544-553 Rass./Gensini

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544-553 Rass./Gensini
Rassegne
Vol. 93, N. 10, Ottobre 2002
Il sistema renina-angiotensina-aldosterone,
l’enzima di conversione dell’angiotensina I
e gli ACE-inibitori.
Prospettiva storica e recenti acquisizioni
Gian Franco Gensini 1, Donatella Lippi 2, Andrea A. Conti 1
Riassunto. Il sistema renina-angiotensina-aldosterone (SRAA) è precipuamente deputato alla regolazione dell’omeostasi circolatoria. Il sistema, presente nella maggior parte
delle specie animali, è costituito da un numero di elementi che fungono da effettori in grado di aumentare i propri livelli circolanti in risposta alla riduzione del volume intravascolare ed alla diminuzione della perfusione renale. Il SRAA è a sua volta regolato da diversi meccanismi. Nella presente rassegna, un inquadramento storico precede la
descrizione delle principali funzioni del SRAA, vale a dire la regolazione della pressione
arteriosa ed il controllo dell’omeostasi idroelettrolitica. Viene passata in rassegna l’evoluzione delle conoscenze sull’enzima di conversione dell’angiotensina I e vengono delineati i rapporti, attualmente studiati in modo estensivo, tra il SRAA ed il sistema emostatico. La prospettiva storica della rassegna permette di ripercorrere i passaggi chiave
che dalla ricerca clinica sul SRAA hanno condotto all’applicazione terapeutica basata sulle evidenze, in particolare allo sviluppo degli ACE-inibitori. La rassegna si chiude con la
valutazione del razionale della terapia con ACE-inibitori nell’ipertensione arteriosa, nell’infarto miocardico acuto, nell’insufficienza cardiaca e nella nefropatia diabetica, e con
una breve discussione degli antagonisti recettoriali dell’angiotensina.
Parole chiave. ACE-inibitori, medicina basata sulle evidenze, nefropatia diabetica, sistema renina-angiotensina-aldosterone, storia della medicina.
Summary. The renin-angiotensin-aldosterone system, the angiotensin I converting enzyme and the ACE-inhibitors. Historical perspective and recent achievements.
The renin-angiotensin-aldosterone system (RAAS) is committed to the regulation of
circulatory homeostasis. This system, present in the majority of animal species, is constituted by several elements which behave as effectors able to increase their levels in response to the reduction of the intravascular volume and to the decrease of the renal perfusion. In turn, RAAS is regulated by a number of mechanisms. In our review a historical
view precedes the description of the major functions of RAAS, i.e. the regulation of arterial pressure and the control of the hydroelectrolytic homeostasis. The evolution of the
achievements about the angiotensin I converting enzyme is reviewed and the currently
investigated relationship between RAAS and hemostatic system is assessed. The historical perspective of this review is useful to follow the key passages leading from clinical
research to evidence-based therapeutic applications, in particular to the development of
ACE-inhibitors. The evaluation of the rationale of ACE-inhibitors therapy in the treatment of arterial hypertension, acute myocardial infarction, heart failure, and diabetic
nephropathy, and a discussion of the angiotensin receptor blockers, close the review.
Key words. ACE-inhibitors, diabetic nephropathy, evidence based medicine, history of
medicine, renin-angiotensin-aldosterone system.
1 Clinica Medica Generale e Cardiologia;
Firenze.
Pervenuto il 2 aprile 2002.
2
Dipartimento di Anatomia, Istologia e Medicina Legale, Università,
G.F. Gensini, D. Lippi, A.A. Conti: Sistema renina-angiotensina-aldosterone e ACE-inibitori
Inquadramento storico
STORIA DELLA COMPRENSIONE
DEL SISTEMA RENINA-ANGIOTENSINA-ALDOSTERONE
Nell’evoluzione delle conoscenze sull’ipertensione il
ruolo del rene rappresenta uno dei punti più approfonditamente discussi: dopo gli studi di Gull e Sutton
(1872), Mahomed e von Basch (1894) e Allbutt (1896),
che avevano contribuito a dimostrare come l’ipertensione arteriosa non fosse da considerare l’epifenomeno di
una nefropatia, il binomio rene-ipertensione che Bright 1
aveva stabilito, era, invece, profondamente compromesso. L’ipertensione diventava il sintomo di patologie diverse e ne veniva individuata una forma renale ed una
pre-renale, identificate coi termini di iperpiesia e iperpiesi 2, su cui, per la prima volta, era possibile impostare un trattamento farmacologico o, dopo gli studi di
Ambard e Beaujard, una dieta a basso contenuto di sale, per compensare il bilancio positivo di cloruri che si
verifica nella sindrome ipertensiva. Il legame tra ipertensione e rene, invece, torna a rinsaldarsi dopo gli studi di Tigerstedt e Bergman 3, i quali, nel 1898, isolarono
una nuova sostanza, la renina. Il legame ipertrofia cardiaca-rene coartato, che Bright aveva proposto, viene
ora ad essere inserito in un programma di ricerca, finalizzato alla individuazione di una potenziale sostanza
che fosse in grado di intervenire sul flusso ematico e che
avesse origine nel rene. L’assunto epistemologico di questa strategia era garantito dalla teoria di BrownSéquard che, nel frattempo, aveva condotto altri studi,
confermando la produzione, da parte di alcuni organi, di
sostanze in grado di esercitare la loro influenza anche a
distanza. Partendo dal presupposto che esistano diversi
tipi di mancanza di secrezione renale, attraverso l’esame approfondito di diversi casi di anuria e attraverso gli
esperimenti condotti con D’Arsonval, si dimostrava che
i fenomeni uremici, che si manifestavano in seguito a nefrectomia, sparivano nel momento in cui nell’animale
nefrectomizzato veniva iniettato un liquido ottenuto dal
parenchima renale: era la prova che questo liquido conteneva la secrezione interna delle ghiandole e che i fenomeni uremici erano dovuti all’assenza di secrezione
interna. Furono, appunto, questi studi che spinsero
Tigerstedt e Bergman ad approfondire lo studio della
funzionalità renale: dopo aver visitato il laboratorio di
Ludwig a Lipsia, Tigerstedt organizzò in modo analogo
il suo Centro a Stoccolma, cominciando ad impostare la
ricerca su quei “chemical messengers”, secreti da organi
diversi nel sangue, la cui mancanza, a partire dalle intuizioni di Brown-Séquard, poteva essere corresponsabile di determinate alterazioni patologiche.
In seguito ad una serie di esperimenti basati sulla
iniezione del fluido superficiale di rene fresco di coniglio,
omogeneizzato in soluzione salina e centrifugato, in altri conigli, in cui veniva registrato un costante incremento dei valori pressori, fu individuata una sostanza,
presente nel sangue venoso del rene ma non in quello arterioso, il cui principio attivo non coincideva con nessuno di quelli presenti nell’urina: la renina. I dati raccolti
dai due sperimentatori denotavano una grande cautela:
pur insistendo sulla possibile importanza di questa sostanza ipertensiva formata a livello renale, suggerendo
che, in certi casi, la sua eccessiva quantità potesse esercitare una azione particolare sulla muscolatura vascolare, provocando maggiore resistenza nei vasi ed ipertrofia cardiaca, si astenevano dal sottolineare il legame tra
questa e la malattia renale.
Se il rene tornava ad essere protagonista della genesi dell’ipertensione, acquistava, però, un ruolo diverso,
in quanto gli veniva attribuita una azione ormonica che,
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se esaltata, provoca ipertensione: in seguito a diversi
esperimenti, basati su una articolata manipolazione del
rene, fu necessario modificare la formulazione della legge di Poiseuille. Le varietà cliniche dell’ipertensione si
diversificano ulteriormente, tanto da rendere difficile
l’inquadramento della patologia in una definizione unitaria: Pal aveva formulato (1904) il concetto di ipertensione primaria, chiamata “genuina” da Munck ed “essenziale” da Franck. A queste si aggiunge la
classificazione di Volhard e Fahr (1914) di ipertensione
rossa e bianca, con le variabili di “benigna” e “maligna”.
Nonostante i vari progressi nelle conoscenze sui meccanismi fisiologici della pressione, l’ipertensione continuava a essere vista come una sorta di fenomeno compensatorio per ripristinare il flusso ematico renale: le
ricerche si indirizzarono allora sulla ricerca della sostanza secreta dal rene che fosse in grado di influenzare il flusso ematico e da quale stimolo fosse prodotta.
Furono determinanti a questo proposito le ricerche di
Goldblatt: avendo assistito alla nefrectomia di un paziente monorene, deceduto pochi giorni dopo l’intervento, il quale aveva presentato un innalzamento dell’azotemia ma non della pressione arteriosa, impostò una
serie di esperimenti, mettendo a punto una tecnica particolare per l’induzione sperimentale dell’ipertensione 4,
realizzando una pinza d’argento, corredata da speciali
strumenti per manovrarla in profondità e provocare la
stenosi dell’arteria renale. Attraverso la riduzione del
flusso sanguigno tramite pinzettamento dell’arteria renale si verificava infatti un aumento persistente della
pressione arteriosa, anche dopo parziale denervazione
renale, escludendo in questo modo ogni influenza neurogena. Era necessario verificare che l’ischemia limitata ai reni poteva essere la condizione iniziale nella genesi dell’ipertensione, associata a nefrosclerosi, che
avrebbe dovuto essere seguita da innalzamento dei valori pressori, e realizzare pertanto una ischemia limitata ai reni, che venne indotta tramite l’applicazione della pinza all’arteria renale principale di un solo rene e,
successivamente, anche dell’altro, con una crescente stenosi in ambedue. L’ipertensione negli animali in cui la
stenosi era indotta in modo meno drastico, senza compromissione della funzionalità renale, veniva paragonata all’ipertensione umana associata a nefrosclerosi benigna; una maggiore stenosi, seguita da uremia e da
alterata funzionalità renale, era assimilata all’ipertensione accompagnata da nefrosclerosi maligna, con presenza, post-mortem, di arteriolonecrosi. Goldblatt veniva a ipotizzare l’esistenza di un meccanismo umorale,
con un agente pressorio presente nel sangue venoso renale, che venne confermato dagli studi di Houssay e
Fasciolo (1937): le ricerche successive furono prevalentemente indirizzate verso la individuazione della sostanza responsabile del meccanismo pressorio. Fu infatti dimostrato che la renina è un enzima che non produce
il suo effetto in modo diretto, ma reagendo con una globulina plasmatica, l’ipertensinogeno, producendo una
sostanza, che Page e Helmer (1939) chiamarono angiotonina e Braun-Menendez (1939) definì ipertensina 5.
Era stato osservato, infatti, che l’azione vasocostrittrice
delle preparazioni di estratto di rene ischemico, molto
ricco, quindi, di renina, è efficace se l’estratto è perfuso
o incubato con plasma, in cui doveva essere individuato
il “renin activator”. Dal momento, infatti, che l’attivatore della renina forniva la attività pressoria della renina
depurata, era ragionevole cercare prodotti derivati dalla interazione della renina e del suo attivatore: questo
era l’obiettivo di Page e Helmer, che individuarono una
sostanza pressoria stabile al calore, contenente derivati
cristallini, che chiamarono angiotonina, insistendo sull’etimo greco di “vaso sanguigno + sforzo”.
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Recenti Progressi in Medicina, 93, 10, 2002
La conclusione raggiunta fu che la renina reagisce
con un renino-attivatore, con cui forma una sostanza intensamente pressoria, dimostrando, inoltre, che la renina ha attività ipertensiva, in quanto agisce su un fattore inerte presente nel plasma, che traduce in principio
attivo vasopressore.
La angiotensina, come si chiamò dopo un accordo tra
gli scienziati questo fattore peptidico, una volta prodotta, però, non rimane a lungo in circolo ma viene distrutta da enzimi proteolitici, che sono ampiamente distribuiti in tutto il corpo; come poteva essere giustificato il
carattere persistente dell’ipertensione, dal momento che
i valori di renina e angiotensina risultavano elevati solo
nelle fasi iniziali dell’esperimento?
I maggiori progressi nella storia della renina-angiotensina furono raggiunti quando Skeggs e i suoi collaboratori isolarono il decapeptide angiotensina I e purificarono il cosiddetto “hypertensin-converting enzyme”,
responsabile della produzione dell’octapeptide vasoattivo
angiotensina II (1951). Né la renina, né la angiotensina
provocano in modo autonomo l’ipertensione: quando l’angiotensina, infatti, attraversa col sangue venoso i capillari polmonari, viene trasformata da un enzima di conversione (ACE, acronimo di Angiotensin Converting
Enzyme) in angiotensina II, ed è questa che provoca l’aumento pressorio. Si deve sempre a Skeggs l’individuazione di due forme di ipertensina: ipertensina I, risultato dell’azione della renina sul substrato plasmatico, e
ipertensina II, convertita attraverso un enzima plasmatico attivato dallo ione cloro (1954). Questa osservazione fu correlata ad alcuni casi di decessi per “collasso cardiocircolatorio” in seguito al morso della vipera
Bothrops Jararaca, il cui veleno doveva contenere una
sostanza in grado di ridurre la pressione arteriosa in
modo cospicuo ed immediato: in realtà fu dimostrato che
questo veleno favorisce la formazione di peptidi che esaltano le risposte alla bradichinina, inibenti anche l’enzima di conversione dell’angiotensina.
Nel momento in cui, negli anni sessanta, venne chiarito il meccanismo della sindrome di Conn, dimostrando
che l’angiotensina regola la liberazione di aldosterone,
fu aperta la strada a un ulteriore approfondimento delle teorie eziopatogenetiche sull’ipertensione. Conn formulò la diagnosi di “aldosteronismo primario” su un solo caso, una paziente affetta da grave ipertensione, con
notevole ritenzione di sodio e perdita di potassio attraverso le urine: quella che chiamò “unknown disease” veniva legata, comunque, alla presenza di un ormone di recente individuazione, l’aldosterone, identificato da
Simpson nel 1953 come “elettrocortina” e sintetizzato
da Wettstein.
In questo modo, era stato portato un contributo fondamentale alla comprensione del meccanismo di regolazione della pressione sanguigna in generale, grazie all’approfondimento dei rapporti con la regolazione salina
ed i corticosteroidi, e del sistema renina-angiotensinaaldosterone, come noi lo chiamiamo oggi, in particolare.
Il sistema renina-angiotensina-aldosterone,
oggi
Il sistema renina-angiotensina-aldosterone
(SRAA) è precipuamente deputato alla regolazione
dell’omeostasi circolatoria essendo estremamente
sensibile alle perdite di acqua e di elettroliti, quali quelle dovute a sudorazione profusa, vomito ed
diarrea. Il sistema, presente nella maggior parte
delle specie animali, è costituito da diversi elementi che fungono da effettori in grado di aumen-
tare i propri livelli circolanti in risposta alla riduzione del volume intravascolare ed alla diminuzione della perfusione renale 6-8. Il SRAA è a sua volta regolato da più di un meccanismo. L’increzione
della renina, infatti, è influenzata da fattori intrarenali (pressione endoluminale, natriocezione),
adrenergici (barocettori cardio-polmonari, apparato juxtaglomerulare), ematici (vasopressina, potassiemia), prostaglandinici renali. Il sistema ha
anche rapporti con il sistema delle callicreine-chinine coinvolto nella vasodilatazione renale, e con
l’ADH, la cui sintesi sembra essere stimolata dall’angiotensina II. L’angiotensina II è anche il più
importante stimolatore della produzione di aldosterone quando il volume intravascolare risulta ridotto, e l’intero SRAA è uno dei principali regolatori della pressione arteriosa. L’aldosterone ha un
ruolo fisiologico essenziale nella prevenzione del
depauperamento in acqua ed elettroliti in corso di
scarsa assunzione dietetica di sodio e un ruolo “fisiopatologico” altrettanto importante nella ritenzione del sodio nei soggetti portatori di sindrome
nefrotica, cirrosi epatica e scompenso cardiaco congestizio 9-12.
Il sistema renina-angiotensina-aldosterone
e la regolazione pressoria
Variazioni, anche modeste, della concentrazione plasmatica dell’angiotensina II determinano
notevoli aumenti della pressione arteriosa, configurando un ruolo decisivo del SRAA nella regolazione della pressione arteriosa, a breve come a lungo termine. La risposta rapida della pressione
arteriosa alle pur modeste modificazioni dei livelli dell’angiotensina II è dovuta essenzialmente al
rapido incremento delle resistenze periferiche totali. L’angiotensina II causa anche un’attivazione
dei barocettori, con conseguente riduzione del tono
del simpatico ed aumento del tono vagale. Le modificazioni della concentrazione plasmatica della
angiotensina II sono peraltro in grado di determinare una variazione lenta della risposta pressoria,
e in effetti la sua infusione lenta causa un incremento graduale della pressione arteriosa, che raggiunge il picco nell’arco di giorni. L’angiotensina II
induce anche modifiche strutturali, e non solo funzionali, dell’apparato cardiovascolare che si riflettono sulla stessa omeostasi pressoria. In particolare, l’ipertrofia della parete vascolare e delle
cellule muscolari cardiache è mediata da fattori di
crescita quali il PDGF e il TGF-beta, la cui sintesi
è stimolata dall’angiotensina II, capace anche di
stimolare la crescita dei fibroblasti e di indurre la
produzione di proteine della matrice cellulare 13,14.
Le evidenze attualmente disponibili permettono di individuare vari meccanismi attraverso i
quali il SRAA regola l’omeostasi pressoria: mediante le modificazioni strutturali dell’apparato
cardiovascolare (soprattutto ipertrofia e rimodellamento cardiaco), mediante l’incremento delle resistenze periferiche (il rilascio delle catecolamine è
mediato dall’angiotensina II, che ne inibisce anche
la re-captazione), mediante la modulazione della
G.F. Gensini, D. Lippi, A.A. Conti: Sistema renina-angiotensina-aldosterone e ACE-inibitori
funzionalità renale (l’angiotensina II stimola il rilascio dell’aldosterone dalla corticale renale).
Le prime osservazioni che depongono per l’esistenza di sistemi renina-angiotensina tessutali risalgono addirittura al 1903, quando Vincent dimostrò la presenza di sostanze vasocostrittrici nei
vasi, nel rene e nel cervello. È comunque negli ultimi anni che una mole crescente di evidenze ha
permesso di identificare compiutamente sistemi
renina-angiotensina locali, che affiancano ed interagiscono con il SRAA classicamente inteso come
sistema “endocrino”. I sistemi renina-angiotensina
tessutali sono presenti in molti tessuti, tra cui il
cuore (dove, tra le funzioni documentate, segnaliamo la regolazione del metabolismo e dell’ipertrofia), i vasi sanguigni (tono ed ipertrofia vascolare),
i reni (emodinamica glomerulare), i surreni (increzione dell’aldosterone), l’ipofisi (increzione di
ACTH e prolattina), l’utero (flusso uteroplacentare e contrattilità), l’intestino (assorbimento di ioni
ed acqua), il cervello (regolazione della sete e dell’increzione di argininvasopressina) 15.
Il sistema renina-angiotensina-aldosterone
e l’omeostasi idroelettrolitica
Il controllo fisiologico dell’omeostasi idroelettrolitica implica l’azione integrata di “recettori” e
di diversi meccanismi di contro-regolazione, tra cui
spiccano i sensori della perfusione renale e della
concentrazione intratubulare del sodio e gli ormoni dedicati. La renina, che viene liberata dalle cellule juxtaglomerulari, è un effettore chiave in
quanto trasforma l’angiotensinogeno in angiotensina I, il decapeptide substrato dell’enzima di conversione (ACE) in grado di trasformarla a sua volta in angiotensina II. Questo octapeptide è
essenziale nella regolazione dell’equilibrio idroelettrolitico in quanto, tra l’altro, promuove il riassorbimento del sodio nei segmenti distali del nefrone, nelle ghiandole salivari e nel colon.
Modificazioni dell’assunzione del sodio determinano variazioni nella increzione della renina, increzione che viene stimolata quando l’assunzione di
acqua e sali si riduce, e viceversa. L’ingestione di
liquidi, soluti e cibi solidi non è l’unico stimolo all’increzione di renina, che viene rilasciata in circolo anche durante l’assunzione dell’ortostatismo e
durante la marcia. Se l’angiotensina II rappresenta il più importante stimolo alla sintesi di aldosterone (quando la volemia è ridotta), la kaliemia costituisce l’altro grande determinante della
produzione di aldosterone, a sua volta un regolatore dell’omeostasi del potassio in quanto capace di
incrementare la kaliuria, ma anche la concentrazione del potassio in altri liquidi organici quali la
saliva ed il sudore. Da queste brevi note è facilmente comprensibile quanto sia fine ed integrata
la rete di regolazione e contro-regolazione del
SRAA. L’angiotensina II e l’aldosterone, infatti, oltre a vasocostringere le arteriole per mantenere
l’omeostasi pressoria in corso di ipovolemia, ripristinano l’equilibrio idroelettrolitico attraverso la
stimolazione del senso della sete 9,10.
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Per quanto riguarda l’aldosterone, prodotto dai
surreni nella quantità di circa 50-200 microg al
giorno, molti e diversi sono i fattori favorenti e limitanti la sua increzione. Tra i fattori favorenti
l’increzione si segnalano la renina, l’angiotensina
II, l’iponatriemia, l’iperkaliemia e l’ipotensione arteriosa. Tra quelli che la riducono ricordiamo la
somministrazione di prednisone, l’ipernatriemia,
l’ipokaliemia e l’ipertensione arteriosa. Evidenze
recenti dimostrano che la sintesi dell’aldosterone
non avviene soltanto nella zona glomerulare del
surrene, ma anche nelle cellule endoteliali e nelle
cellule muscolari lisce dei vasi sanguigni e del cuore. Anche se il ruolo ed il rilievo fisiologico della
produzione locale dell’aldosterone non sono al momento stabiliti, alcuni rilievi suggerirebbero che
l’aldosterone possa, a livello miocardico, contribuire alla riparazione del tessuto dopo un infarto 12.
L’enzima di conversione dell’angiotensina I
L’enzima di conversione dell’angiotensina è una
esopeptidasi che catalizza la trasformazione dell’angiotensina I in angiotensina II, la forma attiva.
La reazione si verifica per distacco del dipeptide
istidil-leucina dall’estremità carbossilica del decapeptide angiotensina I, che si trasforma così nell’octapeptide angiotensina II. L’ACE è presente in
quantità elevata nella placenta, nel pancreas, nei
glomeruli renali e nei polmoni, in quantità minore
nei microvilli intestinali, nei testicoli e nei tubuli
prossimali. L’angiotensina I non è comunque l’unico substrato naturale dell’ACE, che è in grado di
degradare anche la bradichinina, un peptide vasodilatatore che deriva dalla kallicreina e che stimola la sintesi di PGI2 e di PGE2. La varianza fenotipica riscontrabile nel siero è almeno in parte
sostenuta dalla presenza nel gene dell’ACE di un
polimorfismo di inserzione/delezione nell’introne
16. I soggetti omozigoti, a causa della delezione
breve dell’allele, presentano elevati valori sierici di
ACE ed un rischio maggiore di iperglicemia, nefropatia diabetica, morte improvvisa ed ipertrofia
ventricolare sinistra. L’ACE è contenuto prevalentemente nel plasma e nei monociti; la sua determinazione si effettua con metodi spettrofotometrici o radioimmunologici, anche se, per quanto l’ACE
sia essenziale nel SRAA e di conseguenza nella regolazione dell’omeostasi idroelettrolitica e nel controllo della pressione arteriosa, la sua determinazione ematica ha uno scarso valore nell’indagine di
uno stato ipertensivo. La istoplasmosi, la sarcoidosi, la sclerodermia, la cirrosi alcolica e l’embolia
polmonare sono invece solo alcune delle condizioni
patologiche in cui l’incremento della concentrazione plasmatica dell’ACE riveste un preciso significato 16,17.
L’idea di denominare un enzima sulla base della prima funzione ad essere scoperta non toglie che
esso possa avere altre (importanti) funzioni; è questo esattamente il caso dell’enzima di conversione,
in altri contesti chiamato infatti anche chininasi
II, in quanto capace di inattivare la bradichinina
ed altri peptidi vasodilatatori.
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Questa semplice considerazione sottende anche
che gli agenti che intervengono in modo inibitorio
(gli ACE-inibitori) sull’enzima in oggetto non hanno soltanto la funzione di bloccare l’enzima di conversione, ma verosimilmente molte altre funzioni,
ad oggi chiarite solo in parte. In definitiva, come si
vedrà meglio nel seguito, gli ACE-inibitori non si
somministrano soltanto perché sono ACE-inibitori!
Il SRAA è dunque uno dei più importanti modulatori della omeostasi idroelettrolitica e della
pressione arteriosa; meno note, ancora nel 2002,
sono le sue funzioni nella regolazione del sistema
emostatico.
Il sistema renina-angiotensina-aldosterone
ed il sistema emostatico
L’ACE ha un ruolo di primo piano sia nella sintesi della angiotensina II che nella degradazione
della bradichinina, due molecole coinvolte nella
proliferazione e nella migrazione delle cellule muscolari lisce vasali, oltre che nei meccanismi della
vasocostrizione. Esistono dimostrazioni in vitro
che l’angiotensina II incrementa la sintesi e la liberazione in circolo del PAI-1 (attivatore dell’inibitore del plasminogeno 1) nelle cellule endoteliali di
aorta bovina in coltura. Attraverso la degradazione della bradichinina l’ACE contribuisce anche a
decrementare la sintesi del t-PA. Esistono inoltre
studi in vivo che hanno dimostrato che l’infusione
di angiotensina II in individui normotesi ed ipertesi fa aumentare i livelli del PAI-1 circolante, e
che in individui normotesi di controllo la stessa infusione aumenta l’attività ed i livelli di t-PA.
L’analisi molecolare dei polimorfismi nei geni codificanti gli effettori del SRAA e del gene codificante il PAI-1 ha permesso di ottenere rilevanti acquisizioni riguardanti i rapporti tra ACE e
fibrinolisi. L’omozigosi DD nel polimorfismo inserzione/delezione del gene ACE è associata con valori elevati di PAI-1 in soggetti di sesso maschile a rischio ridotto di patologia cardiovascolare ed in
soggetti di sesso femminile in postmenopausa 18-23.
L’angiotensina II regola anche la sintesi del tissue factor, come dimostrato dall’osservazione che
l’angiotensina II incrementa l’espressione di tissue factor in cellule endoteliali di aorta di ratto e
dal rilievo che i livelli di tissue factor vengono ridotti dalla somministrazione di inibitori dell’ACE
in soggetti affetti da infarto miocardico 24-26 .
L’angiotensina II è anche in grado di stimolare la
sintesi dell’IL6 nelle cellule muscolari lisce, una citochina che modula l’aumento del fibrinogeno e
della PCR nella risposta infiammatoria 27.
L’ACE aumenta inoltre l’aggregazione piastrinica, che viene invece ridotta dalla somministrazione di inibitori dell’ACE, e l’interazione del
SRAA con la funzione piastrinica coinvolge i mediatori prodotti e liberati dalle cellule endoteliali,
quali la PGI2 (prostaciclina) ed il NO. Gli studi
conclusi e quelli attualmente in corso sembrano
indicare che la genetica potrà assegnare ai diversi
attori del SRAA il loro ruolo definito e completo nel
contesto della trombogenesi e, di riflesso, gettare
luce sul reale meccanismo dei molteplici effetti benefici ipotizzati, ma non ancora dimostrati, per gli
ACE-inibitori 28-32.
Gli inibitori dell’ACE
La realizzazione degli inibitori dell’ACE, ossia
di molecole sintetiche capaci di bloccare una tappa essenziale del SRAA, ha portato, come non di
rado è avvenuto nella storia della medicina, ad
una migliore comprensione del ruolo e delle funzioni del sistema stesso. Nel 1987, sul Journal of
Cardiovascular Pharmacology, Cushman e collaboratori pubblicarono un articolo intitolato
“Rational design and biochemical utility of specific
inhibitors of angiotensin-converting enzyme” e
progettarono il primo ACE-inibitore attivo per via
orale, basato sull’azione di alcuni peptidi isolati
dal veleno di una vipera sudamericana, il Bothrops
Jararaca 33. In realtà, già negli anni ’60 Ferreira
aveva isolato, sempre nel veleno citato, un fattore
capace di potenziare la risposta alla bradichinina
e bloccare in vitro l’attività dell’ACE. La molecola
estratta, chiamata captopril, stabiliva un legame
con lo zinco presente nella metallopeptidasi, bloccandone l’azione. L’incorporazione di un gruppo
carbossilico nella realizzazione dell’enalapril da
parte di Patchett ed altri nel 1980 ha rappresentato un successivo sviluppo di rilievo 34. In realtà
vale la pena ricordare che all’inizio dello sviluppo
degli ACE-inibitori le prospettive cliniche del loro
impiego sembravano piuttosto limitate, in quanto
si riteneva che questi agenti fossero indicati soltanto nel trattamento della ipertensione nefrovascolare. Alla fine degli anni ’70 si cominciò, al contrario, ad ipotizzare l’impiego degli ACE-inibitori
nell’insufficienza cardiaca alla luce delle conoscenze sul ruolo del SRAA e, quindici anni dopo, la
spinta maggiore all’uso degli inibitori dell’ACE
nelle patologie cardiovascolari è stata data proprio
in seguito al loro razionale nello scompenso cardiaco congestizio. La dimostrazione di Erdos che
l’ACE e la chininasi II erano lo stesso enzima in
grado di agire sia sulla bradichinina, degradandola, che sull’angiotensina I, trasformandola nel potente vasocostrittore angiotensina II, permise di
aggiungere un tassello di grande importanza al
mosaico degli effetti della classe di farmaci in discussione.
Nel corso degli anni sono stati prodotti numerosi agenti appartenenti alla classe degli ACE-inibitori, il cui capostipite è considerato il captopril, una
molecola contenente un gruppo sulfidrilico. Le
grandi categorie di questa classe di farmaci vedono,
accanto al captopril, gli inibitori dell’ACE che contengono due funzioni carbossiliche, quali l’enalapril, e quelli contenenti un atomo di fosforo, come il
fosinopril. La composizione della molecola non è comunque l’unico elemento capace di distinguere
ACE-inibitori diversi, che si differenziano anche
sulla base dell’emivita plasmatica, dell’intensità di
azione e della possibilità di trasformazione (o meno) da profarmaco a farmaco attivo.
G.F. Gensini, D. Lippi, A.A. Conti: Sistema renina-angiotensina-aldosterone e ACE-inibitori
Gli inibitori dell’ACE hanno una clearance prevalentemente renale; si comprende pertanto come
i metaboliti attivi raggiungano concentrazioni
ematiche più alte nei soggetti anziani, in conseguenza della riduzione della clearance in questa
fascia della popolazione. Negli anziani è pertanto
anche più frequente la cosiddetta “ipotensione da
prima dose” 35-37.
Il meccanismo d’azione prevede una combinazione dell’inibitore ai siti attivi dell’ACE che determina un blocco sistemico e locale della sintesi
dell’angiotensina II ed una riduzione della metabolizzazione delle chinine, rispecchiato dalla riduzione della vasocostrizione mediata dall’angiotensina II e dall’inibizione del riassorbimento renale
del sodio. Questo meccanismo riconosce l’espressione più spiccata nel polmone, il distretto in cui la
concentrazione dell’enzima di conversione è più
elevata, anche se è rintracciabile in tutti i numerosi tessuti che contengono ACE. L’inibizione
dell’ACE comporta una gamma di effetti “ormonali”, di cui quelli principali oggi noti sono l’aumento
della bradichinina, l’aumento della increzione di
renina e di angiotensina I, la riduzione della sintesi dell’angiotensina II e dell’increzione dell’aldosterone.
L’analisi degli effetti degli ACE-inibitori evidenzia che nell’animale e nell’uomo in buona salute senza turbe del sodio una dose orale singola di
farmaco non abbassa la pressione, che risulta ridotta invece dopo dosi ripetute. Nell’individuo con
iponatriemia, al contrario, la prima dose è già in
grado di ridurre in modo apprezzabile la pressione
arteriosa.
Le variazioni indotte dagli inibitori dell’ACE
coinvolgono un numero di distretti bersaglio. Nel
cervello gli ACE-inibitori tendono a riportare nella
norma una alterata autoregolazione cerebrale. Nel
rene inducono un aumento del flusso ematico in assenza di modificazioni del filtrato glomerulare, il
che porta ad un decremento della frazione di filtrazione. Inoltre inducono una più elevata selettività
della membrana filtrante, riducendo – tramite il decremento dei livelli di angiotensina II – la proliferazione delle cellule mesangiali e la produzione della matrice. Nel circolo periferico provocano
riduzione pressoria in assenza di effetti retrogradi
sulla portata cardiaca e senza alterare i riflessi circolatori. Nel miocardio causano dilatazione delle coronarie, incremento del patrimonio intracellulare di
potassio e, a lungo termine, riduzione dell’ipertrofia
miocardica. Con particolare riferimento all’albero
cardiocircolatorio, gli ACE-inibitori riducono il preed il post-carico e, nel soggetto con insufficienza cardiaca, risultano di notevole beneficio in quanto contribuiscono all’aumento del volume sistolico, della
gittata sistolica e dell’indice cardiaco, con abituale
riduzione della frequenza cardiaca, riducendo al
contempo la dilatazione ventricolare sinistra 38,39.
L’azione antiipertensiva degli ACE-inibitori è
potenziata dalla somministrazione concomitante
549
dei diuretici. Dal momento che l’effetto antiipertensivo è riscontrabile anche in soggetti ipertesi in
cui il SRAA appare attivato solo in forma lieve o
parziale, è stato ipotizzato che tale effetto non si
verifichi semplicemente in conseguenza di una inibizione sistemica del SRAA, ma anche attraverso
una inibizione locale. I meccanismi che sottendono
la riduzione delle resistenze periferiche vedono
coinvolti molteplici mediatori; la bradichinina, il
vasodilatatore la cui degradazione viene bloccata
dagli ACE-inibitori, esercita effetti benefici associati con la liberazione del nitrossido e della prostaciclina. La bradichinina può essere peraltro responsabile di alcuni degli effetti collaterali degli
inibitori dell’ACE, quali la tosse secca ed il raro angioedema. Sempre con riferimento al profilo di efficacia e di sicurezza della classe farmacologica è
opportuno ricordare che gli ACE-inibitori non influenzano il metabolismo lipidico, in vitro inibiscono il riassorbimento osseo e hanno un effetto nefroprotettivo in particolare nei soggetti diabetici.
Migliorano inoltre la densità dei recettori beta, determinando la loro up regulation, come pure la
funzione barocettoriale e quella autonomica 40,41.
Nel seguito discuteremo brevemente il ruolo degli ACE-inibitori nel trattamento dell’ipertensione
arteriosa, nella terapia dell’infarto miocardio, nella terapia dell’insufficienza cardiaca, concentrando infine la nostra attenzione sulla gestione della
nefropatia diabetica.
IPERTENSIONE ARTERIOSA
Attualmente gli ACE-inibitori vengono considerati farmaci di prima scelta nel trattamento dell’ipertensione arteriosa e, impiegati in monoterapia, sono in grado di ridurre gli elevati valori
pressori diastolici in una percentuale che oscilla
tra il 40% ed il 70% dei casi. L’associazione col diuretico tiazidico sposta le percentuali riportate di
altri 20-25 punti. Oltre a ridurre le resistenze periferiche, come già sottolineato, gli inibitori
dell’ACE aumentano anche la capacitanza delle
arterie di grosso calibro, così contribuendo alla riduzione della pressione arteriosa sistolica. Il decremento pressorio a lungo termine si associa ad
un concomitante aumento del flusso ematico renale, prevedibile sulla base della documentata sensibilità del circolo renale all’effetto vasocostrittore
dell’angiotensina II 42.
INFARTO MIOCARDICO
Lo studio SAVE (captopril) e lo studio AIRE (ramipril) hanno permesso di acquisire solide evidenze dell’effetto terapeutico degli ACE-inibitori nell’infarto miocardico. Il SAVE (numero di pazienti
da trattare per anno per prevenire un decesso –
NNT 66), studio controllato e randomizzato condotto su oltre 2000 pazienti, ha evidenziato al follow-up di 42 mesi una riduzione di circa il 20% della mortalità e delle complicazioni cardiovascolari
nei soggetti trattati 43.
550
Recenti Progressi in Medicina, 93, 10, 2002
Gli studi successivi, che oggi mettono a nostra
disposizione i dati di oltre 100000 pazienti arruolati, sono concordi nell’indicare che la terapia con
ACE-inibitori è in grado di salvare circa 5 vite ogni
1000 trattati, e che l’efficacia del farmaco è ancora
maggiore nei soggetti con insufficienza cardiaca. I
risultati dell’AIRE (NNT 22), condotto su soggetti
infartuati con segni precoci di insufficienza cardiaca, confermano la riduzione della mortalità, con
circa 46 vite salvate ogni 1000 trattati 44. Lo studio
TRACE (trandolapril) ha confermato una riduzione della mortalità in soggetti con alterazione della
funzione ventricolare sistolica dopo un infarto, indipendentemente dalla sintomatologia 45.
INSUFFICIENZA CARDIACA
Negli ultimi 10 anni gli ACE-inibitori hanno
dimostrato su larga scala effetti favorevoli sulla
mortalità, sulla morbosità e sulla qualità della vita dei soggetti con insufficienza cardiaca, tanto che
vengono oggi considerati la pietra angolare del
trattamento dello scompenso in tutte le sue fasi.
Nei soggetti con disfunzione ventricolare sinistra
asintomatica gli ACE-inibitori si sono dimostrati
efficaci nel ridurre lo sviluppo dell’insufficienza
cardiaca e il tasso di ospedalizzazioni correlate, come dimostrato dallo studio SOLVD-P (NNT 330),
in cui è stato impiegato l’enalapril. Nella disfunzione ventricolare sinistra sintomatica gli ACEinibitori, associati ai diuretici, migliorano la tolleranza allo sforzo, la sintomatologia e la
sopravvivenza, limitando le ri-ospedalizzazioni.
Tali effetti favorevoli si manifestano in tutti gli
stadi dell’insufficienza sistolica, da quella lieve
(studio V-HeFT), a quella moderata (studio
SOLVD-T; NNT 76), a quella grave (studio CONSENSUS I) 46-48.
Gli inibitori dell’ACE dovrebbero essere somministrati inizialmente a basse dosi e titolati gradualmente fino alla dose massima tollerata. Gli effetti collaterali di questa classe di farmaci
comprendono la tosse secca e talora una sintomatologia vertiginosa. Negli studi SOLVD e CONSENSUS l’incidenza complessiva di ipotensione e
di alterazione funzionale renale è stata inferiore al
5%, e, in considerazione di tutti questi rilievi, oggi
dovrebbe essere fatto ogni tentativo per garantire
la terapia con ACE-inibitori alle dosi appropriate
in tutti i pazienti con insufficienza cardiaca, in assenza di controindicazioni 49,50.
NEFROPATIA DIABETICA
Gli ACE-inibitori rappresentano al momento il
presidio farmacologico antiipertensivo di prima
scelta in pazienti ipertesi con nefropatia diabetica,
in quanto sono gli agenti per cui esiste attualmente il maggior numero di prove di efficacia, sicurezza e tollerabilità. Il loro impiego non solo riduce la
proteinuria ma soprattutto abbassa considerevolmente la quota di pazienti che presenteranno un
quadro di insufficienza renale. Gli ACE-inibitori
riducono i livelli della microalbuminuria in misura maggiore rispetto ad altre classi di farmaci antiipertensivi, anche se questo effetto favorevole si
riduce parallelamente alla riduzione dei valori
pressori. Le prove sperimentali e cliniche a favore
del ruolo nefroprotettivo degli ACE-inibitori nei
pazienti (diabetici e non) con microalbuminuria sono attualmente sufficientemente forti da indicare
l’impiego di questi farmaci non solo nel trattamento della nefropatia diabetica manifesta, ma
anche nel paziente diabetico normoalbuminurico
con valori pressori ai limiti della norma e nel paziente microalbuminurico normoteso. Il razionale
di impiego degli ACE-inibitori trova un’altra conferma nell’osservazione che nei diabetici di tipo 1
con microalbuminuria i livelli di prorenina (precursore inattivo della renina) risultano marcatamente elevati, e questo dato si rileva anche in fratelli non diabetici di pazienti microalbuminurici. I
valori aumentati di prorenina sembrano rappresentare un fattore di rischio per il successivo sviluppo di nefropatia diabetica e la terapia con ACEinibitori può agire anche su questo bersaglio.
Anche il profilo degli ACE-inibitori in termini di
sicurezza risulta sostanzialmente favorevole. È
raccomandato il controllo periodico e ravvicinato
della potassiemia e della creatininemia: l’iperkaliemia e la presenza di una stenosi dell’arteria renale non diagnosticata sono infatti condizioni che
richiedono una verifica 51-53.
Con riferimento agli studi di confronto tra ACEinibitori ed altri agenti antiipertensivi, nel 1996
Agardh e collaboratori hanno rilevato una riduzione maggiore dell’escrezione urinaria di albumina
in 314 pazienti ipertesi diabetici di tipo 2 con nefropatia in fase iniziale trattati con lisinopril, rispetto alla nifedipina 54. Anche il confronto tra un
altro ACE-inibitore, il benazepril, ed un altro calcio-antagonista, la nicardipina, è risultato favorevole all’ACE-inibitore nella riduzione della albuminuria in 103 soggetti, ipertesi e normotesi 55.
Una metanalisi recente conferma il risultato di
quest’ultimo studio, indicando che la classe degli
ACE-inibitori è in grado di ridurre la microalbuminuria anche in soggetti diabetici normotesi 56.
Recentemente è stato pubblicato lo studio HOPE. Questo studio, condotto su 9297 pazienti con
dimostrazione di malattia vascolare o diabete mellito (3577 diabetici), ha dimostrato che il trattamento con un ACE-inibitore, il ramipril, confrontato con placebo, riduce l’incidenza di nefropatia,
l’intervallo di tempo prima della dialisi e la mortalità totale di circa il 24% dopo 4,5 anni di trattamento. Tutti i pazienti arruolati presentavano almeno un fattore di rischio cardiovascolare tra i
seguenti, ipercolesterolemia, ipertensione arteriosa, fumo, microalbuminuria, e nessuno, tra i pazienti arruolati, presentava una escrezione urinaria di albumina superiore a 299 mg al giorno 57.
La frontiera di applicazione (basata sulle evidenze) degli ACE-inibitori si sta dunque spostando sempre più avanti.
G.F. Gensini, D. Lippi, A.A. Conti: Sistema renina-angiotensina-aldosterone e ACE-inibitori
Gli antagonisti recettoriali
dell’angiotensina II
Ancora più recentemente è stata sviluppata
un’altra classe di farmaci, gli antagonisti recettoriali dell’angiotensina II, nella consapevolezza che
l’enzima di conversione è un bersaglio non specifico quando si cerchi di bloccare la cascata enzimatica della via renina-angiotensina 58. Questa classe di farmaci agisce dunque ad un livello diverso
rispetto agli ACE-inibitori e ne è stata prospettata
anche la somministrazione contemporanea con gli
inibitori dell’ACE al fine di potenziare reciprocamente l’azione di blocco sul sistema renina-angiotensina. Attualmente esistono numerosi agenti
della classe farmacologica in discussione, attivi per
via orale, che condividono il meccanismo d’azione
(legame al recettore AT1 dell’angiotensina II), ma
con caratteristiche farmacocinetiche e farmacodinamiche diverse, che si possono riflettere nella loro diversa efficacia clinica, in particolare al termine del loro intervallo di dosaggio 59. È possibile che
tali differenze siano anche dovute a variazioni nell’intensità e nella durata del blocco recettoriale, il
che sarebbe rilevante dal punto di vista clinico in
riferimento agli effetti cardio- e nefro-protettivi
della classe farmacologica stessa. Il capostipite losartan ha un metabolita attivo che prolunga la sua
durata d’azione, il candesartan cilexetil richiede la
conversione in una forma attiva dopo la somministrazione ed il telmisartan ha la maggiore durata
d’azione, con una emivita circa doppia di quella
dell’irbesartan 60.
Per quanto riguarda l’ipertensione arteriosa, il
primo campo di applicazione degli antagonisti recettoriali dell’angiotensina II, essi rappresentano
una delle sei classi di farmaci considerate di prima
linea dalle linee guida dell’Organizzazione
Mondiale della Sanità 1999 61. Si tratta di agenti la
cui efficacia è confrontabile con quella degli ACEinibitori, maneggevoli e ben tollerati dalla maggioranza dei pazienti (l’incidenza di tosse e di angioedema è inferiore a quella degli ACE-inibitori).
Essendo farmaci più recenti degli inibitori
dell’ACE, il numero di evidenze di efficacia e sicurezza è minore e l’indirizzo attuale di molti Centri
è quello di raccomandare l’impiego degli antagonisti recettoriali negli ipertesi che non tollerano la
terapia con ACE-inibitori 62,63.
Nel trattamento dell’insufficienza cardiaca gli
antagonisti recettoriali dell’angiotensina hanno dimostrato effetti simili a quelli degli ACE-inibitori
sull’emodinamica, sul profilo neuroormonale e sulla tolleranza allo sforzo, con un’ottima tollerabilità 64.
Il primo studio di outcome, l’ELITE II 65, non ha
mostrato differenze significative tra il losartan ed
il captopril in termini di mortalità e morbilità, evidenziando un numero minore di eventi avversi nei
soggetti trattati con losartan. Lo studio Val-HeFT
ha evidenziato che il valsartan riduce in modo significativo l’end point combinato di mortalità e
morbilità e migliora il quadro clinico dei pazienti
551
con insufficienza cardiaca, se confrontato con il
placebo 66. Una osservazione post-hoc dello stesso
trial ha tuttavia rilevato un effetto sfavorevole nei
soggetti trattati con ACE-inibitore, beta-bloccante
e valsartan in associazione.
Occorre ricordare che gli studi ELITE II e ValHeFT differivano in termini di ipotesi principale,
disegno di studio e regimi terapeutici. Sono quindi necessari altri dati per dare un giudizio definitivo sugli antagonisti recettoriali e per definire
pienamente il loro ruolo nel trattamento dell’insufficienza cardiaca; al momento gli ACE-inibitori rimangono pertanto la terapia di scelta nell’insufficienza cardiaca e gli antagonisti recettoriali
rappresentano una alternativa ragionevole in pazienti che non tollerano gli ACE-inibitori 67.
Tre studi recenti, pubblicati nello stesso numero del New England Journal of Medicine, hanno dimostrato l’efficacia degli antagonisti recettoriali
nel trattamento della nefropatia diabetica 68-70. In
due studi l’irbesartan si è dimostrato più efficace
del placebo (e dell’amlodipina) nel rallentare la
progressione della nefropatia in soggetti affetti da
diabete mellito di tipo 2 e la protezione conferita risultava indipendente dalla riduzione pressoria. Il
losartan, confrontato con placebo, ha permesso di
raggiungere beneficî renali in diabetici di tipo 2
con nefropatia, con un buon profilo di tollerabilità.
Lo studio CALM 71, che nel 2000 aveva dimostrato
che una terapia combinata con lisinopril e candesartan risultava più efficace dei trattamenti separati nel ridurre i valori pressori in soggetti ipertesi e diabetici con microalbuminuria, costituisce un
interessante riferimento per la ricerca futura nel
campo dell’associazione ACE-inibitori – antagonisti recettoriali dell’angiotensina, associazione che
necessita di una valutazione più estesa ed approfondita.
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