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a cura di Carlotta Magnanini
COSE DELL’ALTRO MONDO
JEANS IN PERESTROJKA
Il termometro del benessere di
un Paese è il denim: più l’economia nazionale prospera, più il
costo di un paio di jeans sale.
Semplicistico, ma verosimile.
Senza scomodare certi prezzi
nel pingue Occidente (ne bastano un paio: dai 180 euro di un
semplice Diesel ai 300 di un
paio di True Religion), che la
Russia stia scalando il podio dei
Paesi del Bric lo dimostra il
comparto moda, il quale sta
vedendo la nascita di nuove griffes specializzate nella produzione della vecchia “tela di
Genova”, simbolo per eccellenza
di benessere e prosperità
yankee.
Come
scrive
la
“Pravda”,
nell’ex
Unione
Sovietica il denim-business rappresenta oggi il segmento del
mercato d'abbigliamento interno
con una crescita maggiore, pari
al 25-30%, e un giro d’affari di 7
milioni di dollari. Ma se ieri
dominava l’importazione di
scarsa qualità dai Paesi asiatici
(90%) o quella di altissima
(10%) da Usa ed Europa rivolta
ai Paperoni russi in grado di
spendere 300 dollari a jeans,
oggi nuove compagnie stanno
poco a poco conquistandosi una
fetta del mercato domestico. Per
adesso è ancora piccola (5%),
ma gli esperti prevedono una
crescita esponenziale.
Le aziende jeansaiole made in
Russia (con modelli che costano
dai 30 agli 80 dollari) spopolano
tra i giovani del nuovo ceto
medio:
B.O.
Connection,
Urbano, Jeans.ru, Impact e
Morozoni sono solo alcuni nomi,
mentre la Gloria Jeans possiede
anche i suoi punti vendita (flagship-store) sparsi per il Paese: il
marchio rappresenta in Russia
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l’eccellenza della produzione
domestica, con un business
iper-organizzato e una capacità
di produzione di una maglietta
ogni 7 minuti. La holding tessile
Jakovlevskij è invece in grado di
produrre denim di alta qualità
con aggiunte di lino e lycra,
mentre la Bizo e la F5jeans si
occupano solamente del design
e delle collezioni per affidare la
produzione vera e propria a fabbriche cinesi in modo da tagliare i costi e lanciarsi nella produzione di accessori. Ma si tratta
di casi pressoché isolati, perché
il trend generale è autoctono: la
B.O. Collection, la Urbano e la
Morozoni svolgono infatti tutto il
ciclo produttivo in Russia, con il
vantaggio della possibilità di
adeguarsi direttamente alle esigenze del mercato e ridurre le
spese di logistica, senza contare
che in alcune regioni periferiche
il costo della manodopera è vantaggioso come in Estremo
Oriente. Del resto la vera minaccia al mercato russo dei jeans
non viene dal Far East ma dalle
più vicine Turchia e Grecia, che
con marchi come Pantamo,
MissMe, Marcuss e Big Rey
stanno attuando la stessa politica teenager-friendly per conquistare i portafogli più giovani.
Perché in un Paese in crescita
come la Russia il consumatore
di oggi è anche il consumatore
ricco di domani.
DALL’INDIA CON AMORE
C’è una compagnia che ha 9
milioni di “soci”, 50 uffici dislocati in un solo Paese e il record
mondiale di affari andati in
porto. Non si tratta di un colosso della finanza, né di un impero del retail di lusso, ma di un’a-
genzia matrimoniale on line.
Che in India ha fatto boom portando all’altare centinaia di
migliaia di iscritti. Perché il
Paese della Spiritualità è anche
il Paese delle nozze combinate,
in genere dai genitori di (volenti
o nolenti) sposi, che su Internet
hanno però trovato una nuova
via di fuga e di affrancamento
parentale. La compagnia in questione
si
chiama
BharatMatrimony, da nove anni
unisce migliaia di indiani da
tutto il mondo e, soprattutto,
dallo scorso settembre è diventata al 10% proprietà di Yahoo!
Inc.: “L’accordo ci consentirà di
arrivare a una più ampia fetta di
mercato locale” ha detto a
“Business
Week”
George
Zacharias, direttore di Yahoo!
India. Gli 8,5 milioni di dollari
pagati dal gigante della Silicon
Valley per aggiudicarsi la quota
di BharatMatrimony non rappresentano l’unico investimento
occidentale: Microsoft un anno
fa ha agganciato il portale di
annunci galeotti Shaadi.com,
mentre secondo rumors accreditati Google è a caccia di un
partner induista per lanciarsi nel
business dei trova-partner. A
differenza di quanto succede
nel resto del mondo, però, dove
il dating on line prospera senza
l’obiettivo del sacramento, in
India il mercato è alimentato – a
suon di credenze, oroscopi,
tabù di casta e rigide tradizioni –
dalla ricerca di un’anima gemella che sia per sempre. Nella
terra di Siddharta sono 7,5 milioni le persone che cercano moglie
e marito via web (erano 4 milioni
appena due anni fa, secondo
l’Internet & Mobile Association of
India), anche se le potenzialità, dal
punto di vista del lucro, non sono
Grazia Neri_AFP
COSE DELL’ALTRO MONDO
ancora del tutto dispiegate: la registrazione su BharatMatrimony
infatti è gratis, gli iscritti pagano
solo quando si incontrano per la
prima volta off-line, così il giro
d’affari tocca “appena” i 21
milioni di dollari. Ma è solo
una questione di tempo: non
appena il “medium” Internet
verrà metabolizzato dal crescente numero di utenti, di sicuro quei 500 milioni di dollari investiti annualmente in annunci
matrimoniali “stampati” cambieranno destinazione. Già c’è chi
preferisce la Rete, come la giovane manager Charoo Kher, 31
anni, che su Shaadi.com ha trovato la sua metà: “Dopo aver studiato circa 100 profili di uomini
diversi ho sposato Gurmeet Walia
dopo soli 8 mesi”. I fidanzamenti via web hanno del resto un
altro vantaggio per gli indiani,
perhé in genere chi rifiuta una
proposta viene bollato a vita
dalla società. Ma su Internet è
tutto più facile: per dire no basta
un “clic”.
CARTELLE ROSSE
“Se hai un piano ben preciso in
testa riuscirai a trasformare mattoni in edifici”. È facile essere
ottimisti quando hai un’impresa
da 250 milioni di dollari; difficilissimo esserlo se l’impresa deve la
sua fortuna a uno dei lavori in
Italia (e in genere in Occidente)
più bistrattati, mal retribuiti e
precari: il mestiere di insegnante.
Ma a quanto pare in Cina è possibile. O almeno lo è stato per Yu
Minhong. Quarantaquattro anni,
di base a Pechino, un padre carpentiere che lo ha ispirato in
quanto a determinazione, mister
Yu è riuscito a scalare le vette
della ricchezza grazie alla sua
carriera accademica che lo ha
visto divenire da insegnante di
inglese il fondatore e presidente
del New Oriental Education and
Technology Group, primo colosso
dell’educazione a essere quotato
alla borsa di New York (è successo lo scorso settembre). In Cina la
tradizione degli istituti privati si
dice risalga addirittura a
Confucio, ma nonostante il proliferare di scuole di ogni ordine,
specializzazione e grado, il sistema lascia molto a desiderare.
Non si può dire altrettanto della
“creatura” di Minhong: fondata
nel 1993, la New Oriental School
è nata da una classe di appena
30 studenti per diventare nel giro
di un decennio il più grande servizio educational privato con più
di 3 milioni di domande di iscrizione, una rete di 25 scuole e
111 centri insegnamento sparsi
in 24 città. “Non è un miracolo,
ma il risultato di 13 anni di duro
lavoro”, si stupisce sul “China
Daily” il professor Minhong, la cui
formazione filosofica è debitrice a
Jean-Jacques
Rousseau,
Nietzsche e Schopenhauer.
Gli studenti della New Oriental
vengono innanzitutto spronati a
coltivare i propri ideali copiando
il motto “I have a dream” di
Martin Luther King. Del resto è
stato proprio il sogno americano
(quello di imparare la lingua
inglese) a fare la fortuna di
Minhong e a ispirare il modello di
insegnamento che, previo ingaggio dei migliori insegnanti del
Paese, mira a forgiare top manager all’occidentale attingendo alle
ostinate leve della business-class
dell’ex Impero Celeste. Il segreto?
Per il “magnate della lavagna”
sta nella “teoria del deserto”: “Se
la carriera è come il deserto, noi
dobbiamo essere come cammelli, resistenti alle grandi distanze e
alle condizioni climatiche peggiori”, spiega Yu. “Ma il vero successo è riuscire a saltare da
un’oasi all’altra”.
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