Dialoghi n. 2005/3-4 (luglio

Transcript

Dialoghi n. 2005/3-4 (luglio
del DIRITTO
dell’AVVOCATURA
della GIURISDIZIONE
CEDA
RIVISTA TRIMESTRALE
N. 3 LUGLIO-DICEMBRE 2005
Hanno collaborato a questo numero:
Giovanni Tamburino, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Venezia
Enrico Mario Ambrosetti, Professore straordinario di diritto penale nell’Università
degli studi di Padova
Silvano Ciscato, Avvocato del foro di Vicenza
RIVISTA TRIMESTRALE
N. 3-4 LUGLIO-DICEMBRE 2005
PROPRIETA
Ó LETTERARIA RISERVATA
© Copyright 2005 by Cedam - Padova
ISBN 88-13-26021-0
A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile è vietata la
riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilms, registrazioni o altro.
Stampato in Italia - Printed in Italy
Centrofotocomposizione Dorigo - Padova
Stampa: Grafiche TPM s.r.l. (Pd)
INDICE
Parte I
OPINIONI A CONFRONTO
L’ingiusta detenzione: il cittadino ed il magistrato – a confronto F.B. con
Giovanni Tamburino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Pag. 109
Parte II
GIURISPRUDENZA
Diritto civile
Obblighi di informazione e sanzioni dell’ordinamento: un problema non
solo degli intermediari finanziari (nota a Tribunale di Venezia, 11 luglio
2005 – Zacco Presidente, Fidanzia Relatore) di Marco Ticozzi . . . . .
Pag. 129
Diritto penale
La mancata restituzione di beni costituiti in trust e il delitto di appropriazione indebita (nota a Tribunale di Venezia, sez. I, sentenza 8 ottobre
2004, n. 10) di Enrico Mario Ambrosetti . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
149
Diritto amministrativo
La maggioranza silenziosa. Spigolature sulla vicenda dei criteri per il rilascio delle autorizzazioni commerciali per le medie strutture di vendita
di Silvano Ciscato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
159
Prime applicazioni giurisprudenziali degli artt. 10 bis e 21 octies 2.c. della
legge 241/90 a cura di Carlotta Baldin e Ilaria Dalla Rosa . . . . .
»
170
Rassegna giurisprudenziale in materia di Denuncia di Inizio Attività a cura
di Carlotta Baldin . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
183
L’INGIUSTA DETENZIONE: IL CITTADINO ED IL MAGISTRATO
La mia vita fino a 46 anni si svolse in modo normale come tante altre, e sotto il
profilo professionale abbastanza lusinghiero. Crebbi felicemente in famiglia con i
miei genitori, commercianti di generi alimentari al minuto e con i miei due fratelli
studenti che poi furono ordinati sacerdoti e si laurearono. Completai gli studi universitari in Economia e Commercio e, superato l’esame di stato per l’esercizio della libera professione, mi iscrissi all’Ordine dei Dottori Commercialisti per La Giurisdizione del Tribunale di Venezia. Mi sposai ed ebbi la fortuna di adottare nel
1980 due bambini. Ebbi diversi incarichi politici, ed amministrativi come componente effettivo della 8à sessione della Commissione Tributaria di primo grado, e
Vicepresidente del Consiglio di Amministrazione della Banca Popolare di Cavarzere di cui ho gestito la parte finale della fusione con la omonima banca di Padova
Treviso e Rovigo. Curriculum di gran pregio, di persona corretta, capace, colta, di
prestigio.
Non avevo alcun pregiudizio nei confronti di qualsiasi magistrato, perché ero
convinto che la GIUSTIZIA era sicuramente amministrata, con attenzione alla
realtà dei fatti e documenti, per evitare preventivamente sbagli e danni irreversibili, insomma che la Giustizia era gestita con grande discernimento. Ebbene durante
il mio ultimo incarico professionale, quale vice Presidente rappresentate legale in
sostituzione del defunto Presidente, nel portare a termine la fusione della Banca
Popolare di Cavarzere per incorporazione nella omonima di Padova qualcuno,
con interressi contrastanti, volle rivalersi a torto con una prima lettera, con firma
falsa, datata 24/4/1982 e indirizzata alla Procura della Repubblica di Venezia, con
una seconda dattiloscritta e ciclostilata datata 12/05/82, senza firma e indirizzata
alla Magistratura, e con una terza lettera dattiloscritta senza data e firma inviata al
dott. Casson – Tribunale di Venezia. Tutte le lettere invitavano i destinatari ad indagare sulla conclusione dell’operazione di fusione della banca. Si aggiungono in
data 15 luglio 1982 e 29/12/1982 due lettere della Banca d’Italia inviate alla Procura della Repubblica – Tribunale di Venezia, in applicazione della legge bancaria
(art. 31, 2o comma R.D.L. 12/3/1936, n. 375), lettere in cui analiticamente, per av-
110
OPINIONI A CONFRONTO
venuta ispezione dei funzionari della stessa Banca d’Italia, venivano indicati i nomi
(mai io fui indicato), i fatti, le circostanze e le irregolarità amministrative e contabili di alcuni operatori della Banca Popolare Agricola di Cavarzere.
La documentazione quindi veniva trasmessa da un ufficio all’altro della Procura di Venezia e con atto 9/83 A G.I. indirizzata al P.M. sede, il Giudice Istruttore
scrive: «pregasi esprimere parere, in ordine ad emissione di mandato di cattura nei
confronti di B.I. e di Bonivento Francesco (Banca Agr. Pop. di Cavarzere) VE 11/1/
1983 – sigla di firma Casson Felice». Risponde in calce dello stesso foglio il P.M.
«allo stato si esprime parere favorevole per B.I.; ci si riserva di esprimere il parere nei
confronti di Bonivento Francesco in relazione a quanto affermeranno gli altri imputati, Venezia 12/01/1983 – sigla di firma Albanello». Nonostante questo invito
scritto, nessun testimone viene interrogato subito, e il magistrato emette il mandato di arresto a mio carico.
Erano le sette del mattino del 17 gennaio 1983. Mi trovavo ancora a letto assonnato ma appena svegliato, perché le campane delle chiese vicine di casa stavano rintoccando l’Ave Maria del mattino. Il campanello dell’ingresso di casa trillò
ripetutamente. Mi ridestai, mi misi svelto la vestaglia sopra il pigiama, scesi le scale
per aprire la serratura di sicurezza della porta, e prima di aprire chiesi chi fosse a
quell’ora inusuale. Mi rispose un appuntato dei carabinieri, che conoscevo da anni, e mi disse che doveva consegnarmi un documento personale. Aprii la porta ed
entrò con un brigadiere dei carabinieri. Chiesi se si trattasse di qualche guaio relativo al mio studio professionale, ma essi si sbrigarono consegnandomi un foglio di
carta su cui lessi «MANDATO DI CATTURA». Attonito chiesi farfugliando, se il
documento fosse per me. La risposta fu affermativa. Risalii le scale seguito dai medesimi carabinieri, incontrai mia moglie che stava anch’ella scendendo, e le comunicai l’incredibile e fatale notizia.
Entrammo in cucina e qui a mia moglie, che era in vestaglia, i due carabinieri
dissero che dovevo essere accompagnato in caserma per essere interrogato e che
poi sarei rientrato a casa, ma che sarebbe stato comunque conveniente darmi degli
indumenti da usare se, del caso, fossi stato trattenuto un po’ di più (un giorno o
due). Intanto io lessi velocemente il mandato di cattura, era datato 15 gennaio
1983 a firma del G.I. dr. Felice Casson, e sul finire la seguente frase: «N.B. entrambi gli imputati saranno posti in stato di isolamento, sottoposti a censura e saranno
date disposizioni affinché sia reso impossibile ogni contatto tra i due». I reati in cui
sarei incorso assieme ai consiglieri della banca e al direttore, erono:
1. Peculato (art. 110, 112, 314 c.p.) perché non si contabilizzava la effettiva
esposizione bancaria,
2. distrazione somme di denaro prelevate da libretti a risparmio della banca,
3. Falso in bilancio (art. 92 L. 7/3/1938 n. 141) in relazione all’art. 2621 c.c.
L’INGIUSTA DETENZIONE: IL CITTADINO ED IL MAGISTRATO
111
Mi soffermai sulla firma: era del giudice istruttore dr. Felice Casson, un chioggiotto d’origini, che conoscevo bene di persona. Precisai che il giudice istruttore
era incorso in un errore di persona, perché i fatti indicati erano stati commessi da
altra persona della banca. Mia moglie, visibilmente preoccupata, mi preparò una
valigetta con delle cose: una camicia, un paio di mutande e di calzini, il rasoio e sapone per la barba. Mi preparai in fretta e mi vestii. Chiesi se potevo fare alcune telefonate. Acconsentirono e chiamai l’avvocato G.D., ma era già uscito. Chiesi a
mia moglie di chiamare suo fratello ed il mio a Roma per informali dell’accaduto. I
miei bambini gemelli di quattro anni si erano svegliati ed alzatisi si erano nascosti
dietro una porta ad ascoltare ed osservare. Più tardi all’asilo diranno che il loro papà era stato portato via dai carabinieri. Rassicurai mia moglie, affermando che i
motivi dell’arresto non mi riguardavano. Impietrita mi osservava, e consegnava la
valigetta all’appuntato dei carabinieri, perché io ero impedito (dalle manette ai
polsi). Eseguito l’arresto in casa, con manette ai polsi, alla presenza di mia moglie,
scesi le scale di casa, feci il breve tratto fino alla loro macchina parcheggiata in
strada, e mi portarono in caserma a Sottomarina. Qui vidi in una stanza anche un
coimputato, il quale mi chiese, con l’intervento di un carabiniere, se avessi del denaro spicciolo perché ne aveva bisogno: gli feci avere tredicimila lire, e ne tenni
per me solo quattordicimila. Dopo la stesura del verbale rituale, fui trasferito a Venezia. La gente che mi incontrava per strada a Venezia, nel breve tratto percorso a
piedi fino al carcere di Santa Maria Maggiore, mi riconosceva, mi salutava, ma non
riuscivo a rispondere perché pregavo e sommessamente piangevo. Entrato nel carcere venni rinchiuso in una stanza in attesa di «identificazione». Erano le sette del
mattino quando fui arrestato a casa, e circa le undici quando varcai la soglia del
carcere circondariale di Santa Maria Maggiore a Venezia. Dopo una lunga attesa
venni chiamato dagli addetti degli uffici, introdotto nella stanza delle accettazioni,
fotografato di faccia e di profilo a destra e a sinistra; sporcandomi di inchiostro indelebile mi presero le impronte digitali delle dieci dita, e mi fecero consegnare
ogni oggetto in mio possesso. Mi perquisirono spogliandomi tutto (tutto sul serio),
e dopo essermi rivestito con ciò che mi fu permesso di usare, del rimanente venne
fatto un deposito in magazzino (valigetta, e biancheria, i lacci delle scarpe, la cintura dei pantaloni, la coroncina del rosario, l’orologio, la cravatta, e altre piccole
cose), mi lasciarono solo il «mandato di cattura».
Di tutte le persone avvicinate, il tratto volgare sprezzante era d’ordine, per cui
le spinte e le ingiurie erano il condimento di quella realtà. Ad un ennesimo spintone ricevuto durante il trasferimento in cella, protestai contro la guardia, ma questi
con arroganza disse: «Cosa pretendi, tu sei una merda». Tacqui, non reagii ulteriormente e condotto al magazzino mi fu data una coperta (si era in gennaio), un cucchiaio, due ciotole di plastica, due lenzuola, due asciugamano di tela uno piccolo
112
OPINIONI A CONFRONTO
ed una grande, una federa, un cuscino in gommapiuma, un materasso pure in
gommapiuma, un bicchiere lungo di plastica e per finire un pezzo di sapone da
bucato. Venni condotto nella cella sinistra no 11. Erano le 14.30 circa e vidi i detenuti normali che fruivano del loro turno di aria in un cortile interno. Venni spinto
dall’accompagnatore, una guardia di leva, nella cella assieme alle cose ricevute dal
magazziniere, cose che tenevo strette tra le braccia. Non avevo ancora preso coscienza di ciò che mi succedeva, ed un inserviente, forse mandatomi appositamente, mi chiese se avessi bisogno di qualcosa, risposi che non sapevo. La porta mi si
richiuse alle spalle con alcune mandate di chiave che fecero vedere un grosso chiavistello lungo una spanna abbondante. Guardai per terra: il pavimento era lercio,
di quella fanghiglia che rimane quando si asciuga all’aria l’acqua di fogna. Appoggiai con cura sulla branda metallica le cose che tenevo in braccio. Non avevo né
scopa, né altro per pulire. Avevo bisogno di mingere perché dalle sette del mattino
non avevo potuto soddisfare i miei bisogni corporei, mi diressi allora verso il gabinetto e vi orinai in fretta. Qui mi accorsi che il water non funzionava affatto, era
intasato. Tirai l’acqua corrente e feci peggio: rigurgitò tutto il materiale solido dalla fognatura. Cercai di chiamare qualcuno, ma la guardia che mi controllava dall’esterno mi disse che potevo reclamare solo all’indomani al passaggio della ronda.
Con il sapone in dotazione lavai il lavandino e mi accorsi che il rubinetto non chiudeva bene e sgocciolava abbondantemente. Guardai la finestra, che lasciava passare ben poca luce del giorno, era mancante di un bel pezzo di vetro in un angolo in
basso e lasciava passare un grosso soffio d’aria gelida di cui dovevo ben tenerne
conto durante la notte. Accesi la luce elettrica: vi era un’unica lampadina centrale
e mi accorsi guardandola che il soffitto della stanza era molto alto, e che nelle pareti non vi era un chiodo da poter appendere i vestiti. Sulle pareti vi era disegnato
di tutto: dalle date di ingresso in cella, alla durata della pena dei detenuti che mi
avevano preceduto, a figure sconce e scritte volgari. Mi sedetti sulla sponda del
letto e ricordatomi che mi avevano lasciato in tasca il «mandato di cattura» mi misi
e rimisi più volte a leggerlo. Mi accoravo sempre più perché non mi ci identificavo
in nessuna accusa. Piansi a lungo pensando ai miei cari a casa, ero sull’orlo della
disperazione, ma ... spontaneamente incominciai a recitare a mente il S. Rosario.
Sul tardi venne un incaricato dell’infermeria (forse un altro detenuto) che mi propose di prendere alcune gocce di sedativo, non rifiutai: era laudano. Passò più tardi la ronda, e al capo feci presente, senza pensare all’assurdo che dicevo, l’inagibilità dei locali: gabinetto, sporcizia incrostata, finestra rotta, rubinetto rotto e gocciolante, arredamento mancante. Il capo ronda fece la prova del gabinetto e qui si
ripeté la scena ributtante già vissuta, solo che si aggiunse la fuoriuscita del liquame: questo spiegò il luridume del pavimento. I tre della ronda tacquero e se ne andarono. Nessuno mi portò da mangiare o qualcosa di caldo, ero infreddolito, mi
L’INGIUSTA DETENZIONE: IL CITTADINO ED IL MAGISTRATO
113
coricai vestito, spensi la luce e mi addormentai. Ogni tanto qualcuno passava a
guardare dallo spioncino (era regola ogni mezz’ora), ma questi oltre che accendere
la luce elettrica della stanza, entrava e mi scuoteva, mi disse, per verificare se ero
vivo, perché per proteggermi dal freddo con la coperta mi coprivo la testa.
Venne finalmente il secondo giorno: appena mi svegliai pensai di aver avuto un
incubo o un brutto sogno, ma aperti gli occhi mi ritrovai amaramente proprio in
quella realtà. Verso le sette circa si aprì la porta e gli scopini (sono così chiamati i
detenuti che con uno stipendio minimo si prestano ad eseguire servizi manuali in
carcere) mi offrirono un bicchiere di latte e caffè in soluzione tepida e poi la porta
si richiuse. Venne la ronda del mattino e proposi le mie richieste fatte al capo ronda della sera precedente. Altra prova dell’acqua: il nuovo capo ronda tira la catenella dello scarico d’acqua del gabinetto, saltano spruzzi come se si trattasse di un
sommergibile in emersione, fuoriesce nuovamente liquame, tutti si ritraggono, e ...
immediatamente fui accusato di aver manomesso quel cesso!! Non potei credere
alle mie orecchie, e ne fui confuso ed intimorito. Chiesi, quasi a fil di voce, con un
timido cenno, di avere una coperta in più a causa del freddo che nella stanza era
procurato dal vetro rotto della finestra. Si ripeté la scena come prima: fui accusato
di aver rotto il vetro, però con quello sgarbo ed affronto militare da far scattare
sull’attenti anche un generale. Ne fui veramente sconcertato, inebetito e rimasi
senza parole. Il capo ronda poi riferendosi alla coperta mi rispose che dovevo fare
domanda e consegnargliela all’indomani mattina, ... finalmente la ronda usci. Io
tacqui e non proseguii nell’esporre le mie doglianze. Confuso, ebbi la netta sensazione di non uscire più dal carcere e di essere completamente in balia dell’ira del
diavolo. Più tardi passò un incaricato per condurmi in infermeria e fui obbligato a
subire un prelievo del sangue: mi si disse che era l’esame per la ricerca di malattie
infettive e contagiose. Ritornai in cella con la stessa scorta, e la porta mi si richiuse
completamente alle spalle. Sarebbe bastata una fessura nella porta per sentirmi incluso nel mondo esterno, ma la porta per tutti i giorni dell’isolamento fu sempre
sprangata. Altro milite venne e mi accompagnò, in un cortile lungo con mura altissime a respirare aria all’aperto, dove mi rinchiuse dentro con un altra porta ben
sprangata. Vi rimasi una mezz’ora e poi vi fu il rientro nella «mia» cella. Verso le
dieci del mattino si aprì la porta e gli scopini mi portarono inaspettatamente alcuni
sacchetti con indumenti provenienti da casa: capii che mi erano stati mandati da
mia moglie. Mi fecero firmare una ricevuta che dall’agitazione presami non riuscii
a leggere. Mi accorsi quindi che buona parte delle cose ricevute era caduta per terra, su quel pavimento lurido. La raccolsi e, odorando quel profumo famigliare di
biancheria di casa, piansi e pregai perché Dio aiutasse tutti i miei famigliari. Ero
fortemente addolorato, ma mai disperato. Vidi, più tardi, tra i pacchi anche alcuni
cartocci, erano di formaggio, prosciutto affettato, c’erano anche salamini, banane,
114
OPINIONI A CONFRONTO
arance, ed altre cose buonissime e profumatissime. Non mangiai, piangevo e basta.
Arrivò poco dopo il «rancio», erano le undici: un piatto caldo di minestra, e poi
verso le due portarono del contorno con della carne. Di ciò che mi era stato dato
non volli prendere nulla, perché a causa del gabinetto intasato non potevo poi liberarmi l’intestino. Tutto rimase nelle ciotole di plastica appoggiate sul lavandino
in cui riversai la parte liquida. Nel pomeriggio verso le quindici si ripeté, con la
scorta del milite di turno, la seconda mezz’ora all’aperto. La passeggiata divenne
routine quotidiana. Dallo spioncino quella sera, azzardando un pò, chiesi alla
guardia vicina alla porta un foglietto prestampato per la richiesta di una coperta,
qualche foglio di carta ed una penna da scrivere: stranamente in quei giorni fu
l’unica inattesa gentilezza che ricevetti. La guardia me la fece imprestare da un altro detenuto. Mi misi subito a scrivere a casa, ero quasi accucciato a terra ed appoggiato alla sponda del letto. Scrissi pure la domandina per una coperta in più.
Poi feci molta ginnastica nell’angusto spazio della cella per riscaldarmi, e quindi,
stanco, mi misi a letto e presi sonno. La verifica notturna si ripeté come per la prima notte, e poi fu sempre così.
Arrivò il terzo giorno con l’ormai solito peso ossessivo di pensieri e preoccupazioni. Leggevo, per quanto riuscissi, l’unico pezzo di carta scritto che avevo con
me, il mandato di cattura, e più lo esaminavo sempre meno lo capivo. Dopo la
mezz’ora d’aria fui accompagnato in infermeria per una visita. Mi dissero che siccome avevo richiesto una coperta il medico doveva accertare l’effettiva necessità.
Informai il medico del freddo che c’era nella cella, e che ero anche raffreddato.
Oltre al consenso per ricevere la coperta, per cui potevo inoltrare la domanda, mi
diede quattro bustine di flectadol, e mi assicurò che alla sera l’infermiere sarebbe
passato per darmi alcune gocce di sedativo, e così per tutti gli altri giorni. Successivamente ritornai altre volte a farmi visitare dal medico e fu perché mi si decalcificavano i denti, e perché vedevo delle tumefazioni ai diti dei piedi: seppi che erano
i «geloni» di cui non ricordavo di averne mai avuti prima, nonostante che facessi
in cella molta ginnastica. Tornando in cella mi trovai la bella sorpresa di un ulteriore arredo: un tavolo quadrato ed uno sgabello. Prima di pranzo venne nella mia
cella, accompagnato e controllato a vista «lo scopino idraulico» che cercò, non
riuscendoci, di rimettere in ordine il gabinetto, anzi sporcando ulteriormente pavimento, pareti e lavandino. Nel pomeriggio prima del secondo turno d’aria, mi trasferirono nella cella sinistra no 13 che aveva lo stesso arredamento della sinistra no
11, però con un armadietto per biancheria e indumenti ed una sedia, notai subito
come il pavimento non fosse impantanato. Misi in ordine le mie cose e da quel momento, dopo essermi liberato finalmente dai bisogni corporei, iniziai a mangiare i
normali cibi solidi. Alla sera dopo aver scritto una lettera a casa, che così divenne
il mio appuntamento quotidiano con la famiglia, e dopo la visita della guardia alle
L’INGIUSTA DETENZIONE: IL CITTADINO ED IL MAGISTRATO
115
inferiate, mi coricai a letto spogliandomi e mettendomi per la prima volta un pigiama. A sera inoltrata si udirono alcune grida e si sentì un odore acre di fumo che invase anche la mia cella: il materasso di un detenuto addormentato aveva preso fuoco!! Arrivò dopo un po’ la guardia di notte, che visto il fatto andò a chiamare il capoposto, il quale a sua volta svegliò qualche altro superiore, finché arrivarono in
molti e la porta della cella da cui usciva il fumo venne aperta per portare fuori il
malcapitato ustionato, e per spegnere il focolaio d’incendio. Io seguivo a fatica la
scena osservando dalla stretta apertura dello spioncino. Il fumo aveva già invaso
tutto l’androne antistante la mia cella. Se il fatto fosse stato più grave quale esito
avrebbe avuto il trasferimento dei detenuti?? Se il fuoco fosse stato un incidente
non lo seppi mai. Con me era vietato poter anche parlare, solo la guardia di servizio poteva rivolgermi la parola e solo per ordinarmi di fare o non fare qualcosa.
All’inizio del quarto giorno presentai la domanda indirizzata al magazziniere
per ottenere la coperta, quindi mi misi a rileggere il mio «mandato». Per il tempo
rimanente non vi fu nulla di diverso dei giorni precedenti, solo che al pomeriggio
mi chiesero, alla voce, se volessi fare una doccia calda: io accettai. Scortato dal milite, attraversando l’androne prospiciente le celle, mentre andavo alla doccia mi si
avvicinò un detenuto che già conoscevo e mi bisbigliò che non era prudente andare in quei luoghi. Presi in considerazione il consiglio solo dopo aver visto le docce.
Capii e da quel giorno preferii lavarmi per conto mio con l’acqua fredda. Quando
rientrai altra guardia mi chiese se avessi qualcosa da mangiare e carta per scrivere
da dare ad un detenuto entrato in carcere lo stesso giorno del mio arrivo: era il mio
coimputato. Ne fui emozionato, ma non me lo feci ripetere, consegnai un salamino
tipo negronetto, un cartoccio con un grosso pezzo di formaggio, qualche arancia,
e qualche foglio di carta da lettere con buste.
Finalmente nella mattinata del quinto girono mi consegnarono la coperta.
Quale conquista!!
Con l’urgenza di acquisire dal detenuto informazioni essenziali al procedimento penale, solo il 24 gennaio 1983, dopo interminabili otto giorni, fui chiamato per
essere interrogato dal giudice. Era passata una eternità, finalmente potevo spiegarmi e ottenere qualche risposta ai miei infiniti ed inspiegabili perché. Mi illudevo,
non ero io a chiedere spiegazioni, ma invece ero io che dovevo darle, dovevo dimostrare che ero innocente, e visto che le denuncie sul mio operato erano anonime, ero colpevole fino a prova contraria.
Fino a quel momento avevo avuto a disposizione solo il mandato di cattura, ...
il leggerlo e non capirlo completamente era una tortura; le lacrime sempre mi velavano la vista. Lo avevo tutto memorizzato. Era un documento incomprensibile e
per me infondato, anche se formalmente valido. Mai una sola volta pensai che
quegli addebiti si riferissero alla mia persona. Subii l’interrogatorio, ero già con-
116
OPINIONI A CONFRONTO
dannato, in un clima di pressione psicologica da ammattire, con l’arroganza di chi
poteva tutto, ed aveva pieni poteri (sensazione assurda e reale): il giudice istruttore
dietro un tavolo e il cancelliere che dattiloscriveva sotto dettatura del Giudice,
erano di fronte a me, e alle mie spalle, in silenzio solo come spettatori, gli avvocati
ad una distanza di tre metri. Io rispondevo alle domande del Giudice secondo ciò
che ricordavo o capivo. Alla fine del lungo interrogatorio verso sera il giudice mi
comunicò che all’indomani sarei stato trasferito in un altra cella del carcere, e che
sarebbe stata ridotta la mia condizione di isolamento all’interno del carcere: pensai a mia moglie e credetti di poterla rivedere presto, invece rimasi in carcere con
un isolamento maggiormente censurato. Ebbi l’ardire, per ultimo, di chiedere
quando sarei potuto andare a casa, ma il Giudice mi rispose «solo quando mi fossi
deciso a dire la verità». Insistei riaffermando che la verità l’avevo già detta, ...e non
vi fu altra risposta. Ebbi la convinzione di essere un incapace: gli avvocati guardarono il giudice mentre questi raccoglieva dal tavolo i propri documenti, e tutti se
ne andarono, lasciandomi al solito milite di custodia che mi riaccompagnò in cella.
Gli avvocati uscirono con un cenno di saluto con il capo per me, non potevano
parlare con me, perché ero ancora in stato di isolamento completo. Mi incamminavo e pensavo che cosa avessi dovuto dichiarare; pensai all’assurdo: forse avrei
dovuto fare una confessione falsa, però quella sera scrissi a casa una lettera con un
contenuto rassicurante, ero convinto che tutto si sarebbe risolto bene, perché ...
può essere tutto Grazia di Dio.
Al nono giorno prima di uscire per il primo turno d’aria aperta, fui accompagnato alla cella destra no 40: era al primo piano del braccio destro, la temperatura
era più mite, l’arredamento era il solito, però avevo in più una scopa, un secchio di
plastica con strofinaccio, ed una ramazza. Subito notai la differenza con l’isolamento precedente: la porta rimaneva socchiusa, con una fessura larga dieci centimetri da cui si poteva vedere anche all’esterno; la cella era più luminosa della precedente perché posta al primo piano ed era piacevole anche se dovevo rimanere
forzatamente dentro per quasi tutta la giornata; il cortile per i turni d’aria era più
grande e vi si andava assieme agli altri detenuti per un ora e mezza due volte al
giorno; ed infine si poteva richiedere l’acquisto di quotidiani e quant’altro fosse
necessario per esigenze personale (sapone da barba, dentifricio, carta da lettere,
ed altre piccole cose). Non dovevo in alcun modo avere contatti con il mio coimputato e con qualsiasi altro dall’esterno, finché non fosse data disposizione diversa. Feci subito pulizia nella cella, dal pavimento alle pareti. Cancellai raschiando
sulle pareti quello che mi sembrava vergognoso e vi scrissi qualche cosa di buono,
qualche pensiero di speranza, e di fede in Dio. Venne a trovarmi per la prima volta
don Gastone, il cappellano, con il quale dopo aver ricevuto conforto, scambiammo qualche parola e notizia, quindi gli richiesi di ricevere la Santa Comunione;
L’INGIUSTA DETENZIONE: IL CITTADINO ED IL MAGISTRATO
117
egli mi assicurò che me l’avrebbe portata all’indomani mattina. Ci salutammo affettuosamente. Per il resto, la giornata si svolse come il solito, era già piena di emozioni, ed attendevo con gioia la mattina dopo. Venne l’indomani, mi preparai pulito e sbarbato alla attesa visita. Verso le otto venne il cappellano che mi fece recitare alcune preghiere, l’atto penitenziale, e poi mi diede la Santa Comunione. Don
Gastone se ne andò e mi lasciò in raccoglimento e preghiera. Avevo raggiunto la
mia serenità anche se ero in quel luogo.
Fui interrogato una seconda volta in carcere ancora dal medesimo giudice istruttore, avevo ormai perso il senso del tempo, dal verbale lessi che era il 4 febbraio 1983.
Le domande erano insidiose. Alla fine facendomi coraggio a più non posso, quando
quel magistrato inquirente stava uscendo, chiesi se mi potesse concedere la libertà di
tornarmene a casa, ma egli ribatté che tutto sarebbe dipeso dalla mia collaborazione a
dire su tutto la verità, e la libertà provvisoria non poteva essermi concessa perché, così
è riportato nel successivo provvedimento, vi era pericolo di fuga.
La censura della corrispondenza e l’isolamento dai miei famigliari continuarono, ed anche, come per essere all’inferno, le accuse si dilatarono: mi vennero notificate queste altre imputazioni di reato:
4. «falsità materiale in atto pubblico (art. 476 c.p.)» in concorso con A. P. inducevano in errore il notaio che formava falsamente l’atto pubblico;
5. «truffa (art. 640 c.p.» in concorso con P., perché inducevano in errore i
soci che deliberavano la fusione della Banca;
6. «estorsione (art. 629 c.p.)» in concorso con il dr. A. P., costringeva Z. M.
e B. Gd, a sottoscrivere una fideiussione bancaria di £. 800.000.000;
7. e, come ultima espressione da sotto la coda di un diavolo, «presunta appropriazione indebita di £. 6.000.000 devolute dalla Banca Agricola di Cavarzere a
favore delle Missioni P.I.M.E.», di cui si era disposto il sequestro di documentazione e assunzione di testi.
Tutte le altre giornate si svolsero poi con monotonia. Però ciò che mi rincuorava e trasformava la giornata era solo l’arrivo della corrispondenza che, da quel
giorno, veniva distribuita in corridoio durante il secondo turno d’aria. Quante volte leggevo e rileggevo i telegrammi di mia moglie e di mio fratello. Quanto gioivo
al sapere, leggendo le poche notizie, che tante persone pregavano per me e perché
tutto si si chiarisse. La corrispondenza arrivava sempre con ritardi di settimane
con la busta aperta, e a volte anche con un timbro di avvenuta censura. Pensavo
quand’ero persona libera, che il carcere avesse per scopo prioritario quello della
rieducazione con particolari metodologie dove l’ordine, l’obbedienza, la disciplina
severe effettuate da personale qualificato riportassero il detenuto alla sua riammissione nella società civile. Non è assolutamente così, perché nulla o molto poco, infinitamente poco, viene fatto
118
OPINIONI A CONFRONTO
Dal mio ingresso fino alla mia uscita dal carcere passarono ben 44 giorni. Conobbi diverse persone, di diverse lingue, ma omicidi, violentatori, truffatori, rapinatori, tossicodipendenti, spacciatori di droga e di valuta, omosessuali, ed altri. In
cortile, quando ci si trovava, ognuno aveva la propria storia da raccontare, e dal
proprio punto di vista tutti avevano ragioni convincenti a proprio favore. Spesso
ed improvvisamente nelle celle si verificavano ispezioni: fuori tutto dalla cella, e le
guardie frugavano da per tutto, anche nello scarico del gabinetto e del lavandino
per cercare eventuali cose il cui possesso non era autorizzato. Un giorno un tizio
mi si avvicinò e mi chiese se volevo bucarmi perché eventualmente mi avrebbe
procurato la roba. Rifiutati e ringraziai. Incredibile il fatto era che ogni tanto qualcuno si permetteva un’estasi. Altra volta un vicino di cella mi chiese se dovevo regolare dei conti per aver subito dei torti con qualche detenuto in questo o in altri
carceri, perché se mi andava bene si sarebbe trovata la forma sia della qualità della
punizione che della quantità o intensità. Risposi che io ero in carcere per un errore
del giudice istruttore e che pertanto non avevo alcun bisogno di aiuto. Osservai
che sia di giorno che di notte il silenzio nella cella era costantemente interrotto da
grida ed urla di qualche detenuto che, si diceva, aveva superato i limiti della sopportazione detentiva. Vidi però anche dei grossi incidenti: per ben due volte, in
tempi diversi, degli individui con grandi ferite da taglio e sanguinanti a fiotti e tra
detenuti si giustificava il fatto che quei detenuti si erano feriti, per essere poi ricoverati in infermeria al caldo. Era proprio autolesionismo o che altro...? Da allora,
nonostante che in coscienza nulla avessi da rimproverarmi, quando mi trovavo in
cortile rimanevo con le spalle rivolte al muro e durante l’uscita collettiva dalle celle
cercavo sempre di essere ultimo: osservai che anche altri erano similmente guardinghi. Il transito nei corridoi, il rimanere a spalle scoperte in cortile, l’andare alle
docce era pericoloso; si doveva essere prudenti: se la violenza era presente, essa
poteva essere usata in qualsiasi momento contro chiunque. Godevo della mia cella
perché ero solo, ma un giorno mi obbligarono a coabitare con altri nella stessa cella (roba da matti): era veramente penoso, soprattutto quando si doveva usare il
servizio igienico. Solo una volta riuscii a barattare quella convivenza e rimanere
solo, dovetti rinunciare al televisore proprio nello stesso giorno che mi venne assegnato (favore per favore). Quell’ospite era veramente insopportabile: aveva evidenti atteggiamenti omosessuali. Non seppi dare risposta a questa domanda: La
convivenza con tali personaggi è tollerata o apprezzata da parte del sistema carcerario. Vi erano anche detenuti buoni e generosi che particolarmente mi sono stati
vicini dandomi aiuto, conforto ed incoraggiamento con testimonianza veramente
cristiana. Qualche volta alla sera, per senso di solidarietà e gentilezza, ci si scambiava qualche derrata alimentare e magari arrivava un bel piatto di pastasciutta fumante, portata prima della conta dall’ultimo inserviente presente.
L’INGIUSTA DETENZIONE: IL CITTADINO ED IL MAGISTRATO
119
Le malattie che presi furono il continuo raffreddore, i «geloni» che mi hanno
colpito alle articolazioni dei piedi, ebbi anche molto mal di denti, che all’inizio
credetti fosse una nevralgia da freddo, ma poi mi accorsi che erano i denti che mi
si decalcificavano provocando anche alcune carie. Era l’effetto di una alimentazione carente. Sorridevo pensando al «cibo ottimo ed abbondante», frase che scrissi
in una lettera per tranquillizzare mia moglie.
Leggevo molto. Il primo libro che richiesi al bibliotecario fu la Bibbia, ma non
c’era, ed allora mi accontentai di altri libri che riprendessero come contenuto le
Beatitudine evangeliche. Ordinavo l’acquisto di quotidiani (Gazzettino, L’unità,
l’Avvenire, il Resto del Carlino, ecc.) e così mi informavo sul mio caso di cosa si diceva a Chioggia nella stampa. Leggevo notizie che mi laceravano l’intimo: tutte devianti e false quasi martellate in forma pubblicitaria per demolire il prestigio della
persona. Quante lacrime!! Incominciai a interpretare le domande insidiose fattemi
dal Giudice durante gli interrogatori.
Imparai, per occupare il tempo, ad andare a giorni alterni in infermeria, in biblioteca, e dal cappellano. Il permesso mi era accordato solo se non era già stato
dato a B.I. Per me era un modo di distrazione ed osservare come molti altri stavano peggio di me. Mi mancava molto l’occupazione di un qualsiasi lavoro, anche
fosse manuale. Il non fare niente mi pesava, ed era la stessa cosa per tanti. Qui pochissimi erano i fortunati ad essere impegnati; essi erano addetti ai servizi interni
del carcere: cucina, distribuzione dei pasti, servizi di manutenzione elettrica ed
idraulica, infermeria, biblioteca, e al riordino di magazzino, ma nulla di più intellettuale. Per gli altri detenuti, quasi la totalità, né sport o palestra, solo ozio in cella
o in cortile nell’ora di aria. Fare comunella nei luoghi di incontro, in cortile, alle
docce, nei luoghi di transito era d’obbligo, in caso diverso e se isolati si era bersaglio facile di violenza, o di regolamento di conti. Ma poteva capitare che qualcuno
in vena di confidenza raccontasse ad altri le proprie esperienze, ma le trasmetteva
in positivo, come insegnamento; poi la confidenza era ricambiata con altrettanta
confidenza, e così tutti si facevano scuola vicendevole di delinquenza
L’unico giorno che io potevo distinguere dagli altri era solo la domenica per la
S. Messa a cui partecipavo con vero fervore. Mi ristorava l’animo. Vi potevo partecipare a Domeniche alterne, per dare anche all’altro coimputato la possibilità di
fare altrettanto. Don Gastone, il cappellano del carcere, era veramente l’uomo di
Dio. Quanto conforto spirituale dava a tutti ed anche a me; per suo merito posso
dire di essermi sempre sentito molto vicino a Dio, e mai abbandonato. Dopo la S.
Messa riuniva i presente ed offriva a tutti un bicchierino di vino e qualche biscotto, poi ai più bisognosi dava indumenti pesanti o biancheria intima anche usata ma
sempre pulita; seppi che gli indumenti se li faceva confezionare lavati dai propri
parenti. Se non avessi sempre continuato a pensare che la sofferenza è anche dono
120
OPINIONI A CONFRONTO
di Dio, sarei stato un disperato, e, all’ombra di una sicura tragedia, le considerazioni ora sarebbero state scritte in modo diverso da altri.
Durante la detenzione non partecipavo alla mia difesa dalle accuse, non sapevo
cosa fare, dire o scrivere; non ero impaurito, ma ormai indifferente, succedesse anche tutto l’impensabile. Ero isolato dal mondo perché non sentivo e non vedevo
mia moglie, la mamma, i fratelli, avevo di loro poca corrispondenza, non mi era
permesso di avere una fotografia dei figli piccolissimi. Mi ossessionavo domandandomi cosa pensavano di me le persone che prima frequentavo. Per uscire da questo stato di detenzione dovevo forse ammettere l’assurdo e dichiarare di aver compiuto ciò che ancora non conoscevo, o che non ricordavo. Questa ossessione mi
divorava, mi svegliavo dal sonno di soprassalto con le vertigini, con tanta ansia e
difficoltà di respiro, mi controllavo, la serenità mentale era sempre sconcertata.
Verso la metà del mese di febbraio mi vennero a far visita gli avvocati G. e F., mi
invitarono energicamente a incominciare a scrivere qualche idea in mia difesa, togliendomi dallo stato di avvilimento e di grave prostrazione. L’avv. D.G letteralmente mi scosse abbracciandomi e quasi piangendo con me, mi mostrò un pugno
che me lo sarei meritato se fossi rimasto ancora indifferente ed apatico. Non so cosa mi accadde, ma da allora mi dedicai con assiduità al problema con le osservazioni scritte che poi furono riportate nel procedimento.
Sabato 18/02/1983, trenta giorni dall’arresto, fui ammesso al primo colloquio,
in parlatorio comune, con mia moglie, e le fu vietato di consegnarmi la fotografia
dei miei bambini piccoli di quattro anni. Nei due sabato seguenti la visita si ripetè,
però mi fu vietato l’incontro di mio fratello sacerdote e di mia madre.
Dopo 44 giorni alle due del pomeriggio mi avvisarono di depositare tutto il
materiale in dotazione perché mi era stata concessa la libertà provvisoria con il
versamento di un deposito cauzionale infruttifero molto cospicuo (lire 30 milioni).
Mia moglie non aveva accesso a nessun conto corrente e fu costretta a chiederli a
prestito da privati con indicibili umiliazioni.
Al mio rientro a casa mia moglie al rivedermi rimase, se pur avvisata dell’arrivo, inebetita, i miei bambini adottivi di quattro anni indietreggiarono, temetti che
non mi riconoscessero già più, poi tutti insieme ci riprendemmo e fu festa sia in
casa che fuori. Ci fu quindi l’incontro con mia mamma e mio fratello, incontro
pieno di emozione e per me molto gratificante. La mia sofferenza subita era visibilmente dimostrata: ero calato di peso di oltre dieci chili. Mio fratello sacerdote si
ammalò gravemente e fu costretto ad anticipare un intervento chirurgico a cuore
aperto per la sostituzione della valvola mitrale. Il mio lavoro nello studio associato
di dottore commercialista subì un capovolgimento nell’organizzazione interna,
nella collaborazione con i colleghi esterni, con l’amministrazione pubblica, con gli
istituti bancari che al primo annuncio nei quotidiani del mio arresto, tolsero i fi-
L’INGIUSTA DETENZIONE: IL CITTADINO ED IL MAGISTRATO
121
nanziamenti precedentemente concessi a me e allo studio. La ripresa di tutto fu
molto lenta e penalizzante, non ebbi più alcun incarico né politico, né pubblico, il
lavoro di consulenza progressivamente si riduceva. Mi incombeva sempre la possibile condanna per i tanti reati enunciati, ma al contrario si verificò che:
1. il 19 dicembre 1983 con ordinanza-sentenza del G.I., fui assolto per non
aver commesso il fatto, dal reato di distrazione di somme di denaro prelevate da libretti a risparmio.
2. Poi il 10 febbraio 1988 con sentenza dalla Corte d’Appello di Venezia
venni assolto dal reato di Peculato (art. 314 c.p.), perché il fatto-reato non è previsto dalla legge (il reato non sussiste), e
3. di Falso in bilancio in relazione all’art. 2621 c.c. (L.B. art. 92), per non
aver commesso il fatto.
4. Ed infine il 15 marzo 1989 con sentenza istruttoria fui assolto dal reato di
falsità materiale in atto pubblico (art. 476 c.p.), perché il fatto non sussiste,
5. dal reato di Truffa (art. 640 c.p.) in concorso con A. P., perché il fatto non
sussiste, e
6. dal reato di Estorsione (art. 629 c.p.) in concorso con il dr. P., derubricato
in ordine al reato di cui all’art. 393 cp., perché l’azione non poteva essere iniziata per
mancanza di querela.
Rimase senza risposta l’incriminazione del 18 febbraio 1983 di «Presunta appropriazione indebita di £. 6.000.000» devolute dalla Banca Agricola di Cavarzere
a favore delle Missioni P.I.M.E. Con le assunzioni delle prove (il sequestro del ritrovato originale assegno circolare con le regolari girate del beneficiario per quietanza) e delle testimonianze (l’amministratore del PIME a Roma) è emerso che il
«fatto-reato non è stato commesso». Non esiste provvedimento di Casson né di
non luogo a procedere, né di assoluzione, né altro. Fu solo omissione?? Avere risposta che la presunta appropriazione non è stata commessa era ed è cosa importantissima per me, infatti mio fratello missionario, ora Vescovo in Papua New
Guinea, fa parte di quella stessa Istituzione religiosa P.I.M.E., cui, secondo il G.I.
il denaro sarebbe stato sottratto. La pratica risulta infossata; mi devo accontentare.
Per ottenere queste assoluzioni ed omissioni, dal mandato di arresto del 15 gennaio 1983, all’ultima sentenza istruttoria del 15 marzo 1989 si sono impiegati sei
anni e tre mesi, ivi compresi 44 giorni di carcere!!
Mi domando se dagli anni ’80 gli atteggiamenti della amministrazione della
Giustizia si siano evoluti con una migliore ed effettiva obbiettività e professionalità? Su «Dialoghi del Diritto della Avvocatura della Giurisdizione» n. 4 ottobre-dicembre 2002, Ivano Nelson Salvarani, alla fine dell’articolo dal titolo «Separare (le
carriere) per unificare (i poteri)», riportava di quell’ultimo Congresso di Magistratura Democratica, un richiamo di Luigi Ferraioli ai giudici: «...è ben vero che la
122
OPINIONI A CONFRONTO
garanzia dei diritti implica la indipendenza della giurisdizione in quanto che non
c’è garanzia di diritti senza giudici indipendenti; ma è altrettanto vero che l’indipendenza dei giudici implica il loro ruolo di garanzia dei diritti... ogni volta che un
Giudice commette un abuso, ogni volta che esercita in maniera arbitraria le sue
funzioni, ogni volta che viola i diritti di un cittadino, egli attenta alla indipendenza
della Magistratura».
Affinché queste espressioni non siano solo raccomandazioni, il richiamo lo
vorrei leggere così: «... ogni volta che un Giudice commette un abuso, ogni volta
che esercita in maniera arbitraria le sue funzioni, ogni volta che viola i diritti di un
cittadino egli attenta alla Giustizia come tale, ed è indegno di appartenere alla Magistratura». Si passi però dalle parole ai fatti, e ad esempi credibili messi a conoscenza di tutti. Questo è l’atteggiamento atteso dai più. Il ricordo amaro di tanti
torti ed abusi subiti resterebbe nel passato, sarebbe solo una storia.
F.B.
L’INGIUSTA DETENZIONE: IL CITTADINO ED IL MAGISTRATO
123
I fatti narrati da FB presentano due aspetti, uno specificatamente processuale,
l’altro relativo alla realtà carceraria.
Cominciando dal primo, mi sembra che si possa misurare la profonda trasformazione realizzatasi nel sistema processuale dall’epoca della vicenda (1983).
Il controllo sulla decisione del giudice di adottare un provvedimento restrittivo
si realizza oggi in tempi brevissimi, attraverso il riesame di un organo collegiale e,
quindi, l’eventuale verifica di Cassazione.
È un controllo che consente un’intervento della difesa molto significativo, se
non proprio «a tutto campo».
Determina una «discovery» degli elementi di accusa che consentiva all’indagato di valutare a fondo consitenza e portata delle accuse.
Inoltre, il contatto con il magistrato giudicante è estremamente prossimo alla
esecuzione del provvedimento di cattura, pena la sua inefficacia di diritto, sicché
anche sotto questo profilo non potrebbero oggi realizzarsi situazioni analoghe a
quella descritta da FB.
Le caratteristiche attribuite al sistema processuale inquisitorio che poteva talora comportare l’oscurità dalle accuse e dalle prove ed una sensazione di onnipotenza del magistrato inquirente, sono state eliminate dal nuovo modello processuale dell’88 e nella successiva evoluzione di tale modello.
Ci si può chiedere se la trasformazione sia sufficiente o se ancora rimangono
meccanismi capaci di riprodurre situazioni di pericolosa incontrollabilità.
Si potrebbe immaginare qualche sviluppo ulteriore, ad esempio ammettendo
che il contatto con il magistrato della procedura precedesse l’adozione del provvedimento restrittivo (in questo modo l’interessato conoscerebbe sin dall’origine la
natura e la consistenza delle accuse) oppure immaginando una competenza collegiale per l’emissione del provvedimento cautelare maggiore, salvo casi di estrema
urgenza.
Tuttavia mi sembra di poter dire che il rischio di provvedimenti restrittivi infondati è andato riducendosi entro la sua dimensione fisiologica.
Intendo per dimensione fisiologica quello che non è eliminabile in relazione a
fatti storici ai quali il magistrato non ha partecipato e che, dunque, non possono
che essere ricostruiti attraverso fonti probatorie o indiziarie che non sono mai assolutamente certe.
Questo margine di rischio fisiologico spiega perché esistono ancora casi di
provvedimenti restrittivi cui segue l’assoluzione.
Entro una certa dimensione la non sovrapponibilità delle aree della cautela e,
rispettivamente, della condanna non rappresentata un sintomo di disfunzione,
bensì un sintomo della efficienza dell’attività defensionale e la dimostrazione della
necessità del processo, come strumento capace di affinare la conoscenza dei fatti.
124
OPINIONI A CONFRONTO
Ciò non significa che non si debba operare affinché la divergenza dell’area della cautela dall’area della condanna si riduce progressivamente.
Tuttavia è un obiettivo ambizioso quello di eliminare completamente tale divergenza.
Poiché la cautela viene adottata agli esordi del percorso processuale e poiché
essa e per definizione misura provvisoria e urgente, sarebbe singolare che il processo non desse mai risultati diversi da quanto la cautela preconizza.
Credo che di ciò si debba essere consapevoli.
*
*
*
Il secondo aspetto sul quale il racconto di FB richiede di soffermarsi riguarda
la realtà carceraria.
Anche qui siamo spinti a dire che molto è cambiato in vent’anni.
Cambiato è soprattutto l’atteggiamento degli operatori, che ben difficilmente
oggi manifesterebbero l’arroganza a il malaismo descritti dal resoconto.
Per altri aspetti occorre riconoscere che la realtà non è sostanzialmente cambiata.
Ad esempio, la prassi umiliante del denudamento per perquisire ed ispezionare il «nuovo giunto», è rimasta immutata.
Ci si potrebbe chiedere se ciò è ragionevole in un tempo in cui esistono strumenti in grado di identificare anche una singola molecola.
Sembra che questo stile umiliante di controllo, questa sottile e tacita sopraffazione rimanga in auge per motivi che hanno più a vedere con le spiegazioni di Michel Fancoult, che con reali esigenze di sicurezza.
Ancora, per toccare un argomento, sgradevole, le funzioni fisiologiche dei reclusi si debbono espletare – come vent’anni fa: anzi, come secoli fa – sotto gli occhi di tutti.
Discorso sgradevole, che preferiremo non fare. E che, invece, tocca profondamente la dignità della persona, che esce ferita da simili esperienze.
Va detto che la ferita non è soltanto psicologica, perché la capacità del carcere
di ammalare (denti, occhi, pelle, sangue, intestino, ...), comincia proprio dalla architettura, che sembra studiata da sadici, nella orrenda strutturazione dei servizi
igienici.
Ed ancora, immodificato – e, dunque peggiorato – è, in vent’anni (ma anche in
trenta, quaranta, cinquanta), il problema del sovraffollamento dal quale, di nuovo,
scaturisce una miriade di piccole, ma anche meno piccole infrazioni della dignità
del detenuto.
Anche rispetto al sovraffollamento non è vero che non possa farsi nulla.
L’INGIUSTA DETENZIONE: IL CITTADINO ED IL MAGISTRATO
125
Ed è soltanto incapacità di ideazione politica quella che ha portato il nostro
precedente governo a ipotizzare come unica soluzione la costruzione (certamente
lenta, complessa e dispendiosissima) di nuove carceri, laddove si potrebbe agire
sia potenziando le alternative al carcere, sia adottando soluzioni – sperimentate in
altri Paesi – di accoglimento degli ingressi (per esecuzione di pena) in relazione alle condizioni di sovraffollamento.
Ed ancora immodificata – e, dunque peggiorata – è la realtà della edilizia penitenziaria con riferimento alla nostra città. Santa Maria Maggiore fa ancora da freno
immobile della penalità carceraria veneziana, come venti, trenta, cento anni fa.
Sempre più fatiscente, degradata, inadeguata.
*
*
*
Potremmo continuare nell’elenco di ciò che non è sostanzialmente cambiato in
altri vent’anni nella realtà carceraria. Potremmo elencare i problemi della sanità
penitenziaria, del personale insufficiente e a volte inadeguato, delle emergenze
tossicomane – ormai cronicizzate – e stranieri della scarsità di lavoro, eccetera.
Il punto è che quando FB ha vissuto la sua esperienza, nel 1983, la riforma penitenziaria era in vigore da quasi un decennio, e che da allora ad oggi non vi è stata
una svolta decisa nella normativa penitenziaria, pur dovendosi riconoscere che
molti sono stati gli interventi parziali e settoriali.
È possibile una svolta, in questo settore, analoga, per profondità, a quella che
ha segnato un vero cambiamento di regime giuridico con il nuovo codice di procedura penale?
A mio parere è possibile ed auspicabile.
Per ottenerla, occorre che il tema della sicurezza venga collocato nella sua giusta dimensione, una dimensione centrale, come gli spetta. E così, occorre che la
capacità del sistema penale di cautelare e creare sicurezza venga recuperata, anche
grazie alla efficacia deterrente della sanzione.
In secondo luogo, deve ritrovare cittadinanza il tema delle risorse, perché è assolutamente controproducente illudersi che la società possa dirottare sul carcere
grandi ricorse, magari sottovalutandole alla società o alla scuola o alle pensioni.
Ciò ci porta a comprendere che il carcere è una risorsa rara, costosa, non inflazionabile.
Dunque la penalità deve spostarsi fuori dal carcere, con misure, anche molto pregnanti, di discussione, attraverso i contenuti punitivi, ma tali che, rispetto ad essa, il
carcere rappresenti soltanto l’orizzonte di minaccia, per l’ipotesi di trasgressione.
In altri termini, occorre operare una vera rivoluzione culturale, che induca la
società a concepire le sanzioni diverse dal carcere.
126
OPINIONI A CONFRONTO
Dovremmo infatti concepire il carcere soltanto come l’orizzonte prospettico,
che serve a dare (indiretta) effettività alle misure penali stesse.
Rispetto a questa risoluzione culturale il nostro Paese è ancora spaventosamente arretrato al confronto di altri Paesi.
Tuttavia una evoluzione quale quella delineata è possibile perché è inevitabile.
Essa va operata anzitutto da gruppi professionali che lavorano nelle linee avanzate, tra i quali è logico collocare quella dell’Avvocatura che segue – ed auspicabilmente precede – la normativa in materia penitenziaria.
Il carcere rimane anche come pena autonoma (oltre che come luogo di esecuzione della cautela) nei casi in cui la violenza irrefrenabile del soggetto imponga di
tenerlo chiuso.
Inoltre, si può immaginare che in taluni casi di reati particolarmente odiosi si
imponga una pena privativa della libertà.
Ma, sovvertito il catalogo della penalità, il carcere può davvero restare una risposta per pochi. E per costoro può allora tradursi in una risposta capace di operare un serio tentativo di trasformazione, con tutti gli strumenti di cui dispone oggi la criminologia, la psicologia e altre forme del sapere.
In mancanza di questa profonda trasformazione culturale a mio parere ogni discorso sulla riforma del carcere è pura illusione.
Come ho detto, non vi è nessun timore che una situazione simile possa mettere
a rischio la sicurezza, perché il problema della sicurezza anzi assumerebbe un ruolo centrale.
Sono convinto che si realizzerebbe, anzi, un sistema assai più sicuro e con costi
minori.
Giovanni Tamburino
Tribunale di Venezia, sentenza 11 luglio 2005 – Presidente Zacco, Relatore Fidanzia
Banche - Intermediazione finanziaria - Violazione dei doveri di informazione Nullità del contratto - Sussiste
La violazione degli obblighi di diligenza, trasparenza e di corretta informazione
imposti dal T.U.F. (in particolare dall’art. 21 del d.lgs. 57/1998) e dal suo regolamento attuativo (art. 28 del regolamento Consob adottato con delibera 1 luglio 1998
n. 1152) dà luogo alla nullità del contratto per effetto del quale si realizza l’acquisto
degli strumenti finanziari, trattandosi di norme imperative dirette a realizzare interessi pubblici, anche di rango costituzionale.
(Omissis) L’attrice chiede accertarsi l’inesistenza e/o nullità e/o annullabilità degli acquisto effettuati in data 4.5.2001 delle obbligazioni Del Monte 06 F 6,625 EUR (cod. XSO128689105) aventi
ad oggetto un primo ordine per nominali P 30.000,00 e ed un secondo ordine, impartito verbalmente, di P 99.000,00 per l’effetto chiede la condanna della banca convenuta alla restituzione delle predette somme, oltre interessi e rivalutazione monetaria, o in via subordinata, al risarcimento del danno stimato nella stessa somma.
La banca convenuta chiede il rigetto della domanda attorea e in via riconvenzionale, in ipotesi di
accoglimento totale o parziale della domanda attorea, la condanna della sig.ra P. A. a restituire alla
Cassa quanto percepito in relazione ai titoli di cui è causa, ovvero la somma di P 7.476,78 o la diversa
somma di giustizia, oltre alla restituzione dei titoli medesimi o del loro controvalore. Devono essere
accolte sia la domanda principale dell’attrice che quella riconvenzionale della banca convenuta.
Va preliminarmente osservato che l’art. 23 T.U.F. prescrive l’obbligo della forma scritta a pena
di nullità solo per i contratti che disciplinano la prestazione dei servizi di investimento, intendendosi
per tali non i singoli contratti di acquisto di titoli, ma i contratti che stabiliscono in via generale come
gli ordini devono essere impartiti in svariate ipotesi, come ad esempio quando hanno ad oggetto valori mobiliari quotati che vengono negoziati fuori da mercati regolamentati, o ordini riguardanti valori mobiliari non quotati negoziati in mercati regolamentati, ovvero ordini impartiti in situazioni di
conflitto di interesse della banca, vendite allo scoperto, etc.
Né il richiamo effettuato dalla parte attrice nella discussione orale all’art. 1 comma 5o lett j
T.U.F., che dispone testualmente che per servizi di investimento si devono intendere la ricezione e
trasmissione di ordini, costituisce un argomento a sostegno della tesi invocata dalla parte attrice, rafforzando al contrario l’interpretazione testè esposta.
Da un attento esame dell’art. 1 comma 5o T.U.F. emerge che per servizio di investimento deve
intendersi un’attività svolta dalla banca, che può consistere nella negoziazione per conto proprio
130
GIURISPRUDENZA
(lett. f), nella negoziazione per conto terzi (lett. g), nella gestione su base individuale di portafogli in
investimento (lett. i), così come è un’attività svolta dalla banca anche la ricezione degli ordini e la trasmissione degli ordini (lett j).
Se quindi il servizio di investimento di cui alla lett. j coincide con l’attività di ricezione e trasmissione degli ordini e non con l’ordine in sé, ne consegue che l’art. 23 non ha in alcun modo identificato i servizi di investimento con i singoli ordini d’acquisto.
In conclusione, per contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento, si intendono i
contratti che disciplinano, tra le altre, «l’attività « di ricezione e trasmissione degli ordini da parte
delle banche, ovvero i c.d. contratti quadro.
Coerente con questa ricostruzione è il disposto dell’art. 30 del regolamento Consob n. 11522/
98, di attuazione del decreto legislativo 24.2.1998 n. 58, che contiene la disciplina dei c.d. contrattiquadro e prescrive al comma 2o lett. c) che tali contratti, che devono necessariamente rivestire la forma scritta, devono indicare le modalità attraverso cui l’investitore può impartire ordini ed istruzioni.
Dunque, il regolamento di attuazione del D. lgs. n. 58/98, atto normativo cui è stata espressamente demandata dal legislatore l’attuazione e disciplina dei principi generali posti dal T.U.F., ha, in
conformità a quanto stabilito dall’art. 23 T.U.F., prescritto la forma scritta esclusivamente per i contratti-quadro ed ha stabilito che sono gli stessi contratti a dover indicare le modalità attraverso cui
l’investitore può impartire ordini ed istruzioni.
Orbene, nel caso di specie, il contratto che contiene le «norme relative alla negoziazione, alla
sottoscrizione, al collocamento ed alla raccolta degli ordini concernenti valori mobiliari», stipulato
dall’attrice con la banca convenuta (doc. 3 fascicolo convenuta), contempla all’art. 1 che l’ordine
possa essere conferito non solo per iscritto ma anche telefonicamente.
La stessa clausola prevede che in quest’ultimo caso ne fa piena prova la relativa annotazione sui
registri della banca, ma, una tale prova può comunque essere fornita anche a mezzo di testimoni.
Ne consegue che non può accogliersi la prospettazione dell’attrice che ritiene affetti da nullità
gli ordini, come uno di quelli di cui è causa, privi della forma scritta.
Va peraltro osservato che, indipendentemente dalle modalità di conferimento degli ordini di acquisto pattuite dalle parti nel contratto relativo ai servizi di investimento, in ogni caso, in talune ipotesi espressamente previste dal regolamento Consob, l’ordine deve comunque rivestire una particolare forma, come, ad esempio, quando l’intermediario autorizzato riceva una disposizione relativa ad
un’operazione non adeguata.
A questo punto, va accertato se l’operazione di investimento posta in essere dall’attrice fosse
adeguata alla stregua dei requisiti richiesti dall’art. 29 del regolamento n. 11522/98 (tipologia, oggetto, frequenza o dimensione) e, nell’ipotesi affermativa, se la banca fosse tenuta, oltre ad adempiere
precisi obblighi informativi, anche ad osservare determinati requisiti formali nella ricezione e trasmissione dell’ordine, con l’individuazione delle conseguenze giuridiche derivanti dall’eventuale
mancato rispetto della forma.
Orbene, non vi è dubbio che, nel caso di specie, le operazioni finanziarie poste in essere dall’attrice non erano adeguate al suo profilo di rischio, sia per l’oggetto e tipologia, avendo l’investitrice,
prima degli ordini di cui è causa, acquistato titoli aventi un rating superiore quali Bot ed il Fondo
Euganeo – circostanza questa ammessa anche dalla Ca.ri.ve – sia in relazione alle dimensioni dell’operazione. In un una situazione, come quella in esame, caratterizzata dalla ricezione da parte dell’intermediario autorizzato di un ordine dell’investitore relativo ad un’operazione non adeguata, a
norma dell’art. 29 regolamento Consob, qualora l’investitore intenda comunque dare corso all’ordine, l’intermediario può eseguire l’operazione solo sulla base di un ordine impartito per iscritto ovvero, nel caso di ordine telefonico, registrato su nastro magnetico o su altro supporto equivalente, in
cui sia fatto esplicito riferimento alle avvertenze ricevute.
È indubitabile che la ratio per cui legge abbia in tale ipotesi voluto imporre con particolare rigore la forma scritta è in relazione alla seria esigenza di maggior tutela del risparmiatore, il quale, se effettua un acquisto che si pone in controtendenza rispetto alle pregresse scelte di investimento, so-
OBBLIGHI DI INFORMAZIONE E SANZIONI DELL’ORDINAMENTO
131
prattutto se di entità tale da rappresentare una buona fetta del suo capitale, deve essere, in primo
luogo, dissuaso dall’intermediario dal portare avanti una tale operazione e deve essere comunque essere messo in condizione di valutare in maniera ancor più ponderata il rischio cui si espone.
L’estrema gravità dei rischi che il risparmiatore si assume comporta, al fine di responsabilizzare
maggiormente l’intermediario nell’adempimento dei suoi obblighi informativi, che nell’ordine scritto – o nella registrazione su nastro magnetico o su altro supporto in caso di ordine telefonico – sia
fatto esplicito riferimento alle avvertenze fornite dall’intermediario e ricevute dal risparmiatore.
Proprio perché quest’ultimo requisito di forma non è fine a se stesso ma risponde ad un’esigenza
(di sostanza) di particolare tutela dell’investitore nel compimento di un’operazione assai delicata e rischiosa, alla mancanza nell’ordine scritto del riferimento esplicito alle avvertenze ricevute non può
ovviarsi dimostrando l’avvenuta comunicazione delle avvertenze medesime con la prova testimoniale.
Nel caso in esame, in relazione alla sottoscrizione di titoli obbligazionari per la somma di P
30.000,00, nell’ordine sottoscritto dall’attrice alcun riferimento, neppure implicito, viene fatto in ordine all’inadeguatezza dell’operazione rispetto al normale profilo di rischio della medesima. Deve
quindi considerarsi inammissibile la prova per testi richiesta dalla banca convenuta, volta a dimostrare sostanzialmente l’adempimento dell’obbligo informativo dell’intermediario in ordine all’inadeguatezza dell’operazione, ovvero che, nonostante il funzionario dell’istituto di credito avesse avvertito l’attrice che i titoli titoli Del Monte avessero un minor rating rispetto ai Bot e ed al Fondo Euganeo l’investitrice abbia comunque manifestato la sua volontà, autonomamente formatasi, di acquistare le suddette obbligazioni.
Quanto invece all’ordine impartito telefonicamente per l’ulteriore somma di P 99.000,00, indipendentemente dall’ammissibilità o meno della prova per testi – la banca ne afferma l’ammissibilità
sul rilievo di non essere tenuta a conservare le registrazioni magnetiche oltre il biennio, a norma dell’art. 69 regolamento Consob – la stessa prova orale richiesta non è comunque rilevante.
Infatti, nella stessa prospettazione della banca, solo in occasione dell’ordine scritto impartito
nella mattinata del 4.5.01, il funzionario avrebbe fatto presente all’attrice che stava per sottoscrivere
titoli aventi un rating inferiore rispetto a quelli fino ad allora posseduti. (cap. 5). Nel capitolo 8, la
banca non chiede neppure di provare che nel corso della telefonata all’attrice siano state date espressamente le medesime avvertenze in ordine alla inadeguatezza dell’operazione, tenuto conto peraltro
che l’attrice andava ad investire con il nuovo ordine il suo residuo capitale per il cospicuo importo di
P 99.000,00.
In conclusione, la banca non ha fornito prova idonea a dimostrare l’assolvimento dei particolari
obblighi di diligenza, trasparenza e di corretta informazione imposti dal T.U.F. (in particolare art.
21) e dal suo regolamento attuativo (art. 28) a carico della medesima, nei rapporti con il cliente nella
prestazione dei servizi di investimento.
La violazione delle prescrizioni imposte dalla legge dà luogo alla nullità di entrambi gli ordini
impartiti.
Deve infatti ritenersi che il T.U.F. ed il suo regolamento attuativo – che costituisce con il primo
un corpo normativo unico da valutarsi unitariamente (vedi Trib. Monza sent. n. 218/05 in Altalex) –
in considerazione degli interessi pubblicistici, anche di rango costituzionale (art. 47 Cost) che mirano a realizzare, ed identificabili non solo nella tutela dei risparmiatori uti singoli ma anche in generale del risparmio come elemento di valore dell’economia nazionale, sono norma imperative a norma
dell’art. 1418 cod. civ. (in questi termini si è già espressa la giurisprudenza della Suprema Corte nella
sentenza del 7.3.2001 n. 3272 con riferimento alle disposizioni della legge 2.1.1991 n. 1 sull’intermediazione mobiliare).
Ne consegue che non occorre che sia espressamente prevista la sanzione di nullità ai fini della
nullità dell’atto negoziale compiuto in violazione di tali norme, in quanto vi sopperisce l’art. 1418 1o
comma cod. civ. che rappresenta un principio generale rivolto a prevedere e disciplinare proprio
quei casi in cui alla violazione di precetti imperativi non si accompagna una previsione di nullità.
132
GIURISPRUDENZA
La banca convenuta deve essere quindi condannata a versare alla sig.ra P. A. le somme ricevute
per gli ordini di cui è causa, pari a P 129.000,00 oltre agli interessi legali dal giorno del pagamento –
dovendosi escludere la buona fede della banca alla luce di quanto sopra illustrato – al saldo.
Deve essere invece rigettata la domanda di rivalutazione monetaria, non essendo stata fornita la
prova del maggior danno a norma dell’art. 1224 cod. civ.
Venendo meno il titolo in virtù del quale la sig.ra P. A. aveva incassato le cedole dei titoli di cui è
causa, l’attrice deve essere condannata a restituire alla convenuta la somma di P 7.476,78 oltre agli interessi dalla domanda giudiziale (avendo l’attrice ricevuta tale somma in buona fede) al saldo.
Si precisa che non è stata disposta compensazione tra i reciproci debiti delle parti non essendo
stata formulata una domanda in tal senso dalla banca convenuta.
Infine, essendo venuta meno la causa che legittimava l’attrice alla loro detenzione, la stessa deve
essere condannata altresì a restituire alla banca i titoli di cui è causa.
In ordine alle spese di lite, in relazione alla novità della questione, sussistono giusti motivi per
una compensazione integrale delle stesse. (Omissis).
OBBLIGHI DI INFORMAZIONE E SANZIONI DELL’ORDINAMENTO:
UN PROBLEMA NON SOLO DEGLI INTERMEDIARI FINANZIARI
1. Inquadramento della fattispecie
La sentenza in commento si inserisce nel quadro delle decisioni che, soprattutto recentemente, hanno avuto modo di esaminare quali siano le conseguenze derivanti dalla violazione dei precetti contenuti nell’art. 21 del T.U.F. e nell’art. 28 del
regolamento attuativo della Consob, con particolare riferimento ai prescritti obblighi di diligenza, correttezza e trasparenza che gravano sugli intermediari finanziari (1).
Il problema, però, sembra più ampio, giacché nella recente legislazione, soprattutto di derivazione comunitaria, vi è spesso la previsione di un obbligo di informazione che deve essere prestata dal contraente forte in favore di quello debole
(2): informazione che talvolta riguarda la fase propriamente contrattuale, delineandosi in alcuni casi come vero e proprio contenuto obbligatorio del contratto; in altre occasioni, invece, l’informazione concerne la fase precontrattuale, dovendo essere resa in un momento antecedente la conclusione del contratto stesso.
( 1 ) Per una analisi dei doveri di informazione gravanti sull’intermediario finanziario, anche in considerazione del momento in cui devono essere adempiuti (antecedenti, contestuali o successivi alla stipulazione
del contratto) rinviamo a Sartori, Le regole di condotta degli intermediari finanziari, Milano, 2004, p. 179
ss.; Scalisi, Dovere di informazione e attività di intermediazione mobiliare, in Riv. dir. civ., 1994, II, p. 169
ss.
( 2 ) Sull’esame di diverse ipotesi si veda anche: Sicchiero, Nullità per inadempimento?, in Contr. impr., 2006, p. 369 ss.; De Poli, Asimmetrie informative e rapporti contrattuali, Padova, 2002, p. 168 ss.
OBBLIGHI DI INFORMAZIONE E SANZIONI DELL’ORDINAMENTO
133
Si pensi alle ipotesi che oggi si trovano nel codice di consumo (d.lgs. n. 206/
2005) e in particolare agli obblighi: di informazione su alcune caratteristiche dei
prodotti (artt. 6 e 7); sulle modalità di indicazione del prezzo del prodotto (art.
14); di indicare in modo chiaro e comprensibile il corrispettivo, pena la valutazione del suo carattere vessatorio (art. 34); di indicare il TAEG che rappresenta il costo complessivo che grava sul consumatore (art. 40); di informare il consumatore
sul diritto di recesso nelle vendite al di fuori dei locali commerciali (art. 47); di fornire una pluralità di informazioni sul professionista, sul bene oggetto del contratto
e su altre condizioni nei contratti a distanza (art. 52); di consegnare il documento
informativo con le informazioni prescritte dall’art. 70 per l’ipotesi di multiproprietà, dovendo poi anche il successivo contratto indicare alcuni elementi di carattere
informativo ai sensi dell’art. 71; similmente anche per le vendite dei pacchetti turistici è previsto da un lato un obbligo di informativa precontrattuale (art. 87) e dall’altro un contenuto obbligatorio del contratto (art. 86).
Ma gli esempi non sono solo quelli di derivazione comunitaria, giacché anche
il legislatore interno ha più volte utilizzato lo strumento dell’informazione per garantire che l’autonomia contrattuale delle parti si esplichi nel modo più corretto
possibile, vale per garantire che la scelta di obbligarsi sia quanto più possibile consapevole. E così, appunto nel versante del diritto interno, si può ricordare il codice
delle assicurazioni (d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209) e in particolare gli obblighi di
pubblicizzare le condizioni contrattuali (art. 131), di pubblicizzare correttamente i
prodotti assicurativi (art. 182) di comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza nei confronti dei contraenti e degli assicurati (art. 183).
Ma ancora, sempre con riferimento al diritto interno, vi è il recente d.lgs. 122/
2005 (3) sulle garanzie degli immobili in costruzione: in particolare l’art. 6 prescrive quale sia il contenuto, anche informativo, del contratto preliminare o dei contratti che siano diretti a realizzare la medesima finalità. In tale ultima previsione,
similmente alle ipotesi di derivazione comunitaria di cui si è detto, nella maggior
parte dei casi si tratta di requisiti di forma diretti a garantire, quanto più possibile,
una piena conoscenza da parte dell’acquirente della complessiva situazione che in
qualche modo sia connessa con l’acquisto oggetto del contratto. Obiettivo realizzato operando in più direzioni, come prescrivendo comportamenti che rappresenterebbero in ogni caso obblighi d’informazione delle parti (si pensi alla necessità
di indicare gli atti d’obbligo o le ipoteche), imponendo l’indicazione formale degli
estremi di atti e documenti quali la fideiussione o il permesso di costruire (prescrizioni appunto di forma, in quanto in astratto violate a prescindere dalla circostan( 3 ) Su tale disciplina si rinvia a: AA.VV., La tutela degli acquirenti di immobili da costruire. Commento
al d. lgs. n. 122 del 2005, a cura di Sicchiero, Padova, 2005.
134
GIURISPRUDENZA
za che i relativi atti o documenti esistano) ed imponendo persino l’indicazione di
elementi che solo indirettamente sembrano avere un qualche rilievo con l’acquisto, quali i termini di completamento della costruzione (e, si noti, non del termine
entro cui deve essere concluso il contratto definitivo) o l’esistenza di imprese appaltatrici con la specificazione dei relativi dati identificativi.
In tutte queste ipotesi, come detto, il ruolo centrale è assunto dall’informazione che, oggi sempre più, sembra la soluzione adottata dall’ordinamento (comunitario ed interno) per regolare il mercato senza intaccare però l’autonomia contrattuale della parti: alla parte viene lasciata l’autonomia contrattuale di obbligarsi alle
condizioni che ritiene, purché il suo consenso sia espresso avendo ricevuto nella
fase precontrattuale o contrattuale le informazioni minime prescritte nel singolo
caso.
Il problema emerge quando alla prescrizione dell’obbligo di informazione o
più in generale – per rimanere nel tema della sentenza in commento – alla prescrizione dell’obbligo di diligenza, trasparenza e corretta informazione, non si accompagni un’esplicita sanzione dell’ordinamento. Ed allora si aprono due interrogativi: nelle ipotesi di cui si discute ci si trova di fronte a norme imperative da cui ex
art. 1418 c.c. può derivare la nullità virtuale? Ed in caso di risposta positiva, è
sempre la nullità la conseguenza della violazione del precetto o sono ipotizzabili
altre differenti sanzioni?
2. Le norme imperative in generale e l’interesse tutelato dall’art. 21 T.U.F.
Il primo interrogativo che ci siamo posti, richiede di affrontare seppur sommariamente la nozione di imperatività della legge.
Secondo la lettura della giurisprudenza, tale imperatività sussiste quando la
violazione del divieto si accompagni all’accertamento che la disposizione che lo
fissa sia posta a tutela di un interesse pubblico (4), dovendosi infatti distinguere tra
questo e quello meramente privato (5), o che sia dettata per motivi di ordine pub-
( 4 ) Infatti, secondo Cass., 18 luglio 2003, n. 11256, in Contratti, 2004, p. 237, n. Sanvito, «in tema di
nullità del contratto prevista dall’art. 1418 c.c. la natura imperativa della norma violata deve essere individuata in base all’interesse pubblico tutelato (la corte, nel formulare il principio sopra richiamato, ha confermato la decisione di giudici di appello che avevano rilevato la nullità del contratto avente ad oggetto una
fornitura di caffé, atteso che le relative confezioni non recavano la data di scadenza del prodotto, contrariamente alle prescrizioni dettate dagli art. 3 e 12 d.p.r. 322/1982 a tutela della salute del consumatore)»;
in modo analogo Cass., 8 marzo 2002, n. 3438, in Giust. civ., 2003, I, p. 410, n. Giacobbe, ma anche già
Cass., 4 dicembre 1982, n. 6601 e Cass., 13 maggio 1977, n. 1901.
( 5 ) Cass., Sez. Un., 21 agosto 1972, n. 2697.
OBBLIGHI DI INFORMAZIONE E SANZIONI DELL’ORDINAMENTO
135
blico (6). Le indicazioni della giurisprudenza richiamate offrono un criterio di
massima che però, come osservato (7), è tutt’altro che preciso nell’indicare limiti e
presupposti del concetto d’imperatività delle disposizioni di legge.
Si è indicato in letteratura, infatti, che «il grado di imperatività della norma violata, richiesto ai fini della nullità del contratto, è più elevato di quello che si esprime
nella constatazione della non derogabilità per volontà delle parti. Questo più ampio
grado di imperatività è postulato dalla riserva finale del 1o comma: se la violazione di
norma imperativa non comporta nullità quando “la legge dispone diversamente” e se
questa diversa disposizione legislativa non deve necessariamente consistere nella
esclusione espressa della nullità, potendo questa essere “desumibile dalla ragione del
divieto”, occorre identificare criteri atti a distinguere norma imperativa da norma imperativa» (8).
Si può notare, tuttavia, una certa sintonia tra le applicazioni del principio e la
posizione di chi individua l’interesse generale tutelato con la previsione della nullità, in primo luogo nei principi posti da norme costituzionali nonché da quelle ordinarie ove siano attuative dei principi costituzionali (9).
Così, mentre sarebbe nullo il contratto che violi le disposizioni che vietano la
vendita di animali affetti da malattie contagiose, in quanto l’interesse tutelato è
quello della salute (10), non lo sarebbe invece quello che abbia ad oggetto la vendita di uova da cova sprovviste della stampigliatura indicante la parola «cova» seguita dalla parola «Italia». Infatti questa, pur prescritta dalla legge, non sarebbe diretta a tutelare l’interesse pubblico e generale della salute pubblica ma, invece, quello
del razionale e controllato svolgimento della produzione e del commercio di quel
prodotto (11).
( 6 ) Cass., 27 novembre 1975, n. 3974.
( 7 ) De Nova, Il contratto contrario a norme imperative, in Riv. crit. dir. priv., 1985, p. 440.
( 8 ) Galgano, Della nullità del contratto, in Comm. al cod. civ. Scialoja Branca a cura di Galgano, Bologna-Roma, 1998, p. 81-82.
( 9 ) Sull’argomento si veda in particolare: Petti, La simulazione e l’invalidità del contratto, in Comm.
cod. civ. diretto da De Martino, Novara-Roma, 1984, p. 138 ss.; G.B. Ferri, Ordine pubblico, buon costume
e la teoria del contratto, Milano, 1970, p. 156 ss.; Tommasini, voce Nullità, in Enc. dir., XXVIII, Milano,
1978, p. 878; circa tale criterio relativo all’individuazione dell’imperatività della disposizione secondo la
fonte di diritto da cui è posta, anche ordinaria o regionale, si veda in particolare Villa, Contratto e violazione di norme imperative, Milano, 1993, p. 93-114.
( 10 ) Cass., 15 gennaio 1976, n. 128, in Giur. it., 1977, I, p. 945 ss.
( 11 ) Cass., 4 dicembre 1982, n. 6601, in Giust. civ., 1983, I, p. 1178, secondo cui infatti «ai fini di cui
all’art. 1418 c.c., le norme contenenti un divieto, anche se sanzionato penalmente, possono essere considerate imperative, in difetto di una espressa sanzione civilistica di invalidità, soltanto se dirette alla tutela di
un interesse pubblico generale, la quale (salvi i casi in cui sia resa manifesta dalla lettera della norma) è ravvisabile se il divieto ha carattere assoluto, senza possibilità di esenzione dalla sua osservanza per alcuni dei
destinatari della norma; pertanto, non può ritenersi imperativo agli effetti dell’art. 1418 cit. l’art. 4, 2o comma, l. 13 maggio 1966, n. 356, che vieta alle imprese produttrici di uova da cova di «incubare, commerciale
o porre altrimenti in circolazione uova da cova, prodotte in Italia, che non rechino stampigliate... la parola
136
GIURISPRUDENZA
Secondo un’ulteriore prospettiva, poi, più che accertare la natura della disposizione, sarebbe decisivo individuare quale elemento del processo di scambio si
scontri con la proibizione (12). Il criterio dell’interesse pubblico opererebbe efficacemente per risolvere il problema preliminare relativo alla verifica della derogabilità o meno della disposizione da parte dei privati (13), giacché una previsione protettiva di soli interessi privati non potrebbe condurre di regola ad una nullità virtuale (14). Quando emerga, però, che la ratio attiene alla tutela d’interessi generali,
occorrerebbe considerare ulteriori criteri che permettano di determinare in che
modo tale disposizione incida sul contratto (15). L’indagine, quindi, non dovrebbe
considerare solamente lo scopo della norma considerato in astratto, ma anche il
rapporto tra questo, l’elemento dello scambio su cui incide il divieto e la compatibilità tra la sopravvivenza del contratto ed il rispetto del divieto medesimo (16).
Si è evidenziato, ancora, che la nullità, più che conseguire dal grado di imperatività della norma violata, deriverebbe dal modo in cui il contratto incide sul valore protetto dalla disposizione (17). Secondo tale impostazione, infatti, «il regolamento contrattuale non si inserisce senza contraddizioni nel tessuto di rapporti giuridici in cui dovrebbe operare. Se quella contraddizione può essere rimossa senza toccare il contratto, la conseguenza non è la nullità. Se invece quel tessuto di rapporti circostanti non sopporta in tutto o in parte ciò che i contraenti dispongono, non resta
che constatare la nullità totale o parziale del patto» (18).
Da altri, infine, si è osservato come la nullità potrebbe essere esclusa anche in
relazione alla valutazione di elementi extratestuali legati alla ratio della previsione
e più in particolare «al modo in cui il contratto incide sugli interessi protetti dalla
norma« (19). La nullità, in altre parole, deriverebbe dalla circostanza che gli effetti
del contratto andrebbero direttamente a ledere gli interessi protetti dalla disposizione, avente il preciso scopo di impedire quegli effetti. Nei casi in cui il contratto
«cova», seguita dalla parola «Italia» e dal numero di immatricolazione assegnato al centro o stabilimento
di produzione», poiché tale disposizione, dettata dall’esigenza di carattere pubblico del razionale e controllato svolgimento della produzione e del commercio delle uova da cova, non è preordinata alla tutela
mediata (attraverso la prevenzione della diffusione della pollurosi e di altre malattie trasmissibili dal pollame) dell’interesse di carattere generale della salute pubblica, atteso l’esonero dall’osservanza delle norme
dell’indicata legge disposto dall’art. 9 della stessa per le piccole imprese».
( 12 ) Villa, cit., p. 46.
( 13 ) Villa, cit., p. 90-92.
( 14 ) Villa, cit., p. 130-131.
( 15 ) Villa, cit., p. 90-92.
( 16 ) Villa, cit., p. 134.
( 17 ) Gentili, Le invalidità, in Trattato dei contratti diretto da Pietro Rescigno, I contratti in generale a
cura di E. Gabrielli, Torino, 1999, II, p. 1333.
( 18 ) Gentili, cit., p. 1336-1337.
( 19 ) Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2001, p.
748.
OBBLIGHI DI INFORMAZIONE E SANZIONI DELL’ORDINAMENTO
137
violi la regola, ma senza che siano propriamente i suoi effetti a colpire l’interesse
tutelato, non vi sarebbe nullità ma mera irregolarità, giacché il primo rimedio qui
sarebbe eccedente rispetto all’esigenza di ripristinare l’interesse leso (20).
Tuttavia anche da tale profilo, come evidenzia lo stesso Roppo, resta talvolta la
difficoltà di distinguere le ipotesi (21).
Quanto alla specifica fattispecie presa in considerazione dall’art. 21 T.U.F. è
chiaro che l’interesse tutelato non è solo e tanto quello del soggetto che deve ricevere l’informazione: qui è in gioco la protezione dell’intero mercato degli strumenti finanziari (22), giacché la finalità della previsione sembra essere quella di garantire la sua integrità e buon funzionamento.
In quest’ottica di valutazione si inserisce anche la sentenza in commento, nella
quale si evidenzia proprio che l’art. 21 T.U.F. e l’art. 28 del suo regolamento attuativo mirano a realizzare interessi pubblicistici «identificabili non solo nella tutela
dei risparmiatori uti singoli, ma anche in generale del risparmio come elemento di
valore dell’economia nazionale» (23).
Da tale considerazione sulla natura dell’interesse tutelato, la sentenza in esame
trae la conclusione che la violazione della norma (appunto imperativa) fa conseguire la nullità del contratto (24).
( 20 ) Roppo, Il contratto, cit., p. 748.
( 21 ) Roppo, Il contratto, cit., p. 749.
( 22 ) In questo senso si sono espresse le sentenze di merito (quali indicate nella nota 24) che fanno derivare dalla violazione di tali precetti la nullità del contratto; in particolare Trib. Firenze 30 maggio 2004, in
Giur. it., 2005, p. 754 ss., evidenzia che «la normativa sopra richiamata è posta a tutela dell’ordine pubblico economico e, dunque, si sostanzia in norme imperative, la cui violazione impone la reazione dell’ordinamento attraverso il rimedio della nullità del contratto, anche a prescindere da un’espressa previsione in tal
senso da parte del legislatore ordinario».
In letteratura si è sottolineato che tali previsioni «si pongono come obiettivo la tutela del risparmio (oltre che la correttezza del mercato, la cui trasparenza incentiva l’ingresso di soggetti anche meno propensi
ad effettuare investimenti rischiosi) e hanno quindi necessariamente portata generale essendo dirette a
soddisfare interessi della collettività» (Miriello, La strenua difesa dell’investitore: scandali finanziari e pretese nullità virtuali nei contratti di vendita di titoli obbligazionari, in Contr. impr., 2005, p. 497; ma si veda
anche Bessone, I mercati mobiliari, Milano, 2002, p. 8 ss.).
( 23 ) Ma tale opinione era già stata espressa ad esempio da Trib. Mantova, 18 marzo 2004, Banca, borsa,
2004, p. 440 e da Trib. Mantova, 1 dicembre 2004, in Danno e resp., 2005, p. 614, per il quale «l’art. 21, 1o
comma, lett. a) e b), d. lgs. 24 febbraio 1998 n. 58 e gli art. 28 e 29 reg. Consob. n. 11522/1998 impongono
agli intermediari finanziari di prestare i servizi di investimento con diligenza e di operare in modo che i
clienti siano sempre adeguatamente informati; tali disposizioni devono considerarsi norme imperative ex
art. 1418 c.c. in considerazione degli interessi tutelati (diligenza degli intermediari e tutela del risparmio) e
della natura generale di siffatti interessi e pertanto la loro violazione determina la nullità dell’ordine impartito dagli investitori nell’ambito della prestazione dei servizi di investimento da parte degli intermediari».
( 24 ) La tesi, ovviamente, non è isolata; così tra le tante ricordiamo Trib. Ferrara, 25 febbraio 2005, in
www.ilcaso.it, secondo cui «le norme di cui agli artt. 21 e 23 del T.U.I.F. e quelle contenute negli artt. da
26 a 30 del reg. Consob n. 11522/98 hanno carattere imperativo in quanto poste a tutela del risparmio, bene di sicuro rilievo costituzionale. Esse e costituiscono il contenuto specifico dei comportamenti esigibili e
degli obblighi inderogabili da parte di chi offre servizi di investimento, operatori professionali «abilitati»
138
GIURISPRUDENZA
3. Natura dell’interesse tutelato con l’obbligo di informazione e possibili azioni
esperibili
Prima di proseguire con l’analisi del problema posto dalla sentenza in esame,
occorre brevemente indicare che non sempre l’interesse tutelato attraverso l’obbligo di informazione può essere considerato, come nel caso di specie, di carattere
pubblicistico.
In concreto, quindi, le ipotesi riscontrabili sembrano essere le seguenti: 1) vi è
un obbligo di informazione la cui omissione determina in modo espresso la nullità
del contratto: qui non vi può essere discussione circa la conseguenza dell’eventuale violazione, giacché è la legge che la determina; 2) vi è un obbligo di informazione diretto a tutelare un interesse di carattere pubblico e generale: in questa ipotesi
la disposizione assume carattere imperativo, con la conseguenza che sembrerebbe
(come affermato dalla sentenza in commento) conseguire la nullità virtuale ex art.
1418 1o comma c.c.; 3) vi è un obbligo di informazione che è volto a tutelare solo
una parte del contratto (tendenzialmente quella debole che riceve l’informazione):
ora, quando appunto la nullità non sia prevista in modo espresso, non vi è spazio
per farla derivare per altra via.
In tale ultima ipotesi, che affrontiamo brevemente esulando dal tema di cui si
occupa la sentenza in commento, rientrano per esempio molti dei contenuti obbligatori del contratto preliminare relativo agli immobili in costruzione: così in parti-
cui si richiede alta competenza specifica e una maggiore (rispetto a quella comune del «buon padre di famiglia») diligenza, correttezza e trasparenza nei rapporti contrattuali. (Il Tribunale ha quindi dichiarato la
nullità degli ordini di negoziazione di obbligazioni Parmalat 98/05 FR EU e 5,5% 09 EUR avendo la banca
intermediaria violato la citata normativa)»; ma anche Trib. Firenze, 30 maggio 2004, in Giur. it., 2005, p.
754 ss.; Trib. Venezia, 22 novembre 2004, in Giur. it., 2005, p. 754 ss.; Trib. Palermo, 17 gennaio 2005, in
Contratti, 2005, p. 1091 ss.; Trib. Firenze, 18 febbraio 2005, in www.ilcaso.it; Trib. Santa Maria Capua Vetere, 1 marzo 2005, in www.ilcaso.it; Trib. Avezzano, 23 giugno 2005, in Foro it., 2005, I 2538 ss.; Trib.
Parma, 6 luglio 2005, in www.ilcaso.it.
Anche parte della letteratura propende per la nullità del contratto: Fiorio, Gli obblighi di comportamento degli intermediari al vaglio della giurisprudenza di merito, in Giur. it., 2005, p. 768; Maffeis, Il dovere di consulenza al cliente nei servizi di investimento e l’estensione del modello al credito ai consumatori, in
Contratti, 2005, p. 12; Liace, La finanza innovativa e la tutela del risparmiatore, in Danno e resp., 2006, p.
191-192.
In senso contrario, ritenendo che l’omessa informazione dia luogo a inadempimento: App. Milano, 13
ottobre 2004, in Contratti, 2005, p. 1085 ss. (seppur con riferimento all’art. 6 l. 1/1991); Trib. Lodi, 22 febbraio 2005, in www.ilcaso.it; Trib. Potenza, 24 febbraio 2005, in www.ilcaso.it; Trib. Genova, 15 marzo
2005, in Contratti, 2005, p. 1095 ss.; Trib. Rimini, 11 maggio 2005, in Giur. it., 2006, p. 521 ss.; Trib. Roma, 25 maggio 2005, in www.ilcaso.it; Trib. Alba, 4 luglio 2005, in www.ilcaso.it; Trib. Milano, 25 luglio
2005, in Danno e resp., 2005, p. 1227 ss.; Trib. Genova, 2 agosto 2005, in Danno e resp., 2005, p. 1225 ss.;
Trib. Modena, 14 ottobre 2005, in www.ilcaso.it; Trib. Catania, 21 ottobre 2005, in www.ilcaso.it; Trib.
Milano, 9 novembre 2005, in www.ilcaso.it; Trib. Catania, 22 novembre 2005, in Giur. it., 2006, p. 522 ss.;
Trib. Milano, 24 novembre 2005, in Giur. it., 2006, p. 521 ss.; Trib. Rovereto, 18 gennaio 2006, in Contr.
impr., 2006, p. 579; Trib. Milano, 26 aprile 2006, in www.ilcaso.it.
OBBLIGHI DI INFORMAZIONE E SANZIONI DELL’ORDINAMENTO
139
colare per la necessità di indicare gli estremi di eventuali atti d’obbligo e convenzioni urbanistiche, gli estremi della fideiussione obbligatoria, l’impresa appaltatrice, ecc. Si tratta di informazioni appunto volte a garantire il solo promissario acquirente, consentendogli di esprimere il proprio consenso all’acquisto una volta
che abbia ricevuto le informazioni che obbligatoriamente devono essere contenute
nel contratto.
In tali ipotesi, essendo appunto esclusa la nullità tra le conseguenze possibili
alla violazione dell’obbligo, resta prospettabile l’azione volta ad ottenere il risarcimento del danno –derivante da responsabilità precontrattuale– che l’acquirente
dimostri aver subito come conseguenza della mancanza di determinati contenuti
obbligatori del contratto. Al riguardo occorre osservare che, stante le prescrizioni
contenute nelle differenti disposizioni che abbiamo via via richiamato su quali siano le informazioni da comunicare, non sembra esservi margine per una differente
valutazione, fondata sul diritto della parte di tenerne riservate talune (25) e volta ad
escludere il dovere di fornirle.
Ma tale responsabilità precontrattuale in alcune circostanze sembra essere un
rimedio insufficiente nell’ottica di tutelare l’interesse leso: ci riferiamo, ad esempio, a possibili non corrette informazioni riguardanti indirettamente l’oggetto del
contratto da cui in ipotesi derivi un’erronea percezione della realtà tale da provocare un vizio del consenso. In tale situazione sembra allora prospettabile l’esercizio dell’azione di annullamento, ovviamente nei limiti in cui è ammissibile.
Da tale profilo, peraltro, pare che il requisito dell’essenzialità dell’errore valga
ad escludere l’automatismo del venir meno del vincolo contrattuale ad ogni ipotesi
di violazione del precetto riguardante le prescrizioni formali, così fungendo da filtro per i casi privi di rilievo: in definitiva, con l’azione di annullamento il vincolo
verrebbe meno solo nell’ipotesi in cui la violazione dovesse assumere una certa
consistenza, essendo l’errore appunto essenziale.
Occorre poi porre l’accento su una particolarità del modo con cui opera l’azione di annullamento nell’ambito delle ipotesi prospettate: qui, infatti, al fine di verificare l’esistenza di un vizio del consenso, sembra dover sussistere con minor rigore quell’antagonismo tra dovere di informazione e obbligo di autoinformazione
(26). Nelle ipotesi in esame, sussistendo un obbligo di informazione che grava anzi-
( 25 ) In via generale, infatti, le parti hanno un diritto alla riservatezza che talvolta può giustificare la
mancata comunicazione di determinate informazioni che l’altra parte può avere interesse a conoscere: sul
punto, in particolare, si veda Galgano, Diritto civile e commerciale, Padova, 2004, II, 1, p. 400 ss.
( 26 ) Su tale antagonismo si segnala Cass. 15 novembre 1993, n. 11274, nella quale si evidenzia che
«l’indagine sulla esistenza in concreto di un vizio del consenso quale causa di annullamento del contratto si
risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito ed insindacabile in sede di legittimità se
sorretto da adeguata e corretta motivazione; in tanto può affermarsi la mancanza o l’insufficienza della mo-
140
GIURISPRUDENZA
tutto sulla parte forte del contratto, non pare si possa richiedere quel dovere di autoinformazione che, ove inadempiuto, può valere ad escludere la sussistenza del
vizio del consenso.
Quando invece si verta nella seconda ipotesi sopra prospettata, vale a dire
quella di un obbligo di informazione volto a tutelare un interesse di carattere pubblico e generale, occorre chiedersi se, accertata la natura imperativa della disposizione, sia sempre e solo la nullità la conseguenza possibile o se, in alternativa, talvolta sia prospettabile una differente sanzione. Il che è ben possibile, posto che la
nullità virtuale opera ai sensi dell’art. 1418 c.c. quando vi sia la violazione di una
norma imperativa, ma non anche quando sia lo stesso ordinamento a prevedere
una differente conseguenza (27).
Così, appunto, in alcuni casi il problema non si pone, perché sono le stesse disposizioni che indicano quali siano le conseguenze diverse dalla nullità che derivino dall’omessa informazione: così, a titolo esemplificativo, l’omessa informazione
sul diritto di recesso non fa conseguire la nullità, essendo all’opposto stabilito il dilatamento dei termini per il suo esercizio (art. 65, n. 4 codice del consumo) e le
sanzioni amministrative stabilite dall’art. 62; in modo analogo, l’omissione di alcune delle indicazioni prescritte per il documento informativo e per il contratto relativo ad una multiproprietà non danno luogo a nullità del contratto ma fanno sorgere il diritto di recedere dallo stesso ex art. 73 codice del consumo.
Nel caso in esame concernente l’art. 21 T.U.F., in effetti manca qualsiasi previsione espressa nella medesima disposizione che indichi possibili differenti conseguenze rispetto alla nullità, il che evidentemente sembra avvalorare proprio la tesi
che l’inosservanza dell’obbligo informativo faccia conseguire la nullità del contratto.
La tesi però non ci convince, anzitutto per la necessità di inquadrare la fattispecie da una diversa prospettiva.
L’obbligo di informazione, pur quando debba essere contenuto nel medesimo
contratto, non attiene tanto agli elementi costituitivi del contratto stesso, vale a ditivazione per l’omessa considerazione di un particolare elemento o di una circostanza, in quanto gli stessi
assumano, ai fini della decisione, carattere di decisività; nella specie, con riferimento ad un contratto di
mutuo ipotecario contenente clausole di notevole difficoltà tecnica inerenti la quantificazione degli interessi, ai fini della valutazione della sussistenza del dolo non presenta carattere di decisività la considerazione
delle condizioni soggettive dei contraenti (società finanziaria il mutuante, semplice utente il mutuatario),
allorché la adeguatezza dei mezzi ad decipiendum alterum venga rapportata alla normale diligenza imposta
al mutuatario, la quale costituisce il confine tra il dovere di informazione e l’onere di autoinformazione».
( 27 ) Infatti «la violazione di una norma imperativa non dà luogo necessariamente alla nullità del contratto giacché l’art. 1418, 1o comma, c.c., con l’inciso «salvo che la legge disponga diversamente», esclude
tale sanzione ove sia predisposto un meccanismo idoneo a realizzare ugualmente gli effetti voluti della norma, indipendentemente dalla sua concreta esperibilità e dal conseguimento reale degli effetti voluti»
(Cass., 24 maggio 2003, n. 8236).
OBBLIGHI DI INFORMAZIONE E SANZIONI DELL’ORDINAMENTO
141
re ai requisiti strutturali dell’atto, ma piuttosto ad elementi esterni, volti a realizzare interessi che operano sul piano del rapporto contrattuale (28) o, al più, della formazione fisiologica della volontà di concludere il contratto.
Da tale prospettiva, il rimedio stabilito dall’ordinamento quale conseguenza
della mancata esecuzione dell’obbligo informativo sembra operare sul terreno risarcitorio. Tale responsabilità sembra derivare anzitutto dalla regola fissata dall’art. 1337 c.c., quando la mancata informazione riguardi la fase precontrattuale, o
al più dalla previsione di cui all’art. 1440 c.c., in ipotesi di successiva conclusione
del contratto (29). Resterebbe anche in tali casi, comunque, la possibilità di agire
( 28 ) In tale ottica sembra porsi anche la S.C., avendo osservato in relazione all’art. 6 l. 1/1991 (disposizione che, similmente all’attuale art. 21 T.U.F., prevedeva tra l’altro i principi generali e le regole di comportamento per le società di intermediazione mobiliare, fissando in particolare il dovere di comportarsi
con diligenza, correttezza e professionalità nella cura dell’interesse del cliente), che «la “contrarietà” a norme imperative, considerata dall’art. 1418, primo comma, c.c. quale “causa di nullità” del contratto, postula
[...] che essa attenga ad elementi “intrinseci” della fattispecie negoziale, che riguardino, cioè, la struttura o
il contenuto del contratto (art. 1418, secondo comma, c.c.). I comportamenti tenuti dalle parti nel corso
delle trattative o durante l’esecuzione del contratto rimangono estranei alla fattispecie negoziale e s’intende, allora, che la loro eventuale illegittimità, quale che sia la natura delle norme violate, non può dar luogo
alla nullità del contratto (Cass. 9 gennaio 2004, n. 111; 25 settembre 2003, n. 14234); a meno che tale incidenza non sia espressamente prevista dal legislatore (ad es., art. 1469 ter, quarto comma, c.c., in relazione
all’art. 1469, quinquies, primo comma, stesso codice). Né potrebbe sostenersi che l’inosservanza degli obblighi informativi sanciti dal citato art. 6, impedendo al cliente di esprimere un consenso “libero e consapevole” avrebbe reso il contratto nullo sotto altro profilo, per la mancanza di uno dei requisiti “essenziali”
(anzi di quello fondamentale) previsti dall’art. 1325 c.c. Invero, le informazioni che debbono essere preventivamente fornite dall’intermediario, a norma del citato art. 6, non riguardano direttamente la natura e
l’oggetto del contratto, ma (soltanto) elementi utili per valutare la convenienza dell’operazione e non sono
quindi idonee ad integrare l’ipotesi della mancanza di consenso» (Cass., 29 settembre 2005, n. 19024, in
Danno e resp., 2006, p. 25 ss.; di prossima pubblicazione in Giur. it. con nota di Sicchiero).
In modo analogo, in letteratura si è osservato che «il legislatore non ha dimenticato la vecchia buona
distinzione fra regole di validità e regole di comportamento/responsabilità, e le è pur sempre affezionato:
dimostrando di avere ben chiaro che quando è in gioco la violazione di regole di condotta diligente, la ricaduta naturale non si produce sul terreno della validità del contratto, ma sul diverso terreno della responsabilità del contraente» (Roppo, La tutela del risparmiatore fra nullità, risoluzione e risarcimento (ovvero
l’ambaradan dei rimedi contrattuali), in Contr. impr., 2005, p. 904); lo stesso autore, poi, dando atto che le
più recenti sentenze si stanno orientando per il rimedio della risoluzione del contratto, evidenzia che «sembra di poterne ricavare una linea di tendenza che enuncerei così: dall’ambaradan, a un certo recupero di
ordine. E precisamente: di ordine, nel buon uso della vecchia cara distinzione fra regole di validità e regole
di comportamento/responsabilità, di cui s’intravede la riscossa» (Roppo, La tutela del risparmiatore, cit., p.
909). Per l’inquadramento della fattispecie nell’ambito della responsabilità, specie contrattuale, si veda anche: Sartori, cit., p. 369 ss.; Cottino, Una giurisprudenza in bilico: i casi Cirio, Parmalat, bonds argentini,
in Giur. it., 2006, p. 537 ss.
Più in generale, sulla distinzione tra regole di validità e regole di comportamento/responsabilità si rinvia a: D’Amico, Regole di validità e principio di correttezza nella formazione del contratto, Napoli, 1996;
D’Amico, Regole di validità e regole di comportamento nella formazione del contratto, in Riv. dir. civ., 2002,
I, p. 40 ss.
( 29 ) La giurisprudenza ha specificato che «non è affatto vero che, in caso di violazione delle norme che
impongono alle parti comportarsi secondo buona fede nel corso delle trattative e nella formazione del contratto, la parte danneggiata, quando il contratto sia stato validamente concluso, non avrebbe alcuna possibilità di ottenere il risarcimento dei danni subiti.
142
GIURISPRUDENZA
per l’annullamento del contratto poi stipulato (30), ove però la mancata informazione costituisca dolo (determinante) di una parte o abbia condotto ad un’erronea
percezione della realtà (31).
Viceversa, quando sia omessa un’informazione che doveva essere prestata in
un momento successivo alla conclusione del contratto, la responsabilità risarcitoria sembra dover derivare dall’applicazione delle regole generali in tema di adempimento (art. 1218 c.c.) (32), con possibilità di ottenere la risoluzione del contratto
Tale tesi, un tempo non priva di riscontri nella giurisprudenza di questa Corte (Cass. 9 ottobre 1956, n.
3414; 12 ottobre 1970, n. 1948; 11 settembre 1989, n. 3922), poggia sull’assunto che l’ambito di rilevanza
della responsabilità contrattuale sia circoscritto alle ipotesi in cui il comportamento non conforme a buona
fede abbia impedito la conclusione del contratto o abbia determinato la conclusione di una contratto invalido ovvero (originariamente) inefficace. Di qui la conclusione che, dopo la stipulazione del contratto, ogni
questione relativa all’osservanza degli obblighi imposti alle parti nel corso delle trattative sarebbe preclusa,
in quanto la tutela del contraente sarebbe affidata, a partire da quel momento, solo alle norme in tema di
invalidità e di inefficacia del contratto, la cui applicazione, pur essendo in alcuni casi ricollegata a comportamenti certamente non conformi a «buona fede», è tuttavia subordinata alla ricorrenza di presupposti ulteriori (artt. 1434-1437, 1439, 1447-1448).
Si è però ormai chiarito che l’ambito di rilevanza della regola posta dall’art. 1337 c.c. va ben oltre l’ipotesi della rottura ingiustificata delle trattative e assume il valore di una clausola generale, il cui contenuto
non può essere predeterminato in maniera precisa, ma certamente implica un dovere di trattare in modo
leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o anche solo reticenti e fornendo alla controparte ogni dato
rilevante, conosciuto o anche solo conoscibile con l’ordinaria diligenza, ai fini della stipulazione del contratto. L’esame delle norme positivamente dettate dal legislatore pone in evidenza che la violazione di tale
regola di comportamento assume rilievo non solo nel caso di rottura ingiustificata delle trattative (e, quindi, di mancata conclusione del contratto) o di conclusione di un contratto invalido o comunque inefficace
(artt. 1338, 1398 c.c.), ma anche quando il contratto posto in essere sia valido, e tuttavia pregiudizievole
per la parte vittima del comportamento scorretto (1440 c.c.)» (Cass., 29 settembre 2005, n. 19024, in Danno e resp., 2006, p. 25 ss.).
( 30 ) Con riferimento agli obblighi di informazione presenti nella specifica disciplina dei mercati finanziari, si è però detto che «in presenza di una regolamentazione così esaustiva dell’informazione che deve
precedere la conclusione del contratto e di quella che viene per così dire “incorporata” in esso, la genuinità
della volontà del cliente è assicurata dal rispetto degli obblighi di comportamento che gravano sull’intermediario e dai requisiti di forma-contenuto riferiti al contratto: gli spazi riservati all’annullamento, dunque, sono radicalmente ridotti» (Dellacasa, Collocamento dei prodotti finanziari e regole di informazione:
la scelta del rimedio applicabile, in Danno e resp., 2005, p. 1242).
In giurisprudenza, in verità, non sono mancate decisioni in senso contrario che hanno annullato il contratto di compravendita di strumenti finanziari in conseguenza anche della violazione degli obblighi di informazione: così Trib. Pinerolo, 14 ottobre 2005, in Giur. it., 2006, p. 521 ss.
( 31 ) Sul rapporto tra violazione dell’obbligo di informazione e annullamento del contratto, rinviamo a
De Poli, cit., p. 397 ss.
( 32 ) Spesso nelle decisioni di merito non è chiaro il confine tra fattispecie di responsabilità precontrattuale e contrattuale: a noi pare che dal profilo sistematico sia corretta l’ipostazione che distingue le ipotesi
a seconda del momento in cui avvenga la violazione dell’obbligo di informazione rispetto alla conclusione
del contratto. In modo analogo, anche Roppo-Afferni, Dai contratti finanziari al contratto in genere: punti
fermi della Cassazione su nullità virtuale e responsabilità precontrattuale, in Danno e resp., 2006, p. 31, evidenziano che «se l’intermediario ha violato obblighi di comportamento in fase precontrattuale, il risparmiatore pregiudicato potrà azionare pretese ex art. 1337 c.c. Se sono violati obblighi di condotta in fase di
esecuzione del contratto, si potrà chiedere risoluzione e risarcimento del danno contrattuale»; nello stesso
senso, si è anche osservato che «il comportamento dell’intermediario è idoneo a determinare una responsabilità di tipo precontrattuale o contrattuale a seconda che la violazione della norma di legge o di regola-
OBBLIGHI DI INFORMAZIONE E SANZIONI DELL’ORDINAMENTO
143
ove però sussista il requisito della gravità dell’inadempimento richiesto dall’art.
1455 c.c.
4. Azioni esperibili e possibili conseguenze in ordine allo scioglimento del contratto e ai danni risarcibili
Dall’impostazione accolta, che esclude la nullità e che invece vede nel risarcimento del danno e nelle azioni di annullamento e risoluzione i rimedi prospettabili
nei casi in cui manchi o sia erronea l’informazione che doveva essere fornita, derivano ovviamente anche differenze in ordine alle domande proponibili e ai danni
risarcibili: il che tendenzialmente con aggravio degli oneri facenti capo alla parte
debole del rapporto contrattuale (33).
Probabilmente per tale ragione in casi eccezionali è stato lo stesso legislatore a stabilire la nullità quale conseguenza della violazione di un obbligo riguardante la fase di adempimento del contratto (34): così, ad esempio, nell’art. 2 del
d.lgs. n. 122/2005, in relazione all’obbligo gravante sul venditore-costruttore di
immobile in costruzione di rilasciare la fideiussione che garantisca gli acconti ricevuti o nell’art. 76 del codice del consumo in relazione al mancato rilascio della fideiussione volta a garantire l’ultimazione dei lavori di un immobile venduto
mento intervenga nella fase anteriore alla stipulazione del contratto di cui all’art. 23 del TUF ovvero nella
fase esecutiva dei contratti di investimento» (Sartori, cit., p. 370-371).
( 33 ) Infatti, «la sanzione della nullità in ipotesi di mancata osservanza di determinati obblighi di comportamento (comunicazioni, avvisi, adempimenti) sembra diretta ad attribuire la massima protezione al
contraente a favore del quale quegli obblighi siano imposti. Infatti l’estrema rigidità della disciplina della
nullità, la sua indisponibilità, l’imprescrittibilità dell’azione appaiono a prima lettura costituire un baluardo insormontabile e ben difficile da aggirare ove si pensi all’inammissibilità di rinunce preventive e comunque al meccanismo di chiusura contro ogni altro mezzo utilizzabile, costituito dalla nullità per frode
alla legge» (Sicchiero, cit., 2006, p. 376).
Inoltre, da altra prospettiva, si è evidenziato che «per l’attore è enormemente più agevole e sicuro perseguire, e per il giudicante è meno faticoso emettere, una condanna a restituire una somma già predefinita,
piuttosto che risarcire una somma ancora da definire (e magari di definizione problematica)» (Roppo, La
tutela del risparmiatore, cit., p. 908; così anche Roppo-Afferni, cit., p. 31); in modo analogo si è sottolineato che «risulta evidente come la tecnica della invalidazione del contratto di investimento finisca per
rappresentare uno stratagemma per semplificare la posizione del cliente nei confronti dell’impresa di investimento, in quanto supera le difficoltà probatorie connesse al danno ed al nesso di causalità, sostituendovi
un ben definito diritto alla restituzione delle prestazioni già eseguite, idoneo a procurare la soddisfazione
del cliente» (Ambrosoli, Doveri di informazione dell’intermediario finanziario e sanzioni, in Contratti,
2005, p. 1110).
( 34 ) In letteratura, proprio con riferimento a tali ipotesi, si è posto in luce che in alcune occasioni «è lo
stesso legislatore che mostra di aver dimenticato la buona vecchia distinzione [tra regole di validità e regole
di comportamento/responsabilità], dando ingresso a clamorose invasioni di campo. Si dirà che ne esce un
quadro confuso e contraddittorio. Certo: mica per niente ho parlato di ambaradan dei rimedi contrattuali!» (Roppo, La tutela del risparmiatore, cit., p. 905).
144
GIURISPRUDENZA
in multiproprietà ma ancora in corso di costruzione (35).
Ma si tratta, appunto, di ipotesi eccezionali (36), in quanto difformi dalla regola
generale secondo cui l’inadempimento è fonte dell’obbligo di risarcire il danno.
Dal profilo pratico, come si diceva, le conseguenze sembrano molto diverse
37
( ): mentre ove si adotti la soluzione della nullità è sufficiente appunto ottenere la
dichiarazione di invalidità del contratto per avere diritto alla ripetizione di quanto
indebitamente versato, nella differente soluzione da noi prospettata l’onere che
grava su chi intenda far valere l’inadempimento è quello di provare il danno effettivamente subito quale conseguenza dell’omessa o erronea informazione.
Occorrerebbe poi distinguere anche a seconda che la responsabilità sia di tipo
contrattuale piuttosto che precontrattuale, giacché in quest’ultima, come noto, soprattutto la giurisprudenza ritiene risarcibile il danno nei limiti dell’interesse contrattuale negativo (38).
È vero, però, che nell’ipotesi specifica degli strumenti finanziari un problema
di risarcimento del danno per violazione dell’obbligo di fornire le informazioni
che devono essere rese nella fase precontrattuale sembra prospettabile solo quando il contratto venga successivamente concluso e abbia esiti difformi dalle aspettative (perché l’investimento è negativo in assoluto o quantomeno rispetto alle alternative praticabili). Ed allora il risarcimento del danno per l’omessa informazione,
che doveva essere fornita nella fase precontrattuale, sembrerebbe riconducibile all’ipotesi regolata dall’art. 1440 c.c. per il caso di dolo incidente (39), con la conseguenza che si dovrebbe ritenere risarcibile la totalità dei danni che risultino collegati da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto con l’omessa o erronea informazione (40).
( 35 ) Per queste e ulteriori ipotesi si rinvia a Sicchiero, cit., p. 374 ss.
( 36 ) Proprio da tale eccezionalità D’Amico, Regole di validità e regole di comportamento nella formazione del contratto, cit., p. 56-57, trae la conseguenza per cui «tutte le volte che un divieto o un obbligo di
comportamento, riconducibili al principio di buona fede in contrahendo, risultino violati senza che il legislatore abbia esplicitamente previsto come sanzione di tale violazione l’invalidità dell’atto, unico rimedio
(sul piano civilistico) non potrà che essere quello della responsabilità (precontrattuale), ricorrendone gli altri presupposti (nesso di causalità, prova del danno, ecc.)».
( 37 ) Per l’analisi delle differenze tra le ipotizzate azioni di nullità e risoluzione si veda Sicchiero, cit.,
p. 380 ss.
( 38 ) Così tra le tante: Cass., 10 giugno 2005, n. 12313; Cass., 30 luglio 2004, n. 14539; Cass., 18 luglio
2003, n. 11243; Cass., 14 febbraio 2000, n. 1632.
( 39 ) Ipotesi che è stata considerata fattispecie da collocarsi nel più ampio genus delineato dall’art. 1337
c.c. (App. Venezia, 31 maggio 2001, in Corriere giur., 2001, p. 1199) o comunque da considerarsi applicazione del principio generale di buona fede contenuto nell’art. 1337 c.c. (Cass., 29 marzo 1999, n. 2956, in
Giur. it., 2000, p. 1192, n. Dalla Massara).
( 40 ) Si è detto, infatti, che «il danno risarcibile nell’ipotesi del dolo incidente, prevista dall’art. 1440
c.c. [...] si estende alla totalità dei danni, valutati nel loro complesso, che risultino collegati da un rapporto
rigorosamente consequenziale e diretto; rilevano sia il danno emergente che il lucro cessante (nella specie,
il venditore che aveva omesso di informare l’acquirente della sussistenza di un giudizio petitorio sul fondo
OBBLIGHI DI INFORMAZIONE E SANZIONI DELL’ORDINAMENTO
145
Come detto, al rimedio risarcitorio restano affiancabili (41) anche quelli volti ad
ottenere lo scioglimento del vincolo contrattuale e così la ripetizione dell’intera
prestazione adempiuta: il soggetto che doveva ricevere l’informazione, infatti, potrà sempre dimostrare – a seconda dei casi – che l’inadempimento è grave (42) o
oggetto di compravendita risponde anche dei danni derivanti dalla sospensione dei pagamenti da parte di
terzi successivi acquirenti e dalla dazione di garanzie in loro favore)» (Cass., 29 marzo 1999, n. 2956, in
Giur. it., 2000, p. 1192, n. Dalla Massara). Anche recentemente, si è sottolineato come sia evidente che
«quando, come nell’ipotesi prefigurata dall’art. 1440 c.c., il danno derivi da un contratto valido ed efficace
ma «sconveniente», il risarcimento, pur non potendo essere commisurato al pregiudizio derivante dalla
mancata esecuzione del contratto posto in essere (il c.d. interesse positivo), non può neppure essere determinato, come nelle ipotesi appena considerate, avendo riguardo all’interesse della parte vittima del comportamento doloso (o, comunque, non conforme a buona fede) a non essere coinvolta nelle trattative, per
la decisiva ragione che, in questo caso, il contratto è stato validamente concluso, sia pure a condizioni diverse da quelle alle quali esso sarebbe stato stipulato senza l’interferenza del comportamento scorretto.
Il risarcimento, in detta ipotesi, deve essere ragguagliato al «minor vantaggio o al maggiore aggravio
economico» determinato dal contegno sleale di una delle parti (Cass. 11 luglio 1976, n. 2840; 16 agosto
1990, n. 8318), salvo la prova di ulteriori danni che risultino collegati a tale comportamento «da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto» (Cass. 29 marzo 1999, n. 2956). Non vi è quindi motivo di
ritenere che la conclusione di un contratto valido ed efficace sia di ostacolo alla proposizione di un’azione
risarcitoria fondata sulla violazione della regola posta dall’art. 1337 c.c. o di obblighi più specifici riconducibili a detta disposizione, sempre che, s’intende, il danno trovi il suo fondamento (non già nell’inadempimento un’obbligazione derivante dal contratto, ma) nella violazione di obblighi relativi alla condotta delle
parti nel corso delle trattative e prima della conclusione del contratto» (Cass., 29 settembre 2005, n. 19024,
in Danno e resp., 2006, p. 25 ss.).
In letteratura, inoltre, si è evidenziato che, in ipotesi di dolo incidente, il danno risarcibile «non si determina sul parametro dell’interesse negativo, bensì deve comprendere tutte le utilità perse dalla vittima
per avere contrattato alle condizioni suggerite dall’inganno» (Roppo, Il contratto, cit., p. 821-822).
( 41 ) Sull’ammissibilità della facoltà di agire per il risarcimento dei danni unitamente all’annullamento
del contratto si veda Sacco, Il contratto, in Trattato di diritto civile diretto da Rodolfo Sacco, I, Torino,
2004, p. 573.
In letteratura, inoltre, si è precisato che, a differenza di quel che avviene in ipotesi di dolo incidente,
nel caso di annullamento del contratto il danno risarcibile è rappresentato dal solo l’interesse contrattuale
negativo (Bianca, Il contratto, in Diritto civile, Milano, 2000, p. 667; Roppo, Il contratto cit., p. 821).
Ovviamente, invece, sulla somma già versata –in adempimento del contratto poi annullato– e da restituire andranno calcolati gli interessi legali; oltre a tale somma, sembrerebbe poi prospettabile anche la risarcibilità del maggior danno ai sensi dell’art. 1224 c.c.: trattandosi di strumenti finanziari, tale danno potrebbe essere rappresentato dai maggiori rendimenti che avrebbe avuto la somma già impiegata nell’investimento ove impiegata diversamente (ad esempio, tenuto conto di altri investimenti che il medesimo contraente abbia posto in essere parallelamente).
( 42 ) Questa ad esempio la soluzione adottata dal Tribunale di Milano, secondo cui «quanto agli obblighi di informazione comunque previsti ai sensi degli artt. 21 lett. b) e T.U.F. e 28 Reg. Consob n. 11522/98
deve preliminarmente osservarsi che questo Tribunale non condivide l’estensione dell’area della nullità al
di fuori delle ipotesi in cui tale sanzione è espressamente prevista dal legislatore.
Ed invero, in ossequio al generale ed indefettibile principio di legalità (e, non di meno, di certezza del
diritto) non appare lecito il ricorso indiscriminato alla sanzione della nullità, che costituisce il più severo rimedio civilistico, nei casi di violazione di norme comportamentali generali (di diligenza, correttezza, trasparenza, indipendenza, equità ...) che, in quanto prive di specificità, non risultano idonee ad individuare
precise regole di comportamento cui uniformare la condotta dell’agente.
Lo stesso legislatore, nell’esplicitare il generale dovere di diligenza e correttezza di cui all’art. 21
T.U.F., ha valutato certi comportamenti come essenziali e ne ha quindi sanzionato l’inosservanza con la
nullità (cfr., ad esempio, art. 23 commi 1, 2 e 3; art. 24 comma 2; art. 30 comma 7 del T.U.F.).
Ma dall’impianto normativo complessivo emerge (e comprensibilmente) la volontà del legislatore di
146
GIURISPRUDENZA
che l’omessa informazione l’ha indotto in un errore tale da rendere annullabile il
contratto. Ovviamente, in tali ipotesi saranno il requisito della gravità dell’inadempimento o dell’essenzialità dell’errore a operare da limitazione alla possibilità di
ottenere in restituzione l’intera prestazione, giacché appunto questa sarà ripetibile
solo quando l’omissione dell’informazione assuma connotati di maggior rilievo, risultando cioè idonea alla pronuncia di annullamento o risoluzione.
Una tale valutazione, invece, non è possibile ove si adotti la soluzione della
nullità giacché, dichiarata l’invalidità sulla sola base dell’assenza delle informazioni prescritte, il diritto alla ripetizione integrale di quanto adempiuto non troverebbe più ostacolo: ed allora sembrerebbe difficoltoso perfino impedire l’uso strumentale di tale azione per il caso in cui venga esercitata a distanza di tempo, una
evitare la eccessiva tipizzazione delle modalità di condotta, il che rende di dubbia praticabilità il rimedio
della nullità.
Come già osservato da questo Tribunale in una recente sentenza la voluta distinzione fra adempimenti
prescritti a pena nullità ed altri obblighi di comportamento pure posti a carico dell’intermediario, impedisce
una generalizzata qualificazione di tutta la disciplina dell’intermediazione mobiliare come di ordine pubblico
e, ultimamente, presidiata dalla c.d. nullità virtuale di cui all’art. 1418 1o comma c.c. (cfr. sentenza n. 7555/
05 Presidente Est. Vanoni).
Peraltro, non può sottacersi in proposito che la nota sentenza della Suprema Corte che ha felicemente
inaugurato il tema delle «nullità virtuali» (cfr. Cass. 7/3/01 n. 3272) è stata emessa con riferimento ad una
vicenda peculiare concernente l’esercizio della attività di intermediazione posta in essere da un «intermediario abusivo» e dunque in una fattispecie del tutto estranea a quella relativa agli obblighi informativi previsti dal T.U.F.
Da ultimo soccorre al diverso inquadramento delle fattispecie di violazione degli obblighi comportamentali previsti dal T.U.F. l’argomento letterale desumibile dal comma 6 dell’art. 23 del D.Lgs. n. 58/98
laddove l’inversione dell’onere probatorio viene riferito ai «giudizi di risarcimento dei danni cagionati ai
clienti nello svolgimento dei servizi» (previsti dal decreto) ed è noto che il rimedio risarcitorio non appartiene alla categoria delle nullità, che prevedono, invero, l’effetti restitutori.
Appare per contro più appropriato, ad avviso di questo Tribunale, applicare alle fattispecie di violazione delle norme comportamentali dettate dal T.U.F. (per le quali non sia stata espressamente prevista dal
legislatore la sanzione della nullità) i generali principi in tema di inadempimento.
Il Giudice, nell’esaminare i comportamenti tenuti dagli intermediari nelle singole fattispecie, potrà e
dovrà valutare l’importanza dell’inadempimento dedotto dall’investitore, sia ai fini della condanna al risarcimento dei danni, sia ai fini della eventuale risoluzione del contratto, quando le violazioni commesse risulteranno di gravità tale da compromettere del tutto l’equilibrio del rapporto negoziale, ovvero quando, pur
prescindendo dal singolo rapporto obbligatorio con l’investitore teso alla tutela del soddisfacimento del
suo interesse individuale, ledono il prioritario principio della integrità del mercato. Risoluzione che, quoad
effectum, si risolverà, al pari della nullità, per la sua efficacia retroattiva, nell’obbligo restitutorio» (Trib.
Milano, 25 luglio 2005, in Danno e resp., 2005, p. 1227 ss.; per la stessa soluzione anche App. Milano, 13
ottobre 2004, in Contratti, 2005, p. 1085 ss. (seppur con riferimento all’art. 6 l. 1/1991); Trib. Lodi, 22 febbraio 2005, in www.ilcaso.it; Trib. Potenza, 24 febbraio 2005, in www.ilcaso.it; Trib. Genova, 15 marzo
2005, in Contratti, 2005, p. 1095 ss.; Trib. Rimini, 11 maggio 2005, in Giur. it., 2006, p. 521 ss.; Trib. Roma, 25 maggio 2005, in www.ilcaso.it; Trib. Alba, 4 luglio 2005, in www.ilcaso.it; Trib. Genova, 2 agosto
2005, in Danno e resp., 2005, p. 1225 ss.; Trib. Modena, 14 ottobre 2005, in www.ilcaso.it; Trib. Catania,
21 ottobre 2005, in www.ilcaso.it; Trib. Milano, 9 novembre 2005, in www.ilcaso.it; Trib. Catania, 22 novembre 2005, in Giur. it., 2006, p. 522 ss.; Trib. Milano, 24 novembre 2005, in Giur. it., 2006, p. 521 ss.;
Trib. Rovereto, 18 gennaio 2006, in Contr. impr., 2006, p. 579 ss.; Trib. Milano, 26 aprile 2006, in www.ilcaso.it).
OBBLIGHI DI INFORMAZIONE E SANZIONI DELL’ORDINAMENTO
147
volta che l’investimento sia risultato peggiore delle aspettative (43). Ove infatti si
seguisse la soluzione fatta propria anche dalla sentenza in commento, sarebbe facilmente immaginabile l’opportunismo del cliente che, persa parte del denaro investito, faccia valere la nullità al fine di ottenere il rimborso di quanto indebitamente versato, vale a dire l’intero originario investimento.
Viceversa, come detto, la diversa soluzione prospettata della risoluzione del
contratto e dell’azione di annullamento consentirebbe di giungere alle medesime
conseguenze (diritto di ottenere il rimborso dell’intero originario investimento)
solo nelle ipotesi di maggior importanza e cioè quando l’inadempimento sia grave
e l’errore essenziale. Negli altri casi, vale a dire quando l’omessa informazione assuma minor rilievo, resterebbe la possibilità di richiedere il risarcimento del danno, ma solo quello effettivamente subito in relazione all’omessa informazione (44),
dovendo lo stesso essere appunto la conseguenza dell’inadempimento e non del
cattivo investimento.
Marco Ticozzi
( 43 ) Si è però evidenziato come tale uso strumentale potrebbe venire paralizzato pretendendo «la legittimità dell’esercizio dell’azione, che manca quando sia esercitata in contrasto con il divieto di venire contra
factum proprium: il cliente soddisfatto, che per anni abbia utilizzato il prodotto finanziario incassando l’utile che ne ha tratto, non può proporre l’azione di nullità quando ad es. un periodo di crisi del mercato renda poco appetibile quel determinato prodotto.
La considerazione che il suo comportamento anteriore depone per la volontà di avvalersi del contratto
(egli non avrebbe esercitato il recesso) diventa in tal caso ostacolo all’azione di nullità esercitata a fini meramente opportunistici.
Il meccanismo di controllo è quindi quello della buona fede contrattuale, che se non comporta in alcun
modo modifica della regola dell’imprescrittibilità, vale invece come limite concreto ad ogni azione esercitata in contrasto con quel principio generale» (Sicchiero, cit., p. 388-389).
( 44 ) Per un’analisi, anche economica, delle differenti ipotesi di danno risarcibile in caso di violazione
degli obblighi di informazione si veda: Sartori, cit., p. 398 ss.
Trib. Venezia – Sez. I – 8 ottobre 2004, n. 10
«Omissis»
§ 3. Il Trust ed il negozio fiduciario
Senza alcun dubbio tra i vari istituti fiduciari in senso lato, peraltro già noti al diritto civile italiano, la figura che si è venuta affermando più di recente è appunto quella del trust, istituto di tradizione anglosassone che si attua quando un soggetto – «settlor» – trasferisce la proprietà di tutti i propri
beni ad una società o ad una persona di fiducia – «trustee» – che è tenuta ad amministrarli nell’interesse di un terzo – «beneficiary» – il quale, pur non essendone formalmente proprietario gode di tutti i vantaggi e le utilità derivanti dalla loro gestione.
Il beneficiary dispone, inoltre, di rimedi di carattere sia reale che obbligatorio per tutelare la
propria posizione nel caso in cui il trustee venga meno agli impegni assunti commettendo delle violazioni dei patti conclusi dalle parti (breach of trust).
Tale istituto è oggetto di una convenzione di diritto internazionale privato, la convenzione dell’Aja del primo luglio 1985, resa esecutiva in Italia con legge 16 ottobre 1989 numero 364 ed entrata
in vigore il primo gennaio 1992.
Dopo aver anticipato le caratteristiche generali del trust si tratta ora di scendere all’esame di tale
negozio unilaterale onde chiarire quale sia la posizione del trustee rispetto al beni amministrati.
È difficile per l’interprete italiano muoversi nell’ambito di un istituto tanto diverso dai principi
generali del diritto civile vigente.
Ma è altrettanto vero che la ratifica della convenzione dell’Aja pone in modo ineludibile il nodo
interpretativo di quale sia il ruolo del trustee con particolare riferimento alla natura del diritto che a
lui fa capo.
I riferimenti normativi più significativi sono costituiti dall’articolo 2, secondo comma lett. B)
della convenzione «i beni del trust sono intestati a nome del trustee o di un’altra persona per conto del
trustee».
Ed ancora, lett. C) dello stesso articolo «il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo, di
cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre dei beni secondo i termini del trust e le norme particolari impostegli dalla legge».
Ed infine dall’articolo 11 della stessa convenzione: «un trust costituito in conformità alla legge
specificata al precedente capitolo dovrà essere riconosciuto come trust. Tale riconoscimento implica
quanto meno che i beni del trust siano separati dal patrimonio personale del trustee ...»
Semplificando al massimo pare si possa affermare che tale negozio ha sia effetti reali che effetti
obbligatori.
Ma tale affermazione non deve far perdere di vista la peculiarità della situazione che porta ad affermare che il trustee è titolare di un diritto reale senza... esserne proprietario, poiché proprietario è
il trust.
Questa è la singolarità della situazione.
150
GIURISPRUDENZA
E questo perché il trustee è titolare di un diritto reale non nell’interesse proprio, ma nell’interesse
altrui.
Anzi, la titolarità del diritto è solo il mezzo attraverso il quale viene attuato, da parte del trustee,
l’effettivo controllo dei beni.
Calandosi nel sistema ordinamentale nazionale si deve però subito rilevare che non vi è la nascita
di un nuovo diritto reale, né uno sdoppiamento del diritto di proprietà, ma il semplice trasferimento
di un diritto reale da un soggetto ad un altro che accetta detto trasferimento come collegato – e questo è essenziale – ad un obbligo di amministrazione e di gestione.
Tutto ciò che non deve trarre in inganno.
Il diritto de quo è senz’altro e sempre quello previsto dagli articoli 832 e 2643 Codice Civile e
non un altro, non potendosi introdurre nel diritto italiano un nuovo diritto reale, ovvero sostenere
l’esistenza di una pluralità di diritti di proprietà (uno formale ed uno sostanziale), anche se il suo
esercizio deve avvenire in conformità all’obbligazione fiduciaria obbligazione che, nella sostanza,
non è ontologicamente dissimile da quella prevista dall’articolo 1173 CC.
Buona parte del contraddittorio processuale si è acceso sul problema dell’eventuale invalidità
dei trust; tanto di quello posto in essere da Giuseppina Grossi, tanto di quelli posti in essere da Luciana Bennati.
Di ciò avrà occasione di trattarsi più avanti allorché, in particolare, verrà esaminata la questione
riguardante la presunta appropriazione in danno di Carlo Bortolotto [capo E) dell’imputazione].
Basti qui anticipare che il Tribunale non ha rilevato cause evidenti di invalidità ed, in particolare, cause ostative al riconoscimento di tali trust quand’anche aventi carattere interno.
Poiché il Legislatore nazionale ha scelto la via dell’adattamento mediante ordine di esecuzione,
in difetto di una legge interna, l’unico strumento offerto è quello della interpretazione della convenzione stessa il cui articolo 13 afferma che «nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi
importanti, ad eccezione della scelta della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono più strettamente connesse a Stati che non prevedono l’istituto del trust
o la categoria del trust in questione».
Ora sia che il destinatario di tale norma sia il Giudice ovvero il Legislatore interno, tale norma
non dispone affatto un divieto di riconoscimento di un trust che presenti quelle determinate caratteristiche ma, bensì, una facoltà di diniego del riconoscimento.
La discussione su chi sia il destinatario primo di tale precetto appare poi (ed è), sotto il profilo
pratico, del tutto sterile dal momento che tale norma – così com’è – non può praticamente operare
nei confronti dei Giudici che non possono certo essere i destinatari di una facoltà se non nei casi in
cui una legge «applicativa» indichi loro i criteri, non certo discrezionali, cui adeguare tale facoltà.
È quindi nel giusto chi afferma che l’art. 13 della Convenzione prevede una norma di carattere
internazionale facoltativo, e cioè una norma non direttamente utilizzabile dal Giudice, in quanto non
dotata di carattere self-executiving.
Essa è quindi destinata ad operare solo in presenza e nell’ambito di un espresso intervento normativo dello Stato lì dove lo stesso, non essendo di tradizione «common law», non disponga già di
una sua regolamentazione specifica del fenomeno.
Certamente rimane salvo, in assenza di una specifica disposizione attuativa, il rispetto dei principi generali dell’ordinamento italiano ove la presenza di un intento abusivo/e o fraudolento precluderebbe il riconoscimento degli effetti dell’autonomia privata.
Ne consegue che quand’anche si volessero applicare i principi generali il mancato riconoscimento di un trust da cui evidentemente deriverebbe la nullità del medesimo, potrebbe essere conseguenza soltanto di una violazione dei principi indicati all’articolo 15 della predetta convenzione che testualmente recita «la convenzione non ostacolerà l’applicazione delle disposizioni di legge previste dalle
regole di conflitto del foro, allorché non si possa derogare a dette disposizioni mediante una manifestazione della volontà, in particolare nelle seguenti materie:
A) la protezione di minori e di incapaci;
LA MANCATA RESTITUZIONE DI BENI COSTITUITI IN TRUST
151
B) gli effetti personali e patrimoniali del matrimonio;
C) i testamenti e la devoluzione dei beni su accessori, in particolare la legittima;
D) il trasferimento di proprietà e le garanzie reali;
E) la protezione dei creditori in casi di insolvibilità;
F) la protezione, per altri motivi, dei terzi che agiscono in buona fede.
Qualora le disposizioni del precedente paragrafo siano di ostacolo al riconoscimento del trust, il giudice cercherà di realizzare gli obiettivi del trust con altri mezzi giuridici».
Il riferimento è evidentemente alle sole norme aventi carattere di imperatività. Tale argomentare
verrà ripreso più avanti quando verrà presa in esame e confutata la tesi della PC C. B. (§ 6.4).
Neppure il richiamo operato dalla difesa G. ad una invalidità del Trust Giuseppina per la mancata indicazione dei beneficiari può essere condiviso.
Innanzitutto, in punto di fatto, al momento della costituzione del trust la Grossi aveva indicato
chi erano i suoi eredi universali designando i suoi fratelli: e questo vale ad indicare chi erano i beneficiari del trust.
Il documento 52 della difesa Z. è costituito da una dichiarazione del trust datata 30.6.1997 che
prende atto della designazione da parte del settlor G. G., come beneficiari, dei due fratelli I. e C. G.
Detta volontà risulta confermata da alcune disposizione testamentarie successive.
Ancora il trust, durante la gestione F., sollecitò ed ottenne una letter of wishes che integrò tale
designazione (cfr dichiarazioni Avv. F. udienza 19.11.2003).
Comunque l’art. 2 della convenzione stabilisce che «... il fatto che il costituente conservi alcune
prerogative ... non è necessariamente incompatibile con l’esistenza del trust».
Contrariamente quindi alla tradizionale ricostruzione del trust, ai sensi della convenzione, si ha
un trust validamente costituito anche qualora la qualità di costituente e beneficiario confluiscano
nella stessa persona.
Per la verità l’ordinamento giuridico italiano conosceva già un istituto che in qualche modo può
essere ricondotto, quanto meno nei suoi scopi pratici, a quanto fin ad ora descritto: si tratta della figura tradizionale del così detto negozio fiduciario ove era dato distinguere innanzitutto un negozio
mediante il quale si operava il trasferimento della titolarità di un diritto, cui si affiancava un’intesa
interna con la quale l’avente causa si obbligava ad esercitare tale diritto in un ben determinata maniera.
Peraltro gli istituti del negozio fiduciario e del trust differiscono fra loro in modo assai rilevante.
Infatti nel primo il fiduciario, pur assumendo la veste di intestatario dei beni nei confronti dei
terzi con i quali interagisce, deve esercitare il diritto secondo gli obblighi che si è assunto.
Nel trust la proprietà dei beni conferiti è, invece, a tutti gli effetti, formali e sostanziali, del trustee
il quale ne dispone secondo quanto previsto dall’atto di costituzione nell’interesse dei beneficiari.
Differenti sono gli scopi: celare la propria identità ai terzi nel primo, vincolare un patrimonio ad
uno scopo specifico il secondo.
In entrambi i casi, così come nel trust, si è comunque al di fuori dello schema del negozio simulato ove è dato registrare una divergenza fra quanto le parti dichiarano e quanto in effetti esse vogliono.
È opinione del Tribunale che, comunque, fermo rimanendo il problema della liceità di tutti i
trust [e cioè sia di quello posto in essere da G. G. sia di quelli (3) posti in essere da L. B.] entrambe,
sia pure per scopi, all’evidenza, del tutto diversi, ne abbiano voluto tutti gli effetti.
Tale problematica, e cioè quella dei rapporti fra «fiducia « e «trust», costituisce nel processo un
argomento ricorrente. E ciò sia perché l’impostazione accusatoria tende (erroneamente) ad accumunarli [in particolare al Capo A) avuto riguardo all’accusa di appropriazione indebita attuata mediante la mancata restituzione dei beni del trust]; e sia perché tutti i trust oggetto di questo processo sono
caratterizzati dal fatto che i beni segregati sono costituiti da partecipazioni azionarie non direttamente gestite dai trustee ma piuttosto affidate in gestione a società fiduciarie.
«Omissis»
152
GIURISPRUDENZA
§ 4.2 L’appropriazione indebita
La medesima imputazione (capo A) individua l’evento di danno subito dalla persona offesa non
tanto nell’essere stata la G. convinta a costituire il predetto trust, quanto piuttosto nell’aver lo Z., in
violazione del patto fiduciario ed allorché richiesto dalla sua mandante di restituirle i beni entrati nel
trust, essersi lui rifiutato di effettuare tali operazioni cosi appropriandosi indebitamente delle quote
già descritte (1).
Vale intanto anticipare che se così articolata l’accusa pare di assai problematica configurazione
già sul puro piano della fattispecie astratta.
E ciò per due ragioni.
Prima di tutto perché proprio per effetto del trust il trustee diviene titolare del diritto reale di
proprietà dei beni, lì dove l’ordinamento giuridico penale, ed in particolare proprio la fattispecie prevista dall’art. 646 cp, prevede e pretende «l’altruità della cosa», altruità che nel caso concreto non vi
era affatto (2).
Anche a voler ritenere come superabile tale rilievo, che affonda le sue radici nell’essenza stessa
di questo reato che è posto a tutela proprio del titolare del diritto reale, ci si scontra con un’altra critica avente anch’essa carattere assolutamente risolutivo poiché un reato può anche consumarsi mediante un comportamento omissivo (l’omessa restituzione) ma secondo, ancora una volta, i principi
generali, tale condotta per assumere un suo significato antigiuridico deve consistere nell’omettere ciò
che l’ordinamento imponeva e che quindi era dovuto.
E qui si manifesta l’errore di fondo della ricostruzione accusatoria secondo la quale la condotta
restitutoria era «dovuta» in forza della esistenza «del patto fiduciario» (3).
I brevi cenni descrittivi che precedono evidenziano come lo strumento alla stregua del quale si
deve valutare e considerare il comportamento ed i doveri del trustee trovino la loro fonte esclusivamente sulla base appunto della disciplina del trust ove il richiamo ad un negozio fiduciario sottostante non trova alcun credito trattandosi di una ricostruzione civilistica assolutamente diversa ed anzi in
contrasto con l’istituto che si è, pur brevemente, commentato.
Evidentemente ciò evidenzia – se si vuole – una lacuna dell’ordinamento penale nel senso che,
fatta salva la configurabilità dell’eventuale reato di truffa (anche contrattuale) rimane, allo stato, priva di tutela l’ipotesi di un trustee che, pur essendo divenuto in modo legittimo titolare di un diritto
reale, se ne impossessi, per esempio, cedendo a terzi dei beni senza che il settlor o i beneficiari ne
vengano a conoscenza ovvero contro la loro volontà.
D’altra parte neppure può l’istituto dell’appropriazione indebita adattarsi alla tutela di tali del
tutto nuove situazioni senza venir meno alla sua stessa essenza.
Allo stato si deve quindi ammettere che si tratta di una situazione non prevista e, quindi, non tutelata (4).
In realtà una volta affermata la validità del trust è proprio il suo «statuto interno» a non prevedere,
fra gli obblighi del trustee, quello della restituzione dei beni ivi segregati a semplice richiesta del settlor.
La restituzione «sic et sempiciter» delle risorse del trust era, quindi, una condotta giuridicamente inesigibile.
( 1 ) Per la verità in modo un po’ contraddittorio posto che truffa ed appropriazione indebita sono caratterizzati da due eventi
consumativi del tutto diversi perché altrimenti non potrebbero concorrere.
( 2 ) Come noto il reato di appropriazione indebita può essere commesso solo da chi è nel possesso della cosa mobile altrui
senza esserne proprietario. La sua vera essenza consiste nel punire l’abuso del possessore che a partire da un certo momento comincia a disporre della cosa come se fosse propria.
( 3 ) Così testualmente dall’imputazione «... frapponendo poi concreti ostacoli al controllo della gestione delle quote medesime, e
rifiutandosi infine a richiesta, in violazione del patto fiduciario, di effettuare le operazioni necessarie alla restituzione e diretto delle
quote da parte della Grossi...».
( 4 ) Il disegno di legge 5194 «Riforma delle società fiduciarie e disciplina del trust « neppure prevede, al riguardo, alcunché
essendo stata prevista una sanzione penale solo avuto riguardo all’ipotesi di cui al quarto comma dell’articolo 8 (esercizio senza la
prescritta autorizzazione dei attività dell’attività di trustee.
LA MANCATA RESTITUZIONE DI BENI COSTITUITI IN TRUST
153
E ciò proprio in relazione ed in conseguenza della nascita di un trust formalmente ineccepibile
tanto che lo stesso Avvocato F., della cui buona fede nessuno pare dubitare, soltanto in epoca assai
successiva riuscì a sciogliere, in conseguenza della situazione di blocco dell’attività del trust dal lui
ben descritta nel corso della sua deposizione.
La vicenda della restituzione dei beni alla G. ad opera dell’Avv. F. e delle relative motivazioni come da quest’ultimo palesate nel corso dell’udienza del 19.11.2003 (pagg. 149 e segg.) sono, al
riguardo, esaustive nel senso che il trust Giuseppina restituì i beni solo allorquando, manifestatosi
in tutta la sua virulenza il conflitto d’interessi in capo al co-trustee C. per l’esistenza del procedimento penale ed il sostanziale blocco di ogni attività del trust per quanto attiene alla gestione del
suo patrimonio, a cui si aggiungevano la situazione conseguente all’inadempimento nel pagamento
del prezzo del Bauer da parte di Veneziano Holding (cronologia 35) ed al «congelamento» all’interno della fiduciaria lussemburghese Intercorp del pacchetto azionario della G. (cronologia 30 e
31).
Ma vi è di più perché nel corso del processo è risultato che se appropriazione vi è stata, e sempre
che si possa superare l’obbiezione appena delineata, essa si è verificata non con la mancata restituzione dei beni ricompresi nel trust quanto piuttosto allorché lo Z., il 10.7.1999, cedette l’intero pacchetto azionario (ed obbligazionario) del Bauer all’imputato V. F. malgrado l’evidente dissenso manifestato al riguardo dalla G.
Premesso che di tale questione, se del caso, dovrà occuparsi altro Giudice è opinione del Tribunale che i precedenti tentativi di cessione del proprio pacchetto azionario posto in essere da G. G.
nel ’92 ed in particolare nel ’95 con bankers trust non possono certo surrogare l’assenza di un consenso – a quel contratto, a quelle condizioni, a quel prezzo ed in quel momento – mai prestato.
Si tratta di un fatto evidentemente diverso e nuovo rispetto a quello contestato caratterizzato,
com’è, da un diverso evento avente data e luogo di manifestazione diverso da quello oggetto di questo processo; fatto però che ben avrebbe potuto essere contestato in udienza.
Non può quindi trovare applicazione il potere del Tribunale di diversamente qualificare i fatti ex
art. 521 CPP imponendosi, viceversa, la restituzione degli atti al PM come meglio precisato nel dispositivo.
In questo caso, diversamente dall’accusa di truffa qui si pone il problema se possa configurarsi
sul piano giuridico l’appropriazione indebita.
«Omissis»
LA MANCATA RESTITUZIONE DI BENI COSTITUITI IN TRUST
E IL DELITTO DI APPROPRIAZIONE INDEBITA
1. Premesse
Dall’entrata in vigore della l. 16 ottobre 1989, n. 364, che ha reso esecutiva la
Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, assai limitate sono le pronunce penali in
materia di trust. Come è noto, il trust è un istituto di common law (1), in base al
( 1 ) Sull’origine del trust nel common law, cfr. Graziadei M., Trusts nel diritto-angloamericano, in Dig.
disc. priv., Sez. comm., XVI, Torino, 256 ss.
154
GIURISPRUDENZA
quale il costituente del trust – il settlor – trasferisce un bene o un insieme di beni a
un trustee – il fiduciario –, che ne acquista la proprietà fiduciae causa, con l’obbligo di amministrarli a beneficio del costituente medesimo o di un terzo (2).
Per la precisione, nel corso di questi anni, due sono i profili di rilevanza penale
emersi in ambito giurisprudenziale. Il primo riguarda il possibile inquadramento
della condotta del soggetto, che costituisca un trust al fine di sottrarsi all’adempimento degli obblighi nascenti da una sentenza, nella fattispecie delittuosa di cui
all’art. 388 c.p.
Al riguardo, la Corte di Cassazione ha avuto modo di affermare che, in tema di
mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, può ritenersi configurabile l’ipotesi di reato prevista dall’art. 388, co. 1o, c.p. anche nel caso in cui la
finalità di sottrarsi all’adempimento degli obblighi civili sia perseguita mediante
istituzione, secondo le modalità previste dalla legge 16 ottobre 1989 n. 364 – con
cui è stata resa esecutiva in Italia la Convenzione adottata all’Aja il 1o luglio 1985
–, di un trust cui vengano conferiti i beni dell’agente. In particolare, la Suprema
Corte ha ricondotto alla fattispecie dell’art. 388, co. 1o, c.p., il comportamento di
alcuni soggetti, i quali, immediatamente dopo la pubblicazione di un lodo esecutivo a loro sfavorevole, avevano costituito dei trusts al fine di sottrarsi all’adempimento delle obbligazioni civili (3).
Il secondo profilo di rilevanza penale, affrontato in decisioni giudiziali, concerne, invece, la qualificazione di un trust come ipotesi di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione o dissimulazione di beni destinati ad essere inseriti nella
massa fallimentare. Sono queste, per l’appunto, le conclusioni cui è pervenuta la
giurisprudenza di merito che si è occupata della specifica problematica. In specie,
si segnala una decisione del GIP presso il Tribunale di Alessandria, secondo la
quale deve considerarsi illecita la fittizia intestazione di beni immobili ad un soggetto giuridico terzo (società le cui azioni sono attribuite ad un trust), quando finalizzata unicamente a sottrarre i medesimi beni alla garanzia dei creditori, conservandone tuttavia la materiale disponibilità (4).
( 2 ) La definizione è tratta Gambaro A., Trust, in Dig. disc. priv., Sez. priv., XIX, Torino, 1999, 450.
( 3 ) Cass. Sez. VI, 23 novembre 2004, in Riv. pen., 2005, 582 ss. In termini analoghi si veda anche Cass.
Sez. VI, 23 novembre 2004, n. 49974, inedita.
( 4 ) GIP Trib. Alessandria 5 aprile 2000, in Trusts e attività fiduciarie, 2000, 375 ss. Nel caso di specie
Tizio e Caia, imprenditori individuali poi dichiarati falliti e proprietari di alcuni immobili, hanno, in primo momento, costituito una società di diritto inglese. Successivamente, hanno conferito i propri immobili
in detta società, rappresentata nell’operazione da un procuratore speciale cittadino italiano residente in
Italia, riservando a se stessi il diritto di abitazione. Infine, con atto redatto in Svizzera, hanno costituito un
trust disciplinato, per volontà delle parti, dal diritto inglese. A detto trust sono state attribuite le azioni
della società inglese, con poteri di godimento e di disposizione e con vincolo di distribuzione, al termine
LA MANCATA RESTITUZIONE DI BENI COSTITUITI IN TRUST
155
2. La sentenza del Tribunale di Venezia
A fronte di questo quadro giurisprudenziale, la sentenza qui commentata ha
per oggetto una diversa questione giuridica, inserita in una complessa vicenda giudiziaria, nell’ambito della quale si è aperto un procedimento penale volto ad accertare la sussistenza di reati patrimoniali, falsi documentali e reati societari.
L’aspetto più interessante della pronuncia può senz’altro individuarsi in uno
fra i numerosi capi di imputazione, e cioè quello relativo ad una presunta appropriazione indebita compiuta dal trustee. L’ipotesi accusatoria nasceva dal «danno
subito dalla persona offesa non tanto nell’essere stata la persona offesa convinta a
costituire il predetto trust, quanto piuttosto nell’aver l’imputato, in violazione del
patto fiduciario ed allorché richiesto dalla sua mandante di restituirle i beni entrati
nel trust, essersi lui rifiutato di effettuare tali operazioni cosi appropriandosi indebitamente delle quote già descritte».
In altre parole, il thema decidendum attiene all’inquadramento della mancata
restituzione dei beni costituiti in trust nella condotta appropriativa sanzionata dall’art. 646 c.p.
Per comprendere i passaggi argomentativi della pronuncia, è necessario ricordare che nella struttura della fattispecie dell’appropriazione indebita sono previsti,
per la sussistenza dell’illecito, un requisito positivo – il possesso del denaro o della
cosa mobile – ed uno negativo – l’assenza del diritto di proprietà sulla cosa oggetto materiale del reato –. Non a caso il Codice Rocco si è proccupato di specificare
che nell’oggetto materiale del reato rientra il bene mobile per eccellenza, e cioè il
denaro. E ciò proprio per evitare che l’applicazione del principio civilistico, in base al quale la consegna di denaro o cosa fungibile comporta il trasferimento della
proprietà e il contestuale obbligo di restituire il tantundem eiusdem generis ac qualitatis, vanificasse la portata applicativa dell’art. 646 c.p.
Ebbene, nel caso in esame il problema deriva dal fatto che mediante la costituzione del trust viene a attuarsi un vero e proprio traferimento di proprietà dal settlor al trustee. È quindi sulla base di questo primo elemento che il Tribunale giunge ad escludere la configurabilità del delitto di appropriazione indebita.
Ciò detto, vi è un ulteriore nodo problematico. La sentenza affronta, infatti, la
questione se, indipendentemente dalla natura del diritto del trustee sui beni, la
mancata restituzione possa rientrare nel concetto di condotta appropriativa.
Al riguardo, come è noto, la giurisprudenza e la dottrina sono generalmente
della durata del trust, ai beneficiari, individuati nei figli minori dei disponenti». Per un commento della
vicenda giudiziaria, si veda DI Amato A., Beni in trust e sequestro penale, in Trusts e attività fiduciarie,
2000, 334 ss.
156
GIURISPRUDENZA
orientate nel senso che anche la c.d. ritenzione del bene, purché accompagnata
dall’animus domini, possa concretizzare il fatto tipico.
Peraltro, nel caso di specie, il Tribunale ritiene che, attesa la natura giuridica
del trust, la mancata restituzione da parte del trustee non possa venire sanzionata
sul piano penale. Sul punto, nella sentenza si legge che «qui si manifesta l’errore di
fondo della ricostruzione accusatoria secondo la quale la condotta restitutoria era
“dovuta” in forza della esistenza «del patto fiduciario. I brevi cenni descrittivi che
precedono evidenziano come lo strumento alla stregua del quale si deve valutare e
considerare il comportamento ed i doveri del trustee trovino la loro fonte esclusivamente sulla base appunto della disciplina del trust ove il richiamo ad un negozio fiduciario sottostante non trova alcun credito trattandosi di una ricostruzione civilistica assolutamente diversa ed anzi in contrasto con l’istituto che si è, pur brevemente,
commentato. Evidentemente ciò evidenzia – se si vuole – una lacuna dell’ordinamento penale nel senso che, fatta salva la configurabilità dell’eventuale reato di truffa (anche contrattuale) rimane, allo stato, priva di tutela l’ipotesi di un trustee che,
pur essendo divenuto in modo legittimo titolare di un diritto reale, se ne impossessi,
per esempio, cedendo a terzi dei beni senza che il settlor o i beneficiari ne vengano a
conoscenza ovvero contro la loro volontà».
Anche questa seconda parte della motivazione – va subito detto – appare pienamente condivisibile. Va infatti rilevato come oggi la dottrina si sia pronunciata
nel senso che «la mancata restituzione della cosa è, da sola, insufficiente ad integrare un’appropriazione: occorre qualcosa di più, e cioè che la ritenzione sia accompagnata da una condotta che manifesti positivamente il rifiuto di restituire,
come ad esempio il negare di avere mai ricevuto il possesso la cosa o il nasconderla, e situazioni simili» (5).
Coerentemente con simili premesse, il Tribunale invidua una ipotetica condotta appropriativa in un diverso episodio della complessa vicenda giudiziaria, e cioè
nel fatto che il trustee avrebbe ceduto l’intero pacchetto azionario (ed obbligazionario) conferito in trust malgrado l’evidente dissenso manifestato al riguardo dal
settlor. Tuttavia, sul punto manca una completa soluzione della problematica dal
momento che, esulando tale fatto storico dai capi di imputazione, il Tribunale si è
visto costretto a trasmettere gli atti ex art. 521 c.p.p. al P.M. per l’esercizio dell’azione penale.
( 5 ) Testualmente, Fiandaca G.-Musco E., Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro il patrimonio,
4 ed., 2005, 107. In termini analoghi si sono espressi, fra gli altri, Pagliaro A., Principi di diritto penale.
Parte speciale. Delitti contro il patrimonio, Milano, 2003, 450; Mantovani F., Diritto penale. Delitti contro
il patrimonio, 2 ed., Padova, 2002, 122.
LA MANCATA RESTITUZIONE DI BENI COSTITUITI IN TRUST
157
3. Considerazioni conclusive
Al di là delle specifiche tematiche affrontate, la sentenza in epigrafe rappresenta una interessante conferma del fatto che la sistematica dei delitti contro il patrimonio nel codice Rocco non appare più corrispondente al quadro delle odierne
relazioni economiche e giuridiche.
Emblematica sul punto può infatti considerarsi la questione analizzata nella
decisione del Tribunale di Venezia, e cioè se la mancata restituzione di beni conferiti in trust di per sé integri la fattispecie del delitto di appropriazione indebita.
A tale proposito, non ci si può esimere da alcune brevi notazioni.
Come si è avuto modo di constatare nel precedente paragrafo, l’introduzione
nell’ordinamento italiano del trust, istituto che nasce in un sistema giuridico profondamente diverso, sembrerebbe avere determinato un vuoto di tutela, almeno
sul piano delle sanzioni penali, in ordine alle condotte illecite del trustee.
In realtà, se ci trasferiamo su un piano più generale, si deve riscontrare – con
riferimento ai delitti contro il patrimonio così come disciplinati nel Codice Rocco
– una sempre maggiore inidoneità ad assicurare efficaci profili di tutela. D’altro
canto, è sufficiente compiere una rapida disamina della giurisprudenza in materia
di appropriazione indebita per rendersi conto degli sforzi interpretativi, cui si sono viste costrette dottrina e giurisprudenza, per cercare di ricondurre a questa fattispecie condotte illecite che rischierebbero di essere sottratte a qualsivoglia forma
di repressione penale. In tal senso forse l’esempio più significativo può rinvenirsi
nella querelle dottrinale e giurisprudenziale in merito alla discussa equiparazione
del concetto di «distrazione» con quello di «appropriazione» (6).
Alla luce di quanto ora affermato non sembra azzardato concludere che il settore dei delitti contro il patrimonio– nonostante le numerose modifiche ad esso
apportate nel corso degli anni – si rivela ormai incapace di assicurare una effettiva
protezione contro le nuove forme di criminalità.
In particolare, proprio in merito al delitto di appropriazione indebita, si deve
ribadire l’esigenza – già da tempo segnalata dalla dottrina penalistica – di introdurre una fattispecie di «infedeltà patrimoniale» che possa colmare quei vuoti di
tutela che si manifestano in tale ambito (7). D’altro canto, a conferma della neces-
( 6 ) Sul punto, si vedano, per tutti, Castellana A.M., Riflessioni a margine degli orientamenti giurisprudenziali in punto di rilevanza penale dei fidi abusivi; Mezzetti E., l’appropriazione indebita nell’abuso
di fido bancario, in Giust. pen., 1990, II, 201. Per una competa disamina dei successivi orientamenti giurisprudenziali e dottrinali, si rinvia a Ravenna M. in Ronco M.-Ardizzone S., Codice penale ipertestuale,
Torino, 2003, sub art. 646, 2523 ss.
( 7 ) Per un’analisi delle problematiche connesse all’introduzione di una fattispecie di infedeltà patrimoniale, analoga all’Untreue prevista nell’ordinamento tedesco, si rinvia, nell’ampio panorama bibliografico,
158
GIURISPRUDENZA
sità di procedere ad una significativa riforma del settore, va ricordato che la recente novella in materia di reati societari ha previsto, per l’appunto, una fattispecie di
infedeltà patrimoniale volta a sanzionare condotte illecite degli amministratori
compiute in danno del patrimonio sociale (8). È in questa linea che dovrà muoversi il legislatore quando si giungerà a una completa riforma della parte speciale del
codice penale.
Enrico Mario Ambrosetti
a Foffani L., Infedeltà patrimoniale e conflitto d’interessi nella gestione d’impresa, Milano, 1997, 235 ss; e
Zambusi A., L’infedeltà patrimoniale interna degli operatori bancari, Padova, 2005, 43 ss. e 264 ss.
( 8 ) Sul punto, si veda da ultimo Zambusi A., L’infedeltà patrimoniale interna degli operatori bancari,
cit., 43 ss.
LA MAGGIORANZA SILENZIOSA. SPIGOLATURE SULLA VICENDA
DEI CRITERI PER IL RILASCIO DELLE AUTORIZZAZIONI
COMMERCIALI PER LE MEDIE STRUTTURE DI VENDITA
1. La legge regionale sul commercio. Occasione perduta?
I primi, autorevoli commentatori (1) della legge regionale 13 agosto 2004, n.
15, non mancarono di sottolineare come il legislatore veneto non avesse mostrato
speciale zelo nell’assecondare, con un’effettiva liberalizzazione amministrativa, gli
obbiettivi di liberalizzazione economica che, dichiaratamente, innervavano la riforma della materia del commercio culminata nel d.lgs. n. 114/1998.
La legge 15, infatti, non si è affrancata dall’ispirazione dirigista che distingueva
la precedente norma regionale, l. 37/99, della quale ricalca i modelli posti a paradigmi dell’attività di rilascio delle autorizzazioni commerciali. Questa rimane soggetta all’anelasticità tipica dei regolamenti pianificatori; donde, le esigenze di adeguamento dinamico della rete distributiva sono convogliate entro griglie che paiono modellate a presidio e tutela dello status quo.
L’imprinting conservativo della novella spicca anche in punto di autorizzazioni
per le medie strutture di vendita, che del commercio costituiscono, al presente, il
segmento a maggior vocazione espansiva.
L’art. 14 della legge 15, infatti, al comma 1 ha calligraficamente riprodotto
l’art. 11 della legge 37, confermando tutti i previgenti elementi formativi (2) della
programmazione comunale per le medie strutture di vendita, accostandone due
nuovi (3).
( 1 ) Vedi G. Orsoni, Dalla Legge 37 alla Legge 15, in AA.VV., Commentario alla legge regionale
13.08.2004, n. 15, a cura di I. Cacciavillani e R. Del Giudice, Milano, 2004, pp. 7 e ss., e B. Barel, Federalismo Veneto: più Europa o meno Europa, op. ult. cit., pp. 10 e ss.
( 2 ) Sono elementi confermati; a) modernizzazione del sistema distributivo; b) garanzia di concorrenzialità del sistema distributivo; c) salvaguardia dell’ambiente e della viabilità dei centri urbani; d) mantenimento
di una presenza diffusa e qualificata del servizio di prossimità; e) equilibrio delle diverse forme distributive; f)
tutela delle piccole e medie imprese commerciali; g) identificazione di strumenti di politica del territorio quali
la sicurezza, il flusso veicolare, i trasporti pubblici.
( 3 ) La legge 15 ha aggiunto: h) rapporto tra densità di medie-grandi strutture di vendita ed esercizi di vi-
160
GIURISPRUDENZA
Di questi ultimi, il primo rimanda al rapporto di densità tra medie-grandi
strutture di vendita ed esercizi di vicinato (4), da stabilirsi ad opera della Giunta
regionale, ed in effetti formulato con la D.G.R. n. 496 del 18.02.2005, pubblicata
sul Bollettino Ufficiale della Regione in data 15.03.2005, che l’ha determinato nel
valore 1.
Donde, nel territorio comunale, la sommatoria delle superfici di vendita delle
medie strutture di vendita dovrà uguagliare la sommatoria delle superfici di vendita degli esercizi di vicinato. Salva la facoltà dei Comuni di allestire regolamenti
maggiormente restrittivi verso (rectius contro) le medie strutture.
La norma legislativa, infatti, prescrive che i criteri comunali assumano un indice di densità tra medie-grandi strutture di vendita ed esercizi di vicinato non superiore a quanto stabilito dalla Giunta regionale.
L’indice, dunque, è il quoziente della frazione che riporta al numeratore la
somma delle superfici di vendita delle strutture medie-grandi, ed al denominatore
quella degli esercizi di vicinato; imponendo ai Comuni di non oltrepassarlo, la legge consente loro di ridurlo. Vale a dire, di accrescere (teoricamente, ad libitum) le
superfici di vendita degli esercizi di vicinato, ferme restando quelle delle strutture
medio-grandi.
2. Un lapsus?
Pervero, la D.G.R. 496/05 inverte numeratore e denominatore.
Essa, infatti, a p. 4 dell’allegato, propone l’indice come quoziente di una frazione che riporta al numeratore la somma delle superficie di vendita degli esercizi
di vicinato, al denominatore quella delle medie-grandi strutture. La D.G.R. invero
così esemplifica il caso di indice inferiore ad uno: «significa che le medie e grandi
strutture sono più diffuse di quanto non lo siano le piccole».
Va da sé che se, con un indice così formato, la facoltà riduttiva dell’indice accordata dalla legge ai Comuni aprirebbe prospettive insperate alla medio-grande
distribuzione.
cinato non superiore a quanto stabilito dalla Giunta Regionale con proprio provvedimento da approvare entro
novanta giorni dall’entrata in vigore della presente legge; i) priorità alle domande di ampliamento relative ad
attività esistenti.
( 4 ) Ed invero, in punto di imprinting, si tratta di un indice esplicitamente rivolto «a preservare il territorio dagli effetti negativi, specie sotto il profilo ambientale e viabilistico, connessi ad un incremento della rete
distributiva del medio dettaglio in assenza di adeguati strumenti normativi di controllo, come si è verificato in
alcune realtà del Veneto in regime della previdente legge regionale n. 37 del 1999» così in motivazione la
D.G.R. 496/05.
LA MAGGIORANZA SILENZIOSA
161
La gerarchia delle fonti, comunque, disinnesca siffatto lapsus (freudiano?)
giuntale.
Il secondo nuovo elemento formativo dei criteri coniato dalla legge si allinea
alla veduta ratio conservativa che connota il sistema: nell’attribuzione della risorsa
(assai) limitata costituita dalle superfici di vendita disponibili per le medie strutture, va data «priorità alle domande di ampliamento delle attività esistenti».
Siffatto strumentario normativo non lascia davvero spazi per immaginare la
possibilità di allestire criteri comunali eversivi dello status quo: cornice che parrebbe, dunque, perfettamente attagliata alla notoria prudenza con la quale le amministrazioni locali affrontano la (spinosa) materia della regolamentazione delle attività
commerciali.
E tuttavia, forse nemmeno chi si doleva dell’occasione perduta dal legislatore
poteva sospettare gli sviluppi della vicenda.
L’articolo 14, comma 1, della legge 15 stabilisce che i Comuni, o le Unioni di
Comuni, ove costituite, sentite le associazioni di categoria degli operatori, dei consumatori riconosciute ai sensi dell’articolo 5 della legge 30 luglio 1998, n. 281 e
successive modificazioni ed integrazioni e le associazioni dei lavoratori del commercio approvano i criteri per il rilascio delle autorizzazioni commerciali per riferimento alle medie strutture di vendita entro 180 giorni dall’entrata in vigore del
provvedimento regionale determinativo dell’indice di equilibrio, adottando altresì
(5) norme procedimentali concernenti le domande relative alle medie strutture e a
stabilire i termini entro i quali valutare la priorità delle stesse, prevedendo comunque il termine di novanta giorni entro il quale le domande devono ritenersi accolte
qualora non venga comunicato il provvedimento adottato.
3. La vicenda applicativa
Come dianzi accennato, la D.G.R. determinativa dell’indice di equilibrio è stata pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione del 15 marzo 2005.
Conseguentemente, il termine di 180 giorni – più che adeguato, si direbbe, rispetto all’entità dell’incombente (in fondo, si trattava di aggiornare regolamenti
già esistenti) – fissato ex lege (6) per apprestare i criteri comunali scadeva l’11 settembre 2005.
Grossomodo, tredici mesi dopo l’entrata in vigore delle legge: molti, rispetto
( 5 ) Art. 14, comma 5, l. reg. 15/2004.
( 6 ) Dall’art. 9, comma 1, della l. reg. 25 febbraio 2005, n. 7, che ha modificato l’art. 6, comma 3, della l.
reg. 15/2004.
162
GIURISPRUDENZA
alle esigenze di un settore nel frattempo ibernato dal comma 6 (7) dell’art. 14 della
legge 15.
E tuttavia, a settembre 2005 i Comuni adempienti non pullulavano (idem per i
provvedimenti ricognitivi dei parchi commerciali, alla cui emanazione la legge 15
subordinava la presentabilità delle istanze inerenti le medie strutture (8), tanto da
aver indotto la Giunta Regionale a differire l’efficacia del provvedimento determinativo dei criteri per l’individuazione dei parchi commerciali (9) sino al giorno
19.09.2005 (10)).
La diffusa inerzia delle Amministrazioni locali faceva maturare le condizioni di
attivazione del procedimento sostitutivo previsto dalla legge 15, all’art. 36 (11).
( 7 ) L’apertura, il trasferimento di sede, il mutamento dei settori merceologici, l’ampliamento della superficie di vendita sono subordinati al rilascio di un’autorizzazione comunale che rispetti la programmazione regionale e risponda ai criteri assunti dall’amministrazione comunale.
( 8 ) L’art. 37 della legge 15, al comma 3, dispone che «la presentazione delle domande per il rilascio delle
autorizzazioni commerciali delle medie e grandi strutture di vendita in zone territoriali omogenee di tipo D a
specifica destinazione commerciale è subordinata all’adozione dei criteri previsti dall’art. 10, comma 6, e del
provvedimento di cui all’art. 20, comma 10, nonché agli adempimenti comunali di cui ai commi 7 e 8 del medesimo art. 10». Cfr. anche della circolare regionale n. 4 del 05.09.2005, «L.R. 13 agosto 2004 n. 15 – Norme di programmazione per l’insediamento di attività commerciali nel Veneto – Circolare esplicativa», approvata con D.G.R.V. n. 2337 in data 09.08.2005, che illustra la conduzione della fase transitoria dell’applicazione legislativa:
«6.1.1. Ai sensi dell’articolo 37, comma 3, la presentazione delle domande di autorizzazione commerciale
per medie e grandi strutture di vendita in zone territoriali omogenee di tipo D a specifica destinazione commerciale è subordinata all’approvazione dei provvedimenti regionali e comunali in tema di parchi commerciali
(articolo 10, commi 6, 7 e 8), nonché al provvedimento regionale di disciplina della conferenza di servizi (articolo 20, comma 10). Da ciò consegue che le domande presentate successivamente all’entrata in vigore della
legge regionale e prima dell’adozione di tutti i suddetti provvedimenti amministrativi sono irricevibili e vanno
pertanto restituite al richiedente che dovrà ripresentarle nel rispetto della nuova disciplina contenuta nei suddetti provvedimenti attuativi regionali e comunali. (...). Ai sensi dell’articolo 37, comma 4, fatti salvi i casi di
subingresso, sono altresì sospesi gli effetti delle denunce – ora dichiarazioni – di inizio attività per gli esercizi
di vicinato ubicati o da ubicarsi nelle zone territoriali omogenee di tipo D a specifica destinazione commerciale
sino all’approvazione dei provvedimenti regionali e comunali in tema di parchi commerciali (articolo 10, commi 6, 7 e 8). Da ciò consegue che il Comune, una volta ricevuta la dichiarazione di inizio attività ed entro i
trenta giorni previsti per l’inizio della attività, dovrà adottare un provvedimento di sospensione degli effetti
della dichiarazione e notificarlo al dichiarante.
6.1.2. Con particolare riferimento alle disposizioni in materia di parchi commerciali richiamate dall’articolo
37, commi 3 e 4 della legge regionale, si evidenzia che la sospensione della presentazione delle domande di autorizzazione per medie e grandi strutture di vendita nonché degli effetti delle denunce – ora dichiarazioni – di inizio attività per esercizi di vicinato in zone territoriali omogenee di tipo D a specifica destinazione commerciale,
perdura sino all’approvazione del provvedimento ricognitivo di competenza comunale, volto a verificare l’esistenza o meno di parchi commerciali nel proprio territorio (art. 10, comma 7), ovvero, se necessaria, sino all’approvazione della variante localizzativa del parco commerciale ai sensi dell’articolo 10, comma 8. (...)».
( 9 ) D.G.R.V. n. 670 del 04.03.2005.
( 10 ) D.G.R.V. n. 1999 del 26.07.2005.
( 11 ) Al fine di assicurare gli adempimenti di cui all’articolo 14, commi 1 e 5, in caso di inerzia da parte
dei comuni o delle unioni di comuni ove costituite, la Giunta regionale, entro centoventi giorni dalla scadenza del termine di cui all’articolo 6, comma 3, provvede, in via sostitutiva, previa diffida ad ottemperare
entro un congruo termine, ad adottare le disposizioni necessarie che restano in vigore fino all’emanazione
delle specifiche norme comunali.
LA MAGGIORANZA SILENZIOSA
163
Il 27.12.2005 (12) la Direzione regionale del Commercio emanava la nota circolare n. 870850/49.03, recante la diffida ad ottemperare che costituisce il primo stadio del procedimento sostitutivo di cui all’art. 36 della legge.
La circolare «invitava» i Comuni ad adottare entro 60 giorni (vale a dire, entro
il 25.02.2006), ed a comunicare alla regione entro i successivi 30 (quindi entro il
27.03.06), i provvedimenti di competenza previsti dall’art. 14, commi 1 e 5, ricordando che, «sino all’approvazione dei criteri comunali o, in mancanza, del provvedimento sostitutivo regionale, non è consentito il rilascio di autorizzazioni per medie
strutture di vendita».
Siffatto invito non scuoteva particolarmente i destinatari, se l’11 aprile la
Giunta regionale, con la D.G.R. n. 1046, pubblicata sul B.U.R. del 28 aprile, doveva rilevare che al 27 marzo «risultavano avere emesso il predetto provvedimento n.
124 Comuni su 581 esistenti nel territorio veneto, pari al 21 per cento del totale dei
Comuni».
Dal 28 aprile, dunque, le domande autorizzatorie per le medie strutture possono procedere, e seguiranno il paradigma di conio regionale sino all’emanazione
dei criteri comunali.
4. Spunti sistematici
Rimane un fatto: venti mesi di blocco amministrativo di un settore portante
dell’economia non sono bastati ad indurre il 79 per cento dei Comuni veneti a novellare i criteri previgenti.
Una maggioranza silenziosa di ampiezza tale da far suonare surreali le diffuse,
martellanti enunciazioni di principio sull’estrema urgenza di rilanciare la competitività del sistema-paese.
Tanto da indurre una riflessione: se nell’ordinamento si rinvengano, o meno,
elementi principiali che consentano di superare le situazioni di impasse dell’attività
provvedimentale derivanti da vuoti regolamentari.
La questione assume particolare rilievo nei casi per i quali sia ammessa l’autorizzabilità via silenzio-assenso (13).
Invero, il procedimento autorizzatorio semplificato è previsto nei casi in cui la
legge valuti che le ragioni della speditezza procedimentale debbano prevalere sull’esigenza di subordinare l’avvio di un’attività ad una completa ed approfondita
valutazione della relativa istanza.
( 12 ) 107 giorni dopo la scadenza del termine per la formazione dei criteri di cui all’art. 14 della legge.
( 13 ) Art. 14 comma 5, l. reg. 15/2004, sulla falsariga dell’art. 8, comma 4, d.lgs. 31.03.198, n. 114, come
già l’art. 11, comma 3, l. reg. 37/1999.
164
GIURISPRUDENZA
Tradotto in termini di gerarchizzazione di interessi, ciò significa che la legge
fissa un termine trascorso il quale l’interesse (all’origine privato) alla positiva definizione del procedimento – vale a dire, in concreto, all’avvio dell’attività– assurge
a rilievo pubblicistico, tanto da far recedere il contrapposto interesse ad escludere,
mediante l’obbligo di autorizzazione preventiva, che possano esordire attività prive dei requisiti prescritti.
Vexata quaestio, invero, se siffatta rilevanza del fattore tempo operi sempre, ratione materiae, con l’effetto che il ritardo nell’allestimento delle fonti secondarie
non impedirebbe la formazione del silenzio-assenso, oppure se detto meccanismo
esiga la previa messa a regime del quadro regolamentare.
5. Un precedente giurisprudenziale
Il tema è stato affrontato dal T.A.R. del Veneto, sia pure in sede di delibazione sull’istanza cautelare, con l’ordinanza della III Sezione, n. 56 del 20 gennaio
2006.
Il fatto dedotto in giudizio è rapidamente riassumibile.
Nell’agosto 2005 un’Azienda presentava all’Amministrazione comunale istanza di autorizzazione all’apertura di una media struttura di vendita del settore misto
per una superficie di mq. 999.
L’Amministrazione, pochi giorni dopo, comunicava la sospensione del procedimento ed il rinvio dell’esame dell’istanza all’avvenuta approvazione dei criteri
per l’insediamento delle medie strutture di vendita, di cui all’art. 14, comma 1,
L.R. 15/2004.
Trascorsi 90 giorni dall’11 settembre 2005, l’Azienda attivava l’esercizio, valendosi, in tesi, del silenzio-assenso stabilito dal succitato art. 14, comma 5, della
legge regionale 15.
L’Amministrazione, che all’epoca non aveva predisposto né i criteri per l’insediamento delle medie strutture, né emesso il provvedimento ricognitivo dei parchi
commerciali, ordinava l’immediata cessazione dell’attività.
Ne sortiva il giudizio avanti al T.A.R.
La ricorrente sosteneva che il silenzio attizio doveva ritenersi decorrente sin
dalla scadenza del termine fissato dalla legge per l’apprestamento degli atti regolamentari: non poteva ammettersi, infatti, che l’inerzia dell’Amministrazione locale
potesse paralizzare sine die l’iniziativa aziendale. Il potere soprassessorio doveva
intendersi spirato sin dall’11 settembre 2005, con l’effetto che, decorsi ulteriori 90
giorni, l’istanza doveva ritenersi assentita.
L’intimata Amministrazione, di converso, affermava che il silenzio-assenso era
LA MAGGIORANZA SILENZIOSA
165
concepibile soltanto allorché il corredo regolamentare che costituisce il paradigma
essenziale per il rilascio di qualsivoglia provvedimento autorizzatorio, ancorché tacito fosse interamente vigente ed efficace.
Tesi siffatta pone a suo presupposto un dato strettamente effettuale: se il silenzio-assenso comporta la «parificazione dell’inerzia dell’amministrazione al rilascio
del titolo», esso può manifestarsi solamente se l’Amministrazione sia nella condizione di assumere una determinazione, di segno positivo o negativo (14).
Difettando il paradigma normativo, manca la possibilità di valutare se la richiesta sia munita delle condizioni soggettive ed oggettive legittimanti l’accoglimento;
donde, nessun provvedimento potrebbe essere espresso; e, se non sussistono le
condizioni di emanazione di un provvedimento, non può inverarsi nemmeno il silenzio-assenso.
Perciò anche l’attività amministrativa c.d. semplificata (nella quale, pacificamente, sono incluse le ipotesi di silenzio assentivo (15)) esige il previo allestimento
delle necessarie cornici regolamentari.
Siffatta ratio, secondo l’Amministrazione, costituiva il presidio concettuale che
doveva indurre a ritenere che la prescrizione legislativa sul blocco dei procedimenti non poteva venir meno allo scadere del termine assegnato ai Comuni per allestire le proprie regole.
La tesi, tuttavia, si prestava ad un’obiezione.
Non poteva infatti meritare accoglimento una tesi che portava ad ammettere
che le esigenze di snellimento e celerità del procedimento amministrativo (sotten( 14 ) Cfr. Cons. St., sez. V, 25 settembre 1998 n. 1326, T.A.R. Liguria, Sez. I, 15.06.2005, n. 912: «Il silenzio-assenso, qualsiasi costruzione dogmatica si accolga (fictio iuris di provvedimento; manifestazione – di
volontà – tacita; comportamento significativo avente valore legale tipico: distinzioni teoriche il cui rilievo pratico risiede soprattutto sulla risoluzione della questione del rapporto fra autotutela e provvedimento espresso
sopravvenuto), è equiparato quanto agli effetti giuridici al rilascio del titolo (...) In realtà nella procedura del
silenzio-assenso, proprio perché non si riproduce la distinzione fra requisiti di validità ed efficacia, tutti i riscontri documentali della domanda che si riferiscono ai presupposti giuridici integrano requisiti essenziali per
il perfezionamento del silenzio. Essi infatti attengono al procedimento di formazione del silenzio-assenso; esulano dal contenuto della domanda di concessione (ad esempio: entità volumetrica effettiva dell’edificio) i cui
vizi comportano invece l’eventuale ricorso a strumenti di autotutela. A ben vedere la partizione obbedisce alla
ratio legis del silenzio-assenso: per esso forma, procedimento istruttorio, causa e motivi, in quanto riferiti all’atto, non rilevano; viceversa, hanno consistenza i c.d. termini esterni dell’atto: competenza dell’organo destinatario della richiesta di concessione e corrispondenza della domanda, corredata dai riscontri documentali sui
requisiti, allo schema normativo predeterminato dalla legge».
( 15 ) Ex multis Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.10.1998, n. 1394 che, decidendo della legittimità del
D.P.R. 9 maggio 1994, n. 407 (Regolamento recante modificazioni al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1992, n. 300, concernente le attività private sottoposte alla disciplina degli articoli 19 e 20
della legge 7 agosto 1990, n. 241) affermò che «la disposizione impugnata appare in linea con le esigenze di
snellimento e celerità del procedimento amministrativo, per il quale, com’è noto, la verifica «ex post» dei documenti richiesti costituisce, secondo un modulo procedimentale di semplificazione ammesso dalla prassi e
dalla vigente normativa (art. 3 l. 4 gennaio 1968 n. 15; art. 18 l. 7 agosto 1990 n. 241), la conferma probatoria
dei requisiti e/o dei presupposti richiesti per l’emanazione del provvedimento favorevole».
166
GIURISPRUDENZA
denti valori di innegabile rango costituzionale, cfr. art. 41 Cost.), che avevano indotto il legislatore a prevedere l’istituto del silenzio-assenso, potessero essere frustrate dall’inerzia degli Enti locali.
All’obiezione l’Amministrazione opponeva l’art. 36 l. reg. 15/04: la previsione
della supplenza regionale, ad un tempo evitava che l’inerzia amministrativa potesse coartare sine die le iniziative private e confermava che non era ammessa la formazione tacita di provvedimenti assentivi in mancanza delle norme secondarie, e
la conseguente possibile deregulation disgregativa degli assetti affidati al potere regolamentare.
Argomento siffatto, però, era controverso in giurisprudenza.
T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, 8.02.2003, n. 27, l’aveva rigettato.
La questione verteva su di una vicenda analoga a quella qui trattata (16), in analogo contesto normativo, dunque in presenza di una norma che prevedeva l’allestimento ad opera dei Comuni di criteri per l’insediamento delle medie strutture, e
l’intervento sostitutivo regionale in caso di inerzia (17).
Il T.A.R. abruzzese statuì: «Ha carattere preliminare l’esame del terzo motivo,
con il quale si deduce la violazione dell’art. 8, comma 4, del decreto legislativo 31
marzo 1998, n. 114, recante la riforma della disciplina relativa al settore del commercio. L’anzidetta disposizione, avente carattere immediatamente precettivo e coerente
con i principi di celerità, di efficienza e di trasparenza dell’azione amministrativa,
espressamente sanciti, nel nostro ordinamento, dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, ha
previsto che le domande di autorizzazione per l’apertura, il trasferimento di sede e
l’ampliamento delle medie strutture di vendita (quale è quella interessata dalla presente controversia) «devono ritenersi accolte qualora non venga comunicato il provvedimento di diniego» entro il termine stabilito dal Comune, «comunque non supe-
( 16 ) Questi i fatti: un’Azienda aveva inoltrato domanda di autorizzazione alla vendita al dettaglio per
media struttura, allegando i documenti di rito. Trascorsi i 90 giorni previsti dall’art. 8, 4o comma, del decreto legislativo n. 114 del 1998 senza che l’Amministrazione comunicasse alcun diniego e, quindi, formato
il silenzio assenso, sollecitò la definizione della pratica. L’Amministrazione comunale, disattendendo la
legge regionale n. 62 del 9.8.1999, che dispone l’obbligo per il Comune di adeguare, entro 180 giorni, il
proprio strumento urbanistico con l’individuazione delle zone ed i criteri di localizzazione degli esercizi
commerciali di media struttura, comunicò di essere in attesa del deliberato del Consiglio comunale di individuazione delle zone ove destinare le medie strutture di vendita. La ricorrente comunicò di volersi avvalere del silenzio assenso disposto dell’art. 8, comma 4, del d.lg. n. 114 del 1998 e, quindi, l’apertura al pubblico dell’esercizio commerciale. Il giorno dopo l’attivazione, furono emesse le ordinanze di chiusura, impugnate dall’Azienda.
( 17 ) Previsti dalla Legge Regione Abruzzo, 9 agosto 1999, n. 62, all’art. 8, modellato sull’art. 6 del d.lgs. 114/98, i cui commi 5 e 6 recitano: «5. Le regioni stabiliscono il termine, non superiore a centottanta
giorni, entro il quale i comuni sono tenuti ad adeguare gli strumenti urbanistici generali e attuativi e i regolamenti di polizia locale alle disposizioni di cui al presente articolo.
6. In caso di inerzia da parte del comune, le regioni provvedono in via sostitutiva adottando le norme necessarie, che restano in vigore fino alla emanazione delle norme comunali».
LA MAGGIORANZA SILENZIOSA
167
riore ai novanta giorni dalla data di ricevimento». (...) Questo effetto non è impedito, poi, come erroneamente mostra di ritenere il Comune, dalla mancata adozione di
atti deliberativi considerati presupposto indispensabile per il rilascio dell’autorizzazione, in quanto dalla legge in alcun modo emerge la previsione di una siffatta condizione e, del resto, sarebbe contraddittorio ammettere, da un lato, la previsione di un
termine e consentire, dall’altro, la elusione dello stesso o la sua proroga sine die in
relazione ad un comportamento dovuto da parte del Comune ed illegittimamente
omesso dallo stesso».
In materia, il T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III, nella coeva sentenza
14.03.2003, n. 1781, espresse orientamento opposto, affermando: «Il collegio ritiene innanzitutto che, in materia di autorizzazione all’apertura delle medie strutture di vendita, non possa trovare applicazione il modulo procedimentale delineato
dall’art. 19 della legge 241 del 1990, la cui operatività è esclusa dalla presenza di
una specifica disciplina di settore, che subordina il rilascio delle relative autorizzazioni, anche nella forma del silenzio assenso, alla preventiva fissazione di criteri generali per l’insediamento e la localizzazione delle medie strutture commerciali. (...)
Contrariamente a quanto la ricorrente mostra di ritenere, la mancata adozione dei
suindicati indirizzi generali impedisce il prodursi degli effetti delle comunicazioni di
inizio attività per le medie strutture di vendita e, più radicalmente, esclude la stessa
possibilità di invocare il meccanismo del silenzio assenso, la cui operatività richiede
la preventiva fissazione di criteri idonei ad orientare l’espansione della rete distributiva e la conformità dell’iniziativa alla disciplina programmatoria e regolamentare
delineata in attuazione del disegno di riforma del settore commerciale. Deve infatti
ritenersi, in adesione ad un orientamento manifestato in giurisprudenza (cfr. TAR
Lazio n. 1745/02), che la possibilità di configurare il silenzio assenso richieda la sussistenza di tutti i requisiti soggettivi e oggettivi necessari per l’esercizio dell’attività,
posto che gli stessi rappresentano elementi costitutivi della fattispecie di cui si invoca il perfezionamento. E, al riguardo, vale considerare che il citato art. 8, nella prospettiva dell’accelerazione delle procedure amministrative, non ha inteso legittimare
localizzazioni in contrasto con la disciplina locale, ma solo riconoscere valore di
provvedimento autorizzatorio tacito all’inerzia ricognitiva dell’amministrazione che,
nonostante la presenza dei presupposti richiesti dalla legge, ometta la pronuncia favorevole. Ne discende che la possibilità di conseguire l’autorizzazione implicita non
è legata unicamente al decorso del termine, ma esige anche la ricorrenza di tutti gli
elementi richiesti dalla legge per il rilascio del titolo abilitativo (cfr. CdS V 11 febbraio 1999 n. 145).
Medesimo orientamento è stato recentemente espresso dal T.A.R. Lazio, nella
sentenza Sez. II – ter, 28.11.2005, n. 12424, che afferma: «Relativamente al meccanismo del silenzio – assenso disciplinato da tale disposizione (d.lgs. 114/98), la Se-
168
GIURISPRUDENZA
zione ha già avuto modo di affermare (sentenze n. 9397/2003, 7446/2003 etcc.) che
la stessa ha natura meramente programmatica, e non già immediatamente precettiva,
in quanto pone un criterio applicabile a regime, in presenza cioè di un impianto programmatorio già definito (cfr. sul punto anche TAR Sardegna, 17.6.2002, n. 702;
TAR Bologna, I, 21.6.2000, n. 639)».
Nel caso qui affrontato, il T.A.R. veneto respinse l’istanza cautelare motivando: «(...) l’art. 37, III comma, l. 14/05, subordina la presentazione di tutte le domande per il rilascio delle autorizzazioni commerciali per medie strutture (e, dunque, a fortiori, del loro accoglimento) ad una serie di adempimenti, a prescindere
dall’inclusione dei nuovi esercizi in centri o parchi commerciali, né è dubbio, stante
il letterale disposto dello stesso art. 37, II comma, che il seguente III comma si applica alle domande presentate dopo l’entrata in vigore della legge; quanto alla presunta violazione dell’art. 14 l.r. 14/05, non a questo si riferisce il provvedimento
impugnato, il quale, non essendosi maturato alcun silenzio assenso, ha dunque legittimamente disposto la chiusura di un’attività commerciale priva di autorizzazione».
Il Giudice Amministrativo veneto, pertanto, accede alla tesi che esclude l’instaurabilità del silenzio-assenso in difetto della cornice regolamentare prescritta ex
lege.
6. Considerazioni finali
La condivisione dell’uno o dell’altro orientamento non può indurre a sottovalutare il fenomeno che è alla base di entrambi: l’endemico ritardo nell’apprestamento delle fonti secondarie.
Esso conduce comunque a risultati che, sia pure su livelli diversi, paiono antisistemici: accogliendo l’indirizzo espresso dal T.A.R. abruzzese, si apre ad effetti
potenzialmente eversivi dell’ordine affidato ai regolamenti in itinere; l’opposto
orientamento frustra le ragioni (coerenza con la dinamica settoriale, competitività
del sistema, abbattimento delle rendite di posizione) che presiedono alla semplificazione dell’attività amministrativa.
Nella disillusa consapevolezza della tenacia delle resistenze all’evoluzione regolamentare, si ritiene che le soluzioni debbano essere cercate a livello nomopoietico: prevedendo, anche nel caso di successione delle fonti primarie, l’ultrattività
del regime secondario previgente (si tratta del principio affermato all’art. 6, comma 2, della legge 15 per il funzionamento a regime delle fonti secondarie) o, alternativamente, prefissando ab origine – in sede di regolamentazione regionale – i
criteri sostituivi, programmandone l’inserzione automatica nell’ordinamento co-
LA MAGGIORANZA SILENZIOSA
169
munale all’atto dello spirare del termine assegnato per l’apprestamento delle discipline locali, senza necessità di previe diffide.
Sommessamente, e senza voler soffocare le prerogative locali, viene da pensare
che non sia più il caso di seguitare ad assecondare le cattive abitudini della maggioranza silenziosa.
Silvano Ciscato
PRIME APPLICAZIONI GIURISPRUDENZIALI DEGLI ARTT. 10 BIS E
21 OCTIES 2.C. DELLA LEGGE 241/90
La legge 15/05 ha cambiato il volto della l. 241/90 trasformandola da legge del
procedimento amministrativo a legge sul procedimento amministrativo.
La l. 15/05 non solo richiama i tradizionali principi cui l’attività amministrativa
deve uniformarsi quali legalità, economicità, efficacia, pubblicità, ma introduce
anche il principio della trasparenza e il richiamo ai principi comunitari. Introduce
la possibilità all’art. 2, c. 4 bis, di proporre ricorso avverso il silenzio della P.A. anche senza la necessità della diffida all’amministrazione inadempiente fino a quando non perdura l’inadempimento e non oltre un anno dalla scadenza dei termini
previsti per la conclusione del procedimento.
Introduce, anche, il Capo IV bis in tema di efficacia ed invalidità del provvedimento amministrativo; riscrive l’istituto del diritto di accesso.
Ma ciò che interessa approfondire, in questa rassegna, è l’istituto regolato dall’art. 10 bis e il disposto dell’art. 21 octies, introdotti con la legge 15/05, nelle prime pronunce della giurisprudenza amministrative sul punto.
L’art. 6 della l. 15/05, introducendo l’art. 10 bis l. 241/90, ha previsto una novità assoluta per quanto riguarda i procedimenti ad istanza di parte: prevede, infatti, l’obbligo di comunicazione, da parte della P.A., dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza prima dell’adozione del provvedimento negativo, ad eccezione delle procedure concorsuali e ai provvedimenti in materia previdenziale ed assistenziale gestiti dagli enti previdenziali. Gli istanti, entro 10 giorni dal ricevimento della comunicazione, hanno il diritto di presentare per iscritto le loro
osservazioni, eventualmente corredate da documenti. L’invio della comunicazione
interrompe, per un periodo superiore a 10 giorni, i termini per la conclusione del
procedimento.
L’art. 21 octies nella prima parte si occupa dell’annullabilità del provvedimento, ma le novità di rilievo riguardano il principio per cui l’atto non è annullabile
qualora presenti un vizio procedimentale se, comunque, il merito del provvedimento in concreto poteva essere solo quello determinato dall’amministrazione e la
PRIME APPLICAZIONI GIURISPRUDENZIALI DEGLI ARTT. 10 BIS E 21 OCTIES
171
disposizione per cui il provvedimento dell’amministrazione non è annullabile per
mancata comunicazione dell’avvio del procedimento allorché l’amministrazione
non dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato.
La giurisprudenza si è già più volte soffermata sull’interpretazione dell’art. 10
bis, riconoscendo talvolta natura tassativa all’enunciazione di cui all’ultimo comma del suddetto articolo talvolta preferendo un’interpretazione estensiva delle
materie lì elencate soprattutto in virtù del necessario coordinamento della nuova
norma, con le norme e discipline specifiche già esistenti.
Per quanto riguarda, invece, l’applicabilità della sanatoria prevista dall’art. 21
octies, la giurisprudenza è univocamente orientata nell’affermare la necessità di
una prova a che l’apporto del privato non avrebbe comunque modificato il contenuto del provvedimento.
Si indicano, pertanto, qui di seguito le ultime pronunce in tema di comunicazione preventiva dei motivi ostativi all’accoglimento ex art. 10 bis ed in tema di sanatoria ex art. 21 octies.
A) TAR Piemonte – Sez. I – sentenza n. 2837/05 – Presidente Calvo – Estensore
Vigotti
Mutamento di destinazione d’uso - Diniego - Violazione dell’art. 10 l. 241/90 - Illegittimità
È illegittimo il diniego di mutamento della destinazione d’uso per violazione dell’art. 10 bis legge n. 241 del 1990, modificato dalla legge n. 15 del 2005, che prescrive l’obbligo di tempestiva comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della
domanda.
TAR Lazio – Roma – Sez. II bis – sentenza n. 3921/05 – Presidente Giulia – Estensore Cogliani
Permesso di costruire - Diniego - Violazione - Art. 10 bis della legge n. 241 del
1990 - Illegittimità
È illegittimo il diniego di rilascio di un permesso di costruire considerato,infatti,
che dagli atti emerge chiaramente che l’amministrazione ha disatteso la disposizione
172
GIURISPRUDENZA
di cui al nuovo art. 10 bis della legge sul procedimento risultando, pertanto, preclusa,
per la parte interessata, la partecipazione al procedimento.
TAR Lazio – Roma – Sez. II ter – sentenza n. 2258/06 – Presidente Scognamiglio –
Estensore Amicuzzi
Procedure per il conferimento di appalti - Provvedimento di esclusione – Violazione art. 10 bis della L. n. 241 del 1990 - Inapplicabilità
L’espressa previsione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 10 bis di non applicazione «alle procedure concorsuali» della norma di cui all’art. 10 bis, è, invero, da
ritenere riferita a quelle genericamente intese (T.A.R. Veneto, sez. I, 13 ottobre
2005, n. 3663) e quindi non solo ai concorsi pubblici. Pertanto non è dichiarabile la
illegittimità del provvedimento di esclusione dalla gara d’appalto per omessa applicazione della norma stessa.
T.A.R. Veneto – Sez. II – sentenza n. 2358/05 – Presidente Stevanato – Relatore
Farina
Destinazione d’uso - Diniego rilascio certificato destinazione urbanistica - Violazione art. 10 bis l. 241/90
Risulta fondata anche la dedotta violazione dell’art. 10 bis della legge n. 241/90,
nel testo introdotto con la legge n. 15/2005, in quanto il provvedimento impugnato
in sede di motivi aggiunti non è stato preceduto dalla comunicazione contenente i
motivi che ostavano all’accoglimento della richiesta formulata da parte istante.
T.A.R. Veneto – Sez. II – sentenza n. 3540/05 – PresidenteStevanato – Relatore
Rocco
Annullamento provvedimento comunale di demolizione di opere prive di titolo
edilizio - Provvedimenti ad istanza di parte - Violazione art. 10 bis l. 241/90 - Insussistenza
La previsione di cui all’art. 10 bis l. 241/90 si applica ai procedimenti attivati su
istanza di parte, ma non ai provvedimenti di carattere sanzionatorio, anche se conse-
PRIME APPLICAZIONI GIURISPRUDENZIALI DEGLI ARTT. 10 BIS E 21 OCTIES
173
guenti ad un’istanza di revisione in sede di autotutela di altro provvedimento impugnato.
TAR Veneto – Sez. I – sentenza n. 3663/05 – Presidente Amoroso – Estensore De
Piero
Contratti della P.A. - Gara - Ammissione provvisoria di un concorrente - Violazione art. 10 bis L. n. 15/2005 - Insussistenza
Non è invocabile il disposto dell’art. 10 bis «alle procedure concorsuali» genericamente intese.
TAR Veneto – Sez. II – sentenza n. 3177/06 – Presidente Onorato – Estensore
Maiello.
Procedura concorsuale a licitazione privata - Esclusione - Violazione art. 10 bis
L. 241/90 - Insussistenza.
L’art. 10 bis della legge 241/1990, introdotto con legge n. 15/2005, quale mezzo
preventivo di soluzione di potenziali conflitti, dovrebbe dar luogo ad una fase pre-decisionale a contraddittorio pieno sulle ragioni ostative all’accoglimento della domanda di parte. Nell’ipotesi in cui il precitato strumento dialettico non valga a comporre
le divisate ragioni ostative, l’Amministrazione è tenuta nel corpo del provvedimento
reiettivo ad esplicitare con congrue argomentazioni i motivi in considerazione dei
quali ha disatteso le osservazioni di parte.
Va, però, osservato che, in ragione del chiaro disposto dell’ultimo periodo della
norma in commento, gli obblighi de quibus non trovano applicazione – in ragione di
una preminente esigenza di razionale ed agevole definizione del procedimento, che
mal si concilia con l’intreccio delle posizioni dei singoli aspiranti, oggetto di valutazioni di ordine comparativo – nel caso di procedure concorsuali, categoria alla quale è
indubbiamente ascrivibile anche il procedimento in esame.
B) TAR Campania – Napoli – Sez. VII – sentenza n. 9368/05 – Presidente Guerriero – Estensore Monaciliuni.
Diniego di rilascio di una concessione demaniale marittima - Violazione dell’art.
174
GIURISPRUDENZA
10 bis della L. 7 agosto 1990, n. 241 - Art. 21 octies della L. 7 agosto 1990, n. 241
- Applicabilità
Il diniego di rilascio di una concessione risulta illegittimo se non è preceduto dalla comunicazione preventiva di cui all’art. 10 bis della legge sul procedimento amministrativo n. 241/1990.
Non sussistono i presupposti per poter applicare la sanatoria di cui all’art. 21 octies della l. n. 241/1990, introdotto coevamente all’art. 10 bis, qualora, in presenza
di un provvedimento a natura non vincolata, non venga dimostrato che il contenuto
dispositivo del provvedimento impugnato non avrebbe potuto avere diverso contenuto.
TAR Piemonte – Sez. I – sentenza n. 3296/05 – Presidente Gomez de Ayala –
Estensore Baglietto
Autorizzazione installazione impianti pubblicitari - Diniego - Violazione art. 10bis L. 7 agosto 1990, n. 241 - Illegittimità - Art. 21 octies, prima parte, della L.
241/90 - Inapplicabilità nel caso di atti discrezionali - Art. 21 octies, seconda parte, della L. 241/90 - Applicabilità anche agli atti discrezionali - Inapplicabilità al
c.d. preavviso di rigetto ex art. 10-bis L. 7 agosto 1990, n. 241
È illegittimo, ai sensi dell’art. 10-bis della L. 7 agosto 1990, n. 241 un provvedimento con cui è stata negata un’autorizzazione, nel caso in cui non sia stato preceduto da apposito preavviso di rigetto notificato o comunque comunicato agli istanti.
La sanatoria di cui all’art. 21-octies, prima parte, della L. 7 agosto 1990, n. 241
non è applicabile agli atti discrezionali mentre la sanatoria di cui alla seconda parte,
pur riguardante gli atti discrezionali, è riferibile alle sole violazioni procedimentali
concernenti la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, ma non anche la
mancata comunicazione di cui al citato art. 10-bis.
TAR Veneto – Sez. III – n. 1110/06 – Presidente Angelo De Zotti – Relatore Gabricci
Istanza per autorizzazione per la gestione di un istituto di vigilanza privata ex art.
134 TULLPS - Diniego - Violazione art. 10 bis L. 241/90 - Art. 21 octies I comma, L. 241/90 - Inapplicabilità
PRIME APPLICAZIONI GIURISPRUDENZIALI DEGLI ARTT. 10 BIS E 21 OCTIES
175
Qualora l’Amministrazione non si costituisca, può comunque ritenersi accertata
l’omissione di comunicazione preventiva di cui all’art. 10 bis della L. 241/90 nel caso in cui, il provvedimento impugnato, nel pur articolato preambolo, non affermi che
è stata trasmessa la suddetta comunicazione, e non contenga elementi da cui si possa
in qualche modo desumere che ciò sia avvenuto.
Non può trovare applicazione la sanatoria di cui all’art. 21 octies, I comma, parte
seconda, della l. 241/90 qualora l’Amministrazione non abbia dimostrato in giudizio
che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato.
T.A.R. Veneto – Sez. II – sentenza n. 3421/05 – Presidente Trivellato – Relatore
Rocco
Diniego corresponsione della liquidazione dell’aiuto relativo alla disidratazione
dei foraggi - Annullamento - Violazione art. 10 bis l. 241/90 - Art. 21 octies l.
241/90 - Applicabilità
L’art. 21 octies c2 della l. 241/90 dispone che il provvedimento amministrativo
non è comunque annullabile qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il
contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Tale disciplina va applicata non solo nell’ipotesi di omessa comunicazione dell’avvio del procedimento, ma anche nell’ambito dell’omessa comunicazione
dell’avvio di quella particolare sequenza procedimentale che avrebbe dovuto trarre
origine dalla non ancora formalizzata determinazione dell’Amministrazione di non
accogliere la domanda dell’interessato: e ciò in quanto anche nell’evidenza dell’art.
10 bis l’Amministrazione precedente è tenuta ad iniziare un contraddittorio con il
destinatario dell’emanando provvedimento al fine di raccogliere il contributo istruttorio indispensabile per addivenire ad una compita disamina di quegli elementi di
fatto e di diritto che risulteranno decisivi per la determinazione da assumere.
C) T.A.R. Abruzzo – Pescara – sentenza n. 174/05 – Presidente Catoni – Relatore
Eliantonio
Licenza di pesca - Diniego - Violazione art. 21 octies L. 241/90 - Insussistenza
L’art. 21 octies l. 241/90 dispone che non sia annullabile il provvedimento adottato in violazione delle norme sulla forma degli atti, qualora per la natura vincolata
176
GIURISPRUDENZA
del provvedimento, sia palese che il contenuto del dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato.
TAR Abruzzo – Pescara – sentenza n. 185/05 – Presidente Catoni – Relatore
Eliantonio
Permesso di costruire - Diniego - Violazione art. 21 octies l. 241/90 - Insussistenza
Visto il contenuto dell’art. 21 octies l. 241/90, introdotto dal’art. 14 l. 15/05,
non può pronunciarsi l’annullamento per difetto di motivazione di un diniego di permesso di costruire, allorché dagli atti di causa risulti evidente che l’Amministrazione
non avrebbe potuto concedere il permesso dato che la destinazione del manufatto
non era compatibile con le destinazioni previste nella zona.
TAR Abruzzo – Pescara – sentenza n. 394/05 – Presidente e Relatore Eliantonio
Abilitazione/idoneità nelle scuole di istruzione secondaria - Esclusione dalle graduatorie permanenti - Annullabilità - Violazione art. 21 octies l. 241/90 - Insussistenza
A seguito delle modifiche introdotte dalla legge 15/05 non è più annullabile il
provvedimento amministrativo adottato in violazione delle norme sulla forma degli
atti qualora per la natura vincolata del provvedimento sia palese che il contenuto del
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato, pertanto, non può
disporsi l’annullamento da parte del Giudice amministrativo di un atto in relazione
ad una supposta carenza di motivazione quando sia palese che il contenuto del dispositivo dell’atto non sarebbe stato diverso. Il difetto di motivazione è uno dei vizi sulla
forma dell’atto e non un vizio sostanziale, che ove sussistente deve necessariamente
condurre all’annullamento dell’atto impugnato, in quanto la riforma introdotta con
la legge 15/05 ha recepito la teoria del raggiungimento dello scopo, per cui il vizio
formale non può condurre all’annullamento dell’atto amministrativo ove l’interesse
pubblico sia stato soddisfatto. Con tale norma, quindi, il giudizio amministrativo è
stato trasformato da giudizio sull’atto a giudizio sul rapporto sicché l’Amministrazione intimata può presentare in corso di giudizio gli elementi utili per evidenziare la
palese infondatezza della parte ricorrente, superando, di fatto, le perplessità circa la
PRIME APPLICAZIONI GIURISPRUDENZIALI DEGLI ARTT. 10 BIS E 21 OCTIES
177
possibilità da parte dell’Amministrazione di integrare in corso di giudizio la motivazione dell’atto impugnato.
TAR Campania – Salerno – Sez. I – sentenza n. 671/05 – Presidente Fedullo – Relatore Gaudieri
Occupazione d’urgenza - Approvazione del progetto di un impianto di depurazione - Annullamento - Violazione art. 21 octies l. 241/90 - Insussistenza
L’omissione della comunicazione ex art. 7 l. 241/90 comporta l’illegittimità dell’atto conclusivo del procedimento solo nel caso in cui il soggetto non avvisato sia
in grado di provare che, laddove avesse potuto partecipare tempestivamente al procedimento, avrebbe potuto presentare osservazioni ed opposizioni che avrebbero
avuto la ragionevole possibilità di avere un’incidenza casuale nel provvedimento finale.
TAR Campania – Salerno – Sez. I – sentenza n. 760/05 – Presidente Fedullo – Relatore Portoghese
Delibera di esclusione dalla gara per l’affidamento del sevizio di refezione - Annullamento - Art. 21 octies l. 241/90 - Vizi attinenti la forma degli atti amministrativi
Ogni patologica ricaduta dei vizi attinenti alla forma degli atti amministrativi, o
violazioni procedimentale, è ormai da escludersi alla luce del recente intervento normativo di cui alla l. 15/05 che ha introdotto l’art. 21 octies c. 2 l. 241/90 la cui innovativa formula deve indurre al definitivo ribaltamento del tradizionale principio del
c.d. divieto di motivazione postuma, essendo norma che non attiene alla disciplina
relativa all’assolvimento delle competenze proprie dell’Amministrazione, in ordine
alla struttura, ai requisiti e al ruolo funzionale degli atti, bensì, riducendo il novero
dei vizi patologici a quelli di natura sostanziale, limita la potestà caducatoria del giudice amministrativo. Il principio del tempus regit actum viene così in considerazione
quale criterio di ricognizione non della disciplina sostanziale, bensì di quella astrattamente applicabile, racchiusa dal confine cronologico segnato dalla data in cui la decisione giudiziale è adottata.
178
GIURISPRUDENZA
TAR Campania – Napoli – Sez. IV – sentenza n. 3780/05 – Presidente D’Alessio –
Relatore Polidori
Assenza titolo abitativo - Ordine di demolizione del manufatto - Violazione art.
21 octies l. 241/90 - Insussistenza
Da una lettura combinata del primo e secondo comma dell’art. 21 octies della l.
241/90 si desume che quando viene accertata l’incompetenza relativa all’organo
adottante, il provvedimento deve essere necessariamente annullato, non potendo trovare applicazione la disposizione che ne preclude l’annullamento laddove sia palese
che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Tale disposizione si riferisce solo ai casi in cui il provvedimento sia
stato adottato in violazione delle norme sul procedimento o sulla forma, tra cui non è
possibile includere le norme sulla competenza.
TAR Campania – Napoli – Sez. II – sentenza n. 5226/05 – Presidente Onorato –
Relatore Pappalardo
Ordinanza di demolizione - Annullamento - Art. 21 octies l. 241/90 - Onere probatorio - Violazione
La comunicazione di avvio del procedimento ai destinatari dell’atto finale è prevista
sia per i procedimenti complessi che per i procedimenti semplici,che si esauriscono direttamente con l’adozione dell’atto finale, i quali, comunque, comportano una fase istruttoria da parte della stessa autorità emanate; essa, inoltre, non può essere omessa o compressa per la sol ragione che si è in presenza di un provvedimento a contenuto vincolato. La
valutazione può essere diversa alla luce del nuovo art. 21 octies in quanto, sebbene sia
previsto in favore dell’Amministrazione la possibilità di dimostrare in giudizio che il
contenuto del provvedimento non sarebbe potuto essere diverso da quello adottato, è altrettanto vero che addossa l’onere probatorio all’Amministrazione, la quale, però, costituitasi in giudizio, non ha apportato alcun elemento probatorio in tal senso.
TAR Emilia Romagna – Bologna – Sez. II – sentenza n. 1381/05 – Presidente Papiano – Relatore Calderoni
Domanda di permesso di costruire - Diniego - Esimente ex art. 21 octies l. 241/90
- Esclusione.
È da escludere che possa ricorrere l’esimente della non annullabilità dell’atto di
PRIME APPLICAZIONI GIURISPRUDENZIALI DEGLI ARTT. 10 BIS E 21 OCTIES
179
cui all’art. 21 octies in quanto non è palese e neppure dimostrato che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
TAR Lazio – Roma – Sez. II ter – sentenza n. 1052/06 – Presidente Scognamiglio –
Estensore Martino
Aggiudicazione provvisoria - Revoca - Omissione dell’avviso di inizio del procedimento - Presupposti per l’applicazione dell’art. 21 octies, comma secondo, ultima parte, della L. n. 241 del 1990 - Introduzione di elementi di fatto oggettivamente verificabili - Necessità - Sussiste
Rispetto ai provvedimenti a contenuto discrezionale, la sanatoria «processuale»
disciplinata dall’art. 21-octies, non scaturisce da una diversa e/o ulteriore motivazione offerta dall’Amministrazione in corso di giudizio, ma dalla prova, mediante l’introduzione di elementi di fatto oggettivamente verificabili che l’apporto del privato
non avrebbe comunque potuto influire sull’esito del procedimento, così come cristallizzato nel provvedimento, e cioè portare all’adozione di un atto diverso, satisfattivo,
o comunque non confliggente con gli interessi del ricorrente.
TAR Lazio – Roma – Sez. II ter – sentenza n. 2258/06 – Presidente Scognamiglio –
Estensore Amicuzzi
Gara d’appalto - Esclusione - Preventiva comunicazione del c.d. «preavviso di rigetto» ex art. 10 bis della L. n. 241 del 1990 - Non occorre - Ragioni
L’art. 10 bis della L. n. 241 del 1990, che impone la comunicazione del c.d.
preavviso di rigetto, non è applicabile, per espressa previsione dell’ultima parte della
stessa norma, «alle procedure concorsuali», tra le quali sono da intendere ricomprese
anche le procedure per il conferimento di appalti pubblici.
TAR Liguria – Sez. II – sentenza n. 1092/05 – Presidente Arosio – Relatore Grauso
Comunicazione di trasferimento - Illegittimità - Violazione art. 21 octies L. 241/
90 - Sussistenza
L’art. 21 octies inserito nella legge 241/90 dalla recente legge 15/05 ha recepito
180
GIURISPRUDENZA
positivamente gli indirizzi ermeneutici tesi a valorizzare gli aspetti sostanziali dell’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento: l’amministrazione resistente
non ha fornito alcuna prova che nonostante la mancata comunicazione di avvio il
contenuto del provvedimento finale non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato.
TAR Sardegna – Sez. II – sentenza n. 1272/05 – Presidente Tosti – Relatore Silvestri
Bando finanziamento di progetti nel settore innovazione tecnologica - Annullamento - Violazione art. 21 octies l. 241/90 - Onere della prova a carico della
P.A.
L’onere della prova debba essere adempiuto dall’Amministrazione con modalità
tali da poter essere giudicate sufficienti, tenuto conto del complesso degli elementi
presi in considerazione nella fase istruttoria e deve essere tale da introdurre nel giudizio elementi di fatto idonei a dimostrare in concreto che in nessun altro modo non
lesivo per la posizione del ricorrente si sarebbe potuto raggiungere lo scopo. Il nuovo
disposto dell’art. 21 octies 2 c. impone che al privato sia data la possibilità di controdedurre sugli elementi di prova esibiti dalla P.A. in modo d assicurare in giudizio
quella tutela che consente di ritenere sanato il vizio originario.
TAR Sardegna – Sez. II – sentenza n. 1386/05 – Presidente Tosti – Relatore Panunzio
Autorizzazione istallazione fabbricato ammovibile in area demaniale - Annullamento - Art. 21 octies l. 241/90 - Onere probatorio a carico della P.A. - sussistenza
L’art. 21 octies va interpretato nel senso che l’onere della prova deve essere
adempiuto dall’amministrazione con modalità tali da poter essere giudicate sufficienti se poste in correlazione con l’ampiezza del potere discrezionale esercitato; più precisamente la prova che l’amministrazione è tenuta ad esibire deve essere tale da introdurre nel giudizio elementi di fatto idonei a dimostrare in concreto che in nessun altro modo non lesivo della posizione del ricorrente si sarebbe potuto raggiungere lo
scopo.
PRIME APPLICAZIONI GIURISPRUDENZIALI DEGLI ARTT. 10 BIS E 21 OCTIES
181
TAR Veneto – Sez. III – sentenza sent. n. 2806/05 – Presidente Zuballi – Relatore
Gabbricci
Revoca nulla osta per la messa in esercizio di apparecchi modello Eurostart - Revoca nulla osta per la distribuzione degli stessi - Annullamento - Violazione art.
21 octies l. 241/90
Avendo l’Amministrazione omesso di comunicare l’avvio del procedimento relativo alla revoca del nulla osta di distribuzione, il Collegio ritiene non applicabile il
disposto ex art. 21 octies l. 241/90 in quanto la dimostrazione che il contenuto del
provvedimento non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato,
deve essere, a giudizio del Collegio, facilmente comprensibile, adeguatamente circostanziata e tale da non lasciare nel Giudice significativi margini di incertezza che
un apporto procedimentale avrebbe potuto condurre ad esiti diversi.
Consiglio di Stato – Sez. VI – sentenza n. 2763/06 – Presidente Marrone – Estensore Chieppa
Sanatoria art. 21 octies L. 241/90 - Opera come esclusione dell’annullamento dell’atto e non già come ipotesi di irregolarità dell’atto - Nozione
L’art. 21 octies, benché norma processuale applicabile anche ai procedimenti in
corso o già definiti alla data di entrata in vigore della legge n. 15/05, non degrada un
vizio di legittimità a mera irregolarità, ma fa sì che un vizio, che resta vizio di legittimità, non comporti l’annullabilità dell’atto sulla base di valutazioni, attinenti al contenuto del provvedimento, effettuate ex post dal giudice (il provvedimento non poteva essere diverso).
L’irregolarità opera, invece, ex ante e in astratto; il provvedimento amministrativo affetto da vizio formale minore è un atto ab origine meramente irregolare, come
già ritenuto dalla giurisprudenza in caso di mancata indicazione nell’atto impugnato
del termine e dell’Autorità cui è possibile ricorrere (art. 3 della L. n. 241/90); inosservanza che costituisce irregolarità che non rende l’atto illegittimo, ma che consente
al limite il ricorso del privato oltre i termini di decadenza avvalendosi dell’errore scusabile, determinato dall’omissione compiuta dall’amministrazione.
Deve quindi ritenersi che l’entrata in vigore del citato art. 21 octies non abbia inciso sulla categoria dell’irregolarità dell’atto amministrativo, come già definita da
dottrina e giurisprudenza e abbia invece codificato quelle tendenze già emerse in giurisprudenza mirate a valutare l’interesse a ricorrere, che viene negato ove il ricorren-
182
GIURISPRUDENZA
te non possa attendersi, dalla rinnovazione del procedimento, una decisione diversa
da quella già adottata (sulla base dell’art. 21 octies il provvedimento non è annullabile non perché assoggettato ad un diverso regime di invalidità o irregolarità, ma perché la circostanza che il contenuto non possa essere diverso priva il ricorrente dell’interesse a coltivare un giudizio, da cui non potrebbe ricavare alcuna concreta utilità).
Carlotta Baldin
Ilaria Dalla Rosa
RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE IN MATERIA DI DENUNCIA
DI INIZIO ATTIVITÀ RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE
IN MATERIA DI DENUNCIA DI INIZIO ATTIVITÀ
TAR Abruzzo – L’Aquila – sentenza n. 128/05 – Presidente Balba – Estensore
Rasola
Denuncia di inizio di attività - Termine di trenta giorni entro cui la P.A. può essere esercitato il potere inibitorio - Natura
In tema di denuncia di inizio attività (Dia) ex art. 22 e 23, d.P.R. 6 giugno 2001
n. 380, il potere entro il quale la p.a. può esercitare il potere inibitorio è da ritenersi
perentorio, sia per la certezza dei rapporti giuridici, sia perché, ove la norma introduca una limitazione temporanea allo «ius aedificandi», che è facoltà attinente al diritto di proprietà, detta limitazione temporanea non può che avere carattere perentorio,
non potendo lasciarsi al mero arbitrio della p.a. la disponibilità di siffatto diritto, costituzionalmente garantito.
TAR Abruzzo – L’Aquila – sentenza n. 433/05 – Presidente Balba – Estensore
Rasola
Denuncia di inizio di attività ex art. 22 del d.P.R. n. 380 del 2001 - Termine perentorio di trenta giorni entro il quale la P.A. è tenuta ad attivare i propri poteri
inibitori nei confronti dell’attività edilizia asseritamente illegittima - Conseguenze
Il termine di 30 giorni entro il quale il dirigente o il responsabile del competente
ufficio comunale può esercitare il potere inibitorio in relazione alla denuncia di inizio attività ex art. 23 d.P.R. n. 380 del 2001 è da ritenersi perentorio, sia per la certezza dei rapporti giuridici, sia perché, ove la norma introduce una limitazione temporanea allo «jus aedificandi», che è facoltà attinente al diritto di proprietà, detta li-
184
GIURISPRUDENZA
mitazione temporanea non può che avere carattere perentorio, non potendo lasciarsi
al mero arbitrio dell’amministrazione la disponibilità di siffatto diritto, costituzionalmente garantito. Ove, pertanto, dopo la presentazione della denuncia di inizio attività, decorra infruttuosamente il termine di 30 giorni previsto dalla normativa sopra
indicata, la conseguenza che da ciò deriva è la formazione dell’autorizzazione edilizia
implicita.
TAR Abruzzo – Pescara – sentenza n. 494/05 – Presidente Catoni – Estensore
Eliantonio
Nuova Denuncia di inizio di attività ex art. 19, l. 241/90 - Natura giuridica - Impugnazione in sede di giurisdizione esclusiva innanzi al G.A.
Con la nuova formulazione dell’art. 19 della legge 7 agosto 1990 n. 241, il legislatore ha sostanzialmente qualificato la denuncia di inizio di attività come un atto
e/o titolo abilitativo tacito all’esecuzione dell’attività edificatoria; cosicché, qualora
la P.A., in presenza dei relativi presupposti, non eserciti i propri poteri di autotutela
sulla D.I.A., chi risulti titolare del correlato interesse, può rivolgersi al G.A., affinché
adotti le misure, previste dal sistema, volte a non far realizzare le opere edilizie non
consentite, ovvero rilevi l’obbligo della P.A. di esercitare il potere di rimozione delle
opere realizzate senza titolo.
TAR Abruzzo Pescara – sentenza n. 498/05 – Presidente Catoni – Estensore
Eliantonio
Denuncia di inizio attività - Natura - Mancato esercizio poteri inibitori della P.A.
- Conseguenze
In base alle nuove disposizioni introdotte dapprima con la l. 1 febbraio 2005 n.
15, e poi con l’art. 3 d.l. 14 marzo 2005 n. 35, conv. con modificazioni nella l. 14
maggio 2005 n. 80, la «denuncia» (oggi «dichiarazione») di inizio attività in materia
urbanistica è stata ridisciplinata nel senso che ove non sia stata interdetta nei termini
l’esecuzione dell’opera, l’amministrazione, nel caso in cui l’opera edilizia non sia
conforme alle disposizioni prescritte per la relativa realizzazione, può comunque esercitare i propri poteri di revoca (art. 21 quinquies) e di annullamento (21 nonies). Per
effetto di tale modifiche normative il legislatore, ipotizzando l’adozione di provvedimenti di secondo grado, ha, pertanto, inteso la d.i.a. come un atto abilitativo tacito
RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE IN MATERIA DI DENUNCIA DI INIZIO ATTIVITÀ
185
formatosi a seguito della denuncia del privato e del conseguente comportamento
inerte dell’amministrazione e su tale provvedimento implicito il Comune può esercitare i propri poteri di autotutela solo ove ricorrano i presupposti di legge; per cui, in
assenza di tale annullamento e/o revoca, non possono assumersi provvedimenti sanzionatori, ove le opere in concreto realizzate siano conformi agli atti progettuali allegati alla denuncia di inizia attività.
TAR Campania Napoli – Sez. II – sentenza n. 8707/05 – Presidente Onorato –
Estensore Severini
Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizio attività - Ex art. 22 e ss. del T.U. edilizia (D.P.R. 380/2001) - Natura giuridica - Natura perentoria del termine di 30
giorni per inibire l’intervento presentato con la D.I.A. - Ex art. 23, comma 6, del
T.U. edilizia (D.P.R. 380/2001)
La denunzia di inizio di attività ex art. 22 e ss. del d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380
costituisce una dichiarazione del privato cui la legge, in presenza di specifiche condizioni, ricollega effetti tipici corrispondenti a quelli del permesso di costruire, ma non
ha il carattere del provvedimento amministrativo, in quanto non promana da una
pubblica amministrazione che ne è la destinataria, non costituisce esercizio di una potestà pubblicistica, né dà origine ad un provvedimento amministrativo in forma tacita (silenzio-assenso), non sussistendo il potere-dovere dell’Amministrazione di provvedere sull’istanza del privato. Il termine di trenta giorni, entro il quale il sindaco, ai
sensi dell’art. 23 comma 6 d.P.R. n. 380 del 2001, a seguito di denuncia di inizio attività, può notificare agli interessati l’ordine motivato di non effettuare le previste
trasformazioni, ha natura perentoria, essendo finalizzato a dare certezza ai rapporti
giuridici tra privati e p.a., a tutelare gli interessi di entrambi nonché, contemporaneamente, l’interesse pubblico.
TAR Campania – Napoli – Sez. III – sentenza n. 1131/06 – Presidente De Leo –
Estensore Maddalena
Denuncia di inizio attività (D.I.A.) - Disciplina previgente all’art. 19 della legge
n. 241/1990, come novellato dalla legge n. 80 del 2005 - Impugnazione - Inammissibilità
Deve essere dichiarato inammissibile un ricorso giurisdizionale recante l’impu-
186
GIURISPRUDENZA
gnativa di una D.I.A., atteso che la denuncia di inizio di attività, prima dell’entrata
in vigore dell’art. 19, come novellato dalla legge n. 80 del 2005, non costituiva un
provvedimento tacito né una fattispecie avente valore provvedimentale
TAR Lazio – Roma – Sez. II ter – sentenza n. 1408/05 – Presidente Scognamiglio –
Estensore Martino
Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizio attività (D.I.A.) - Obbligo di accertare la disponibilità dell’area - Sussiste - Potere di inibire l’esecuzione dei lavori Decorso il termine di 20 giorni - Non sussiste - Potere in qualsiasi momento di
accertamento e di repressione di opere abusive - Sussiste
Non sussiste differenza tra l’esame del titolo di godimento che l’Amministrazione
svolge in sede di rilascio del permesso di costruire e quello che svolge in sede di verifica dei presupposti della d.i.a. poiché, in entrambi i casi, essa verifica soltanto l’esistenza di una posizione legittimante, sia pure all’esclusivo fine di assicurare un ordinato svolgimento dell’attività urbanistica, conforme all’assetto dei rapporti interprivati relativi all’area interessata dall’intervento
Per le opere soggette a mera d.i.a., decorso il termine di venti giorni previsto
dall’art. 4, comma 15, del d.l. n. 398/93, conv. in legge n. 493/93, nel testo sostituito dall’art. 2, comma 60, l.n. 662/96, l’Amministrazione decade dal potere di
emettere l’ordine inibitorio delle trasformazioni previste, fermo restando, ovviamente, il potere di accertamento e di repressione di opere abusive secondo la disciplina generale.
TAR Lazio – Sez. I – sentenza n. 4782/05 – Presidente Guerrieri – Estensore De
Michele
Realizzazione di muro di recinzione - Denuncia di inizio di attività - Sufficienza Omessa d.i.a. - Conseguenze - Applicazione di sanzione pecuniaria (in assenza di
vincoli) - Necessità
Il T.U. edilizia (D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) non comprende le recinzioni fra le
attività che non richiedono alcun titolo abilitativo (art. 6), ma nemmeno fra quelle
soggette a permesso di costruire (art. 10), con conseguente riconducibilità delle stesse
nella nozione residuale degli «interventi subordinati a denuncia di inizio attività»
(art. 22); in assenza di detta denuncia la realizzazione di una recinzione è pertanto
RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE IN MATERIA DI DENUNCIA DI INIZIO ATTIVITÀ
187
sottoposta alla «sanzione pecuniaria, pari al doppio dell’aumento di valore venale
dell’immobile, conseguente alla realizzazione degli interventi stessi, e comunque in
misura non inferiore a 516 euro» (art. 37, comma 1), a meno che non sussistano vincoli, tali da comportare la restituzione in pristino (art. 37 cit., comma 2).
TAR Lazio – Sez. II – sentenza n. 6534/05 – Presidente Scognamiglio – Estensore
Amicuzzi
Denuncia di inizio attività - Ordine Cessazione - Insussistenza obbligo comunicazione ex art. 7 L. 241/90
L’ordine di cessazione di un’attività, disposto dall’amministrazione a seguito della denuncia di inizio attività (come nel caso di specie), non necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento all’interessato, in quanto non determina affatto l’inizio del procedimento (che si determina, invece, con la presentazione della
denuncia di inizio di attività), ma soltanto la sua conclusione.
TAR Lazio – Sez. II – sentenza n. 8363/05 – Presidente Restaiano – Relatore Amicuzzi
D.I.A irregolare - P.A. comunica al richiedente cause irregolarità - Termini ex
art. 19 e 20 L. 241/90 da presentazione regolare
Costituisce principio, normativamente sancito nell’art. 3 d.P.R. 26 aprile 1992
n. 300 concernente il Regolamento sulle attività private sottoposte alla disciplina
degli art. 19 e 20 l. n. 241 del 1990, che qualora la denuncia o la domanda del privato (nella specie, volta ad ottenere un’autorizzazione amministrativa per una superficie di vendita maggiore) non siano regolari o complete, l’Amministrazione ne
dà comunicazione al richiedente indicando le cause di irregolarità o di incompletezza. In tali casi, i termini che, per gli effetti di cui agli artt. 19 e 20 della stessa l. n.
241 del 1990, decorrono dalla data di ricevimento della denuncia o della domanda
del privato, decorrono invece dal ricevimento della denuncia o dalla domanda regolari.
188
GIURISPRUDENZA
TAR Lombardia Milano – Sez. II – sentenza n. 3819/05 – Presidente Radesi –
Estensore De Berardinis
Edilizia - D.I.A - Disciplina esclusivamente ex art. 22 ss. T.U. edilizia
La disciplina della d.i.a. in campo edilizio è dettata esclusivamente dagli art. 22 e
ss. d.P.R. n. 380 del 2001, ciò in quanto l’art. 19, comma 4, l. 241 del 1990 fa salve le
discipline di settore e in più in quanto il moltiplicarsi della normativa in materia ha
portato ad una vera e propria frantumazione dell’istituto in parola in una pluralità di
istituti diversi, ciascuno dei quali assoggettato ad un regime più o meno peculiare.
TAR Piemonte – sez. I – sentenza n. 1359/05 – Presidente de Ayala – Estensore
Goso
Denuncia di inizio di attività ex art. 22 del D.P.R. n. 380/2001 - Natura giuridica Individuazione - Formazione di silenzio-assenso - Esclusione
La denuncia di inizio attività edilizia è un atto soggettivamente ed oggettivamente privato, con il significato di una comunicazione inviata alla p.a.; di conseguenza il
silenzio serbato da quest’ultima a seguito della comunicazione, inidoneo a determinare la formazione di un atto di assenso implicito, assume carattere di mero comportamento e non costituisce un titolo provvedimentale.
TAR Piemonte – Torino – Sez. I – sent. n. 1367/05 – Presidente de Ayala – Estensore Goso
Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizio di attività - Ex art. 22 del d.P.R. n.
380/2001 - Ricorso proposto avverso di essa - Inammissibilità - Ragioni - Ricorso
avverso il comportamento dell’Amministrazione che non ha provveduto, nei termini di legge, ad attivare i propri poteri inibitori nei confronti dell’attività edilizia
asseritamente illegittima - Giurisdizione amministrativa - Sussiste - Natura ed effetti - Individuazione
È inammissibile un ricorso diretto all’annullamento della denuncia di inizio attività edilizia ex art. 22 del d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, atteso che la d.i.a. costituisce
un atto soggettivamente e oggettivamente privato, come tale insuscettibile di impugnazione innanzi al giudice amministrativo.
RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE IN MATERIA DI DENUNCIA DI INIZIO ATTIVITÀ
189
È ammissibile, rientrando nella giurisdizione del giudice amministrativo, il ricorso con il quale si chiede che sia accertata e dichiarata l’illegittimità del comportamento dell’Amministrazione che non ha provveduto, nei termini di legge, ad attivare i propri poteri inibitori nei confronti dell’attività edilizia asseritamente illegittima.
La denuncia di inizio attività edilizia ex articolo 22 del d.P.R. 6 giugno 2001 n.
380 non dà luogo alla formazione di alcun consenso implicito, avendo solamente il
valore di una comunicazione fatta dal privato all’Amministrazione circa la propria
intenzione di realizzare un’attività edilizia direttamente conformata dalla legge e
non necessitante di titoli provvedimentali.
TAR Puglia Lecce – Sez. II – sent. n. 2697/05 – Presidente Cavallari – Estensore
Capitanio
Stazioni radio base per telefonia cellulare - Autorizzazione ex art. 87 del D.L.vo
1o agosto 2003 n. 259 (Codice delle comunicazioni) - Procedimento di rilascio Non ha natura di d.i.a. ma di silenzio-assenso - Potere del Comune di annullare il
silenzio in via di autotutela ex art. 20 della L. n. 241 del 1990.
Il titolo abilitativo previsto dall’art. 87 commi 3 e 9, d.lg. 1 agosto 2003 n. 259
(c.d. codice delle comunicazioni) per l’installazione di impianti con tecnologia Umts
con potenza uguale o inferiore a 20 Watt, non è una vera e propria denuncia inizio
attività, ma è un provvedimento tacito di accoglimento (silenzio-assenso); pertanto,
in base all’art. 20, l. 7 agosto 1990 n. 241, la p.a. conserva la possibilità di annullare
l’atto di assenso illegittimamente formatosi, salvo che, ove possibile, l’interessato
non provveda ad eliminare i vizi riscontrati.
TAR Sicilia Palermo – Sez. III – sentenza n. 738/05 – Presidente Monteleone –
Estensore Sinacia
Edilizia - Denuncia di inizio attività - Natura
In materia edilizia, la denuncia di inizio di attività non ha valore di provvedimento amministrativo, né lo acquista in virtù del decorso del termine previsto per
l’attività di riscontro della p.a., con la conseguenza che detta attività non è di secondo
grado, non intervenendo su di una precedente attività provvedimentale.
190
GIURISPRUDENZA
TAR Veneto – Sez. II – sentenza n. 2354/05 – Presidente Stevanato – Estensore
Farina
Denuncia di inizio attività - Silenzio P.A. - Natura - Conseguenze - Rimedi
In caso di silenzio dell’amministrazione a fronte di una denuncia di inizio attività
non sussiste un’inerzia illegittima da perseguire nelle forme di cui al modello processuale di cui all’art. 21 bis, bensì un titolo edilizio formatosi per effetto della denuncia
presentata dal privato e consolidatosi con il decorso del termine assegnato all’amministrazione per inibire l’intervento; avverso il titolo così formatosi potranno essere
attivati i poteri sanzionatori o di autotutela da parte dell’amministrazione oppure i
rimedi giudiziali da parte dei soggetti che si intendono lesi dallo stesso ma non sarà
possibile fare ricorso al modello processuale introdotto con l’art. 21 bis, in quanto
detto rimedio non può essere utilizzato al fine di una pronuncia sulla fondatezza della pretesa sostanziale.
TAR Veneto – Sez. II – sentenza n. 3418/05 – Presidente Trivellato – Relatore
Rocco
Denuncia di inizio attività - Natura giuridica - Individuazione - Preavviso di rigetto ex art. 10-bis della L. 7 agosto 1990 n. 241 - Non occorre
Il procedimento della denuncia di inizio di attività ex artt. 22 e 23 del T.U. approvato con D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, si sostanzia nella formazione di un titolo
ex lege. Ciò, tuttavia, non necessita d’essere preceduto dalla comunicazione di cui all’art. 10-bis della L. 241/90 in quanto l’elencazione di esclusione di applicabilità del
suddetto articolo, prevista all’ultimo comma del medesimo, non ha natura tassativa.
Si deve pertanto ritenere ricompreso tra i casi di esclusione espressamente elencati,
anche l’istituto della denuncia di inizio di attività, disciplinato dagli artt. 22 e 23 del
D.P.R. 380/2001, il quale evidenzia profili di incompatibilità con le nuove norme di
ordine generale dettate in tema di «comunicazione (preventiva) dei motivi ostativi
all’accoglimento dell’istanza».
Consiglio di Stato – Sez. V – sentenza n. 308/04 – Presidente Quaranta – Estensore Buonvino
Denuncia di inizio attività disciplinata dal T.U. edilizia - Coincidenza de termini
RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE IN MATERIA DI DENUNCIA DI INIZIO ATTIVITÀ
191
per l’inizio dell’attività e per l’adozione dei provvedimenti inibitori da parte del
Comune
Il T.U. per l’edilizia ha, espressamente collocato allo scadere del trentesimo giorno dalla notificazione della D.I.A. il termine dopo il quale l’interessato può iniziare i
lavori e il termine ultimo entro il quale la P.A. può inibire l’inizio delle opere.
Consiglio di Stato – Sez. IV – sentenza n. 3498/05 – Presidente Riccio – Relatore
Cacace
Edilizia e urbanistica - D.I.A - Natura
Ai sensi dell’art. 2, comma 60, della Legge 23 dicembre 1996, n. 662, e successive
modificazioni, (sostituendo il testo dell’art. 4 del Decreto Legge 5 ottobre 1993, n.
398, convertito nella Legge 4 dicembre 1993, n. 493) è stato introdotta nel nostro ordinamento la facoltà di eseguire taluni specifici interventi edilizi previa mera Inizio
di Attività, ai sensi e per gli effetti dell’art. 19 della Legge 7 agosto 1990, n. 241 (nel
testo sostituito dall’art. 2 della Legge 24 dicembre 1993, n. 537): in tali casi il privato
intraprende l’attività senza alcuna autorizzazione ma a proprio rischio e pericolo con
il solo obbligo di informazione.
Consiglio di Stato – Sez. IV – sentenza n. 3916/05 – Presidente Salvatore – Estensore Patroni Griffi
Denuncia di inizio attività - Disciplina - Natura giuridica - Individuazione - Contestazione da parte dei terzi - Modalità - Dopo il decorso del termine - Impugnativa del silenzio-rifiuto sull’istanza volta a sollecitare il potere repressivo della
P.A. - Ammissibilità - In difetto di apposito atto di diffida - Inammissibilità.
Per l’istituto della Denuncia di Inizio Attività – con riferimento particolare alla
materia edilizia e alla normativa vigente anteriormente alle modifiche legislative di
cui all’art. 3 d.l. 35/2005, conv. in legge 80/2005 – è necessario distinguere tra due
distinti rapporti: quello tra denunciante e amministrazione e quello che riguarda i
controinteressati all’intervento. Nei rapporti tra denunciante e p.a., la Dia si pone come atto di parte, che, pur in assenza di un quadro normativo di vera e propria liberalizzazione dell’attività, consente al privato di intraprendere un’attività in correlazione all’inutile decorso di un termine, cui è legato, a pena di decadenza, il potere del-
192
GIURISPRUDENZA
l’Amministrazione di inibire l’attività. Colui che si oppone all’intervento autorizzato
tramite Dia, una volta decorso il termine senza l’esercizio del potere inibitorio, e nella persistenza del generale potere repressivo degli abusi edilizi, è legittimato a chiedere al Comune di porre in essere i provvedimenti sanzionatori previsti, facendo ricorso, in caso di inerzia, alla procedura del silenzio-rifiuto, che pertanto non avrà, né potrebbe avere, come riferimento il potere inibitorio dell’Amministrazione – essendo
decorso, a tacer d’altro, il relativo termine, con la conseguenza che il giudice non potrà costringere l’Amministrazione a esercitare un potere da cui è decaduta – bensì il
generale potere sanzionatorio.
Consiglio di Stato – Sez. VI – sentenza n. 5052/05 – Presidente Schinaia – Estensore Margotti
Denuncia inizio attività - Termine esercizio potere inibitorio - Insussistenza obbligo di cui all’art. 7 l. 241/90
Qualora sia stata presentata la denuncia di inizio dell’attività, disciplinata dall’art. 19 l. n. 241 del 1990, entro i successivi sessanta giorni l’amministrazione può
disporre «il divieto di prosecuzione dell’attività e la rimozione dei suoi effetti»; tali
statuizioni non vanno precedute dall’avviso di avvio del procedimento, poiché costituiscono le misure urgenti che, per impedire lo svolgimento dell’attività non consentita, conseguono alla comunicazione dell’interessato e chiudono il procedimento.
Carlotta Baldin