tutto a spese dei contribuenti. Secondo la Ragioneria di Stato sono 80.500 i dipendenti delle Province (con il più basso rapporto retribuzione-produttività, secondo un’inchiesta Eurispes del 2007), cui si devono aggiungere 3.246 consiglieri provinciali, 858 assessori, presidenti e vice. Insomma, le Province, che dovevano essere abolite fin dal 1970, che Berlusconi il 10 aprile 2008 a «Porta a porta» disse che «non possono più essere lasciate in piedi», la cui abolizione Calderoli voleva inserire nel Codice delle autonomie (abolizione ri- dimensionata poi a 17, poi a 7, poi a 3 e infine a zero) continueranno a gravare sui contribuenti per circa 20 miliardi l’anno (dati dell’Unione Province Italiane). Tale costo è diviso a metà tra spese correnti e spese in conto capitale. Le prime sono per 2/3 spese riguardanti il personale, le altre sono relative ai beni di competenza provinciale (viabilità locale, edilizia scolastica, manutenzione immobili). Si tenga conto inoltre che le attuali Province, in proliferazione ininterrotta dal 1992, risultano essere quasi il doppio di quelle del 1861, l’anno dell’Unità d’Italia. Gli oppositori alla soppressione delle Province sostengono che la loro eliminazione farebbe risparmiare ben poco: 3 o 4 miliardi l’anno, perché il resto riguarda il personale, non licenziabile, e il conto capitale. A parte che 3/4 miliardi non sono pochi, il personale potrebbe essere impiegato più proficuamente altrove, colmando vuoti nella Pubblica sicurezza (liberando gli agenti dal lavoro d’ufficio e rendendoli disponibili per la lotta al crimine), o nella sorveglianza ai musei, o nelle segreterie scolastiche, e altro. E poi si darebbe un segnale concreto che si vogliono davvero ridurre i costi della politica. Ma torniamo alla «razionalizzazione». Intanto questa dovrebbe prendere le mosse dalla riduzione del numero delle attuali Province, da uno stop alla loro proliferazione e dalla loro non coesistenza con le Città Metropolitane, per le quali è bene che la sovranità sia tutta esercitata in una dimensione metropolitana. Ma la riforma più importante dovrebbe portare all’abolizione dei Consigli Provinciali, con notevole riduzione dei costi e del personale politico, per sostituirli con Assemblee di Sindaci. In tal modo il legame di questi con il territorio sarebbe più stretto, più corale, e si avrebbe un organismo più efficace di indirizzo e di controllo delle Giunte provinciali. Ma un tale snellimento dubito possa realizzarsi per iniziativa del sistema politico. Ci vorrebbe una forte e determinata pressione esterna, da parte della società civile e dei cittadini, ma si può vivere continuamente in un clima referendario? ❑ 21 ROCCA 15 LUGLIO 2011 l’inamovibile provincia SCUOLA: RAPPORTO FONDAZIONE AGNELLI pianeta disabili ROCCA 15 LUGLIO 2011 Fiorella Farinelli 22 liminare gli insegnanti di sostegno. Non è una buona cosa che tante testate giornalistiche abbiano scelto titoli di questo tipo per commentare il recente Rapporto della Fondazione Agnelli sull’integrazione scolastica dei bambini disabili (1). O che altre abbiano sparato i soliti «troppo» utilizzati dalle campagne diffamatorie del lavoro pubblico di Brunetta e colleghi: troppi gli insegnanti che si occupano degli allievi disabili, troppi quelli che non hanno una preparazione professionale sufficiente, troppo frequenti i processi di mobilità che li riguardano, troppo alto il loro costo. Non è una buona cosa perché l’interesse del Rapporto è più nell’analisi – i dati, i processi – che nella proposta, che comunque non è affatto di semplice e sbrigativa liquidazione di ogni supporto all’integrazione scolastica dei ragazzi con disabilità. E soprattutto perché commenti così vistosamente orientati sembrano voler disseminare l’idea che, in tempi come oggi di vacche magre, i 4 miliardi di spesa pubblica tra Stato e Enti Locali per retribuire i 95.000 insegnanti e le 25.000 figure professionali non scolastiche utilizzate per il sostegno ai circa 200.000 allievi certificati come disabili, siano un lusso eccessivo. O un impegno economico sproporzionato ai benefici che può trarne la società – oltre a loro stessi e alle loro famiglie. In verità, il ponderoso bilancio di efficacia ed efficienza svolto dai ricercatori della Fondazione, insieme a quelli di Caritas e di Treelle, dei trenta e più anni di esperienza trascorsi dalla decisione di inserire i bambini disabili nelle scuole/classi norma- E li, sottraendoli all’emarginazione della medicalizzazione e dell’assistenza negli istituti speciali, dice invece a chiare lettere che quel costo non è comprimibile, ma anche che quella spesa potrebbe essere meglio utilizzata se venisse prima o poi superato l’insieme dei deficit che si sono via via consolidati. Ma quali sono, secondo il Rapporto, i problemi più acuti, quelli su cui intervenire con priorità? troppi disabili Asl C’è una questione, intanto, che merita la massima attenzione. L’incremento degli insegnanti di sostegno – oltre ventimila in più tra il 2002-2003 e il 2010-2011 – non deriva come spesso si afferma da un rapporto troppo basso tra insegnanti e allievi, che è ormai pari a 1 su 2, 1 nel Nord, 1 su 2,2 nel Centro, 1 su 1,9 nel Sud. Deriva invece dall’aumento costante del numero degli allievi certificati dalle Asl come disabili: erano 139.000 (1,59% del totale allievi) nel 2001-2002, sono diventati 200.000 (2,24% del totale allievi) nel 2009-2010. Ma sono davvero tutti caratterizzati – come vorrebbe la classificazione Ocse e la nostra normativa sul sostegno – da «deficit definibili in termini medico-sanitari che derivano da carenze organico-funzionali attribuibili a menomazioni e patologie»? La risposta è no, senza alcun dubbio. I dati ci dicono che solo per il 70% si tratta di veri e propri ritardi mentali o disturbi dell’apprendimento riconducibili ad alterazioni fisiologiche e malattie, negli altri casi i disturbi diagnosticati riguardano invece l’attenzione, l’ambito della relazione e dell’affettività, il controllo e l’appropriatezza quando basterebbe una scuola intelligente Missione impossibile, come si sa, nelle scuole in cui l’insegnamento resta, come da modello tradizionale, schiacciato unicamente sulle ore di didattica frontale, dove non ci sono né tempo pieno né possibilità di compresenze e dove gli insegnanti – quelli «ordinari» – non hanno tutta l’agilità e la ricchezza professionale che occorrerebbe. Un vuoto, un deficit di flessibilità organizzativa e didattica, una carenza di qualità professionali a cui sempre più frequentemente si tenta di ovviare, appunto, con le certificazioni di disabilità e relativi insegnanti/ore aggiunte di sostegno. Non sono ipotesi, e neppure solo sospetti. Il fatto che negli ultimi anni risulti essersi incrementato del 20% – un salto enorme – il numero degli allievi «disabili» di provenienza straniera, e che tra i «certificati» ci siano ormai sempre di più ragazzini dislessici, definiti «iperattivi» o «caratteriali», con deficit di concentrazione e problemi di comportamento, parla abbastanza chiaro. La legge 517/77 è spesso usata impropriamente per risolvere difficoltà che in molte scuole non si sa come affrontare in altro modo. Altrettanto improprio, pur trattandosi in questi casi di handicap effettivi, è il diffusissimo ricorso a insegnanti di sostegno anche per i disabili unicamente motori, che avrebbero bisogno di tutt’altro tipo di supporti per poter partecipare in condizioni di parità alla vita scolastica. Eliminare, dunque, non è la parola giusta. Ma distinguere tra le situazioni che hanno bisogno di un sostegno specialistico e quelle che hanno bisogno «solo» di una scuola intelligente, ricca di risorse e di opportunità, diversificata secondo le esigenze degli allievi, questo sì sarebbe necessario. Non per una questione di spesa, perché quello che non si spenderebbe per il sostegno bisognerebbe spenderlo per qualificare i contesti organizzativi e professionali, ma perché le buone intenzioni, quando ci sono, non eliminano l’effetto oggettivamente discriminatorio delle certificazioni formali di disabilità. Né i rischi, diffusissimi, che l’affidamento a un insegnante di sostegno, si traduca in un allontanamento dei bambini e ragazzi più difficili, o dei più deboli, dall’aula e dalle attività di tutti. Tradendo, perché è questo che talora avviene, la stessa legge istitutiva: in cui il sostegno è dovuto alla classe di appartenenza, non (solo) al singolo studente in difficoltà. Da questo punto di vista, alcune delle proposte contenute nel Rapporto della Fon- ROCCA 15 LUGLIO 2011 dei comportamenti. Ragazzini difficili, ragazzini problematici, certo. Che hanno bisogni educativi particolari perché appartenenti a nuclei familiari con problemi socioeconomici, culturali, sociolinguistici, o per altri motivi. Che richiedono una relazione insegnante-allievo personalizzata, didattiche particolarmente accorte, in molti casi anche tempi scolastici più lunghi e diversificati per attività di laboratorio, di recupero e sviluppo di specifiche competenze, creative ed espressive. Che consiglierebbero una capacità di coordinamento e di integrazione tra la scuola e i diversi servizi pubblici e privati del territorio, oltre a una buona tenuta del rapporto tra scuola e famiglia. 23 RAPPORTO FONDAZIONE AGNELLI dazione Agnelli, come quella di preparare tutti gli insegnanti a misurarsi con i bisogni educativi speciali e di organizzare in ogni territorio dei Centri Risorse per l’Integrazione con il compito di assegnare il personale specializzato docente e non docente secondo i progetti di integrazione avanzati dalle scuole (e non, come oggi, in modo automatico e secondo le certificazioni delle Asl), sono ipotesi di lavoro di un certo interesse. Ma a patto di assicurare alle scuole le condizioni e gli strumenti di un miglioramento sostanziale della propria qualità organizzativa e didattica e dei propri ambienti di apprendimento, nuove tecnologie comprese. E purché l’amministrazione, il sindacato, la politica dismettano finalmente quella logica tutta quantitativa secondo cui è solo aumentando l’organico che si possono risolvere i problemi della scuola pubblica. Una logica speculare a quella dell’attuale governo secondo cui, viceversa, il problema dei problemi è ridurre gli organici come condizione per ridurre la spesa pubblica per l’istruzione. specialistiche conseguite per via formale). E poi l’assenza di un effettivo coordinamento tra attività delle Asl e attività delle scuole; la diffusa indifferenza per i tanti ragazzi disabili che, abbandonati alle poche ore di sostegno degli insegnanti appositi, perdono interesse per la scuola e la abbandonano precocemente; la debolezza degli strumenti e delle politiche di orientamento professionale per rendere più agevole, finiti gli studi, l’inserimento nel mondo del lavoro; le scarse opportunità di qualificazione offerte dal comparto della formazione professionale regionale; il disastro italiano di quel misero 7% di adulti disabili con un lavoro stabile (a fronte del 21% della media europea); i ritardi nella segnalazione da parte delle scuole di problemi importanti, come dislessia o disgrafia, che però non comportano automaticamente il supporto di insegnanti di sostegno e richiederebbero invece altri tipi di intervento dovuti a insipienza o inerzia professionale, e così via. quantità o qualità? Un quadro complicato che il Rapporto della Fondazione Agnelli ha il merito di analizzare con grande ricchezza di dati, allargando lo sguardo all’intero pianeta disabilità, nella scuola ma anche dopo la scuola e richiamando l’attenzione dell’opinione pubblica sui problemi che restano irrisolti o che potrebbero col tempo perfino aggravarsi. È interessante che per questa via si possa rianimare la discussione non solo sull’efficacia della nostra normativa sull’integrazione scolastica dei disabili ma anche sui principi e sui valori cui essa si ispira. Principi e valori apprezzati non solo dalle famiglie che hanno figli disabili o portatori di serie difficoltà ma anche dai tanti per cui l’inserimento dei disabili nella scuola pubblica è visto come un’opportunità importante di crescita culturale e civile per tutti gli studenti. Quanto alle soluzioni proposte dal Rapporto, bisogna dire che non sono tutte convincenti, e neppure tutte facilmente praticabili. Ma è sempre un buon esercizio, individuati i problemi, provare a immaginare le possibili soluzioni. ROCCA 15 LUGLIO 2011 Sulla questione dell’handicap ha pesato negativamente, e pesa tuttora come in tanti altri ambiti del sistema scolastico, una forte sottovalutazione della qualità a fronte dell’interesse massimo di quasi tutti gli attori – politica e sindacati in primis – per l’incremento degli organici e, comunque, per le politiche del personale e del precariato. Derivano da qui molte delle criticità, e delle vere e proprie storture, analizzate e denunciate dal Rapporto della Fondazione Agnelli, e anche diverse altre di cui invece si tace. Il fatto, per esempio, che nel 32% delle scuole del primo ciclo non ci siano insegnanti di sostegno dotati della regolamentare formazione specialistica (ma insieme anche il deserto di iniziative di una Pubblica Istruzione che ormai da molti anni non promuove più percorsi formativi gratuiti di specializzazione). Il fatto che il possesso della specializzazione venga utilizzato dagli insegnanti precari per accelerare la propria immissione in ruolo salvo poi, dopo cinque anni, poter rientrare nell’organico «ordinario» (ma anche le responsabilità, in questa dispersione di competenze che si associa anche a una mobilità eccessiva del personale, di un inquadramento professionale in cui non c’è spazio per nessun riconoscimento in termini retributivi e di carriera delle competenze 24 un’opportunità importante Fiorella Farinelli Nota (1) Il Rapporto, presentato a Roma il 14 giugno scorso, è pubblicato dalla casa editrice Erikson. Le schede di presentazione sono in www.fga.it. CAMINEIRO il bello della diretta N il Paese delle donne Nell’ultimo rapporto Istat c’è la conferma che dalle nostre parti circola a piede libero un’immagine deformata delle donne. Ce lo rivelano gli interstizi delle notizie quotidiane, le considerazioni banali (talvolta volgari) che sfociano nei luoghi comuni beceri e vecchi. Ce lo sbatte in faccia la pubblicità che spesso è la migliore cartina di tornasole della media del pensiero della gente. Questa moneta corrente è la vera diga che im- pedisce ancora oggi l’affermazione delle donne, la normalità delle donne, la dignità delle donne. E che riempiano la Piazza di Siena queste donne capaci di fare diversamente ciò che gli uomini fanno da secoli. Quelle che, nello sport e nella scienza, dimostrano di raggiungere vette di eccellenza e quelle che fanno più fatica degli altri a varcare le soglie dell’occupazione. Madri, precarie, fragili, offese. «Mogli di», «figlie di» eppure in grado del colpo di reni che partorisce la pagina nuova di questo nostro spicchio di storia che le disegnava come frequentatrici di ville importanti e pronte a vendersi per un passaggio televisivo e per la carriera facile. Nel manifesto di convocazione dell’incontro nazionale di Siena si legge: «Vogliamo difendere noi stesse, il nostro presente e il nostro futuro perché una cosa è chiara: un Paese che deprime le donne è vecchio, senza vita, senza speranza». E allora non è per le donne ma per questa comunità vasta che si chiama Paese. La nota in calce avverte, invita o rassicura che «l’incontro è aperto anche agli uomini». donne d’Africa Ma anche in Africa sempre più spesso sono le donne a prendere la parola per urlare al mondo che quel continente ha gli stessi diritti di tutte le terre del mondo. Sono le donne africane a gestire il microcredito e a dar vita a cooperative di lavoro per creare opportunità di sviluppo. Sono donne a denunciare le guerre degli uomini e la fame dei figli. Sempre più spesso le incontri come valorose giornaliste pronte a segnalare violenze e soprusi. È nell’utero di queste donne che si nasconde il futuro, il riscatto e la liberazione di un continente che paga il prezzo più alto degli egoismi del nord del mondo. Il Nobel della pace sarebbe il riconoscimento a questa lotta feriale. Lo chiediamo da anni. L’invito è a sottoscrivere la richiesta (http://www.noppaw.org/). L’Africa si aiuta anche così. 25 ROCCA 15 LUGLIO 2011 Tonio Dell’Olio essuna scienza sociale, nessuno studio comparato degli eventi e nessuna esplorazione al microscopio della storia, possono prevederne le evoluzioni, i cambiamenti, le virate improvvise e le sorprese. A volte si tratta di drammi e tragedie e altre volte di squarci inattesi e imprevisti. Nessuno era in grado di intuire la caduta del muro di Berlino nel 1989, né tantomeno gli attentati dell’11 settembre. Nessuno aveva intravisto il fremito di libertà, vasto, diffuso e popolare, della sponda sud del Mediterraneo né, per parlare del catino di casa nostra, l’esito dei referendum del 12 giugno scorso. La storia conosce tratturi di campagna e sentieri di montagna che non sono segnati dalle carte topografiche più dettagliate. Hanno percorsi carsici di cui non sono consapevoli nemmeno gli stessi protagonisti. È bello pensare che le rotte della storia non sono decise nemmeno da chi pensa di stare al timone della nave. Per alcuni è il frutto della lotteria della casualità e per altri è l’azione discreta dello Spirito che in punta di piedi si insinua nelle pieghe degli eventi, nella trama dei giorni, nelle coscienze degli uomini e delle donne di ogni tempo. È il sale della storia, il bello del vivere nel mezzo dei giorni, il bello della diretta. Il 9 luglio le donne torneranno in piazza per ricordarci l’appuntamento fissato con la storia: «Se non ora quando?». Una domanda buona per ogni epoca. Per ogni giorno. TERRE DI VETRO lavoro e psiche ROCCA 15 LUGLIO 2011 Oliviero Motta 26 i sono mestieri facili facili ed altri dannatamente complicati. Ci sono imprese che anche a naso riconosci fattibili ed altre sulle quali non scommetteresti un fiorino. Mission impossible o giù di lì. E Marco, quando si alza per illustrare i risultati del progetto, pare impersonare perfettamente questo secondo genere di missioni: il collare rigido e il passo leggermente zoppicante non lasciano scampo. Manca il gesso al braccio e lo zigomo tumefatto, ma il colpo d’occhio è proprio quello fantozziano di chi è alle prese con vicende troppo grosse e complicate per uscirne interi. Marco, in realtà, coordina un gruppo di educatori – tecnicamente coach – che si occupano di integrazione sociale e inserimento lavorativo di pazienti psichiatrici gravi. Ha avuto un recente incidente in bicicletta, ma questo non c’entra. Oggi sta illustrando i risultati di «Lavoro e psiche», un progetto promosso e finanziato dalla Fondazione Cariplo per sperimentare nuovi strumenti per la ricerca e il mantenimento di opportunità occupazionali nel settore della salute mentale. 150 pazienti in cura nei Centri psico-sociali della Lombardia, selezionati tra coloro che hanno un disturbo psichico serio (schizofrenia o disturbi di personalità gravi). Il coach fa da operatore specializzato e al contempo da collante di una fitta rete territoriale: dipartimenti di salute mentale, amministrazioni comunali, famiglie dei pazienti, cooperative sociali, imprese. Insomma, un lavoro complesso che passa attraverso la collaborazione con le equipe curanti, la costruzione di un progetto personalizzato, l’affiancamento costante della persona fragile, la ricerca di opportunità lavorative, ma anche il sostegno e la consulenza alle imprese (sociali e non) che accettano di offrire un lavoro a questa par- C ticolare categoria di persone. Naturalmente è proprio questo il punto più complesso della vicenda: trovare e motivare aziende disponibili all’ingaggio di persone con problemi di salute mentale. Intuibili i tanti scogli da affrontare: la crisi economica e occupazionale, la diffidenza e talvolta la paura nei confronti dei pazienti psichiatrici, lo stigma sociale. Una vera corsa ad ostacoli. Forse aveva in mente proprio questo chi ha scelto il nome del progetto, con quel «lavoro» al posto di «amore». Da un lato il titolo segnala la difficoltà dell’impresa: la persona da inserire nel mondo del lavoro, proprio come la Psiche del racconto di Apuleio, deve sottoporsi a molteplici prove per arrivare al traguardo: suddividere un mucchio di granaglie con diverse dimensioni in tanti mucchietti uguali, raccogliere la lana d’oro di un gruppo di pecore aggressive, raccogliere dell’acqua da una sorgente che si trova nel mezzo di una cima tutta liscia e a strapiombo. Dall’altro, indica che senza un di più di disponibilità, di responsabilità sociale (di «amore»?), l’impresa non può riuscire: Psiche, infatti, disperata e sull’orlo della rinuncia alla vita, supera le prove perché aiutata da un gruppo di formiche, da una magica canna verde, da un’aquila e infine da Giove in persona. Qui, senza l’aiuto dell’Olimpo, Marco e i suoi coach hanno cominciato a collocare trenta persone in tirocini tra aziende e imprese sociali. Due di questi si sono tradotti in assunzioni. Il bicchiere, com’è noto, può essere mezzo pieno o mezzo vuoto. Ma manca ancora un anno e mezzo alla fine del progetto. Viene in mente il Bersani di Crozza: «Uè ragazzi, ma siam pazzi? Siam mica qui ad asciugare gli scogli!». Non proprio, ma quasi. Mission (im)possible. EVOLUZIONE può essere la moralità un prodotto di selezione naturale? Pietro Greco ROCCA 15 LUGLIO 2011 giornalista scientifico, scrittore Fondazione Idis-Città della Scienza, condirettore Scienzainrete Giannino Piana docente di Etica Università degli Studi di Torino 27 EVOLUZIONE il lubrificante della vita sociale Pietro Greco ontrordine: l’evoluzione è altruista e in natura spesso vincono i buoni. I titoli degli articoli con cui il New York Times e alcuni giornali italiani hanno dato notizia di recenti ricerche sull’origine biologica dell’altruismo sono efficaci, ma un po’ fuorvianti. Non perché sia sbagliato affermare che in natura c’è largo spazio per la cooperazione e persino per la bontà, ma perché questa presenza non costituisce una novità. Né tantomeno un cambio di paradigma. C altruismo animale ROCCA 15 LUGLIO 2011 Da tempo infatti sappiamo che gli animali cooperano. Dalla leonessa, che rinuncia a gran parte del pranzo che da sola e con gran fatica si è procurata, lasciando che l’intero branco partecipi al pasto gratis; al vampiro che non esita a rigurgitare nella bocca di un amico, meno abile o più sfortunato, parte del sangue che ha appena finito di suggere a un grosso mammifero addormentato. E che dire dei soldati delle Camponotus saunderi, una specie tropicale di formiche, che non esitano a sacrificare se stesse, in un suicidio orribile, per esplosione autoindotta dell’addome, pur di liberare una sostanza appiccicosa contro il nemico aggressore e salvare l’intera comunità. Il repertorio di atti altruistici che si incontrano tra gli animali non termina certo qui. Anzi è, per dirla con Helena Cronin, così ricco da risultare impressionante. Già, ma com’è possibile che l’evoluzione biologica, descritta come frutto della «lotta per la sopravvivenza» in una «natura rossa di sangue nei denti e negli artigli», premi o, anche solo, consenta non la normale sopraffazione dell’altro, ma lo straordinario sacrificio di sé? Com’è possibile che il repertorio dell’altruismo animale abbia dimensioni, appunto, impressionanti? Per secoli l’altruismo è stato considerato un carattere esclusivo dell’uomo. Frutto di quella moralità che lo distingue, per volontà di Dio, dalla natura selvaggia. Per secoli l’altruismo è stato oggetto di studio di filosofi e teologi. Ed è stato considerato un «problema intrattabile» per la scienza. 28 Ma nel 1859 Charles Darwin pubblica On The Origins of Species by Means of Natural Selection e nel 1871 pubblica The Descent of Man, i due libri dove propone che l’uomo non è una specie «altra», ma è una specie tra le altre, evolutasi nel tempo a partire da un antenato comune a tutti gli organismi viventi. E allora, gioca forza, l’origine della moralità e l’esistenza dei comportamenti altruistici sono diventati problemi (anche) biologici. Se l’uomo è frutto dell’evoluzione, non può anche la sua moralità essere un prodotto della selezione naturale? E se la moralità ha un fondamento biologico, non può essere un carattere condiviso con altre specie viventi? E se l’altruismo appartiene al mondo animale, deve essere considerato un prodotto adattativo o un’anomalia evolutiva? Domande oltremodo insidiose verso la fine del XIX secolo, epoca in cui le reazioni viscerali di opposizione o di adesione alla teoria di Darwin nascevano dalla sensazione che l’evoluzionismo minasse alla base i fondamenti della morale e del contratto sociale, come temevano i conservatori, o, al contrario fosse alla base della morale e del contratto sociale dell’economia competitiva governata dalla mano invisibile del mercato, come andava proponendo il filosofo Herbert Spencer. la lotta per la sopravvivenza Fu a causa di queste insidie politiche, cui intendeva sottrarsi, che Charles Darwin evitò di tuffarsi nel dibattito. Ma si limitò a chiarire un punto: «Uso il termine lotta per la sopravvivenza in un senso lato e metaforico, che implica la reciproca dipendenza degli esseri viventi». Il successo riproduttivo, che è il vero concetto fondante della teoria darwiniana di selezione naturale del più adatto, può essere raggiunto sia attraverso la violenza che attraverso la cooperazione. Nella lotta per la sopravvivenza, così come la intendo io, sostiene Darwin, tutto va bene, la forza bruta come la collaborazione, purché assicuri un vantaggio riproduttivo. «Quando riflettiamo la teoria della natura crudele Thomas Henry Huxley, il «bulldog di Darwin», l’infaticabile araldo dell’evoluzionismo, si rende conto che questi problemi sono, improvvisamente, diventati non solo «trattabili», ma ineludibili per la scienza. E sul finire del XIX secolo si fa carico di rispondere alle domande che sollevano. In natura, sostiene, non c’è moralità. La natura è crudele. Peggio, è indifferente. L’uomo, certo, è il frutto di questa natura senza morale. Ma la moralità dell’uomo è un qualcosa di innaturale, una costruzione artificiale, un’invenzione. È la spada che egli ha forgiato per uccidere la tigre e l’orso che sono dentro di lui. La soluzione proposta dal naturalista inglese colloca dunque i comportamenti morali fuori dall’evoluzione biologica. Tuttavia non spiega dove mai abbia origine la moralità dell’uomo. E non spiega perché, nella natura, oltre al sangue dei denti e degli artigli, c’è quel repertorio impressionante di atti altruistici che gli etologi vanno osservando e catalogando: i legami sessuali, tra maschi e femmine, con quel rapporto d’amore che quasi sempre induce l’uno a proteggere l’altra (e viceversa); i legami parentali, il rapporto di amore tra genitori e figli, che porta mamma e papà fringuello a esporre se stessi per salvare il nido; i legami di comunità, che portano la leonessa a condividere col branco il frutto delle sue fatiche e le formiche soldato a suicidarsi per il bene collettivo; i legami di solidarietà, che inducono una femmina di scimpanzé a festeggiare il parto felice di un’amica o un vampiro a donare il sangue appena raccolto al suo vicino. E poi ci sono, più inspiegabili di tutti, anche i rapporti di collaborazione tra organismi appartenenti a specie diverse: come quello simbiotico, che porta alcuni pesci a rifugiarsi ROCCA 15 LUGLIO 2011 su questa lotta, possiamo consolarci con la piena convinzione che nella natura la guerra non è continua, che la paura è sconosciuta, che la morte è in genere assai pronta, e che gli individui vigorosi, sani e felici sono quelli che sopravvivono e si moltiplicano». Darwin non ha certo un’idea mitica della natura. Egli sa che la natura è, certo «rossa nei denti e negli artigli», ma che è anche luogo della «reciproca dipendenza degli esseri viventi». Che in natura c’è pace e c’è crudeltà. C’è armonia e c’è catastrofe. Ma Darwin sa anche che la valenza di queste parole è profondamente informata dalla griglia morale con cui noi uomini siamo portati a leggere gli avvenimenti che accadono nel mondo che ci circonda. Tuttavia, al di là di una certa ritrosia di Charles Darwin a entrare nel merito del dibattito, sono sul tappeto e attendono una risposta i problemi aperti dalla sua proposta evoluzionista. Dove ha origine la moralità dell’uomo? La morale caratterizza i comportamenti anche di altre specie viventi? E, se sì, è un carattere adattivo, emerso per selezione naturale? 29 EVOLUZIONE fiduciosi tra i tentacoli urticanti delle attinie donandole in cambio del cibo. È facile spiegare la violenza e persino la «guerra di tutti contro tutti» nell’ambito di una dimensione, quella biologica, che è, per dirla con Huxley, intrinsecamente «amorale» e che evolve grazie una «lotta per la sopravvivenza» dura, sistematica e inflessibile. Indifferente alla sofferenza. Che non tollera la debolezza. Che favorisce gli individui forti e sani, gli individui vincenti. Che non esclude alcun colpo. Perché nessun colpo è illecito. insieme si vince Meno agevole è spiegare la cooperazione, se non interpretando la «lotta per la sopravvivenza» nel senso lato e metaforico proposto da Darwin. Come fa Pëtr Kropotkin (v. Rocca n. 15/2006), noto al grande pubblico più come ideologo dell’anarchia che come scienziato. In un libro, Il mutuo appoggio, pubblicato nel 1902. Gli animali, sostiene Kropotkin, per sopravvivere non devono lottare tra di loro. Non in prima istanza, almeno. Devono lottare contro un nemico ben più forte e attrezzato, l’ambiente e le sue avversità. Proprio perché hanno un grande nemico comune, la cooperazione con il reciproco aiuto e non la guerra è il rapporto usuale tra gli animali. Insieme si vince più facilmente che da soli. Ed è per vincere le avversità dell’ambiente che i castori cooperano per costruire una diga. È per fronteggiare un pericolo che incombe su tutti, che i cavalli attaccati da un branco di lupi non cercano la salvezza nella fuga individuale ma nella difesa comune. È rinunciando alla «guerra hobbesiana» che le formiche e le termiti hanno ottenuto grandi vantaggi. Kropotkin, dunque, sostiene che il comportamento altruistico, che talvolta può spingersi «fino al sacrificio di sé per il bene comune» è stato selezionato nel corso dell’evoluzione perché più utile dei comportamenti egoistici per sopravvivere nell’ambiente ostile. gesti adattivi ROCCA 15 LUGLIO 2011 Tuttavia appellarsi a «un bene superiore» a quello dell’individuo non è un’iniziativa che possa essere facilmente accettata da tutti i darwinisti. L’adattamento è il fondamento della teoria dell’evoluzione biologica. Ma l’adattamento, nell’ottica di molti darwinisti, altro non è che un vantaggio acquisito da un individuo. E l’altruismo è l’esatto opposto di un vantaggio individuale. La formi30 ca che si suicida per salvare la comunità o un uccello che lancia un grido d’allarme per allertare il gruppo quando si avvede di un pericolo, non sono esempi di vantaggi per l’individuo. Non sono gesti adattativi. E così una parte notevole dei darwinisti, all’inizio del XX secolo, rigetta senza tentennamenti il principio comunitario di Kropotkin. Anche se resta il problema: come si spiega, allora, il «sacrificio di sé per il bene comune»? In molti studiosi, soprattutto ecologi, nasce così l’esigenza di ripensare il principio dell’adattamento. Se, infatti, si rompe lo schema secondo cui l’adattamento è un vantaggio per l’individuo, o solo per l’individuo, e si prende in considerazione l’ipotesi che l’adattamento possa essere un vantaggio acquisito a un Doppelgänger, a un livello superiore (di famiglia, di gruppo, di popolazione, di specie), allora ogni comportamento altruistico a livello individuale trova una naturale spiegazione, perché si trasforma in un vantaggio per la dimensione gerarchica superiore. Il comportamento della formica soldato che si suicida per salvare il formicaio è adattativo, perché reca un vantaggio alla comunità. La ricerca del «bene comune» fino al sacrificio di sé è, dunque, un frutto della selezione naturale. L’ipotesi di Kropotkin, tanto vituperata, trova infine una spiegazione adattiva. E infatti, chiosa il biologo evoluzionista Stephen Jay Gould, «Kropotkin is no crackpot», Kropotkin non è uno stupido. La discussione, tuttavia, non si esaurisce. Non tutti sono disposti ad ammettere che c’è altruismo in natura. E che, addirittura, l’altruismo sia adattativo, sia un vantaggio evolutivo. Non tutti sono disposti ad ammettere che esista qualcosa come il «bene comune» in natura. L’altruismo, sostengono i fautori della natura «amorale», è una contraddizione in termini, dal punto di vista dell’adattamento. il gene egoista Certo la selezione naturale è una gara per egoisti. Ma l’egoismo premiato può non essere, necessariamente, individuale. Se il sacrificio di sé torna a vantaggio dei propri familiari, allora l’altruismo dell’individuo potrebbe essere una forma di egoismo. Scopo di un qualsiasi organismo vivente è riprodursi. Cioè trasmettere i propri caratteri alle future generazioni. Ma i familiari di quell’organismo hanno i suoi medesimi caratteri genetici (o quasi). E allora, talvolta, sacrificarsi e anche morire per salvare due fratelsegue a pag. 35 R COMPIE C C ANNI 70 Caro lettore, cara lettrice, chiediamo un po’ del tuo tempo per compilare il questionario che vedi e rispedirlo il prima possibile, comunque entro il mese di luglio 2011. Per noi è molto importante ascoltare il tuo parere, sapere cosa ti piace o meno di Rocca e quali sono gli argomenti di cui preferiresti si parlasse. Sei pienamente soddisfatto/a o forse ti aspetti un contributo diverso dalla tua rivista? Permettici di conoscere come la pensi. Il questionario è anonimo. Può essere spedito per posta, ma può anche essere richiesto, compilato e inviato per posta elettronica (vedi p. 34). Useremo i dati in forma aggregata e per fini statistici; saranno un sostegno prezioso al nostro instancabile desiderio di orientare costantemente Rocca verso la mente e il cuore dei suoi lettori e delle sue lettrici. Ti aspettiamo. e ti interpella la Redazione INCHIESTA 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 Come hai conosciuto Rocca? (max 1 risposta) dopo essere stato/a in Cittadella dopo aver consultato il CD di Rocca grazie ad amici ho ricevuto una copia in omaggio l’ho letta a scuola l’ho vista nell’ambiente di lavoro l’ho trovata in biblioteca o in un centro tramite il sito web di Rocca tramite abbonamento omaggio altro (specificare) Oltre a te, quante persone leggono o consultano la tua copia di Rocca? nessuna una due tre più di tre 2 1 2 3 4 5 3 1 2 3 4 5 Se acquisti il cd-rom di Rocca, quale uso ne fai prevalentemente? lo consulto frequentemente lo consulto raramente lo archivio lo cedo ad altri altro (specificare) 4 Quali sono i motivi per cui leggi Rocca? (max 3 risposte) 1 2 3 4 5 6 7 corrisponde alle mie idee religiose-ecclesiali mi è utile mi aiuta ad acquisire senso critico è una voce libera senza padroni mi interessa il confronto con idee diverse dalle mie ritrovo le mie idee socio-politiche altro (specificare) ____________________________ ______________________________________________ ______________________________________________ ____________________________________________________________________________________________ ______________________________________________ 31 ROCCA 15 LUGLIO 2011 1 5 Da quanti anni tu (o la tua famiglia) sei abbonato/a a Rocca? 1 0-3 anni 2 4-10 anni 3 oltre 10 anni 6 Ti è capitato di far conoscere Rocca ad altre persone? 1 sì 7 Cosa hanno apprezzato della rivista? (Es.: temi, linguaggio, impostazione, grafica, ecc.). Se lo desideri puoi allegare un foglio ____________________________________________ ____________________________________________ ____________________________________________ ____________________________________________ ____________________________________________ 8 1 2 3 4 5 2 no (vai alla domanda n° 8) Servizio postale: Rocca ti arriva entro la data di copertina in ritardo di 1-5 giorni in ritardo di oltre 5 giorni non sempre arriva altro (specificare) ____________________________ ____________________________________________ ____________________________________________ ____________________________________________ 10 9 Rocca affronta tematiche di vario tipo: indica la frequenza con cui le leggi regolarmente a volte 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 Pensa ora agli autori che scrivono con continuità su Rocca. Indica con quale frequenza li leggi e se condividi il loro pensiero leggo regolarmente ROCCA 15 LUGLIO 2011 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 32 mai Violenza – Legalità – Mafie Ecologia – Salute – Ambiente Immigrazione – Emarginazione Donna Giovani Famiglia – Coppia Scuola e Università Diritto – Giustizia – Carceri Politica internazionale Europa Politica italiana Economia e lavoro Scienze– Etica – Bioetica Tecnoscienze e società Società – Costume Mass media Cultura – Religioni – Storia Esperienze Teologia Bibbia Spiritualità Vita ecclesiale Inserti e dibattiti Umberto Allegretti Ritanna Armeni Claudio Cagnazzo Roberta Carlini Rosella De Leonibus Fiorella Farinelli Marco Gallizioli Pietro Greco Raniero La Valle Ugo Leone Giuseppe O. Longo Alberto Maggi Lidia Maggi Romolo Menighetti Carlo Molari Arturo Paoli Giannino Piana Lilia Sebastiani Rosanna Virgili Giancarlo Zizola Altri che scrivono meno frequentemente a volte condivido mai regolarmente a volte mai Indica con quale frequenza leggi le rubriche leggo regolarmente a volte mai 1 Ci scrivono i lettori 2 Primi Piani Attualità Anna Portoghese 3 Notizie dalla scienza Giovanni Sabato 4 Vignette 5 Resistenza e pace Raniero La Valle 6 Oltre la cronaca Romolo Menighetti 7 Camineiro Tonio Dell’Olio 8 Terre di vetro Oliviero Motta 9 Lezione spezzata Stefano Cazzato 12 Quali inserti del 2010/2011 hai gradito maggiormente? (max 3 risposte) 1 La notte del cattolicesimo italiano (n. 21/2011) Giancarlo Zizola 2 Tecnoscienza: l’uomo artificiale (n. 8/2010) Pietro Greco – Giuseppe O. Longo – Giannino Piana 3 Migrazioni: la frenesia del viaggio, motore del progresso (n. 23/2010) Franco Prattico – Pietro Greco 4 L’uomo e gli animali non umani (nn. 10, 11 e 12/2010) Enrico Alleva – Augusto Vitale – Pietro Greco – Cristian Fuschetto – Carlo Molari – Valerio Pocar Giannino Piana 5 Yemen: un popolo in lento cammino (nn. 16-17/ 2010) Maurizio Salvi – Gino Bulla 6 Quale legge elettorale? (n. 22/2010 e nn. 1, 2, 3, 6/2011) Autori Vari 7 Di chi è la mia morte? (n. 4/2011) Pietro Greco – Giannino Piana 10 Pianeta coppia Rosella De Leonibus 8 Nucleare sì, nucleare no (n. 8/2011) Pietro Greco – Giannino Piana 11 I volti del disagio Rosella De Leonibus 9 L’acqua c’è in abbondanza: perché tanta gente muore di sete? (n. 9/2011) Pietro Greco – Ugo Leone 12 Maestri del nostro tempo Stefano Cazzato Giuseppe Moscati 13 Nuova Antologia Giuseppe Moscati Ilenia Beatrice Protopapa 14 Fatti e segni Enrico Peyretti 15 Vizi & virtù Filippo Gentiloni 16 Cinema Paolo Vecchi 17 Teatro Roberto Carusi 18 Radio e Televisione Renzo Salvi 19 Arte – Mostre Fotografia – Fumetti M. Apa, M. De Luca, A. Pellegrino 20 Musica E. Romani, A. Pellegrino 21 Siti Internet Giovanni Ruggeri 22 Libri/Riviste 23 Rocca schede Paesi e Organizzazioni Carlo Timio 24 Fraternità Luigina Morsolin 13 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 Quali delle seguenti questioni, secondo te, costituiscono un grave problema? (max 3 risposte) biogenetica criminalità corruzione e clientelismo dipendenze disagio giovanile disoccupazione giustizia guerra immigrazione inquinamento ambientale informazione il futuro la malattia la tua vecchiaia nucleare povertà secessione tendenze autoritarie violenza su donne e minori altro (specificare) ____________________________ ____________________________________________ ____________________________________________ ____________________________________________ 33 ROCCA 15 LUGLIO 2011 11 14 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 Se leggi uno o più quotidiani abitualmente, quali sono? Avvenire Il Corriere della Sera Il Fatto Quotidiano Il Giornale Il Riformista Il Sole 24 Ore Il Manifesto La Repubblica La Stampa Libero L’Unità L’Osservatore Romano un quotidiano locale altro (specificare) ____________________________ __________________________________________ Se leggi altre riviste oltre a Rocca quali sono? ________________________________________ ________________________________________ ________________________________________ 16 1 2 3 4 5 6 7 Se utilizzi internet per quali scopi lo usi? (max 3 risposte) la posta elettronica acquisire dati e informazioni studiare e approfondire leggere giornali e riviste scaricare files (musica, film, libri, ecc.) comunicare e partecipare in rete (Facebook, ecc.) altro (specificare) ___________________________ ________________________________________ ________________________________________ ________________________________________ 17 A parità di quota di abbonamento preferiresti leggere Rocca non più su carta, ma al computer? 1 sì 2 no ROCCA 15 LUGLIO 2011 18 1 2 3 4 5 Qual è la tua fascia di età? 15-29 30-44 45-54 55-65 oltre 65 19 1 2 3 4 20 Da quante persone è composta la tua famiglia o comunità (tu compreso/a)? tu solo/a 2 3-4 5 o più Puoi indicare il tuo sesso: 1 maschio 21 1 2 3 4 5 6 7 22 1 2 3 4 5 6 7 23 2 femmina Qual è il tuo titolo di studio? licenza elementare licenza media qualifica professionale diploma laurea corso post-laurea altro (specificare) ______________________________ Sei: studente lavoratore dipendente a tempo determinato lavoratore dipendente a tempo indeterminato lavoratore in proprio in cerca di occupazione pensionato/a altro (specificare) ______________________________ In quale regione d’Italia vivi? _____________________________________________________________________________________________ 24 Hai ulteriori osservazioni o suggerimenti riguardo la rivista da inviare alla redazione? (Se lo desideri puoi allegare un foglio) ______________________________________________________________________________________________ ______________________________________________________________________________________________ ______________________________________________________________________________________________ ________________________________________________ ________________________________________________ ______________________________________________________________________________________________ ________________________________________________ Grazie, la tua collaborazione è gradita Modalità di compilazione e spedizione Il questionario può essere staccato dalla rivista, compilato e inviato in busta chiusa a Rocca, Via Ancajani n. 3 – Cittadella – 06081 Assisi (Pg). È possibile fotocopiarlo a vantaggio di altri lettori/lettrici che intendono partecipare all’indagine. In alternativa il questionario può essere richiesto e spedito via internet tramite file in formato word: per la richiesta del questionario e/o il reinvio utilizzare il seguente indirizzo di posta elettronica: [email protected] 34 zione ingannevole di un egoismo saggio e superiore, quasi immanente. egoismo camuffato Già, ma resta l’aiuto che molti animali portano ad altri animali che parenti non sono. Come spiegarlo? Un tentativo di spiegazione completamente adattativo viene proposto, verso la metà degli anni ’80, da alcuni studiosi, come Robert Trivers e Robert Axelrod, esperti di teoria dei giochi. Quando un animale corre in soccorso di un altro animale che non è un parente, non si tratta di altruismo ma di «aiuto reciproco». In altri termini è mero do ut des, aiuto oggi perché mi aspetto di essere ricambiato quando sarò in difficoltà. L’aiuto reciproco è un gioco che favorisce tutti gli individui partecipanti. Può essere persino una manifestazione di arroganza. Quindi è un gioco adattivo. O, se si vuole, è il sostegno che si danno tra loro diversi e irriducibili egoismi per restare in piedi. Secondo Amotz Zahavi, padre della cosiddetta «teoria dell’handicap», in molti casi, non si tratta neppure di «aiuto reciproco», ma di pura ed egoistica ostentazione delle proprie capacità. Come nel caso di quei maschi dominanti che, quando sfidano il pericolo a vantaggio del gruppo, in realtà lanciano messaggi sessuali: guardate, femmine, come sono coraggioso. Perché me lo posso permettere. Sono forte. Cioè sano. Sono, quindi, una buona scelta. I vantaggi riproduttivi di questo comportamento superano ampiamente, secondo Amotz Zahavi, il rischio di esagerare e di dover pagare uno scotto. Le ipotesi dell’altruismo come egoismo camuffato trova il consenso di molti, autorevoli interpreti contemporanei del darwinismo. ROCCA 15 LUGLIO 2011 li o otto cugini potrebbe essere vantaggioso per la trasmissione di quei caratteri. I comportamenti altruistici a favore dei propri familiari, sostengono a metà del XX secolo, matematica alla mano, vari biologi, teorici della «genetica di popolazione», come Ronald A. Fisher, John Burdon Sanderson Haldane, Sewall Wright, sono comportamenti adattivi. Sono selezione parentale (kin selection). La selezione parentale soddisfa i darwinisti (considerati) ortodossi più della teoria del «bene comune». E, naturalmente, può spiegare molti comportamenti altruistici. Tuttavia lascia aperte due domande. Come fa un animale a riconoscere i suoi cugini, cioè i parenti che non sono propriamente stretti? E come si spiega l’altruismo se il beneficiario non è un parente? Alla prima domanda tentano di rispondere, a partire dagli anni ’70, i padri fondatori della sociobiologia, una nuova disciplina che cerca una spiegazione genetica e adattiva a tutti i comportamenti animali. Secondo Edward Wilson e tutti i sociobiologi, la vera unità di selezione nella teoria darwiniana non è l’individuo (e men che meno un qualsiasi livello gerarchico superiore), bensì è il gene. La selezione naturale non promuove gli individui più adatti, ma i geni più adatti. Nell’interpretazione che alcuni sociobiologi, come Richard Dawkins, di questa nuova teoria adattiva, l’individuo non è che lo strumento inconsapevole utilizzato dal «gene egoista» per sopravvivere e riprodursi. Quando un animale aiuta un suo parente, compie un atto altruista dal punto di vista dell’individuo. Ma un atto perfettamente egoista dal punto di vista del gene. E poiché il gene è la vera unità di selezione, l’altruismo, dicono i sociobiologi, non esiste. È, semplicemente, egoismo camuffato. L’immagine della natura «amorale» è così salva. L’altruismo degli individui è solo apparente. È la manifesta- 35 EVOLUZIONE Che possono, così, riproporre la tesi, cara a Thomas Huxley, della moralità come incidente della storia biologica e, quindi, fuori dalla natura. Così George Williams, uno dei più grandi teorici della biologia evolutiva di fine Novecento: «Spiego la moralità come una capacità accidentalmente prodotta, nella sua sconfinata stupidità, da un processo biologico che normalmente è l’opposto dell’espressione di tale capacità». La teoria del «gene egoista» e quella dell’«aiuto reciproco» sembrano, dunque, appagare molti biologi. Helena Cronin giunge a dire, quindici o venti anni fa, che, con queste teorie, il problema dell’altruismo è stato definitivamente risolto. E risolto in un quadro integralmente e coerentemente adattativo. la moralità prodotto dell’evoluzione ROCCA 15 LUGLIO 2011 Non tutti però sono d’accordo. Non lo sono quei biologi che considerano le due teorie incapaci di spiegare gli atti di altruismo tra organismi di specie diverse. Soprattutto quando non c’è simbiosi o parassitismo. Ma si consuma in un gesto che non ha possibilità alcuna di ricambio. Perché un delfino, come spesso accade, dovrebbe salvare un uomo in difficoltà? Perché un cane dovrebbe salvare un bambino che neppure conosce? Non sono in accordo con le teorie adattative di spiegazione dell’altruismo soprattutto gli etologi, che osservano ogni giorno quanto immenso e variegato sia il repertorio di atti di generosità in natura. E quanto difficile sia ridurre questi atti a espressione di geni egoisti o di banale do ut des. Secondo Frans de Waal, per esempio, autore dieci anni fa o giù di lì di un libro intitolato Naturalmente buoni, che Thomas Huxley aveva platealmente torto. La moralità non è affatto un accidente della storia biologica. E non è neppure un’invenzione dell’uomo. Ma un prodotto dell’evoluzione biologica. Appartiene, in varie forme e in diverso grado, a molti animali. Alcuni dei quali compiono atti autenticamente altruisti. O, per dirla proprio con Huxley, «umanitari». Ma, ancorché non sempre adattativa, la moralità è un prodotto dell’evoluzione biologica. In particolare è quel prodotto dell’evoluzione dei gruppi sociali che consente di contemperare gli interessi individuali (che esistono e si manifestano) e gli interessi collettivi (che esistono e si manifestano) e di rendere, quindi, più equilibrata la vita di gruppo. La vita sociale d’altra parte ha un grande valore adattativo, perché consente a tutti gli individui di migliorare la capacità di trovare cibo e di difendersi dai nemici. Ma un gruppo non si basa solo sulla coopera36 zione e lo scambio tra i suoi membri. È attraversato anche da conflitti interni, tra individui che hanno interessi diversi. Per conservare l’integrità del gruppo e, insieme, la sua dinamica vitalità occorre che si raggiunga un equilibrio tra gli interessi individuali e collettivi. Questo equilibrio può riguardare il livello diadico: tra due individui che si scambiano aiuti o si riappacificano dopo una lite. Ma può riguardare anche livelli di relazione superiore: come la ricerca dell’interesse della comunità o le riconciliazioni mediate e l’arbitrato nelle dispute. Nei gruppi di umani e, forse, di altre specie può esserci l’esplicito apprezzamento dell’altruismo e l’incoraggiamento a contribuire alla qualità dell’ambiente sociale. I comportamenti altruistici e la moralità si sarebbero quindi evoluti per rafforzare la vita di gruppo (con tutti i vantaggi adattivi che comporta per i singoli) e le dinamiche che la rendono non solo possibile, ma anche vitale. In quest’ottica, quindi, in natura non esistono le dimensioni astratte dell’«altruismo» o della «moralità», ma certo esiste una gamma di comportamenti degli animali, più consapevoli in alcune specie meno in altre, che sono stati selezionati e si sono affinati per migliorare la vita sociale. Questa ipotesi sull’origine dell’altruismo, che potremmo definire la «teoria del lubrificante della vita sociale distillato dall’evoluzione», non è, forse, la spiegazione definitiva del comportamento morale. Ma consente di rispondere a tre grandi domande. Se l’uomo è frutto dell’evoluzione biologica, non deve anche la sua moralità essere un prodotto dell’evoluzione? La risposta è sì: la moralità dell’uomo non è «fuori dalla natura», ma è un «prodotto di natura». Se la moralità ha un fondamento biologico, può essere condivisa con altre specie viventi? Sì, i comportamenti che noi uomini definiamo morali, non sono una nostra esclusiva. Anche se, nella nostra specie, sono particolarmente sofisticati. Se l’altruismo appartiene al mondo animale, deve essere considerato un prodotto adattativo o un’anomalia della selezione naturale? L’altruismo non è adattativo. Tuttavia è un prodotto dell’evoluzione biologica. È stato selezionato quale utile lubrificante della vita sociale. Ciò è possibile perché l’evoluzione biologica non è, solamente, adattativa. L’evoluzione biologica è pluralista. La selezione naturale del più adatto è il suo motore principale. Ma non è il suo solo motore. Pietro Greco Giannino Piana a dove ha origine la moralità? È appannaggio esclusivo degli uomini o è presente anche nel mondo animale come prodotto del processo evolutivo o della selezione naturale? In una parola, l’esperienza morale appartiene al mondo della «natura» o è una costruzione artificiale, dovuta ai soli processi culturali umani? Sono questi, in sintesi, gli interrogativi che emergono dall’interessante e aggiornato excursus di Pietro Greco sugli attuali esiti della ricerca scientifica a proposito del comportamento etico. Etologia, sociobiologia e genetica sono chiamate in causa per interpretare (con risultati non sempre omogenei) fenomeni complessi, persino contradditori, che si verificano nel mondo animale e che hanno come epicentro la lotta per la sopravvivenza, la quale può assumere la forma della violenza e della sopraffazione, ma può anche imboccare la strada della cooperazione e dell’altruismo, fino all’estremo limite del sacrificio di sé. Non intendiamo addentrarci nell’analisi dei singoli dati fornitici da Greco, per quanto importanti, ci limitiamo a sviluppare qui alcune riflessioni che ci aiutino a mettere in luce, da un lato, le comuni radici del comportamento animale e di quello umano e a evidenziare, dall’altro, le differenze (anche marcate) che giustificano la specificità e l’originalità dell’umano, perciò il fatto che solo in riferimento ad esso si possa parlare, in senso proprio, di moralità. D le basi biologiche del comportamento umano La teoria evoluzionista darwiniana ha provocato una svolta radicale nella lettura del comportamento umano, che viene da allora sempre più visto in continuità con quello animale, soggetto perciò a leggi e a dinamiche legate al mondo delle pulsioni istintuali nel loro costante adattamento all’ambiente circostante. L’etologia ha messo chiaramente in evidenza che anche nell’uomo come in alcune specie animali – in particolare in quella dei primati – si danno comportamenti derivanti da automatismi innati la cui causa è la comune origine filogenetica e dai quali deriva la omologia di una serie di modi di atteggiarsi: dalla tendenza a delimitare il proprio spazio alla definizione dello schema del nemico; dal rispetto della gerarchia sociale alla identificazione delle situazioni nelle quali si è indotti all’aggressione. Non meno importanti, per una lettura in senso evolutivo del comportamento umano, sono poi il contributo della sociobiologia, che ha fornito un apporto decisivo allo studio sistematico delle basi biologiche del comportamento sociale, e, in tempi più recenti, l’apporto delle neuroscienze, le quali, penetrando in misura sempre più consistente negli strati nascosti dell’organismo corporeo e delle strutture del sé, sono giunte a identificare la mente con il sistema nervoso centrale, nonché a interpretare il pensiero come l’esito di processi neuronali basati su reazioni biochimiche. La conseguenza naturale di questa serie di conoscenze (peraltro talora controverse e, in ogni caso, non definitive) è la convinzione (del tutto giustificata) che alla base del comportamento umano si danno – e posseggono una considerevole consistenza – condizionamenti biologici di diversa natura, che influenzano grandemente la condotta morale. Il nesso genetico tra uomo e animale spiega perché l’uomo ha ereditato quasi tutto il sistema di impulsi animali e perché tale sistema rappresenti una parte rilevante di quel dinamismo generale da cui traggono origine gli atti umani. La comprensione del comportamento umano non può dunque prescindere da una puntuale conoscenza delle basi biologiche in cui affonda le sue radici, e che sono riconducibili tanto alla filogenesi che all’ontogenesi. Questo significa, in altre parole, che una corretta analisi del significato dell’agire umano deve fare seriamente i conti con il gioco degli istinti e con la misurazione del loro influsso anche su quegli atti che si presentano come specificamente appartenenti all’uomo. Infatti – come bene rileva W. Korff – «le stesse strutture impulsive biopsichiche, sulle quali il comportamento sociale dell’uomo è basato e che come tali si mostrano già presso gli animali superiori viventi in gruppo, predispongono sia la costruzione interiore della personalità umana come anche le forme di socializzazione umana, e in questo modo limitano il campo di estensione di ogni possibile morale» (W. Korff, Norm und Sittlichkeit Untersuchungen zur Logik der normativen Vernunft, Mainz 1983, p. 78). L’etica si trova pertanto dinnanzi a un ventaglio di nozioni che consentono di penetrare sempre più profondamente negli anfratti meno trasparenti dell’agire umano, cogliendone i meccanismi soggiacenti e facendo soprattutto emergere alcune dinamiche nascoste, che hanno grande rilievo nella modulazione delle scelte che l’uomo viene operando. 37 ROCCA 15 LUGLIO 2011 “dentro” e “oltre” la natura? EVOLUZIONE oltre il determinismo biologico ROCCA 15 LUGLIO 2011 Ma gli interrogativi di Greco non si esauriscono qui. Non è infatti sufficiente ammettere la esistenza di un condizionamento biologico, per quanto altamente significativo, della condotta umana; si tratta di qualcosa di molto più rilevante: di chiedersi cioè se sia possibile ricondurre la moralità a semplice prodotto del dato biologico o – come già si è accennato – a risultante della selezione naturale. Il fatto che si diano nel mondo animale comportamenti altruistici, che giungono, in alcuni casi fino al sacrificio di sé, può far pensare, a una prima impressione, a tale possibilità. Ma, al di là delle diverse interpretazioni che di tali comportamenti possono essere date – da chi li considera semplicemente un mezzo utile per sopravvivere nell’ambiente o per migliorare la vita sociale fino a chi li giudica una forma di egoismo camuffato – si tratta, in ogni caso, di modi di essere e di agire, dettati da un rigido determinismo, che sembra escludere a priori qualsiasi riferimento a una forma di decisione soggettiva. Ora la moralità non si risolve nel comportamento retto, che ne costituisce l’aspetto oggettivo, ma ha la sua più profonda radice – quella che, in ultima analisi, la definisce – nell’atteggiamento buono, la cui sede è la coscienza e la cui fonte sorgiva è la libertà. Ad essere sottaciuta è infatti qui la differenza tra il «fare», cioè il «comportamento» (behaviour) che riguarda semplicemente gli aspetti esteriori della condotta, e l’«agire», cioè l’atteggiamento di fondo che rinvia necessariamente al mondo interiore del soggetto, perciò alla sfera delle intenzioni, delle abitudini acquisite e delle scelte personali. Eticità e libertà sono grandezze direttamente proporzionali, nel senso che si dà eticità soltanto laddove si dà libertà, ma anche che il grado della eticità di un’azione è legato al grado di libertà che in essa è concretamente presente. La ragione di fondo della riconduzione della moralità al solo dato biologico è, in definitiva, una forma di riduzionismo antropologico. Ciò che a tale interpretazione soggiace è infatti una concezione positivista della realtà, che fa riferimento in senso esclusivo al paradigma della verificabilità scientifica, mettendo radicalmente tra parentesi qualsiasi forma di introspezione soggettiva, e non riuscendo perciò a dare ragione della specificità dei fenomeni umani. il peso della cultura e del linguaggio Affermare la non riducibilità della moralità ai dati forniti dalla ricerca scientifica non significa certo negare l’importanza che tali 38 dati rivestono per una piena comprensione dell’agire umano e per la valutazione del suo significato etico. Le acquisizioni più recenti delle scienze evolutive forniscono, a tale proposito, schemi interpretativi di grande rilevanza, utili non soltanto per indagare sui limiti della libertà e del suo esercizio, ma anche (e soprattutto) per definire il contesto entro cui collocarsi per cogliere le potenzialità reali che l’uomo possiede e che trovano espressione negli atti da lui emessi. Ciò che tuttavia sfugge all’analisi scientifica, e che non può essere fatto oggetto di «spiegazione» ma soltanto di «comprensione», è il fattore coscienziale, che è il luogo in cui si verifica una complessa messa in atto del giudizio morale attraverso il ricorso a elementi che trascendono il semplice livello della conoscenza empirica. Non è, d’altronde, paradossale che proprio nel momento in cui giustamente si rifiuta, ritenendola del tutto anacronistica, un’idea di «legge naturale», identificata (come voleva il giusnaturalismo) con il dato fisico-biologico, si torni a interpretare il comportamento umano esclusivamente su queste basi? La grande battaglia per emancipare la condotta umana dalla «natura» legandola strettamente alla «cultura», sembra qui radicalmente superata. Il ritorno alla «natura» come chiave interpretativa dei fenomeni umani, sia pure ricorrendo a conoscenze scientifiche molto più puntuali e sofisticate di quelle del passato, è forse una forma di reazione a un riduzionismo culturale, incapace di dare ragione da solo dei processi che si sviluppano nell’ambito dell’esperienza umana. Ma non si può dimenticare che l’uomo è anche (e soprattutto) «cultura» e «linguaggio», e che sono proprio questi fattori a determinarne la specificità e a caratterizzare l’originalità del suo agire. Questo significa che l’evoluzione biologica deve essere posta in stretta relazione con l’evoluzione culturale, la quale conferisce pienezza di forma umana all’agire della persona; e che nell’interpretazione dei comportamenti è, di conseguenza, necessario fare spazio a un corretto equilibrio tra «natura» e «cultura», evitando l’oscillazione pendolare dall’uno all’altro polo. Si tratta, in ultima analisi, di non incorrere, da una parte, nella tentazione di ricondurre tutto il comportamento umano all’evoluzione per selezione naturale; e di non rinunciare, dall’altra, a considerare la rilevanza delle basi biologiche ed istintuali della condotta umana. I rischi di una lettura riduttiva sull’uno o sull’altro fronte hanno infatti come esito l’impossibilità di pervenire a una effettiva comprensione dell’autentico significato etico dell’agire dell’uomo. Giannino Piana I VOLTI DEL DISAGIO Rosella De Leonibus olitudini in rosa – oppure: quando l’amore sfugge – oppure: senza amore. «Sai, penso che le donne come me si sono ormai quasi rassegnate alla solitudine. Dopo tanti amori falliti, dopo tante sconfitte e delusioni, viene voglia di mollare la presa e qualcosa dentro ti dice: ormai non ci puoi sperare più! Poi però rimane l’inquietudine, l’angoscia del tempo che passa, e queste riunioni delle single il sabato sera... che tristezza, sempre a parlare di amori falliti, ogni tanto qualcuna se ne esce con una nuova ricetta per conquistare un uomo, ed eccola di nuovo il sabato dopo, col racconto dell’ennesimo incontro andato male...». Gloria, come Francesca, come Paola, come tante altre, più sui quaranta che sui trenta, con l’orologio biologico che pericolosamente si avvia a segnare le ultime battute della fertilità: sono donne belle, colte, economicamente indipendenti, anche allegre, quando possono, e piacevolissime, piene di interessi, ma scoraggiate, con addosso una gran dose di sofferenza, e una profonda sensazione di solitudine. Sono un po’ diverse, anche nel 2000, le aspettative femminili rispetto a quelle maschili. La stabilità affettiva e la costruzione di un legame d’amore che possa fondare una famiglia sono bisogni molto potenti, anche nelle donne di oggi, più autonome e meno remissive, bisogni che incontrano però ostacoli di ogni tipo, dall’eccesso di enfasi «culturale» sull’individualità rispetto al coinvolgersi nella relazione, sull’indipendenza rispetto alla cooperazione e al dono, sul benessere dell’istante piuttosto che sull’impegno, fino all’idea delle possibilità infinite che là fuori mi aspettano, fino alla permanenza di idee romantiche e illusioni sul partner ideale, che da 39 ROCCA 15 LUGLIO 2011 solitudini in rosa S I VOLTI DEL DISAGIO qualche parte c’è, ma evidentemente si nasconde, il fellone... Perché è così difficile amare, essere amate, per queste splendide donne? La sofferenza amorosa, l’abbandono, la disillusione, il fallimento sentimentale che diventa la regola, si traducono in paura di amare, e poi nell’indisponibilità a dare e ricevere amore, fino alla resa finale: non fa per me, bisogna che mi rassegni a star sola… Le vicende psico-affettive dell’infanzia arrivano al capolinea, producendo il risultato di consegnare queste vite alla solitudine. dove l’amore si arena ROCCA 15 LUGLIO 2011 Il modo di amare, e gli ostacoli all’amore, sono legati alla nostra storia personale, attraverso una ripetizione che spesso genera, quando se ne prende consapevolezza, un senso di evidenza che ha dell’incredibile. Sono le trappole nelle quali l’amore si imprigiona. Sentirsi povera e bisognosa: si resta nella posizione di chi chiede e anzi pretende aiuto, comprensione, empatia, ma poi non si è disponibili alla reciprocità, e invisibilmente ci si defila appena il partner si trova a sua volta ad aver bisogno di comprensione, pazienza, aiuto. Essere amati «a prescindere»: si vive nella nostalgia di quella madre buona che forse non abbiamo mai avuto, o nella illusione di ricreare quel rapporto da cui non possiamo svincolarci, ma che vogliamo solo ripetere all’infinito, di amore in amore, senza mai trovarlo fino in fondo, perché nessun uomo sarà mai nostra madre... Cercasi principe azzurro: aspetto l’incontro che mi redime da antiche sofferenze, che mi libera da storiche prigionie, l’incontro che sveglia i sensi addormentati, ed ecco la lunga attesa passiva, il sogno e l’idealizzazione di questo «altro» che arriva a salvarci da morte certa, che si sacrifica per noi, qualcuno che invece è molto attivo e coraggioso e generoso, ma lo è come risultato di una proiezione massiccia di parti di noi sulla sua normalissima persona. E quando le proiezioni cadono, allora lo specchio magico si rompe e il principe, ridiventato ranocchio, può solo finire nello stagno, mentre la principessa gli gira le spalle, delusa e sdegnata. Ritrovare la metà perduta: si cerca quell’uomo che sembra proprio fatto su misura, e si attende questo incontro fatale, dopo di che 40 si immagina che tutto sia compiuto. L’attesa passiva impedisce di crescere e mettere in discussione le proprie aspettative illusorie, e si immagina che l’amore dipenda dal fato, complice o rio, che ci farà incontrare questo predestinato, o ne allontanerà i passi per sempre. Intanto molte creature reali e umanamente imperfette attraversano la nostra vita, ma noi abbiamo occhi solo per il modello che la nostra mente ha definito e configurato. Non sapremo mai riconoscere l’amore se si veste in un altro modo o si presenta con un altro volto. Restare nella dipendenza affettiva: dove si ama con una fame insaziabile, alla ricerca di una fusione totale col partner, che, più che amato, finirà per sentirsi divorato. C’è un vuoto di affetti e di senso che solo l’amore sembra poter colmare, ma fatalmente l’oggetto d’amore sfuggirà dall’essere fagocitato, oppure verrà distrutto e reso inutilizzabile, se l’atto predatorio dovesse andare ad effetto. Copia-incollare le ferite emotive dei propri genitori: la figlia di una donna che ha avuto un marito distratto e poco presente, rischia di trovare sul suo cammino uomini poco disponibili, da ciascuno dei quali cercherà di ottenere ciò che a lei, ma soprattutto a sua madre, è mancato. Ovviamente senza successo, accumulando di volta in volta sempre più dolore e disillusione, fino al cinismo o alla rassegnazione, fino a quella sorta di godimento masochistico che si genera nella ripetizione della sofferenza, dove un po’ di controllo lo posso finalmente praticare, e posso perfino illudermi, stavolta, di non esserne più vittima. Mantenere il controllo: il controllo degli stati d’animo, propri e altrui, è la negazione dell’imprevedibilità insita nelle relazioni intime. Solo chi si abbandona al flusso della vita può donarsi senza la certezza che l’altro la ricambi esattamente e puntualmente. Rischiare la non simultaneità e lo sbilanciamento, la temporanea unilateralità dell’offerta d’amore, l’investimento senza certezza di guadagno, è far credito all’altro senza garanzie e senza passare subito alla riscossione. Lasciare aperta la via di fuga: il rapporto sentimentale viene vissuto in modo claustrofobico, come una sorta di prigione, nella quale ci si sente soffocare ed annullare. Appena subentra un assestamento sulla quotidianità, nasce un fastidio, un’ansia, e le abitudini dell’altro, la sua umanità più un confine stabile e permeabile I legami affettivi dell’infanzia sono la formula e l’allenamento nel quale impariamo cosa è e come funziona l’amore. Sono i primi legami affettivi, quelli che stabiliamo con il caregiver, prevalentemente la figura materna, che danno forma alla nostra capacità di amare. Fin dal secondo mese di vita un bambino è in grado di percepire i diversi stili di accudimento, ed adattarsi ad essi, conservandone la formula dentro di sé. Nulla di tutto questo è però immutabile, afferma Boris Cyrulnik, uno dei maggiori esperti della guarigione delle vecchie ferite. Già nell’adolescenza, con le prime esperienze amorose, si può scrivere una storia diversa, e imparare ad amare attraverso l’esperienza dell’amore, gioiosa o sofferta che sia. E imparare vuol dire continuare a mettersi in gioco, provare ancora, aprire la porta e uscire nel mondo. È mettere in gioco il confine dell’io, la pelle psichica che ci separa e ci connette agli altri, interiorizzarlo come qualcosa che ci appartiene e ci fa da filtro rispetto alle esperienze, qualcosa che ci garantisce un senso stabile di noi stessi nel tempo, la certezza della nostra unicità ed integrità anche quando mettiamo la nostra persona sullo sfondo per avventurarci alla scoperta dell’altro. Alla fine entrerà in campo anche la casualità, ma starà a noi essere presenti e disponibili, con gli occhi ben aperti e il cuore accessibile. Sarà la nostra personale motivazione, e non l’alchimia magica tra noi due, a garantirci una buona relazione. Se riusciamo a vedere gli altri separati da noi, accetteremo l’intollerabile umanità che l’altro manifesta, riusciremo a vedere le concrete e reali possibilità che esistono nelle relazioni anziché continuare a proiettare su di esse gli affari incompiuti del nostro passato. Usciremo così dal gioco perverso di sovrapporre all’immagine reale dell’altro una nostra fantasia o un nostro bisogno, che lo trasformerebbe inevitabilmente in una nostra proprietà, in un oggetto parziale che risponde ad una nostra esigenza. Rinunceremo a controllare i comportamenti e i pensieri del partner, per riconoscerne la reale separatezza, e non viverlo più come una protesi che deve gratificarci. Usciremo dall’ancorarci al passato e dalla compulsione a scegliere persone pericolosamente simili a quell’altro che ci ha fatto male o da cui non ci siamo ancora svincolati. La consapevolezza delle cose che ci sono mancate e l’elaborazione di questo lutto sono la strada che ci porta fuori dal tunnel. Gloria, Francesca, Paola e tante altre splendide donne stanno cercando di dar valore alla storia reale che possono creare insieme a questo uomo reale, stanno permettendosi di superare il cerchio malefico di idealizzazione iniziale e successiva delusione che, inevitabilmente, le porterebbe a cambiare spesso partner o, delusione dopo delusione, ad una rassegnata solitudine. Rosella De Leonibus della stessa Autrice PSICOLOGIA DEL QUOTIDIANO pp. 168 - i 20,00 COSE DA GRANDI nodi e snodi dall’adolescenza all’età adulta pp. 176 - i 20,00 (vedi Indici in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca i 15,00 ciascuno spedizione compresa richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail [email protected] 41 ROCCA 15 LUGLIO 2011 basica, diventa insopportabile, fino a che ci si comporta in modo così pesante da indurlo a rompere il legame. I difetti e le caratteristiche dell’altro vengono vissuti come un sopruso e, invece di negoziare le quote di potere, si avanzano dubbi sul coinvolgimento affettivo, logorando la relazione. Svicolare dall’intimità: diventare intimi comporta un certo livello di esposizione emozionale, ed è necessario accettare il limite di una unione mai completa, dove il livello di intimità sarà abbastanza alto da esporre la aree più vulnerabili, ma mai abbastanza da coprire e illuminare ogni angolo di solitudine e di distanza. Sfuggire alla sofferenza della crisi: ogni legame profondo inevitabilmente ci espone al dolore, neanche l’amore più bello e puro ci risparmia amarezze, non foss’altro la pena della trasformazione a cui ogni rapporto vivo deve assoggettarsi per non pietrificarsi e morire. Rimescolare le carte del rapporto, mobilizzare i ruoli tra vincitore e vinto, tra chi dà e chi riceve, chi agisce e chi subisce, e rimettere ogni volta in gioco la formula della relazione in una trasformazione alchemica, mentre rigenera la vitalità di ogni rapporto, chiede energia, flessibilità del proprio confine personale e alta capacità di adattamento. Mantenersi alla larga dal conflitto: c’è una quota di tensione che esiste comunque, nel gioco eterno tra intimità e differenziazione, tra l’appartenere e l’essere unici, nel gioco dialettico tra due soggetti che, proprio in quanto restano due, possono alimentare l’amore, dove l’incontrarsi si gioca al prezzo di quotidiani confronti, talvolta barriere, durezze e chiusure da rimettere in movimento attraverso una sana dose di conflitti. In quale di queste trappole è bloccata quella di noi che dispera orami di trovare l’amore? ISRAELE l’intreccio politico-religioso del f Marco Gallizioli S e il fondamentalismo è una delle linee più in voga dell’abito religioso contemporaneo, è chiaro che anche l’ebraismo ne venga interessato, soprattutto per l’influenza di alcuni movimenti della destra religiosa sionista. È altresì evidente, poi, che la seduzione fondamentalista e conservatrice della religiosità contemporanea contribuisce a riattivare, in Israele, le pulsazioni del nervo scoperto politico, che, da decenni, complica la convivenza tra ebrei e palestinesi. insegnamento interrogante ROCCA 15 LUGLIO 2011 Il dibattito tra un metodo più rigido e uno più morbido di interpretare la Torà, ossia l’insieme del corpus rivelato dell’ebraismo, era già in atto ai tempi di Gesù, quando si contrapponevano le scuole di Rabbi Shammaj e di Rabbi Hillel il Vecchio (1), la prima più conservatrice e rigida, la seconda più aperta e tollerante. Tuttavia, ciò che ha salvato per lungo tempo l’ebraismo da interpretazioni fondamentalistiche è l’idea di fondo che la Torà, per essere davvero compresa, vada continuamente studiata ed interrogata, come ricorda un celebre racconto che vede per protagonisti il maestro Hillel e un pagano. Il «Va’ e studia» che Rabbi Hillel avrebbe detto al pagano, quando questi, recatosi presso di lui, lo aveva provocato affermando che si sarebbe convertito all’ebraismo se Hillel gli avesse saputo spiegare l’essenza di questa religione nel tempo in cui il pagano fosse riuscito a mantenersi in piedi su una sola gamba, è il vero antibiotico che dovrebbe impedire all’ebraismo di chiudersi in un asfittico e autoreferenziale fondamentalismo (2). Se, come sostiene Hillel il «non fare agli altri quello che non vorresti sia fatto a te» è, in nuce, tutta la Torà, il «Va’ e studia» rappresenta il metodo attraverso cui questo insegnamento può essere messo in atto, la via, cioè, del pensiero interrogante, capace di problematizzare perché sospinge lo sguardo più in profondità e, di fatto, rende impossibile la chiusura fondamentalista. Con la modernità, tuttavia, anche all’interno dell’ebraismo si sono determinate frange di pensiero dai toni più scuri e 42 intransigenti, quasi sempre legati alla visione sionista, che hanno messo tra parentesi l’insegnamento interrogante di Hillel il Vecchio. il rischio delle critiche al sionismo Detto ciò, però, ci troviamo di fronte ad un problema alquanto complesso, dal momento che criticare il sionismo è operazione sempre delicata e non priva di rischi; un problema davanti al quale è bene, in perfetto stile ebraico, compiere un’indispensabile digressione. L’accusa di «antigiudaismo» e «antisemitismo» che questa analisi critica può richiamare su di sé è sempre in agguato e, in alcuni casi, a ragion veduta, se con «antigiudaismo» intendiamo l’avversione all’ebraismo in quanto religione storicamente data e, invece, con «antisemitismo» un atteggiamento di inaccettabile pregiudizio di stampo razzistico. È infatti pregiudiziale considerare il sionismo tout court come un’ideologia fondamentalista a sfondo religioso, ancorché si sia o meno d’accordo con le linee guida di un movimento che crede nella necessità di un ritorno alla terra promessa e, conseguentemente, della creazione di uno stato indipendente per gli ebrei. In primo luogo, con Piero Stefani (3), occorre osservare che il sionismo nasce come una sorta di messianismo laico, nel clima ottocentesco dei nazionalismi europei e come conseguenza dell’ideologia libertaria ed egualitaria che nel XIX secolo comincia a diffondersi. In questo periodo, in alcuni stati europei e negli Usa, gli ebrei escono da una plurisecolare condizione di «diversità» giuridica, sociale e religiosa, entrando lentamente, ma inesorabilmente a far parte del tessuto organico della società libera e democratica. Davanti a questo fenomeno, la cultura ebraica si orienta verso tre differenti direzioni: da un lato, vi è chi ritiene che occorra innovare il corpus tradizionale religioso affinché l’ebraismo possa uniformarsi alla contemporaneità, dando così origine al movimento riformista; dall’altro, vi è chi pensa addirittura alla necessità di un’assimilazione che comporti conversioni a li- oso del fondamentalismo ebraico una nuova legge dello Shabbath Nel 1977, quando l’ala nazionalista e ultraconservatrice dell’Agudat Israel diviene determinante per l’elezione a primo ministro di Begin del partito del Likud, i membri del gruppo non chiedono poltrone, ma pretendono alcune modifiche legislative capaci di incidere in senso ortodosso sulla vita degli individui e di Israele nel suo complesso. Reclamano, così, una nuova la legge dello Shabbath, per vincolare l’osservanza del sabato non solo in ambito pubblico, ma anche in quello privato, vietando l’apertura di cinema, teatri, centri sportivi, finanche giungendo a proibire le attività di atterraggio e di decollo dagli aeroporti nazionali alla compagnia di bandiera El Al. Le richieste legislative proseguono con l’approvazione della legge del kashruth che obbliga gli hotel ad assumere degli ispettori che sorveglino la preparazione del cibo, affinché avvenga secondo le regole della purità; o con la nuova legislazione matrimoniale, che conferisce solo ai rabbini il potere di celebrare matrimonio, impedendo di fatto che due persone appartenenti a differenti confessioni religiose possano regolarmente sposarsi; o, ancora, con la legge sulla regolamentazione del rientro in patria degli ebrei, secondo la quale, per ottenere la cittadinanza israeliana, non è più sufficiente dimostrare di essere ebrei, ma occorre poter esibire un attestato di ortodossia, ricevibile solo dopo a un colloquio circa la propria «condizione ebraica», e, in base alla quale, nessun rabbino riformato può officiare il culto entro i confini dello stato di Israele (6). la rigiudaizzazione Lentamente, così, si è fatta strada in Israele e in tutto il mondo ebraico una maniera di pensare la propria fede dai caratteri fondamentalistici, che coincide con un neomessianismo, di cui il sionismo è solo «un’ideologia superficiale, nutrita da forze più profonde il cui scopo è la ricostruzione del Regno di Dio nella terra di Israele» (7). Dentro questa cornice, ha trovato spazio anche il movimento dei coloni, composto da israeliani che, attraverso la politica degli insediamenti finanziati, perlomeno all’inizio, dalle casse dello Stato e con la protezione delle forze armate, si sono insediati ROCCA 15 LUGLIO 2011 vello religioso o, quantomeno, un maggiore mescolamento con i cristiani, attraverso, ad esempio, l’incentivazione dei matrimoni misti; e, infine, occupando una posizione intermedia, vi è chi si preoccupa di ridefinire un’identità collettiva ebraica. Costoro ricercano una modalità di essere ebrei che sappia fare i conti con la nuova condizione civica e sociale e finiscono con il generare un «ripensamento di sé come gruppo» da cui nascerà il sionismo (4), sotto forma di movimento il cui scopo diviene quello di restituire una terra ad un popolo troppo a lungo errante. In ambito cristiano, e particolarmente cattolico, tuttavia, si genera ben presto un pensiero «antisionista» su basi decisamente pregiudizali e pseudo-teologiche, di cui, sul finire dell’Ottocento, si farà portavoce la «Civiltà cattolica», organo ufficiale dei Gesuiti. I cardini dell’avversione al sionismo ruotano intorno alla questione dei luoghi santi e della colpa relativa all’accusa di deicidio, con la relativa condanna alla dispersione del popolo ebraico. Per il pensiero cattolico, infatti, era valida la cosiddetta teoria della sostituzione, in base alla quale la Chiesa viene a rappresentare il nuovo Israele, e, in conseguenza della quale, Gerusalemme, unitamente a tutti i luoghi santi, non può più essere rivendicata come terra degli ebrei. Inoltre, il ritorno alla terra promessa degli Ebrei viene visto in conflitto con la retorica antigiudaica secondo la quale Dio avrebbe punito gli ebrei per non aver accettato il vero Messia con la distruzione del tempio e con la diaspora eterna. È, quindi, anche per difendersi da tali pesantissime accuse che, lentamente, nel corso del Novecento si genera un pensiero religioso sionista, all’interno del quale assumerà sempre più rilievo la matrice di tipo fondamentalista, la quale finirà con il distanziarsi e con il criticare quel sionismo socialdemocratico e laico che, in qualche modo, aveva fondato lo stato di Israele all’indomani della Seconda guerra mondiale (5). 43 anche nei territori occupati, senza aspettare il pronunciamento internazionale e minando alle fondamenta i tentativi di costruire una convivenza pacifica con i palestinesi. In particolare, negli anni Ottanta alcuni esponenti di punta del movimento sionista Gush Emunim (Fronte dei credenti) si sono compromessi con il terrorismo antipalestinese, sposando sempre più marcatamente una linea antidialogica, il cui scopo è quello della rigiudaizzazione di Israele, liberandolo anche da quel sionismo laico e democratico, a loro giudizio, molle ed eretico grazie a cui era nato lo Stato. Tale rigiudaizzazione doveva avvenire anche attraverso la politica degli insediamenti forzati e i coloni vennero presentati alla società israeliana come dei nuovi pionieri, coraggiosi e puri, in grado di combattere contro il rischio della secolarizzazione di Israele e del suo scivolamento nelle spire di un velenoso materialismo consumistico. Il gruppo dei coloni intransigenti è cresciuto fino a raggiungere le 120.000 unità, una cifra cioè, così considerevole da non poter essere ignorata da alcun governo israeliano, per quanto moderato. A mano a mano che l’esercito dei coloni cresceva, è aumentato anche il numero degli insediamenti realizzati, ma non autorizzati dallo Stato, voluti da gruppi religiosi ultra-ordotossi e fondamentalisti, per i quali lo Stato di Israele dovrebbe estendersi ben oltre gli attuali confini geo-politici, recuperando, così, le dimensioni bibliche. Tuttavia, stabilire con precisione quali siano i confini del Grande Israele, secondo i parametri biblici, è operazione complessa, dal momento che, in diversi punti della Bibbia ebraica si fa ridello stesso Autore ferimento a estensioni differenti, come nel libro della Genesi (cap. 15, 18) o in quello del Deuteronomio (cap.1, 7-8 e 11, 24), o, LA RELIGIONE FAI DA TE ancora, in quello di Ezechiele (47, 15-20). il fascino Ma queste differenze non spaventano la del sacro retorica lineare del fondamentalismo: prinel postmoderno ma della guerra dei Sei giorni, del 1967, il pp. 112 - i 13,00 rabbino conservatore Kook, in un celebre discorso, aveva rivendicato con toni enfa(vedi Indice tici il diritto della bandiera di Israele a in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) sventolare su Hebron, Sichem e Gerico, con parole che non lasciavano spazio a per i lettori di Rocca nessun dialogo e che sono ancor oggi di i 10,00 anziché riferimento per il pensiero ultra-fondai 13,00 mentalista: «(...) Tutta la Transgiordania è spedizione compresa nostra. Ogni pollice, ogni striscia di terreno (...) appartiene alla terra di Israele. Abrichiedere a biamo il diritto di cederne anche un solo Rocca - Cittadella millimetro?» (8). La guerra dei sei giorni 06081 Assisi ebbe come obiettivo la conquista di tutti i e-mail [email protected] territori che il rabbino Kook aveva indica- ROCCA 15 LUGLIO 2011 ISRAELE 44 to, mettendo in luce la nuova questione centrale per i gruppi ultra-ortodossi e fondamentalisiti, ossia quella della riconquista di tutta la Terra promessa, del Erez Israel, del Grande Israele. troppi nodi irrisolti Il sionismo belligerante, fondamentalista e ultra-conservatore si scontra così con una visione più laica e riformista, secondo la quale, se l’idea di una patria per il popolo ebraico è irrinunciabile, è altresì vero che occorre trovare una soluzione pacifica allo stanziamento nella stessa area di un altro popolo, quello palestinese, ugualmente titolare del diritto all’indipendenza e all’autodeterminazione. Il discorso sul fondamentalismo, quindi, si tinge di altre sfumature in una zona nella quale troppi sono i nodi politici irrisolti, finendo col fornire alibi religiosi a chi, da una parte e dall’altra, ritiene il dialogo come una debolezza da rifiutare o, peggio, come una sorta di abiura alla verità. E, di fatto, il novembre 1995 tale visione ha legittimato Yigal Amir, che faceva parte del gruppo estremista «Eyal», nutrito dell’ideologia Kookiana e accecato dal furore letteralista del fondamentalismo, ad uccidere l’allora primo ministro Rabin. Amir ha finito con lo spiegare il suo gesto chiamando in causa Dio, che gli avrebbe assegnato tale orribile compito. Ancora una volta, se mai fosse necessario sottolinearlo, appare evidente come un certo fondamentalismo si senta in diritto a parlare per Dio, un dio dichiarato onnipotente, ma che si rivela meschinamente piccolo e troppo, davvero troppo, compromesso con gli egoismi umani. Marco Gallizioli Note (1) A. Degrâces, Il giudaismo e la lettura religiosa della storia del popolo ebraico, in F. Lenoir-Y. T. Masquelier (a cura di), La Religione, vol. I, p. 438. (2) P. De Benedetti, Introduzione al giudaismo, Morcelliana, Brescia 1999. (3) P. Stefani, L’antigiudaismo. Storia di un’idea, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 208. (4) Ib., p. 208. (5) L. Ozzano, Fondamentalismo e democrazia. La destra religiosa alla conquista della sfera pubblica in India, Israele e Turchia, Il Mulino, Bologna 2009. (6) G. Kepel, Fondamentalismi religiosi. Cristianesimo, ebraismo, islam, Carocci, Roma 2003, p. 131. (7) Ib., p. 136. (8) Ib., p. 181. MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO Ferdinand de Saussure l’invenzione dello strutturalismo P to per tre aspetti: l’affermazione del carattere storico e sociale della lingua; la distinzione tra la langue (la base comune da cui dipendiamo) e la parole (il modo in cui individualmente utilizziamo la langue); il riconoscimento della lingua come un sistema. natura, società, creatività La lingua è nella storia e basta fare la storia della lingua per capirlo. Sostenendo questa verità elementare ma rivoluzionaria lo studioso svizzero ha rotto il rapporto metafisico che legava le parole e le cose, mostrando come questo rapporto sia convenzionale. Dire convenzionale non significa dire casuale. Una convenzione non è il capriccio di un singolo ma una regola condivisa che risponde a esigenze sociali di comunicazione e di senso. Saussure ha sostituito nello studio dei fatti linguistici la natura con la cultura, con la società. Domandandosi cos’è la lingua, risponde che «essa è al tempo stesso un prodotto sociale della facoltà del linguaggio ed un insieme di convenzioni necessarie, adottate dal corpo sociale per consentire l’esercizio di questa facoltà ne45 ROCCA 15 LUGLIO 2011 Stefano Cazzato uò un pensatore nato nel 1857 e morto nel 1913 rappresentare ancora oggi un riferimento assoluto? È il caso di autori come Ferdinand de Saussure ormai assurti al ruolo di classici moderni: sono dei monumenti, sembrano lontanissimi, ma hanno ancora molto da dire. Un grande interprete come Tullio De Mauro ha stilato l’elenco delle parole chiave che grazie a Saussure sono entrate nella linguistica e nella cultura contemporanea: sincronia, diacronia, segno, significante, significato, sintagma, fonema, esecuzione, sistema, opposizione e molte altre. È evidente che Saussure è il primo grande autore che bisogna imparare a conoscere quando si decide di lavorare sul linguaggio e col linguaggio. Ma non solo i linguisti (da Martinet a Hjelmslev, da Jakobson a Chomsky) gli devono molto. Filosofi, antropologi, semiologi, critici letterari e storici delle idee attraverso opportuni adattamenti hanno importato nei rispettivi ambiti spunti, suggestioni e metodi del grande studioso svizzero il cui Corso di linguistica generale è un’opera di svolta nell’ambito delle scienze umane soprattut- gli individui». Se esiste una facoltà naturale, non è la lingua ma «la facoltà di costituire una lingua», di produrre dei segni che significano qualcosa. Come in un sistema di scatole cinesi si potrebbe dire che questa facoltà (naturale) contiene potenzialmente la langue (sociale) che a sua volta contiene potenzialmente la parole (individuale). Arriviamo così a una delle intuizioni più importanti di Saussure: «La parole è un atto individuale di volontà e di intelligenza... con cui il soggetto parlante utilizza il codice della lingua in vista dell’espressione del proprio pensiero personale». L’individuo non può creare né modificare la lingua, che è frutto di un patto comunitario vincolante, ma può utilizzarla in modo personale, creativo e insolito. Può fare con la lingua cose che nessuno ha fatto ma che tutti sono in grado di comprendere visto che usano il suo stesso codice. Se poi quest’uso creativo s’impone socialmente, allora entra a far parte del patrimonio stabile della lingua che in tal modo evolve. Ma perché un atto di parole sia intellegibile, deve comunque essere in contatto con la lingua, operare al suo interno, quindi presupporla. Se così non fosse un’esecuzione verbale non significherebbe nulla, non comunicherebbe alcunché. In questa dialettica tra vecchio e nuovo, tra equilibrio e instabilità, tra la langue come sapere depositato nella cultura e la parole come fare attivo dei soggetti parlanti, tra fatti linguistici acquisiti e creazioni linguistiche sta il movimento della lingua, il suo carattere diacronico, il suo rinnovarsi. Attraverso queste distinzioni fondamentali, Saussure precisa lo statuto epistemologico delle nuove scienze del linguaggio. Alla semiologia tocca il compito di studiare la dello stesso Autore facoltà di costituire una lingua come sistema di segni. Alla linguistica della langue il Stefano Cazzato compito di studiare la lingua come fatto Giuseppe Moscati sociale mentre alla linguistica della parole MAESTRI il compito di studiare gli atti individuali. MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO DEL NOSTRO TEMPO pp. 240 - i 20,00 tra diacronia e sincronia C’è un ultimo aspetto da ricordare, forse il (vedi Indice più importante, quello che ha dato il via in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) alla cosiddetta rivoluzione strutturalista: ROCCA 15 LUGLIO 2011 il riconoscimento della lingua come siste- per i lettori di Rocca ma autonomo di segni che rimandano i 15,00 anziché i 20,00 l’uno all’altro. spedizione compresa Da dove viene, si chiede Saussure, il valorichiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail [email protected] 46 . re di un elemento linguistico ad esempio di una parola? Dal fatto che quella parola corrisponde a una cosa esterna alla lingua o dal fatto che quella parola è in rapporto con altre parole della lingua? Il significato della parola «uomo» non dipende da quello che c’è al di fuori della parola (un oggetto fisico, un’essenza metafisica) ma dalla sua relazione con parole come «bambino» e «donna» con cui entra in un certo rapporto. Il valore di «uomo» sarà ricavato in modo differenziale rispetto a «bambino» e «donna». La linguistica non dovrà considerare i riferimenti esterni ma i rapporti interni alla lingua, la sua struttura, l’interdipendenza delle sue parti (fonemi, morfemi, frasi) e delle parti con il tutto. Lo studio diacronico, della lingua attraverso il tempo, non può prescindere da quello sincronico, della lingua come sistema simultaneo di parti coesistenti. Perché un’impostazione del genere è così rivoluzionaria e non solo per la linguistica? Perché la lingua, da questo momento in poi, è liberata dai principi dell’essere e studiata a partire dai suoi propri principi. Da semplice riflesso di un mondo unico, la lingua diventa un mondo a sé, articolato autonomamente pur nel suo indissolubile radicamento storico e sociale. Su questa strada inaugurata da Saussure l’antropologia contemporanea rivendicherà il carattere autonomo delle culture come sistemi di valore che si autogiustificano. Si dirà con sempre maggiore forza che le culture non possono essere misurate da criteri esterni di giudizio né da un modello normativo di sviluppo, perché ogni cultura ha norme e criteri che andranno compresi dall’interno. Stefano Cazzato per leggere Saussure F. de Saussure, Corso di linguistica generale, Laterza, Roma-Bari 1985. su Saussure G. Mounin, De Saussure. La vita, il pensiero, i testi esemplari, Sansoni, Firenze 1971. R. Amacker, T. De Mauro, L. J. Prieto (a cura di), Studi saussuriani per Robert Godel, Il Mulino, Bologna 1974. J. Starobinski, Le parole sotto le parole: gli anagrammi di Ferdinand De Saussure, Il Melangolo, Genova 1982. R. Raggiunti, Problemi filosofici delle teorie linguistiche di Ferdinand de Saussure, Armando, Roma 1982. T. De Mauro, Introduzione, Id., in Corso di linguistica generale, Laterza, Roma-Bari 1985. R. Simone, Il sogno di Saussure. Otto studi di storia delle idee linguistiche, Laterza, RomaBari, 1992. S. Avalle D’Arco, Ferdinand de Saussure fra strutturalismo e semiologia, Il Mulino, Bologna 1995. M. De Palo, La conquista del senso. La semantica tra Bréal e Saussure, Carocci, Roma 2001. NUOVA ANTOLOGIA Inoue Yasushi la penna come una lama A romanzi storici, anzi no Laureatosi con una tesi sull’opera estetico-poetica di Paul Valéry, Yasushi mostra da subito una scrittura accattivante e fluida. Risalgono al 1947 i primi due racconti, Ryoju e Togyu, che tre anni più tardi concorrono a fargli ricevere il prestigioso premio Akutagawa. Tra il 1953 e il ’54 egli scrive Furikanzan, in cui parla di Vento, foreste, fuoco e monti; ma in Italia si sarebbe dovuto attendere il ’64 per apprezzare qualcosa di Yasushi: La montagna Hira è il titolo sotto il quale Bompiani accorpava, insieme all’omonimo scritto, anche Il fucile da caccia (su cui torneremo) e La lotta dei tori. Innamorato della figura di Leonardo da Vinci, Yasushi è prevalentemente autore di romanzi, ma non ha mai disdegnato il linguaggio poetico e diverse volte si è misurato, con esiti significativi, anche con la saggistica, il giornalismo e la critica dell’arte. I suoi romanzi rientrerebbero nel filone del romanzo storico (seiki mono), trattandosi per lo più di narrazioni ambientate nel tardo Cinquecento e che si muovono tra scenari giapponesi e altri contesti asiatici, eppure per più di un motivo finiscono per fuoriuscirne. Come accade per Koshi (1982), biografia romanzata di Confucio. dietro il tè, la dissidenza L’agile libro di Yasushi Honkakubô ibun (Il testamento di Honkakubo o Gli scritti postumi di Honkakubo) ha ispirato un film, regista Kei Kumai, pellicola arrivata in Italia come Morte di un maestro del tè (Leone d’argento nel 1989 a Venezia). Ovvero morte di quel monaco buddhista zen Sen no Rikyu (1522-1591) che – insieme ai suoi predecessori Murata Shukô (1423-1502) e Takeno Jôô (1502-1555) – ha reso la cerimonia del tè giapponese, per via antropologico-artistica, un vero e proprio rito codificato secondo la formula del wabi-cha. Quest’ultima, in estrema sintesi, prevede un rapporto diretto tra il maestro del tè e il suo discepolo basato anche sull’idea della trasmissione orale dei principi del Dharma buddhista. Questo libro, che risale al 1979 (edito nel 1982) e in verità legato al racconto breve La storia di Rikyu scritto quasi trent’anni prima, ospita addirittura ottantacinque personaggi, anziani e tutti uomini. Ma un posto di primo piano è riservato al discepolo Honkakubo, il quale si inoltra nel fitto mistero della pratica dell’harakiri, il suicidio di alcuni maestri del tè e del suo stesso maestro Rikyu. Ne esce fuori una storia di elogio esasperato della libertà di ogni artista e una testimonianza di dissidenza nei confronti del potere ufficiale. la fune tagliata, il fucile luccicante e il meccanismo rotto La corda spezzata è un crocevia di persone e sentimenti in tensione tra loro. C’è la storia angosciosa di Kosaka, un giovane alpinista che muore durante una scalata invernale e il cui cadavere viene recuperato solo in primavera; ma anche quella altrettanto angosciosa di Uozu, il suo compagno di cordata costretto a difendersi con i 47 . ROCCA 15 LUGLIO 2011 Giuseppe Moscati nche se da noi lo si conosce poco, Inoue Yasushi (Asahikawa, 1907 – Tokyo 1991) è da considerarsi sicuramente una delle penne più interessanti della letteratura giapponese contemporanea. Certo è che a una prima lettura la sua opera può apparire, distante com’è dai nostri canoni letterari occidentali, impenetrabile e ‘fredda’. Proviamo a vedere perché lo sembra e perché poi di fatto non lo è. NUOVA ANTOLOGIA denti perché accusato di aver tagliato la fune di Kosaka per salvarsi la pelle; c’è il dolore di Kaoru, la sorella di Kosaka; ci sono poi i sospetti e le congetture di Yashiro Kyonosuke, che indaga sul caso di omicidio/suicidio/disgrazia. E c’è Minako, giovane e attraente sposa di quest’ultimo, ma che non piace solo al marito… Yasushi tira i fili delle sue a tratti tragiche marionette, ma non si sporge mai da dietro le quinte del suo teatrino. Con il romanzo breve Il fucile da caccia (1947), che piace subito alle nuove generazioni giapponesi che vivono il dopoguerra, assistiamo ai movimenti lenti di un cacciatore algido e solitario, dal fucile luccicante e dalla strana bellezza «umida di sangue». Di lui parlano i versi di un piccolo poema ospitati in «L’amico del cacciatore», rivista mensile di un’associazione venatoria. Accanto e dietro a lui, troviamo un altro uomo, il ricco Misugi Jôsuke, che scrive al poeta per comunicargli che egli si ritrova nel personaggio del cacciatore; poi tre donne, tradimenti, tre lettere e il diario di una suicida, ma soprattutto storie dell’amare e dell’essere amati, non prive di grandi sofferenze, segreti, finzioni e qualche senso di colpa. Anche qui Yasushi non giudica mai. In Ricordi di mia madre, attraverso una narrazione autobiografica che in parte svela e in parte nasconde, leggiamo di una anziana madre che a volte torna bambina e che quasi sempre assomiglia a un «meccanismo rotto», fatto di memoria e oblio, un insieme di componenti integre e componenti compromesse. Lo scrittore, manco a dirlo, non si fa mai coinvolgere più di tanto. O almeno così è in apparenza… arriva l’amore, sparisce l’amore ROCCA 15 LUGLIO 2011 L’agile raccolta Amore mette insieme tre racconti che narrano di sentimenti nitidi e algidi, aguzzi, spigolosi, affilati e taglienti nonché sicuri di sé, privi di incertezze, di dubbi, di chiaroscuri, di ambiguità e quindi «implacabilmente evidenti alla coscienza» (Laura Lilli) e conferma la distanza siderale con il modo occidentale di intendere l’amore. Tutti e tre questi racconti si fanno ricordare, eccome, se non altro per via del loro spregiudicato metodo narrativo: ognuno di essi presenta una storia, vi fa balenare un lampo chiamato amore che poi, subito dopo aver folgorato protagonisti e lettori, svanisce con la stessa rapidità con cui era balzato dentro la storia. In mezzo, nessuna giustificazione di tale fugacità né alcun 48 . abbozzo di ragionamento attorno a quel sentimento che peraltro, seppure presente per pochi istanti, inesorabilmente informa di sé tutti e tre i racconti. Come quando, per esempio, campeggia sulla scena la decisione di un suicidio di coppia (La morte, l’amore, le onde), ma di un uomo «disonorato» e una donna delusa dall’amore che non si conoscono. Sugi e Nami per il loro folle gesto scelgono lo stesso posto, una scogliera a strapiombo sul mare, anche se con un giorno di distanza l’uno dall’altra. Prima del tragico momento trascorrono tra infiniti silenzi gli ultimi due (lei) e tre giorni (lui) in un albergo superlussuoso, dove non v’è nessun’altro cliente e dove Sugi si sprofonda nella lettura di un libro di ambientazione storica mongola. Di botto, senza preavvisi o minimi coinvolgimenti passionali, giunge improvviso l’amore o quello che (per noi) vagamente gli assomiglia. Come quando, ancora, un uomo si avvicina ancora di più alla moglie dopo che lei muore (Anniversario di matrimonio), ma entrambi condividono una vita di ristrettezze prima scelta obbligata e poi, dopo una grossa vincita, volontaria. Come quando, infine, nel contesto difficile di un matrimonio combinato, durante il viaggio di nozze i due novelli sposi vanno a Kyoto a visitare un giardino roccioso (Giardino di rocce) – luogo molto importante ed evocativo per lui – e lei a un tratto sparisce. Il marito quasi non reagisce, non fa nulla per opporsi al destino cinico e baro, come avrebbe detto Giuseppe Saragat. Giuseppe Moscati per leggere Yasushi I. Yasushi, Amore. Tre racconti, Adelphi, Milano 2006. Id., Il fucile da caccia, Adelphi, Milano 2004. Id., La corda spezzata, CDA & Vivalda Ed., Torino 2002. Id., La montagna Hira, Bompiani, Milano 1988 (I ediz., 1964). Id., Ricordi di mia madre, Spirali, Milano 1985, poi Feltrinelli, Milano 1991 e Adelphi, Milano 2010. Id., Vita di un falsario, Il Melangolo, Genova 1995. su Yasushi F. Di Mattia, Inoue Yasushi. La poesia che apre le porte alla vita, http://www.railibro.rai.it/ recensioni.asp?id=182 L. Lilli, Gli affilati sentimenti del Giappone [sulla raccolta Amore di Yasushi], La Repubblica 18 novembre 2006. & V VIZI Filippo Gentiloni on è facile annoverare fra le virtù anche l’allegria, come non è facile elencare fra i vizi la tristezza. L’una e l’altra sfuggono all’etica e sembrano trovare rifugio soltanto nella psicologia. Non è così, ma occorrono alcune precisazioni. Allegria non è felicità nè gioia, anche se è stretta parente dell’una e dell’altra. L’allegria si può fingere, la felicità no. Vicina all’allegria è la letizia, un termine antico, di sapere quasi monastico, comunque profondo. L’allegria, dunque, si può volere? Fino a un certo punto Si può educare – educarsi – all’allegria, se non proprio alla felicità. Un certo modo di considerare le vicende della vita, di ridimensionarle. Un certo modo di vedere la vita e soprattutto l’io, abbassandolo dal trono: un certo distacco e un certo sorriso. Soprattutto un certo modo di vedere gli altri. Compito difficile di tutta la vita, ma ci si può riuscire. Il contrario dell’allegria, allora, non è tan- N to la tristezza quanto l’egoismo: accentramento su di sé e sui propri guai. Il cannocchiale puntato sul proprio ombelico. Virtù politica, dunque, la allegria. Anche se l’uomo politico spesso brilla per una certa tristezza: un volto dominato spesso dall’interesse. Quel tipo di sorriso giocato sugli specchi e sulla macchina da presa, invece che sulla realtà. L’allegria non fa parte del mercato. Perciò è rara, come tutto ciò che è gratuito e che non si può comprare. Appare quasi inutile. Ma se è una virtù, come educare all’allegria sé e gli altri, soprattutto i giovani? Educazione a uscire da sé: non chiedere troppo, in fatto di soldi, di carriera, di auto sempre più belle. L’allegria è proprio sorella della austerità. La austerità allegra che del bicchiere osserva che è mezzo pieno invece di lamentarsi perché è mezzo vuoto. Un certo tipo di scuola, dunque, ma anche di famiglia e anche di chiesa. Francesco di Assisi che, anche morente canta ai confratelli invitandoli alla perfetta letizia. 49 ROCCA 15 LUGLIO 2011 VIRTÙ Jacques Nobécourt Vaticano dietro le quinte ROCCA 15 LUGLIO 2011 Giancarlo Zizola 50 urioso insaziabile dei segreti del presente come di quelli della storia, Jacques Nobécourt non poteva più spostarsi fuori del suo appartamento parigino negli ultimi degli 87 anni della sua vita, conclusasi il 29 maggio 2011 a Parigi. E una delle sue pene maggiori – mi scriveva – era di non aver avuto la forza di venire in questa basilica di Santa Maria in Trastevere, per essere presente ai battesimi dei suoi nipotini, i due figli di Anais e di Marco, due piccoli ragazzi – diceva – che «portano tutte le mie speranze». Lo posso testimoniare: Roma sollevava in lui dei sentimenti controversi, una nostalgia «profonda ed intatta», diceva del decennio del suo ufficio di corrispondente romano di Le Monde, ma anche il peso schiacciante dell’agnosticismo, certe «ferite dell’anima». «La mia pietà molto clericale è crollata sotto il clima di Roma». Sono alcuni frammenti di una autobiografia intima e drammatica che egli mi affidava nei più recenti messaggi, quando sentiva ormai che il tempo che gli era stato accordato era divenuto impreciso. Questo scambio di pensieri estremi fra noi prolungava le nostre complicità degli anni Settanta, quando le consultazioni regolari sulla vita vaticana sotto Paolo VI e le contraddizioni del suo riformismo postconciliare, già troppo frenato, facevano del nostro lavoro di osservatori un’interfaccia analitica, nell’autonomia rispettiva, a beneficio dei lettori di «Le Monde» e del «Giorno». Il mondo dell’informazione religiosa, e la sottospecie dei «vaticanisti», devono molto a Jacques Nobécourt. Anzitutto per le qualità del suo approccio agli avvenimenti della Chiesa: fermezza e discrezione, chiarezza della riflessione, allontanamento da ogni clericalismo. La lezione che egli ci ha offerto rimane: un ostinato rigore nell’approccio analitico alle questioni della Chiesa, per captare il senso profondo degli avvenimenti, al di là delle correnti di superficie, accanto a una laicità rispettosa, direi porosa (per non dire inclusiva) dinanzi a quella riserva misteriosa che giaceva, troppo spesso occultata e schiacciata sotto il peso della C Cupola, dentro la Chiesa cattolica. In secondo luogo, il suo merito va riconosciuto per il ruolo che ebbe nel dissodare il terreno già agli inizi degli anni Settanta del Novecento perché la Santa Sede pervenisse a riconoscere uno statuto del diritto di informazione per i giornalisti, e ad adottare linee avanzate di riforma del sistema della comunicazione della Chiesa, istituendo una moderna Sala Stampa, allora inimmaginabile. Non fu un’impresa facile anche se Nobécourt ebbe la fortuna di trovare Oltre Tevere degli interlocutori sensibili come il segretario di Stato cardinale Jean Villot. Lo stesso ruolo di pioniere lo ebbe agli inizi del 1970 nella fondazione di una Associazione fra i giornalisti vaticanisti, in riunioni quasi carbonare alle quali, fra gli altri, era presente Padre Roberto Tucci, accanto a Jean Neuvecelle, a Enzo Forcella e a me stesso. Era utopico lavorare per un diverso assetto degli equilibri tra le ragioni dell’informazione e quelle del potere nella Chiesa romana? Non sempre la sua critica al clericalismo e all’agiografia cortigiana di quelli che disprezzava come «pii imbecilli» era percepita come un contributo fondamentale al rinnovamento della vita della fede cristiana. Una volta – era nel 1972 – manifestò delle riserve sul trionfalismo delle feste per i 75 anni di Paolo VI e «Le Monde» fu rimproverato dall’Osservatore Romano. Credo sia interessante risentire la sua replica, non fosse che per l’attualità che riveste: «È decisamente molto difficile esprimere sulla Santa Sede o sull’attività del papa un apprezzamento che non appaia come marcato dall’ignoranza o dalla denigrazione, ove non sia strettamente laudativo. Talora si ha il sentimento che certe personalità del Vaticano vorrebbero che i giornalisti si ispirassero all’esempio di Racine e di Boileau quando cantavano il passaggio del Reno da parte di Luigi XIV». Quale non fu la sua allegria quando seppe che Paolo VI, il 24 gennaio 1974, aveva letto nel testo originale integrale, senza trovare alcunché di riprovevole, l’indirizzo di omaggio, di impronta rispettosamente laica che Nobécourt gli avrebbe poi indirizza- ria romana. Era uno schema antico e consueto che si riproduceva. Mi confidava che, al suo ritorno a Parigi, Fauvet, il direttore del Monde, gli aveva detto «con estrema chiarezza di aver ceduto a un passo dell’ambasciata d’Italia, che reclamava il suo richiamo per due motivi: le mie posizioni di sinistra in politica interna e la mia attività con i riformisti, fra i quali tu». «Vecchie storie» aggiungeva. «Lasciamo perdere». Infine, i suoi frammenti autobiografici della penultima ora narrano di un uomo che fa i conti con la sua ricerca costante dell’assoluto. Lo aveva impressionato, dell’intero mio libro autobiografico Santità e Potere (Sperling, 2007) l’episodio della preghiera, nella cripta di Assisi, e i passaggi in cui, «con ogni discrezione tu evochi la preghiera. Io ti invidio e ti ringrazio». Sincero con sé stesso, egli scrutava la vicenda travagliata del suo vissuto interiore: «Bisogna che ti dica brevemente che dopo quarant’anni il ricordo del mio soggiorno romano mi riporta gli schiacciamenti dell’agnosticismo e la desolazione di constatare l’allontanamento di molti da una Chiesa in cui i giochi di carriera apparenti mascherano ciò che può rassomigliare alla fede. La mia educazione di gioventù, modellata sull’ultramontanismo e su una pietà molto clericale, si è affondata sotto il clima di Roma. Le ferite dello spirito che mi aveva inflitto il mondo ecclesiastico, cioè l’enorme forza di ipocrisia che camuffa il suo accanimento a godere del potere, l’indulgenza senza limiti per tutti i chierici, associata a una durezza implacabile per i laici. C’è una formula più spregevole di quella della ‘riduzione allo stato laicale’? (...). E poi, i misfatti commessi dall’educazione religiosa della mia giovinezza, insistendo sui peccati della carne, trascurando tutto il resto del messaggio. Ci hanno strangolato nella stretta disciplina, per me almeno. Il miglior ricordo che conservo di un prete a Roma è quello di padre Tucci e di padre Sorge. Essi mi sono apparsi totalmente onesti con se stessi e con i loro interlocutori». «Ciò che potrebbe somigliare alla Fede». Ancora una volta, una nostalgia, ma allo stesso tempo una delusione e una ricerca, di impronta agostiniana. Avevano già il valore di un lascito le sue parole all’amico, il 13 agosto 2009: «Nei momenti ultimi che si avvicinano per me, una sola parola mi dà un poco di pace, quella di Paul Claudel alla sua fine. ‘Infine, sto per sapere’». «Enfin, je vais savoir». Giancarlo Zizola dello stesso Autore FEDI E POTERI nella società globale pp. 224 - i 25,00 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca i 18,00 anziché i 25,00 spedizione compresa richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail [email protected] 51 ROCCA 15 LUGLIO 2011 to come presidente dell’Associazione della Stampa Estera in Italia, ricevuta in udienza, mentre alcuni ufficiali si erano affrettati a imporre a quel testo delle ormai inutili censure. Con la stessa lucidità esigente si era accostato alla figura di Pio XII, non cedendo alle facilità apologetiche sul dramma dei suoi dilemmi sulla Shoah. E fino agli ultimi tempi, contendendolo alla malattia, aveva lavorato nuovamente sull’«Affare Pio XII», scartando risolutamente ormai la diatriba sul tema del «silenzio» e delle relazioni con gli Ebrei, per tentare unicamente di comprendere il perché questo papa fosse stato preso come capro espiatorio in un affare puramente tedesco: al punto che da allora – diceva – i nazionalismi tedesco e francese avevano deciso di passare al secondo piano le relazioni con il papato. La sua ambizione era di fare una storia pura, «senza interventi della teologia come filosofia della storia, né agiografia né polemica. Soprattutto – diceva – senza stile ecclesiastico!». Eppure, si poteva apprendere da Jacques anche la capacità di discernere con realismo, più di quanto fosse consentito ai miei entusiasmi conciliari, la necessità della dimensione istituzionale e anche politica della Chiesa. Alla presentazione pubblica nel 1973 del mio Utopia di Papa Giovanni: disse chiaramente di non credere che la politica più pertinente ed efficace per la Chiesa fosse di tornare all’annuncio profetico del Vangelo, era convinto che Roncalli fosse affetto da «cecità politica» e che « una Chiesa che voglia essere incarnata debba avere dei rapporti politici. Dunque deve gestire una diplomazia e fare politica, non teologia». «Come potrebbe conciliarsi – si interrogava – la neutralità della Chiesa con la rivendicazione di un giudizio chiaro e preciso sul Vietnam o sul Cile?». Egli stesso aveva fatto la prova della forza di questo corpo istituzionale quando, coinvolgendo l’ausiliare di Parigi mons. Daniel Perezill, il segretario personale di Paolo VI mons. Pasquale Macchi e il presidente Georges Pompidou, era riuscito a strappare dalle mani assassine dei golpisti cileni un giovane franco-cileno e a rifugiarlo in salvo all’ambasciata francese a Santiago. Eppure, quando suonò anche per lui l’ora di lasciare l’incarico romano, egli dovette ammettere che nel suo esilio – per dire il nome proprio della sua partenza – avevano giocato insieme il governo italiano e la cu- AMORIZZARE IL MONDO Arturo Paoli Dio ha bisogno di I l cristianesimo presenta una caratteristica che lo distingue da tutte le religioni, ed è quella che Gesù stesso definisce in un’accusa ai dottori dell’ebraismo: «gli si avvicinarono i farisei e i sadducei per metterlo alla prova e chiesero che mostrasse un segno dal cielo. Egli rispose: quando viene la sera dite sarà bel tempo, poiché il cielo rosseggia, e la mattina: oggi ci sarà burrasca, poiché il cielo è rosso cupo. Sapete, sì, giudicare l’aspetto del cielo, ma non sapete discernere i segni dei tempi. Generazione malvagia e spergiura! Chiede un segno, ebbene le sarà dato; ma solo quello di Giona. E lasciatili, se ne andò» (Mt 16, 1-4). il segno su cui puntare ROCCA 15 LUGLIO 2011 Prendere coscienza dei segni dei tempi è essenziale per l’evangelizzazione, e penso che questa denunzia di Gesù sia attuale oggi come al tempo cui allude il Vangelo. La scena si conclude con questa breve denunzia: Gesù si allontana, nulla da fare con voi, tutto inutile. Qual è oggi il segno cui dovremmo puntare il nostro sguardo? Il capitalismo che ha contaminato molti degli eventi e delle scelte di questa epoca. Ha creato un numero crescente dei miserabili che vivono con noi, un eccesso per un numero sempre più ristretto di persone. La distribuzione folle della ricchezza credo sia una delle cause fondamentali che ha fatto del nostro popolo italiano ritenuto un popolo di grandi tradizioni, un popolo cialtrone. Ricordo nella mia adolescenza di essere stato partecipe di una certa mentalità diffusa che scoprivamo nelle conversazioni dei genitori con i loro amici e vicini, che scivolavano spesso sugli stranieri che arrivavano alla nostra città. Li vedevamo fermi per lunghi tempi con i loro binocoli davanti a una facciata romanica delle nostre chiese assai numerose, per noi così familiari da stupirci di scoprirle così attraenti per turisti che venivano da lontano. I poveri non erano miserabili ed erano oggetto di assistenza talvolta molto affettuosa. L’avvento del capitalismo ha travol52 to le classi sociali distruggendo la povertà come valore essenziale del cristianesimo, argomento su cui tornerò più tardi. Ho portato con me nella mia lunga vita, ad oggi, un episodio. Fui chiamato a dare una settimana di riflessioni sulla spiritualità ad una recente fondazione di monaci di clausura in gran parte stranieri. La linea di spiritualità era quella apparsa recentemente nel film Uomini di Dio. Non ricordo il contenuto della mia riflessione sulla povertà, ricordo che impressionò molto un monaco che veniva dagli Stati Uniti, che chiese di conversare privatamente con me. La conversazione si protrasse assai a lungo, in un tono fraterno. Il monaco aveva fatto dei lunghi soggiorni in paesi poveri e ne era uscito con una impressione assai critica: voi tutti cristiani volete la povertà e noi vogliamo la ricchezza per tutti. La frase in sé non mi offese perché il clima dell’incontro era veramente fraterno, ma forse non mi ero spiegato bene sulla povertà evangelica. Oggi l’avanzata del capitalismo è arrivata a spegnere ogni idealismo colpendo a morte il cuore del cristianesimo, tanto da ispirare uno scrittore esperto in psicologia umana un libro dal titolo La morte del prossimo. Io sono convinto della eternità del messaggio di Cristo, e penso di contribuire anche se con povere forze a ritrovare il senso della prima beatitudine, e non a caso prima: beati i poveri in spirito. quale povertà La Chiesa cattolica non pare in grado di aiutare questo rinnovamento che piuttosto chiamerei rinascita. È troppo impegnata nel difendere la sua sintesi dottrinale, e trascura i segni dei tempi come i dottori della sinagoga denunziati da Gesù. È un ebreo colui che ha compreso realmente Gesù (1), dopo averlo odiato come documentano alcuni suoi scritti di gioventù, capendo a fondo il senso della passione e della crocifissione, che chiaramente per lui è l’opposizione chiara al peccato umano di hybris. Il Cristo povero e nudo, inchiodato sulla croce, è il vero e unico vittorioso del nemico no di te non una dottrina ma un’amicizia Questo mostrarsi di Gesù come la soluzione vera alternativa a queste morti caratteristiche del nostro tempo, la cui alternativa sono gli strumenti della tecnica che occupano tutto il tempo dell’uomo impedendogli così di cercare un senso vero alla sua vita, è la situazione più comune in cui troviamo giovani e meno giovani nei nostri incontri. La Chiesa nelle sue offerte di tipo catechetico non può essere desiderabile per la gioventù alienata da questi strumenti. L’alternativa non può essere che l’Amico che viene incontro con un tipo di amicizia diversa da quella che noi chiamiamo con il nome di amicizia. Gesù infatti non ha lasciato una dottrina, ha lasciato dei testimoni che sono i veri esperti di una vera amicizia. Ecco uno dei principi che la Chiesa dovrebbe accettare per risolvere la crisi presente. Il solo messaggio che il Cristo vuole trasmettere oggi è questo: il Cristo ha bisogno di te. E il testimone può garantire attraverso la sua stessa esistenza, che il senso della sua vita è questo e solo questo. È solo così che possiamo trasmettere la forza della resurrezione. Bisogna dire ai giovani che la vita vera, autentica, senza limitazioni nello spazio e nel tempo, è quella pensata in Gesù. È solo questo che può presentare una alternativa a coloro che sono alienati dai desideri di cose senza vita. Si è sempre detto che il giovane è generoso e che ama i progetti audaci. Oggi il progetto è salvare il mondo. Bisogna sottrarre il giovane al fascino degli oggetti che occupano le sue mani togliendogli il tempo di pensare al vero senso della sua vita. È una vera forma di trasmettere la fede quella che dovremmo iniziare noi credenti al grido: Dio ha bisogno di te. dello stesso Autore ANCORA CERCATE ANCORA pagg. 160 - i 20,00 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca Arturo Paoli i 15,00 anziché i 20,00 spedizione compresa Note (1) E. Lévinas, Tra noi, Jaca Book Milano 1998, pp. 85-92. (2) A. Rizzi, Cristo verità dell’uomo, Cittadella, Assisi 2010, p. 352. richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail [email protected] 53 ROCCA 15 LUGLIO 2011 della pace, ed è impossibile pensare a eliminare guerre e conflitti se non con la sconfitta della hybris e la scoperta del vero senso della povertà che non è l’equivalente della miseria. Il mondo cristiano continua a seguire il Cristo come il salvatore dell’anima e non come il costruttore di una società diversa. Teilhard de Chardin è stato emarginato per avere approfondito il senso della vita terrena e della morte di Gesù come progetto di amorizzare il mondo. L’epoca nostra è caratterizzata da diverse morti: morte di Dio – morte del prossimo – morte della filosofia e quindi morte del pensiero – morte dei partiti politici. Il risultato finale di queste morti è il dominio del capitalismo che non può che creare cose morte. Come si fa a trovare una forza e anche una gioia per vivere questo nostro tempo? Basta aprire il vangelo per trovare la risposta: «Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il figlio unigenito affinché chiunque crede in Lui non perisca ma abbia la vita eterna. Dio infatti non mandò il figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3, 16-17). Io penso che questa nostra epoca può essere illuminata solo da questa grande luce che può illuminare solo chiunque non fa il male: «chiunque fa il male odia la luce e non viene alla luce... colui che fa la verità viene alla luce perché si riveli che le sue opere sono operate in Dio» (Gv 3,19-20). È il momento in cui i veri credenti in Gesù possono pensare di rendere positivo questo momento così insolentemente negativo: «potrebbe essere l’accoglienza al mistero nell’eroico disinteresse per ciò che questo significa per me. La prima obbedienza che Dio esige nell’incontro religioso … è di superare la visione di Lui come imperativo. All’uomo religioso Dio si rivela come il datore di senso che resta nascosto agli occhi umani, che non viene svelato e comunicato ma promesso. La conversione sta nell’accogliere questa promessa, nel non rifiutare che la propria vita abbia un senso ultimo, una risoluzione di superiore felicità» (2). In fondo l’esperienza religiosa è l’atto di speranza come affermazione del senso. TEOLOGIA la libertà religiosa nell’età moderna ROCCA 15 LUGLIO 2011 Carlo Molari I l 4 giugno scorso il Papa a Zagabria ha ricordato le conquiste della modernità da accogliere e da sviluppare nell’orizzonte della fede in Dio. Ha detto tra l’altro: «le grandi conquiste dell’età moderna, cioè il riconoscimento e la garanzia della libertà di coscienza, dei diritti umani, della libertà della scienza e, quindi, di una società libera, sono da confermare e da sviluppare mantenendo però aperte la razionalità e la libertà al loro fondamento trascendente, per evitare che tali conquiste si auto-cancellino, come purtroppo dobbiamo constatare in non pochi casi». Questo è un tema caro al Papa. Anche a Lisbona nell’incontro con gli uomini della cultura parlando dell’illuminismo egli aveva affermato «da se stessa la Chiesa accoglieva e ricreava il meglio delle istanze della modernità, da un lato superandole e, dall’altro evitando i suoi errori e vicoli senza uscita» (Centro Cultural de Belém, 12-52010). Nel noto discorso alla Curia del 22 dicembre 2005, ha collegato questo processo ecclesiale alla riforma conciliare. Dopo aver accennato alla riconciliazione tra fede e scienza, ha proseguito: «In secondo luogo, era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato moderno, che concedeva spazio a cittadini di varie religioni ed ideologie, comportandosi verso queste religioni in modo imparziale e assumendo semplicemente la responsabilità per una convivenza ordinata e tollerante tra i cittadini e per la loro libertà di esercitare la propria religione. Con ciò, in terzo luogo, era collegato in modo più generale il problema della tolleranza religiosa – una questione che richiedeva una nuova definizione del rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo». la discussione nella chiesa È stato infatti con la dichiarazione conciliare Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, 54 approvata il 7 dicembre 1965, che la chiesa cattolica «dopo un lungo indugiare e numerose riserve e polemiche» «accolse essenziali istanze dell’illuminismo dell’epoca moderna... e si è posta sul terreno degli ordinamenti di libertà creati dall’illuminismo politico. La dichiarazione sulla libertà religiosa vale dunque a ragione quale pietra miliare nella lunga e spesso conflittuale storia del rapporto tra chiesa cattolica e storia moderna della libertà.» (Kasper W., Chiesa e libertà, Regno/ documenti 1995 n.1). Su questi temi alla fine del mese di maggio scorso si è svolto un acceso dibattito nel blog di Sandro Magister settimo cielo nel quale sono intervenuti alcuni filosofi e teologi cattolici oltreché Stefano Ceccanti, ordinario di diritto pubblico a Roma (www.chiesa.espressonline.it). Credo opportuno riprendere alcuni temi discussi. Possiamo distinguerne tre posizioni all’interno della Chiesa. 1. C’è chi sostiene che il Concilio ha deviato dalla tradizione e che perciò deve essere corretto. È la convinzione dei tradizionalisti. Il superiore provinciale tedesco della Fraternità sacerdotale S. Pio X, Francesco Schmidberger in una lettera ai Vescovi tedeschi sostiene che la scelta del Concilio rappresenta la definitiva «secolarizzazione dello stato e della società», «l’agnosticismo dello stato». Rappresenta la rinuncia del diritto e del dovere dello stato «di impedire ai membri delle false religioni di diffondere pubblicamente le loro convinzioni religiose, impedendo le loro pubbliche manifestazioni e le attività missionarie e rifiutando a loro il permesso di costruire luoghi di culto». Così il Concilio anziché favorire, avrebbe ostacolato la costruzione del regno sociale di Cristo, dato che egli è «il solo Dio e la croce la sola fonte di salvezza». Ne consegue che i responsabili dello stato «debbono far valere nella società, per quanto è possibile, tale rivendicazione di esclusività». Il portavoce della stessa associazione in una lettera aperta (Die Tagespost, 6 giugno 2009) riconosce che la divergenza riguarda i limiti da porre alla pratica delle «fedi errate» e alla loro diffusione. Brunero Gherardini, teologo cattolico, ritiene che il testo conciliare sia «in linea con la mentalità liberale e disimpegnata del nostro tempo. E che proprio questo si volesse, balzò all’evidenza dopo il 7 dicembre 1965, quando, approvata e promulgata la Dichiarazione sulla libertà religiosa, fu ravvisato in essa il contro-sillabo, che sotterrava il Sillabo del 1864» (Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, Lindau, Torino 2011 p. 43). Egli accusa il testo conci- nei quali la tradizione aveva deviato dalla linea evangelica, per cui la sua posizione è legittima e da seguire. La continuità non deve essere cercata nella dottrina, che è certamente cambiata rispetto a quello che «si è creduto dovunque sempre e da tutti», bensì nella fedeltà storica e vitale al Vangelo. Secondo Martin Rhonheimer sacerdote svizzero dell’Opus Dei insegnante a Roma, Gregorio XVI e Pio IX avevano interpretato il fondamentale diritto alla libertà di religione, di coscienza e di culto difeso dai ‘liberali’ come «una negazione della vera religione. E questo poiché essi non potevano immaginare che una verità religiosa e una vera Chiesa potessero esistere senza che quest’ultima non fosse anche sostenuta dallo stato e dalla politica, e rispettata dal diritto civile... Nel magistero preconciliare, l’insegnamento della verità unica della religione cristiana andava di pari passo con l’insegnamento della funzione e del dovere dello stato, che aveva l’obbligo di far praticare la vera religione e di proteggere la società dalla diffusione dell’errore religioso. Ciò implicava l’ideale di uno ‘stato cattolico’ nel quale, nel migliore dei casi, la religione cattolica è l’unica religione di stato, il cui ordine giuridico è sempre al servizio della protezione della vera religione» (L’ermeneutica della riforma e la libertà di religione in «Nova et Vetera», 85 (2010) n. 4, pp. 341-363). È precisamente in rapporto a questo insegnamento dei papi del XIX secolo che si verifica una chiara discontinuità nel Concilio Vaticano II. Essi non hanno colto l’ispirazione evangelica e l’autenticità dei processi storici. In questo senso, come afferma il Papa nel citato discorso alla Curia: «Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa... I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede». La ripresa del «patrimonio più profondo della Chiesa» ha reso quindi possibile alla generazione del Vaticano II di compiere un passo avanti, che non è certamente in continuità con le idee del Magistero degli ultimi secoli, ma è fedele ai «segni dei tempi» e all’azione dello Spirito. dello stesso Autore CREDENTI LAICAMENTE NEL MONDO pp. 168 - i 20,00 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca i 15,00 anziché i 20,00 spedizione compresa richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail Carlo Molari [email protected] 55 ROCCA 15 LUGLIO 2011 liare di confondere «fra diritti della persona e delle comunità, tutela legale della libertà religiosa, tolleranza e leggi e mezzi idonei per renderla operante, diritto personale fondato sulla stessa natura umana che diventa diritto civile: un groviglio di parole e di idee, che rende difficile comprenderne la logica ed il significato. Una cosa si comprende: la sorda polemica con il magistero precedente sui limiti della libertà dinanzi a Dio ed alla sua Rivelazione» (ib. p. 42). Anche lo storico Roberto De Mattei nel volume Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta (Lindau, 2010), considera la Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae uno dei testi conciliari più difficilmente compatibili con il Magistero precedente perché sosterrebbe il diritto a propagare l’errore e non difenderebbe sufficientemente i diritti della «vera fede». 2. In contrapposizione a costoro, altri affermano che il Concilio ha semplicemente applicato in modo diverso la dottrina di sempre senza reali rotture con il passato. Il gesuita Bertrand de Margerie (+ 2003) ad esempio sosteneva che il Concilio ha indicato gli stessi limiti della libertà religiosa messi in luce da Gregorio XVI. Il Prof. H. Klueting nel quotidiano Die Tagespost (30 maggio 2009, p. 18), interpreta la dottrina del Vaticano II nel senso che occorre evitare ogni «conversione forzata» in perfetta continuità con la dottrina tradizionale. In modo più sfumato il benedettino francese Basilio Valuet (Abbazia di Barroux) in una ampia dissertazione (6 volumi ora in terza edizione) ha cercato di dimostrare che la differenza tra il Vaticano II e il Magistero precedente, dipende dalla diversa prospettiva: ciò che era condannato resta condannato e la libertà che viene richiesta non contraddice la precedente condanna. Egli scrive: «se vi è discontinuità nel discorso del Vaticano II in rapporto a Pio IX, ciò dipende dal fatto che la libertà religiosa [difesa dal Concilio] è essa stessa in discontinuità con la «libertà di coscienza e dei culti» condannata nel XIX secolo: non ha lo stesso fondamento, né lo stesso oggetto, né gli stessi limiti, né lo stesso fine». Per questo egli è convinto che «una tale discontinuità non significa rottura con la Tradizione dottrinale dogmatica della Chiesa, né una deviazione dal ‘depositum fidei’ e... da ciò che è creduto dovunque, sempre e da tutti, secondo il canone di Vincenzo di Lérins» (il riferimento è al Commonitorium cap. IV). 3. Altri teologi infine sostengono che il Concilio ha innovato realmente sui punti GIOBBE come se niente fosse accaduto? ROCCA 15 LUGLIO 2011 Lidia Maggi 56 bbiamo lasciato Giobbe che, colpito nei beni e negli affetti da eventi tragici, non rinnega Dio e non gli attribuisce la responsabilità di quanto accaduto. «In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nessuna colpa» (1,22). Il secondo capitolo ci riporta nuovamente nelle sfere celesti. La scena appare identica alla precedente e a chi legge sembra di assistere ad uno spettacolo già visto. Dio riceve Satana e questi racconta di aver fatto un giro di ricognizione sulla terra. Poi si nomina il povero Giobbe ed esattamente come la prima volta Dio lo cita come esempio di giustizia e fedeltà. Tutto sembra ripetersi come se nulla fosse accaduto. Ma è proprio così? La sofferenza di Giobbe non ha spostato di una virgola l’equilibrio celeste? Ha dunque ragione il Qoelet a constatare che l’essere umano è solo vento e, sia che faccia il bene o il male, tutto è vanità? In realtà, l’immutabilità divina, qui rappresentata dalla ripetizione della scena iniziale, è solo apparente. Il primo cambiamento lo troviamo nelle stesse parole divine. Se Giobbe non lo ha ritenuto responsabile delle disgrazie subite, non significa che Dio non si riconosca colpevole. «Hai notato il mio servo Giobbe? Non ce n’è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Dio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità, benché tu mi abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo» (2,3). Dio ammette di essersi accanito contro Giobbe senza alcuna ragione, ovvero di aver commesso un’ingiustizia. Dichiarazione sorprendente, che suonerebbe almeno irriverente, se pronunciata da un personaggio terrestre. Giobbe per tutto il dramma lo urlerà: «io sono innocente, Dio si è accanito ingiustamente contro di me». I suoi amici proveranno a convincere la vittima del contrario. Ma Dio riconosce le proprie responsabilità. Sa di essere stato trascinato in un gioco pericoloso che mette a repentaglio la vita di un giusto, innocente ed ignaro. A questo punto ci aspetteremmo che Dio si penta e che congedi Satana, almeno fino alla prossima udienza. Ma il dramma continua per l’accanimento dell’Avversario e per la tenacia di Giobbe. In ogni caso, la confessione di Dio rappresenta un monito per chi as- A siste al dispiegarsi del racconto. Essa permette al lettore di non lasciarsi abbindolare troppo facilmente dalla retorica dei discorsi che seguiranno, conservando nei confronti della vittima un ascolto empatico, anche quando le sue parole saranno giudicate inopportune e blasfeme. Satana, dunque, rilancia la sfida, minimizzando quanto Giobbe ha subito: «Pelle per pelle! L’uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita; ma stendi un po’ la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia» (2,4-5). Parole di sospetto che sembrano supporre che per una persona sia più facile sopportare la morte dei propri cari piuttosto che la propria malattia. Satana appare meno astuto di quello che sembra. La malattia, certo, ci deforma, ci piega, a volte ci leva la dignità, muta il nostro carattere; ma è davvero più terribile della perdita di un figlio? Quanto Giobbe ha già sopportato può essere superato da un nuovo dolore fisico? È solo la sensibilità moderna che ci fa sentire come insopportabile la morte di un figlio? La Bibbia stessa narra del re Davide, piegato dal dolore per la scomparsa dei suoi cari. Nessun dispiacere sembra più grande per le spalle regali. Davide si dispera per la morte di suo figlio, nonostante questi lo avesse tradito. E prima ancora aveva pianto, digiunato e pregato nella speranza di salvare il piccolo nato dalla tresca con Betsabea. Andare avanti nella vita, dopo aver seppellito un figlio, richiede tanta forza. Al confronto, la malattia potrebbe persino apparire come un diversivo. Ma all’Avversario serve proseguire la sfida, giocare sui lunghi tempi. E Dio, che ha fiducia nel suo servo Giobbe, convinto che supererà anche questa prova, concede che la sfida continui: «Il Signore disse a Satana: ‘Ebbene, egli è in tuo potere; soltanto rispetta la sua vita’» (2,6). Dunque, si ricomincia daccapo? Non proprio. Ora i protagonisti del dramma dovranno misurarsi sui lunghi tempi. Il riconoscimento divino che Giobbe sa mantenersi saldo dev’essere sottoposto alla prova del tempo. La tenacia di Satana, che estorce da Dio un’ulteriore proroga, mira a verificare la tenuta di Giobbe, sottoposto ad un progressivo logoramento. La posta in gioco si fa sempre più chiara: la fede è solo attimo di felicità o è in grado di resistere sotto i colpi della storia? CINEMA R omain Goupil è quello che si dice un eclettico. Militante trotzkista durante il Maggio, precocissimo autore di cortometraggi, poi aiuto-direttore della fotografia, assistente alla regìa per Chantal Akerman, Roman Polanski e Jean-Luc Godard, attore e scrittore nonché regista in proprio di numerosi lavori a destinazione prevalentemente televisiva e quasi sempre di taglio documentaristico, sembrava destinato a una brillante carriera dopo il notevole Mourir à trente ans (1982), sul destino spesso tragico dei reduci del Sessantotto, Caméra d’Or a Cannes, César per la migliore opera prima e una nomination all’Oscar. Pressoché sconosciuto in Italia, arriva adesso a sessant’anni suonati sui nostri schermi con Les Mains en l’air (2010), maldestramente ribattezzato dal distributore Tutti per uno forse per fare il verso al delizioso film di Richard Lester del 1964, che in realtà nell’originale si intitolava A Hard Day’s Night come la canzone dei Beatles che ne erano protagonisti. Anche in questo caso il regista non dimentica il proprio passato di impegno civile, raccontando una storia fortemente intrisa di risvolti politici. Milana, arrivata in Francia dalla Cecenia con la famiglia, è una sans papier che frequenta una classe multirazziale come d’altronde lo sono tutte a Parigi e ormai anche da noi. Quando per le leggi restrittive volute da Sarkozy la ragazzina rischia l’espulsione, dapprima viene ospitata dalla madre di Blaise, un compagno di scuola, e della piccola Alice, fingendo che sia sua figlia. Quando la minaccia diventa ancor più stringente, gli amici Tutti per uno organizzano un piano di fuga che li porta a rinchiudersi in uno scantinato, attrezzati di tutti i generi di conforto per resistere a lungo. Mentre la polizia si mette sulle loro tracce, il gesto scatena l’emulazione di altri coetanei in tutto il Paese. La vicenda è raccontata in flash-back, sul filo dei ricordi di Milana ormai sessantenne, nel 2067. Il film parla dunque di ragazzini, della scuola, di biglietti passati sotto i banchi e le porte, del verd paradis des amours enfantins, dei rapporti con la famiglia, ciascuno secondo un codice di educazione legato a nazionalità, appartenenza culturale e religiosa. E lo fa con un certo garbo, memore di una cospicua tradizione transalpina che va da Jean Vigo a Louis Malle passando per René Clément e François Truffaut. Pur non possedendo il tocco dei fratelli Dardenne – e non ci riferiamo solo al recentissimo Il ragazzo con la bicicletta – Goupil riesce a gestire con risultati apprezzabili il gruppo di piccoli non attori, in particolare la più giovane e spontanea, quella che interpreta Alice. Meno incisiva l’illustrazione delle dinamiche di coppia dei suoi genitori, lui un po’ grezzo e pragmatico, lei nevroticamente idealista, con l’ambizione a fare da chioccia a un variopinto nucleo familiare allargato ergendosi a paladina dei diritti degli immigrati. Lo stesso schematismo Goupil lo applica al côté politico-sociale, con le ragioni un po’ troppo dette quando non urlate, come nel colloquio chiave della madre col fratello, ideologicamente e culturalmente vicino a Sarkozy se non alla droite della Le Pen. Di una certa efficacia, viceversa, l’idea di mettere tra parentesi la storia, distanziandola nel tempo, dando conto di una sconfitta e di una separazione il cui lungo iato temporale lascia alla nostra amarezza il compito di agire perché possano essere impedite. Detto dei giovanissimi protagonisti, bisogna aggiungere che Goupil attore si ritaglia con disinvoltura il gustoso cameo del padre burbero e manesco ma nel fondo ricco di buon senso oltre che di una certa carica di simpatia. Nella sequenza più riuscita del film, quella in cui i ragazzini escono con le mani nell’aria, come recita appunto il titolo originale, in segno di resa, il suo atteggiamento ben diverso rispetto a quello degli altri genitori – sarebbe tentato di riempire di sberle il figlio maggiore – ci regala un momento di schietta comicità. Meno convincente Valeria Bruni Tedeschi nel ruolo della madre. Una volta riconosciutole il merito non indifferente di aver contribuito a che si parli male del cognato Sarkozy, e l’attenuante di aver affrontato un personaggio ben più presente e difficile di quello di Goupil, bisogna anche dire che l’attrice rischia ormai di rimanere intrappolata nei limiti di quella maschera di nevrotica che i registi con i quali lavora le hanno fatto indossare. Oltretutto la danneggia il fatto di essersi voluta doppiare in una lingua – l’italiano – che forse non è più la sua. Con tutti i suoi limiti, Tutti per uno è comunque un’ opera nobile, alla fine controcorrente in un momento in cui razzismo, xenofobìa e altre variegate forme di intolleranza sembrano caratterizzare l’atteggiamento di tanti, in Francia come in molta parte del resto d’Europa e perfino nella civilissima Italia. Ben venga, dunque. Le scuole sono ormai chiuse, ma da settembre qualche insegnante di buona volontà potrà recuperare questo film piccolo ma forse necessario, e farlo proiettare alle proprie classi, multirazziali o meno che siano. ❑ 57 . ROCCA 15 LUGLIO 2011 Paolo Vecchi RF&TV TEATRO Roberto Carusi Renzo Salvi Vivere in città ROCCA 15 LUGLIO 2011 C ’è un teatro di narrazione, e un teatro di necessità. In una parola, un teatro che soddisfa la necessità – ora individuale e ora collettiva – di raccontarsi per conoscere meglio se stessi e gli altri. L’occasione si è data – recentemente, a Milano – con la seconda edizione della festa denominata Via Padova è meglio di Milano. Il ciclo degli incontri si è concluso con alcuni spettacoli: tutti finalizzati all’esigenza di migliorare i rapporti di una comunità sempre più estesa e multietnica. Prima in tal senso la rappresentazione delle tante storie che il Teatro Officina – il quale da quasi quarant’anni dedica la propria collaudata professionalità alla raccolta e alla traduzione drammaturgica delle innumeri vicende del quartiere – ha raccolto attraverso interviste elaborate e collegate spettacolarmente. Nell’ampio spazio del Teatro Studio del Piccolo Teatro lo spettacolo Via Padova e oltre (titolo allusivo alle altre parti di Milano e addirittura del mondo) si è aperto con Massimo de Vita – direttore del Teatro Officina e regista della rappresentazione – che impersona, col solo mutare copricapo e spingendo un carretto da un lato all’altro della scena, sia un immigrato dal Sud d’Italia negli Anni Sessanta sia un diffidente milanese doc. Un significativo prologo nel quale irrompe all’improvviso la luminosa sagoma dell’autobus che – percorrendo l’intera Via Padova – raccoglie e accoglie gli immigrati di oggi: dal Nord dell’Africa, dall’Est 58 dell’Europa, dall’Asia, dall’America Latina. Da quel momento – con dialoghi, canti, danze – va dipanandosi il lungo filo della faticosa conoscenza reciproca. Fino a che due giovani tra messaggi in rete e ingenue scritte sulle ali di aeroplanini di carta danno il via al finale con la travolgente Orchestra di Via Padova, diretta appassionatamente da Massimo Latronico. In tema anche l’altro spettacolo clou: il recital di Antonio Rezza – geniale autore di duttile mimica e proteiforme vocalità – che da «quadri» di tessuto colorato e ricamato fa «affacciare» e vivere incredibili caricature di personaggi urbani, caratterizzati tutti da una credibilissima e qualunquisticissima indifferenza. Si ride di gusto, ma anche amaramente constatando che in quelle «maschere» alla fine possiamo riconoscerci tutti. Infine nel verde del magico Parco Trotter, a sera, una fiaba raccontata ai bambini – numerosissimi – con uno spettacolo itinerante interpretato da genitori e insegnanti: Alice in Trotterland (versione adattata alla circostanza della famosa fiaba ottocentesca di Lewis Carroll). Tra glicini e cespugli: le Carte da gioco, la Lepre marzolina, il Gatto, il Cappellaio matto e via dicendo. E Alice? Ecco la trovata di Amedeo Romeo, regista del Teatro della Tosse: Alice, interlocutrice delle fantastiche creature, erano le bimbe e i bimbi cui i personaggi si rivolgevano, nel regno della fantasia, scoperto – magia del teatro – sotto casa, in Via Padova. ❑ Hotel Patria G rand Hotel: gente che viene, gente che va: tutto senza scopo». Così si apre e si chiude People at a Hotel (Grand Hotel in italiano) film realizzato nel 1932, e Premio Oscar, per la Mgm. Hotel Patria – su RaiTre, il lunedì sera per quattro puntate, dal 6 giugno – è lontano, titolo a parte, da quella suggestione tanto per l’andare/e/venire quanto in tema di scopo. Vi si raccontano, per una serata intera, situazioni e vicende che il Paese (quella Patria posta nel titolo) ospita da tempo e stabilmente, non senza problemi – anzi – e però registrando nella vita quotidiana atteggiamenti e modi di operare capaci di gestire anche situazioni difficili: senza eroismi, per altro, ma con un approccio in cui si mescolano tenacia e un saldi orientamenti positivi. Mario Calabresi, direttore de La Stampa, conduce le serate di cui è coautore con un approccio narrativo e, almeno nel primo appuntamento, anche un po’ testimoniale. La scuola di via Paravia a Milano era la sua scuola elementare (d’allora) e viene svelata – nella prima puntata – come la più multietnica d’Italia (adesso). Il racconto, di memoria e di attualità, lega attraverso il tempo una realtà remota di convivenze tra milanesi e meridionali con la convivenza attuale tra un numero inatteso di provenienze, colori, culture ed etnie, in cui molti bimbi e bimbe sono però nati a Milano e dunque già prima generazione italiana dentro la migrazione globalizzata dell’oggi. Si è trattato anche di un riconoscimento alla fatica ed all’intelligenza di chi opera nella scuola, nonostante difficoltà e tagli, circolari ministeriali ideologiche e riduzione di mezzi e di tempi per l’in- segnamento: tra passato e presente, interviste e servizi ben documentati, un ospite in studio (il compagno d’allora), non poche evocazioni di insegnanti antiche e molte voci – mai dome – di insegnanti d’oggi, la scuola di via Paravia, a nome della scuola tutta di questa povera patria, non ha alzato scompostamente la voce ma ha chiesto quel che per una scuola è giusto ed equo, ovvero la concretezza materiale a sostegno del suo ruolo educativo. Questa storia scolastica, in realtà, sarebbe bastata per una puntata intera; le altre vicende narrate – dal costruir barche di gran livello agonistico al contrastare (ospite Dino Meneghin) il razzismo nello sport – avrebbero potuto trovar posto in appuntamenti successivi: rendendo più fruibile il programma, più agile lo scorrimento, più chiara l’intenzione. Anche la conduzione, da limare per quantità di parole in ciascuno degli interventi di raccordo e argomentazione, può migliorare nel ritmo e nell’auto-calibratura rispetto all’insieme del programma: l’essere in diretta, nel caso, può aiutare. Riguardare le conduzioni di Enzo Biagi potrebbe essere di grande utilità. Hotel Patria, dunque, nel suo essere narrazione del reale in un’ottica di speranza praticata, si segnala per le sue potenzialità: sperimentato in breve sul margine dell’estate, e dopo aver persino ceduto la seconda puntata allo Speciale del Tg3 sugli esiti referendari, può prenotare uno spazio stabile nei palinsesti annuali della rete, soprattutto dopo i non pochi esiti infelici di altri tentativi di rinnovamento dell’offerta (da Articolo 3 a Cosmo...). ❑ IMMAGINI ARTE Mariano Apa Alberto Pellegrino I n Biennale a Venezia il direttore Bice Curiger compone, tra l’altro, anche una sorta di omaggio a Gianni Colombo con il suo «Spazio elastico», e ci si ritrova nella Milano di Manzoni e Castellani, del Caffè Giamaica raccontato dal grossetano Bianciardi e ci si trova al cospetto dell’aristocrazia della dureriana melanconia personificata da Lucio Fontana. Di rimbalzo, dunque, la scontrosa sapienza di Burri e l’espressività linguistica di Emilio Villa, Colla, Capogrossi, Cagli e i giovani poeticamente scaltri di «Forma», da Dorazio a Perilli che, oggi, ritorna in Biennale di Venezia invitato al Padiglione Italia. Ecco a Roma, dunque, «Gli irripetibili anni ’60. Un dialogo tra Roma e Milano» per la cura di Luca Massimo Barbero presso il Museo della Fondazione Roma di via del Corso, fino a fine di luglio e quindi poi giustamente a Palazzo Reale a Milano. Era l’Italia che si accorgeva di aver lasciato alle spalle il secondo Dopoguerra e di potersi permettere una Autostrada del Sole, era l’Italia dell’Europa riscoperta e degli Stati Uniti riaffermati nella loro inedita veste di arte e letteratura praticata: era l’Italia del Grande Giubileo del 1950 che fu, davvero, il segno forte di una Europa e di un mondo volto al domani nel tentativo di rispondere alla attesa della profezia. Superare le ideologie significava aprirsi ad una laicità capace di vedere di quanto il pensiero religioso si preparava alla visione del Concilio Vaticano II: le iconografie di Manzù e di Minguzzi e di Scorzelli sul Concilio hanno radice in questa incubazione degli anni Cinquanta tutti dentro a forgiare gli anni Sessanta: in quanto la giustificazione dei «perché» degli anni Sessanta riposa nella disperazione del 1945/1948, la spe- ranza davvero, come ci sussurra S. Paolo, è della disperazione. Superare la classicità della figura e dei realismi, superare lo scolasticismo dell’astrattismo e puntare sulla elaborazione husserliana o stirneriana del pensiero visivo che nel solco di Boccioni/De Chirico/ Duchamp potesse condurre a Roma ad «Origine» e a Milano ad «Azimuth». Dentro queste radici il fresco e nuovo albero degli anni Sessanta può permettersi di imporsi e di far prolificare l’intero calendario dei decenni a venire. Perché gli anni Sessanta sono la realtà della consapevolezza, da dove si veniva e dove si cercava di andare. Perché il 1964 è la Pop Art in Biennale di Venezia ed è Kounellis e Schifano e Mattiacci e Festa e Lo Savio e un «Im spazio» che tra New York e Berlino, vira da Duchamp verso Beuys: e per ritornare a Venezia in Biennale, oltre al citato Colombo, rivivono questa Roma e questa Milano, assieme a Calzolari in Ca’ Pesaro, il Pascali di «Ritorno a Venezia», – per la Puglia Arte Contemporanea, a Palazzo Michiel dal Brusà in Cannaregio, fino ai primi di agosto –. Si può proporre alla geografia della manualistica istituzionale, tra Roma e Milano e Venezia, di considerare anche Foligno: la mostra e il relativo catalogo dello «Spazio dell’immagine» nel 1967 a Palazzo Trinci, sono stati, mostra e catalogo, una verifica «altra» rispetto la rigidità delle diagonali che sostenevano la geometria del «sistema dell’arte». Una «alterità» in cui quel «sistema» paradigmaticamente si è visto e lacaniamente si è riconosciuto. Forse in questo «riconoscersi» vale la natura di forza spudorata e di energia disperata e di intuita leggerezza, a confermare e a caratterizzare anni di un Paese che si scopre nella possibilità di nominarsi. ❑ La lunga calza verde È stato recentemente recuperato un «cartoon» intitolato La lunga calza verde (1961), un piccolo capolavoro scritto da Cesare Zavattini e animato dal disegnatore Roberto Gavioli. Si tratta di uno spot concepito nel 1961 per il mitico Carosello in occasione del primo centenario dell’unità d’Italia, ma non andato mai in onda a causa della sua lunghezza (24 minuti). Esso resta tuttavia una delle opere più geniali progettate per lo schermo televisivo. Caduto nella semiclandestinità e restaurato dall’Istituto Luce, il breve film è finalmente riemerso con l’originario splendore, per cui ora è possibile visionare questo «gioiello» estremamente divertente. Si tratta di un’opera ironica ma nello stesso tempo estremamente impegnata nel tracciare in pochi minuti un ritratto pregnante e credibile del nostro Risorgimento. Sono presenti i principali protagonisti della nostra storia unitaria: i carbonari scamiciati e con barbe da cospiratori che cadono sotto il fuoco dei plotoni d’esecuzione austriaci; i borghesi austeri e compassati che si trasformano nei bersaglieri di Lamarmora sotto la spinta del vento risorgimentale; Mazzini severo e imponente che scrive su un muro il nome «Italia» con il sangue dei martiri, mentre il grassottello Cavour, comodamente seduto in poltrona, è impegnato a sferruzzare una lana verde che via via va assumendo la forma dello stivale italico come suggerisce lo stesso titolo; l’imperatore Francesco Giuseppe che balla la Marcia di Radetzky orchestrata a valzerino e trasforma il suo pancione in una enorme bombarda pronta a cannoneggiare la plebaglia italica, ma il vento cambia, la massa diventa popolo e si batte nelle guerre d’indipendenza, i patrioti indossano la divisa militare e cadono sui campi di battaglia per trasformarsi subito in celebrativi monumenti di bronzo. La sequenza più geniale è quella in cui si vede il generale Garibaldi issato sul suo cavallo bianco che attraversa al galoppo l’intera penisola e al passaggio del suo gigantesco mantello rosso si trasformano in Camice Rosse gli studenti universitari e gli intellettuali, gli artigiani e i borghesi del Centro-Nord, i pastori e i contadini del Sud e tutti vanno a ingrossare le file dei Mille partiti da Quarto e destinati a risalire vittoriosi il Mezzogiorno d’Italia. Zavattini sceglie una interpretazione «popolare» e quindi «gramsciana» del Risorgimento e, con un’altra felice intuizione, colloca all’inizio un lungo prologo dove parla dell’Italia del «miracolo economico» con file di macchine e torpedoni che scendono dalle Alpi per invadere il Belpaese, portandosi via come souvenir i nostri monumenti più celebri, mentre una voce fuoricampo proclama «Abbiano fatto l’Italia Unita, sta a noi farla ricca e felice», profezia avveratasi in quanto a ricchezza, ma con qualche dubbio sull’attuale felicità. ❑ 59 . ROCCA 15 LUGLIO 2011 Roma/Milano MUSICA SITI INTERNET Alberto Pellegrino Giovanni Ruggeri Marinai, profeti e balene ROCCA 15 LUGLIO 2011 M olti cantautori hanno tratto ispirazione da testi letterari, basti pensare a Guccini, Vecchioni e D’Andrè (la raccolta Non al denaro, non all’amore né al cielo ispirata all’Antologia di Spoon River), ma ora Vinicio Capossela con il nuovo doppio cd Marinai, profeti e balene sembra abbia voluto superarsi, cimentandosi con un’impresa estremamente difficile anche sotto il profilo commerciale: scrivere e comporre 19 canzoni tutte ispirate alla letteratura. Eppure si può affermare che quanto sembrava impossibile è invece pienamente riuscito, tanto che si può considerare Capossela l’inventore del songbook, che egli definisce «Marina Commedia», un nuovo genere letterariomusicale paragonabile per originalità al teatro-canzone di Giorgio Gaber. Questo autore ha voluto creare un disco ambizioso, intenso e visionario, perché «questo è un momento di grande bruttura nella politica, nell’informazione, nella televisione... Si respira un’aria pesante, al veleno, tipo ultimi giorni di Pompei. E, allora, è giusto occuparsi di bellezza, del lato divino dell’uomo, di temi più alti». E in fatto di altezze Capossela non scherza vista la complessità delle fonti letterarie di riferimento. C’è l’Antico Testamento che esercita uno strano fascino per un non credente (Il Grande Leviatano, Job, Goliath con il ricorrente totem della balena); c’è un riferimento a due grandi scrittori del mare come Jack London 60 (Lord Jim) e Melville (La bianchezza della balena, Billy Budd, I Fuochi Fatui, L’Oceano Oilalà); c’è il richiamo a Saffo (Le Pleiadi) e a Céline (La sirenetta Pryntyl) con un brano jazz dal vago sapore retrò e con il coro delle Sorelle Marinetti, sia l’ispirazione maggiore arriva dal mondo omerico (La Lancia del Pelide, Aedo) e in particolare il mondo di Ulisse (Vinocolo, Calipso, Aedo, Le Sirene) e in particolare Nostos, dove il tema del viaggio si colora di echi danteschi, la splendida canzone Dimmi Tiresia, un manifesto del bisogno di scoperta e di quella conoscenza che non è niente senza la fede, per cui bisogna navigare e vedere nuove terre fino a quando «la morte ti coglierà dal mare/consunto da splendente vecchiezza». Siamo di fronte all’opera di un uomo che dice di non amare particolarmente il mare, ma che usa questo suo «mare di carta» come un mondo alternativo e misterioso, una metafora del viaggio della vita, un tema epico sul destino dell’uomo tratto dal passato per superare la miseria del presente. Infine abbiamo l’allegra e coinvolgente Polpo d’amor e una canzone come La Madonna delle conchiglie, divisa tra clavicembalo e banda di paese, dove si accenna al tema attualissimo dell’immigrazione. Oltre al fascino delle parole, colpisce il tessuto musicale profondo, poetico, carico di raffinate risonanze, la grande varietà dei cori che ricordano le ciurme dei pirati o sono fatti da voci bianche e classicheggianti. ❑ Europa digitale E uropa digitale a luci e ombre: cresce l’uso regolare di Internet, si diffonde meno del dovuto la banda larga, risultano ancora poche le piccole e medie imprese on line. Sono le linee di fondo del primo quadro di valutazione pubblicato dalla Commissione Europea (http://ec.europa.eu/ information_society/digitalagenda/scoreboard/ index_en.htm) per illustrare progressi e capitoli aperti sul fronte della diffusione delle tecnologie digitali negli Stati membri, a un anno dall’avvio dell’Agenda digitale europea. L’incidenza sociale ed economica del comparto è troppo rilevante per non essere sistematicamente monitorata e assistita: di qui l’Agenda. Generale soddisfazione fanno registrare l’uso regolare di Internet, gli acquisti on line e i servizi della pubblica amministrazione, col 65% della popolazione europea che accede regolarmente a Internet, dato previsto al 75% entro il 2015. L’uso di internet si sta diffondendo anche tra le fasce più svantaggiate, come le persone meno istruite e gli anziani (dal 42% al 48%). Oltre la metà della popolazione di 8 Stati membri, inoltre, compra on line – dato che scende però al 40% se si considerano tutti i cittadini dell’Ue. Buone notizie vengono dal cosiddetto e-government, ossia i servizi in rete della pubblica amministrazione, di cui si serve il 41% dei cittadini europei, anche se nel 2015 si dovrà arrivare ad almeno il 50% di cittadini e 80% di imprese che si avvalgono dei servizi dell’amministrazione pubblica in Internet. Più modesti risultano i progressi nell’ambito della disponibilità e dell’uso effet- tivo della banda larga, ossia le connessioni ad alta velocità indispensabili per avere qualità e varietà di servizi. In generale la banda larga di base è sempre più accessibile anche nelle zone remote, ma l’effettiva diffusione e utilizzazione della banda larga superveloce si concentrano attualmente solo in poche zone, soprattutto urbane e nemmeno in tutte! L’esperienza è sotto gli occhi di molti di noi: vi sono periferie di grandi città che ancora non hanno l’Adsl (il sottoscritto può testimoniare personalmente di Bergamo, Roma, Pesaro...), per non dire – e qui siamo quasi alla beffa – che nei più sperduti paesini di Romania sono disponibili connessioni fisse e mobili ad una velocità stratosferica rispetto a quella disponibile ad esempio nelle laboriose Marche! Ebbene, obiettivo dell’Ue è dare accesso a ciascun cittadino europeo alla banda larga di base entro il 2013 ed alla banda larga veloce e ultraveloce entro il 2020. Da ultimo, il rapporto individua quali fanalini di coda il commercio elettronico transfrontaliero (cresciuto nemmeno di un punto nel 2010, per un totale di 8,8%, mentre l’Agenda punta a far salire al 20%, entro il 2015, i cittadini che acquistano beni on line da oltre frontiera), la presenza in rete delle piccole e medie imprese (solo il 26% delle Pmi compra in Internet e solo il 13% vi vende), gli investimenti pubblici nelle telecomunicazioni. Luci e ombre, dicevamo in apertura. Vista l’abituale lentezza di noi europei, sono risultati di cui dovremo essere quasi contenti. Ma prima potremo togliere quel «quasi», meglio sarà per tutti. ❑ LIBRI Tertulliano nel suo «de cultu feminarum» dice: «Ogni donna dovrebbe camminare come Eva nel lutto e nella penitenza, di modo che con la veste di penitenza essa possa espiare pienamente ciò che le deriva da Eva, l’ignominia, io dico, del primo peccato, e l’odio insito in lei, causa dell’umana perdizione. Non sai che anche tu sei Eva? La condanna di Dio verso il tuo sesso permane ancora oggi; la tua colpa rimane ancora. Tu sei la porta del Demonio! Tu hai mangiato dell’albero proibito...»! Penso sia nata dalla dotta lettura di questo apologeta vissuto fra il II° e III° secolo l’urgenza di scrivere questo saggio che la Murgia definisce conversazione. Il titolo «pop», un po’ irriverente, cerca e ci riesce a riportare al 21° secolo la condizione della donna all’interno soprattutto della tradizione ecclesiastica ma non ultimo fra la società civile dei benpensanti che criticamente e forse geneticamente, ha fatto propria questa spaventosa discettazione Tertullianesca. Se pure riprende il saluto dell’Angelo alla Vergine, non è un libro sulla Madonna ma una disanima ironica a volte, divertente, cruda ma fondamentalmente vera della scomoda posizione che «l’altra parte del cielo (+ una)» ha collocato all’interno della storia di sempre, anche sì, di quella attuale. C’è, in questa bravissima scrittrice sarda, indimenticabile il suo Accabadora, una sorprendente e illuminante capacità di leggere la Teologia con un taglio assolutamente nuovo e disincantato; la bravura di cogliere fino al midollo l’intrinseca lettura della posizione della tradizione ecclesiastica ufficiale davanti alle figure anche storiche, recenti o passate, dalle sante aureolate alle giovani vergini immolatesi sull’altare della loro virtù. C’è insomma il divertimento di ritrovare nelle e fra le righe, la nostra storia ma soprattutto da lasciarci affascinare dal taglio assolutamente nuovo e spiazzante del quale l’Autrice afferma: «... non è un libro sulla Madonna ma sulle donne... che non comprenderebbero il linguaggio dei saggi accademici ma comunque patiscono le conseguenze di una educazione cattolica assimilata fin dall’infanzia». Caterina dalle Ave Rocco D’Ambrosio Come pensano e agiscono le istituzioni EDB, Bologna 2011, pp. 280 È davvero una felice opportunità intellettuale saper cogliere un momento così propizio come l’attuale per raccontare l’universo complesso e difficile delle istituzioni. Soprattutto per diagnosticarne la patologia evidente ed affrontare, non senza coraggio ed un briciolo d’illuminato azzardo, una terapia di successo. Si badi bene: raccontarlo con approccio organico, sensibilità critica e aggiornata competenza pluridisciplinare e tanto più fruttuosamente se dall’interno di una larga prospettiva culturale in grado di tradurre in ‘paideia’ autentica i saperi scissi della modernità. Questo non agevole proposito è riuscito a realizzare Rocco D’Ambrosio, professore e studioso tra i più impegnati nel dibattito sulle scienze sociali, attento ad un incessante lavoro di investigazione sui fondamenti storico-filosofici della politica. Come pensano e agiscono le istituzioni, pur riprendendo dichiaratamente l’orizzonte tematico di Mary Douglas (How Instuitions think, New York, 1986), si situa nel punto più acuto della lacerazione – la bobbiana ‘malattia’ – del rapporto tra persona («corpo, cognizioni, emozioni») e istituzioni (tutto ciò che nella più ampia espansione metafisica è ‘abitato’ dall’uomo). Le istituzioni, nella loro ‘nuda veste’ di finzioni giuridiche tendenti ad autonomizzarsi dal corpo che le ha generate e politicamente giustificate, manifestano, nella convenzionalità tecnica che le caratterizza, lo smarrimento esiziale della loro antica anima etica. D’altra parte la crisi di fiducia istituzionale ad ogni livello del vivere associato, conseguenza dell’efficientismo e della strumentalità organizzativa, non è che il prezzo dovuto allo svuotamento di ethos e di virtù, intesi come i valori fondativi delle istituzioni. Uno dei pregi del libro di D’Ambrosio consiste, appunto, nella esaltazione della virtù, individuata nella natura ‘relazionale’ dell’uomo (Aristotele), e, al contempo, nel «volume totale dell’uomo» (E. Mounier). La tenace ed appassionata ricostruzione dell’idea classica del binomio zòon/pòlis disegna il quadro teorico dell’odierna categoria del ‘politico’, avviando la ricca ermeneutica della discussione contemporanea. D’Ambrosio mutua criticamente tale tradizione teorica e può così evitare l’insidioso agguato dell’organicismo ideologico, instaurando un fecondo legame tra retaggio culturale e urgenza pratica. In un serrato ed aperto confronto, l’Autore contesta fermamente sia il disincanto machiavelliano che il borghese utilitarismo smithiano, privilegiando la dottrina della Chiesa, espressione del progetto valoriale dell’universalismo cristiano. Grazie a questo ancoraggio ideale, navigando attraverso i nove densi capitoli del testo, introdotti da splendidi brani poetici, corroborati da una vasta bibliografia e da un prezioso indice concettuale, approdiamo al «porto sicuro del buon vivere». Meta problematica ma irrinunciabile, vogliamo crederlo, per chiunque aneli a diventare e a sentirsi uomo tra uomini. Paolo Protopapa Armando Matteo Presenza infranta. Il disagio postmoderno del cristianesimo Cittadella, Assisi 2011 (II ed.), pp. 280, € 17,00 Il cristianesimo è oggi presenza infranta in un mondo ove sembra tramontare il senso religioso della vita. In questo denso volume, che miscela articolati ragionamenti teologici, ponderati riferimenti evangelici e ambiziosi spunti pastorali, Armando Matteo indaga con grande puntualità il disagio e la frattura che separa tale credo cristiano dalla mentalità contemporanea, nella certezza che «non vi è altra strada che abitare un tale disagio e una tale frattura, attraversarli in profondità, diventare rabdomanti di quelle indicazioni e di quelle tracce in essi presenti che, meglio approfondite e collegate, potrebbero illustrare di nuovo la grazia e la promettente verità del cristianesimo e comporne una rivisitata configurazione che tenga conto della sensibilità media degli «attuali cittadini dell’Occidente». Contro la finitezza dell’esistente decretata dalla svolta anti-metafisica dell’Occidente l’autore, affidandosi al pensiero di Jean-Luc Marion, ravviva anzitutto la cristiana provocazione della divinità che sa abitare il finito e la distanza che la libertà dell’uomo impone. Segnalando attentamente le riflessioni di René Girard e Michel De Certeau, analizza quindi il consistente tratto anti-sacrificale e anti-ideologico della postmodernità giungendo a formulare una coraggiosa riconsiderazione dell’essere Chiesa nella società democratica e una rivalutazione della presunta debolezza del credere come occasione e scaturigine di nuovo e più autentico fervore evangelico. Tiziano Torresi 61 ROCCA 15 LUGLIO 2011 Michela Murgia Ave Mary Einaudi, Torino 2011, pp. 159 paesi in primo piano Carlo Timio Oms ROCCA 15 LUGLIO 2011 L ’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), chiamata in inglese World Health Organization (Who), nata nell’aprile del 1947, è l’agenzia delle Nazioni Unite specializzata per la salute e per le questioni sanitarie. È un soggetto di diritto internazionale e come tale è soggetta agli obblighi imposti dalla giurisdizione internazionale: consuetudini, atto costitutivo e accordi internazionali. Al momento della sua fondazione, gli Stati firmatari erano ventisei. Oggi sono centonovantatre. Per poter aderire all’Organizzazione, occorre prima essere membri delle Nazioni Unite e quindi accettare lo Statuto. Un’anomalia è costituita dalla Repubblica di Cina (Taiwan). Malgrado sia stato uno dei paesi fondatori dell’Oms, in seguito all’entrata della Repubblica popolare cinese nelle Nazioni Unite nel 1972, fu costretta a ritirarsi dall’Oms. Dal 1997 Taiwan continua a presentare domanda di ammissione all’Oms, senza esito. È infatti la Repubblica popolare cinese a farne parte in rappresentanza di Taiwan. Questo non consente al paese fondatore cinese di poter accedere a informazioni sanitarie né di partecipare alle iniziative dell’Oms. Struttura: gli organi decisionali dell’Organizzazione sono tre: il Segretariato, l’Assemblea mondiale e l’Executive board. Il Segretariato, sotto il controllo del Direttore generale che è eletto ogni cinque anni, è formato dal personale dell’Organizzazione. L’attuale Direttore è Margaret Chan, una cinese eletta nel 2006. 62 (Organizzazione Mondiale della Sanità) L’Assemblea mondiale è composta da tutti i ministri della Salute delegati dei centonovantatre Stati membri. Si riunisce una volta all’anno per affrontare i temi connessi al ruolo della sanità pubblica sullo scenario internazionale. I lavori assembleari si svolgono in sedute plenarie e con l’ausilio di due Comitati tecnici, si discutono temi rappresentati dall’ordine del giorno, si adottano risoluzioni e si approva il bilancio biennale. L’Assemblea approva anche la classificazione internazionale delle malattie basata su statistiche di mortalità e morbilità di tutti gli Stati membri. Lo scopo di questa classificazione è quello di analizzare la situazione sanitaria generale delle popolazioni e di monitorare l’incidenza e la prevalenza delle malattie in relazione ad alcune variabili esogene, quali l’ambiente, lo sviluppo economico e l’inquinamento atmosferico. L’Executive board è invece il consiglio esecutivo composto da rappresentanti di trentaquattro Stati membri. La durata dell’organo è di tre anni, seguendo un sistema di rotazione che garantisce la rappresentatività di tutti gli Stati secondo una ripartizione geografica. Esamina dettagliatamente i programmi dell’Organizzazione, preparando i testi delle risoluzioni e predisponendo l’ordine del giorno. L’Italia ha fatto parte di questo organo dal 2000 al 2003, mentre ora partecipa soltanto come osservatore. Per far fronte alle crisi connesse con problematiche ambientali e sanitarie, l’Oms è presente in sei grandi regio- ni (Europa, Americhe, Africa, Mediterraneo orientale, Pacifico occidentale e sudest Asiatico) tramite strutture facenti capo a Comitati regionali. Quello europeo, di cui fa parte anche la Federazione russa, ha sede a Copenaghen. Anche in Italia ci sono uffici di rappresentanza. Uno si trova a Roma e si occupa di epidemiologia ambientale, sicurezza alimentare, inquinamento delle acque, dei trasporti e atmosferico, cambiamenti climatici e impatto dello sviluppo economico sulla salute. L’Ufficio di Venezia fa ricerca sugli aspetti economici, sociali e sanitari della popolazione, cercando di investire sul binomio salute-sviluppo. La sede del Comitato decentrato dell’Africa si trova a Brazzaville (Repubblica del Congo), quella del Mediterraneo orientale al Cairo (Egitto), del sud-est Asiatico a Nuova Delhi (India), delle Americhe a Washington (Stati Uniti) e del Pacifico occidentale a Manila (Filippine). Funzioni e finalità: il compito primario dell’Organizzazione è quello di fornire una leadership globale su materie legate alla salute e a programmi di ricerca sanitaria, indirizzando gli Stati verso l’adozione di risoluzioni scaturite dal monitoraggio e dalla valutazione delle tendenze di salute, fissando norme e regole standard da applicare in ogni stato. Si impegna per creare sinergie volte a sviluppare azioni comuni contro le emergenze, mira alla diffusione delle conoscenze scientifiche in materia di salute pubblica. Si batte per fornire un accesso equo alle rocca schede cure essenziali contro le minacce transnazionali. Punta a promuovere il miglioramento delle condizioni sanitarie nel mondo attraverso il progresso della medicina e dei servizi sanitari e ospedalieri, l’intensificazione e il coordinamento della vigilanza e dell’assistenza contro le epidemie, l’incremento della ricerca scientifica medica e farmacologica, la diffusione delle informazioni sanitarie e la conclusione di accordi internazionali. Raggiungere il più alto livello di salute per la popolazione, inteso come benessere fisico, mentale e sociale, nonché assistenza in caso di malattia o infermità sono due obiettivi primari dell’Oms. Tutte queste funzioni costituiscono il contenuto dell’undicesimo Programma generale (la cui durata va dal 2006 fino al 2015), che provvede a fornire le linee guida per l’organizzazione del lavoro, del budget e delle risorse di ogni paese membro. Sistema Oms: l’Oms opera in un panorama sempre più complesso e in rapida evoluzione. I confini della sanità pubblica sono poco chiari, estendendosi sempre più spesso su altri ambiti che a loro volta esercitano un’influenza sulla salute. Dal 1995 l’Oms pubblica un Rapporto sullo stato della salute a livello mondiale in cui si combina la perizia sulla salute globale con un focus su un argomento specifico. Il Rapporto mira a impartire indicazioni e informazioni utili per aiutare paesi e organizzazioni a prendere decisioni politiche e finanziarie per la salvaguardia della salute del cittadino. L’obiettivo è quello di conseguire un buono stato di salute attraverso un processo di sviluppo sostenibile che assicuri a tutti i cittadini servizi sanitari, anche in caso di impossibilità a coprirne le spese. ❑ Fraternità raccontare proporre chiedere Burundi cibo per il corpo e per la mente L credibili del posto per valorizzare e responsabilizzare le risorse umane locali». «Nei pressi della capitale Buyumbura, visitando la garderies di Mpanda» racconta la dott. Maccone «abbiamo trovato i bambini che si sono lavati le mani in una grande bacinella, poi si sono seduti ai tavolinetti per mangiare riso e fagioli (un piatto ogni due piccoli) e, finito il pasto, hanno lavato il loro piatto. Qualche mamma sorvegliava lo svolgimento del pasto ed era pronta a consolare il pianto disperato dei più piccoli che vedevano per la prima volta muzungu (bianchi)». L’attività didattica che gli animatori svolgono nelle garderies ha contenuti minimi, che risultano però sconosciuti ai bambini al loro ingresso: dalla pratica di regole igieniche di base all’imparare la loro lingua, il kirundi, che poi è una lingua bantu assai complessa, perché la maniera in cui si pronuncia un suono (più o meno alto o basso) può cambiare il senso della parola. I bambini di 3/4 anni ripetono le parole del maestro e cantano canzoncine, quelli della seconda classe (5/6 anni) scrivono lettere e numeri alla lavagna, che è l’unico sussidio didattico disponibile. È aumentato il numero dei piccoli iscritti e frequentanti, tanto che molte richieste non possono essere accolte, perché porterebbe a superare il tetto dei 50 bambini per classe... e chi rimane fuori protesta! Benefattori di Fraternità, possiamo aiutare le mense delle 9 garderies burundesi a funzionare, offrendo un pasto giornaliero, nella prima parte dell’anno scolastico (1/2 settembre – 1/2 dicembre 2011) periodo più difficile da gestire a causa della carestia? Costo mensile: € 3.375. Costo trimestrale: € 10.125. Luigina Morsolin Per contribuire al presente progetto Burundi e/o al Progetto Guinea e/o al Progetto Haiti tuttora in corso, si possono inviare contributi con assegni bancari, vaglia postali o tramite il ccp 10635068, Coordinate: Codice IBAN: IT76J 0760103 0000 0001 0635 068 intestato a Pro Civitate Christiana – Fraternità – Assisi. Per comunicazioni, indirizzo email:[email protected] 63 . ROCCA 15 LUGLIO 2011 ’aggiunta della mensa nelle garderies» riferisce Cristina Maccone, referente italiana per il progetto, al termine del suo recente viaggio in Burundi dove ha monitorato la situazione nelle 9 scuole dell’infanzia interessate, ha innescato un serio coinvolgimento dei genitori dei bambini: in alcune scuole essi si sono accordati per pagare un guardiano per il controllo degli alimenti che vengono settimanalmente forniti dal responsabile provinciale dell’Asb. A dimostrazione di come i genitori riescano ad assumersi delle responsabilità dirette, non solo nel chiedere qualcosa per i propri figli, come l’ammissione a queste scuole dell’infanzia, la cui frequenza è gratuita, ma anche nell’impegnarsi per migliorare insieme il funzionamento di un servizio collettivo. Per questa gente rappresenta in qualche modo la risposta al monito popolare che ritrova nel detto burundese «Imana ikuvyarira siyo ikurerera/Dio ti dona figli, ma non li alleva per te»; per l’Associazione scout Eccomi è la realizzazione del principio «Operare insieme ed alla pari con partner cittadella di Assisi, 20-25 agosto 69° corso di studi cristiani “sporgersi ingenui sull’abisso...” il male sfida uomini e religioni il Corso è in collaborazione con la Comunità ecumenica di Bose, Exodus e l’Editrice Queriniana domenica 21 ore 9,00 16,30 21,15 lunedì 22 ore 9,00 16,30 19,00 martedì 23 9,00 16,30 21,15 mercoledì 24 ore 9,00 16,30 21,15 il male sfida gli uomini e la fede - Enzo BIANCHI, priore Com. ecumenica di Bose male, dove sono i tuoi dèmoni? – Marco POLITI, scrittore e giornalista ‘spesso il male di vivere ho incontrato’ – Rosella DE LEONIBUS, psicologa e psicoterapeuta – coordina Tonio DELL’OLIO l’inquietante banalità del male – Giovanni CUCCI, filosofo e psicologo maschilismo e violenza – Nicoletta DENTICO, giornalista, dell’Associazione ‘Filomena, donne in rete’ – coordina Emanuele FILOGRANA liturgia eucaristica festiva il bene e il male in Dostoevskij – Sergio GIVONE, filosofo ‘pongo davanti a te il bene e il male’ – Rosanna VIRGILI, biblista coordina Mariano BORGOGNONI riscoprire il fascino e la forza del bene – Vito MANCUSO, teologo e scrittore – introduce Raffaele LUISE la bellezza dell’arte, terapia del male? – Svetlana MELNICHENKO e Franco PROSPERI, scultori – coordina Anna NABOT inaugurazione della Mostra dei due artisti quel confine smarrito tra vero e falso, tra giusto e ingiusto… Roberta DE MONTICELLI, filosofa - introduce Tonio DELL’OLIO oltre i fanatismi, i fondamentalismi, le idolatrie – Marco GALLIZIOLI, fenomenologo delle religioni – introduce Gianna GALIANO des hommes et des dieux - film di Xavier Beauvois in ascolto del grido dei popoli e delle coscienze – tavola rotonda interreligiosa con Izzedin ELZIR, imam di Firenze; Elizabeth GREEN, pastora battista; Tanaka HIROMASA, buddhista giapponese; Giuseppe LARAS, rabbino; Dipak Raj PANT, antropologo nepalese; Domenico SORRENTINO, vescovo di Assisi, Nocera, Gualdo Tadino coordina Raffaele LUISE, giornalista RAI prendersi cura della terra, rigenerare la vita – Simone MORANDINI, fisico, teologo sull’orlo dell’abisso… resistere alla vertigine – Ermes RONCHI, servo di Maria ‘la mia lettera siete voi’: Paolo ai credenti di oggi – testo di Ermes Ronchi ogni giorno,ore 8,00, preghiera del mattino con Barbara INVERNIZZI ed Emanuele PREVIDI iscrizione (+ IVA 20%): € 90,00; per coniugi, insegnanti di religione, giovani (fino a 30 anni) € 75,00 informazioni iscrizioni soggiorno Cittadella Convegni – via Ancajani 3 – 06081 ASSISI/Pg; tel. 075/813231; fax 075/812445; [email protected]; [email protected]; ospitassisi.cittadella.org; www.cittadella.org DCOER0874 sabato 20 ore 21,15