Nuove frontiere riproduttive - Società Psicoanalitica Italiana

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Nuove frontiere riproduttive - Società Psicoanalitica Italiana
Nuove frontiere riproduttive:
coscienza sociale ed esperienza individuale
MATILDE VIGNERI
Le nuove frontiere procreative in un mondo che cambia
Argomento precipuo di questo scritto è la procreazione medicalmente assistita, le sue
molteplici influenze sulle trame sociali, sul vissuto esistenziale e sulle strutture psichiche.
Esordita alla fine degli anni ‘70, la scienza procreativa si è notevolmente affinata ed ha
talmente esteso i propri confini da arrivare ad essere oggi, a partire dall’ormai lontano assetto
pionieristico, fulcro di sofisticate linee di ricerca sull’origine stessa della vita, sul suo mistero e sul
suo prolungamento.
Le nuove biotecnologie, estese ad aree impensabili rispetto ai primi intendimenti, hanno
concorso a cambiare il profilo della fisiologia riproduttiva giungendo a livelli di ricerca e
metodologici tali da garantire sempre più ampi campi di applicazione con sempre maggiori
possibilità di successo; tuttavia, nonostante il livello scientifico raggiunto, poco o nulla si è potuto
fare per alleviare nelle singole pazienti il livello di sofferenza e il prezzo emotivo da pagare sia nei
casi di fallimento, sia anche per coloro che giungono con successo alla gestazione (Vigneri, 2010);
niente può difendere le donne dal peso dell’invasione corporea, ormonale e strumentale, delle
metodiche, dalla mortificazione della sessualità, dall’attesa penosa del responso mensile.
Paradossalmente proprio la crescita dei nuovi ritrovati medici potenzia il senso di solitudine del
singolo individuo lasciato indifeso di fronte all’inevitabile patimento, alla delusione ed alla violenza
fisica che le tecniche comportano. E nulla è altresì risparmiato alle coppie infertili: la sofferenza
sociale, il pudore ferito, l’isolamento, il senso di rabbia e di ingiustizia. Inoltre, nel corso di questi
ultimi anni, le caratteristiche delle coppie che fanno richiesta del presidio medico si sono molto
modificate per la concomitanza di nuove sofferenze, di «nuove» patologie da fronteggiare in
concorso all’infertilità. Abitudini e stili di vita propri del nostro tempo rendono viepiù problematico
il percorso medico, e complicano la relazione con gli specialisti (Cittadini, 2010). All’età sempre
più avanzata della decisione di avere figli, causa prima dell’attuale incremento del tasso di infertilità,
si aggiungono l’obesità e le altre patologie del comportamento alimentare ormai a carattere
pandemico, e le dipendenze, come da fumo e da alcool, che molto interferiscono sul buon esito
delle tecniche; elementi tutti coinvolti nell’incremento dell’impossibilità a generare. L’infertilità,
divenuta oggi un dato statistico che sembra innalzarsi parallelamente al progredire delle nuove
tecnologie, ha origini complesse e multideterminate: dai dissesti eco-sistemici, dall’attuale disastro
economico, dalla deflessione delle possibilità lavorative, da una generica immaturità e condizione
di dipendenza del mondo giovanile, e soprattutto da un mutare del mondo femminile; al ritardo
generativo sempre più prossimo ai limiti biologici fa da specchio sul piano psicologico l’emergenza
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di un intimo rifiuto della maternità e l’evanescenza, forse la scomparsa, della rappresentazione
psichica stessa dalla gravidanza e del «bambino immaginario», sì che molto spesso la richiesta
medica risulta essere una sorta di «formazione reattiva» ad una intima paura (Freud, 1915).
Parallelamente a quanto relativo alla ricerca scientifica ove la messa a punto delle tecniche
procreative ha fatto seguito alla diffusione delle metodiche anticoncezionali, la richiesta del presidio
medico da parte delle donne è sottesa da molteplici istanze inconsce antigenerative, sostenute da un
intimo diniego onnipotente di ciò che è profondamente temuto. Ipotesi precipua del lavoro è che
nella condizione di infertilità e nella determinazione ad affidarsi alle pratiche mediche si mettano in
opera, amplificati e potenziati, i fantasmi dell’angoscia della maternità e di un inconscio rifiuto di
gravidanza e del bambino stesso.
Si ipotizza che proprio questo intimo rifiuto, sostenuto attualmente da più esterne difficoltà
sociali economiche-lavorative, dilaghi oggi fino a influire profondamente sull’imponente dato
demografico dell’empasse fisiologico. Inoltre la resistenza, o la difficoltà a generare, non solo
assume il potere di condizionare la sempre più elevata richiesta di accesso alle metodiche sanitarie,
ma anche di direzionare alcuni ambiti della ricerca stessa.
Assimilazione nell’immaginario sociale
Al travaglio individuale e di coppia, che attende inesorabilmente chi si sottopone a tali
tecnologie (Flamigni, 2008, 394 e sgg.), corrisponde una particolare permeazione nel pensiero
collettivo. Facilitata dal vettore mediatico che da alcuni anni fornisce dati e particolari
sull’argomento, la popolazione ha ormai assorbito quanto relativo alla fecondazione assistita con un
processo elaborativo simile a quello di tutte le grandi innovazioni scientifiche, nelle tipiche tappe di
scalpore, perplessità etiche, opposizione al cambiamento, fino all’acquisizione, ed all’assimilazione
nell’immaginario, di dati, di concezioni e di uno scibile che si costituisce a sua volta come
promotore di ulteriori trasformazioni sociali: una sorta di conoscenza diffusa e persino
particolareggiata, ma al contempo scarsamente elaborata e pochissimo compresa nelle sue
implicazioni più profonde, in grado tuttavia di condizionare il corso delle ricerche. Questo vale sia
per la collettività, e per la «costruzione e formulazione di opinioni» nella mente di tutti, sia per le
stesse competenze scientifiche e persino bioetiche, incapaci di prevedere a fondo gli esiti scientifici
e sociali del loro impetuoso procedere. «Siamo precipitati nel futuro» affermarono i componenti del
Comitato Nazionale per l’Etica nel 1986 in Francia «senza averlo ancora intravisto», e Ettore
Cittadini, pioniere della procreazione assistita, nel suo ultimo libro sulla storia della fecondazione in
vitro in Italia (in via di pubblicazione) scrive: «La Scienza è arrivata in un luogo dove il gioco del
sapere diviene capace di modificare, in maniera decisa ed irreversibile, non solo l’individuo, ma
anche la Società, e anche la specie, avendo di gran lunga la scienza e le tecniche fecondative
superato per cosi dire i limiti dei loro stessi scopi». Ciò che intendo sottolineare, come cercherò di
esplicitare meglio più avanti, è il modo in cui la stessa impregnazione nella coscienza collettiva
operi dirigendo il progetto scientifico; potremmo dire, in tal senso, che la scienza si trova
impregnata nella ricerca di soluzioni a problemi in qualche modo derivati dal suo stesso incedere.
L’insieme di ideologie e di rappresentazioni che sottendono norme e valori condivisi
nell’immaginario dai membri di una collettività (insieme cui diamo il nome di coscienza sociale),
una volta costituito in istituzioni regolate da sanzioni, ha in se il potere di strutturare e regolare
l’interazione e il comportamento degli individui, strutturando la realtà (Conrotto, 2011). Tutto
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questo vale in particolar modo per quanto inerente al concepimento, alle funzioni riproduttive, ed
alla gravidanza, se li intendiamo come fondamenti filogenetici ed ontologici della struttura stessa
del sociale. In senso psicoanalitico potremmo anche considerarne quegli aspetti strettamente
connessi al processo di civilizzazione e quindi alle costrizioni dell’area sessuale.
Psicopatologia del concepimento umano ed identità concezionale traumatica
In un suo recente scritto, capitolo di un interessante libro a cura di Carlo Bellieni, il filosofo
Benoit Bayle (Bayle, 2011, 19 e segg.) afferma che la medicina, che lui, coniando «un neologismo
che racchiude tutte le pratiche inerenti alla procreazione o al suo impedimento, in cui l’elemento
scientifico e tecnologico è preponderante» (in nota nell’articolo N.d.C.), definisce procreatica,
occupa oggi una posizione fondamentale nella nostra società. «L’elemento procreatico» scrive
l’autore «è profondamente ancorato alle nostre mentalità, anzi mi azzarderei a sostenere che è in
grado di strutturare alcuni dei nostri modi di pensare. Per questo motivo, definisco la società
postmoderna una società procreatica. Oggi la società non può fare a menodell’aspetto procreativo».
Il filosofo guarda all’argomento con un’ottica allarmistica. «Questo approccio medicalizzato della
procreazione umana che in tutta evidenza deve tener conto di un certo numero di realtà difficili e
dolorose», scrive infatti, «tenta di rispondere ad un progetto utopistico che si espone a molteplici
delusioni e cela una vera e propria violenza sociale». L’autore conia, a proposito della procreazione
medica, il concetto di «identità concezionale traumatica», di portata emotiva in qualche modo
sovrapponibile a nascite conseguenti ad eventi estremi, citando persino lo stupro e l’incesto. Per
quanto il filosofo, e psichiatra, giunga a considerare quanto riguardi la fecondazione assistita una
vera e propria «rivoluzione scientifica», nelle ultime pagine del suo lavoro si trovano considerazioni
che a me paiono credibili ed eticamente rimarchevoli. «L’intero assetto genitoriale è compromesso.
Il bambino della società procreatica, nel modo in cui è voluto, risulta sottomesso ad un esorbitante
potere dei genitori, che decidono forzatamente della sua vita o, nel caso delle pratiche
contraccettive e dell’aborto legalizzato, della sua morte nel corso del periodo prenatale. È
impensabile che tutto questo non abbia influsso sul rapporto genitori-figli» e, nel riferirsi al contesto
sociale, aggiunge: «Le perdite prenatali della società procreatica, inoltre, non si riducono soltanto
agli embrioni morti. Si insinuano nella biografia dei viventi, creando difficoltà psicologiche che non
si è ancora in grado di valutare pienamente, e per cui ho proposto il modello della sopravvivenza».
Prendere coscienza della posta in gioco, è oggi la cosa più urgente.
Bayle si occupa a grande raggio delle sofferenze e delle problematiche che le pratiche di
fecondazione medica comportano al punto da postulare l’insorgenza di una specifica
«psicopatologia del concepimento umano». Concetto interessante dal punto di vista psicoanalitico,
tenuto conto delle difficoltà riscontrate nelle molte analisi con donne in fecondazione assistita, sia
con esperienze fallimentari dopo anni di dolorosi e spersonalizzanti tentativi medici, sia in
situazioni di rapidi successi a volte perturbanti proprio perché precocissimi prima ancora che sia
stato possibile ricondurre l’intento affidato alla tecnologia al ritrovamento di un autentico desiderio.
In ognuna di queste donne è stato possibile riconoscere, nel corso del lavoro, l’emergenza di
elementi analitici che potrei considerare come «invarianti psichiche» attinenti all’esperienza medica
ed alla condizione di infertilità. Difficile individuare, nelle emergenze inconsce emotive ed oniriche,
quanto espressione di relazioni primarie originariamente disarmoniche e patogene e quanto riflesso
traumatico dell’invasività psichica e corporea delle tecniche stesse. Le pratiche mediche sono
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emotivamente vissute come violente e distruttive, tanto da detenere il potere di richiamare,
evidenziare e potenziare in retrospettiva istanze inconsce fortemente patogene. L’ipotesi di una
psicopatologia del concepimento permette di formulare una sorta di specificità psichica di vissuti e
dinamiche proprie dell’avere sottostato all’infertilità con tutte le componenti ad essa connesse, ed
alle valenze francamente sado-masochistiche implicite nell’accettazione dei modi e dei tempi delle
procedure mediche.
Alcune notazioni psicoanalitiche
Considero come invariante psichica specifica delle donne in procreazione medica assistita un
«segreto diniego di maternità», espressione di una ambivalenza insita nell’animo femminile ma che
primariamente o di conseguenza nella condizione di infertilità, è potenziato ed evidenziato
esponenzialmente dal peso emotivo, corporale ed ormonale delle tecniche.
Della portata dell’ambiguità del binomio desiderio-rigetto nei confronti della gravidanza ho
sovente conferma nel mio lavoro di consulente presso la Fondazione per gli Studi sulla
Riproduzione Umana di Palermo.
Esemplificazione ne è il racconto di una giovane professionista, avvocato di diritto di famiglia,
che mi chiede aiuto perché alle prese con una dolorosa istanza di separazione, le cui ragioni
rientrano nelle mie argomentazioni.
Alcuni anni addietro una sua cliente, sposata da un anno, risultò infertile. Affidatasi ai medici,
si susseguirono molteplici tentativi procreativi fallimentari presso diverse unità specialistiche; nel
rivolgersi ad ogni successiva equipe, tutto ricominciava da capo, forzature ormonali, impianto,
fecondazioni intracitoplasmatiche etc…, fino a che non le fu suggerita la Cleveland Clinic in Ohio,
USA, dove il successo fu ottenuto al primo tentativo. Anzi, le condizioni organiche e la risposta alle
tecniche apparivano talmente ottimali che alla notizia del buon avvio della gestazione i medici
aggiunsero l’esortazione ad un progetto a breve scadenza di una seconda gravidanza. «Ma la
signora non resse a tale “doppia splendida notizia”», mi racconta la legale. «Dopo otto anni di cure
procreative in cui era riuscita a preservare un equilibrio personale e di coppia conquistato nel dolore
e nella precarietà, con una relazione affettiva pervasa di dolore e di compromessi a garanzia
dell’insuccesso, e dopo ogni sforzo per mantenere un falso reciproco sostegno di coppia, a
copertura e protezione dello spegnersi del desiderio e dell’instaurarsi di un mal celato risentimento,
la donna», continua il legale, «sta malissimo, tanto da non potere accudire per lungo tempo la
bambina nata nel frattempo, che resterà comunque “unica”, e da dovere iniziare una terapia che
tuttavia non è valsa a salvare il matrimonio».
Molto vi sarebbe da riflettere su una bambina nata in un siffatto contesto. E sul destino futuro
dei bambini «in-sperati» molto si è scritto, sia pure con alterne e controverse opinioni. Alcuni
estremizzano il timore di una «strumentalizzazione» del bambino concepito in forza di tali gravosi
sforzi, affermando che questi possa avere un destino in qualche modo sovrapponibile ai cosiddetti
«bambini sostitutivi», generati, ad esempio, in surrogato di un figlio morto. In effetti, un bambino
partorito dopo numerosi e defatiganti tentativi fallimentari e spesso abortivi subentra sempre ad
esperienze luttuose di terribile portata. La questione viene affrontata ad ampio raggio dagli studiosi
di Bioetica nell’ipotesi, ormai constatata catamnesticamente, di una possibile distorsione
dell’investimento affettivo materno (e paterno) disarmonicamente espanso, sottratto (come per la
signora di cui ho scritto sopra) o generato dall’idea di una straordinarietà eroica del piccolo nato
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sopravvissuto a innumerevoli prove, con conseguente senso di onnipotenza, intolleranza alla
frustrazione, incremento di accadimento iperansioso etc…
Al di là della grande complessità e della portata dei problemi insiti nell’«universo
procreatico», per citare ancora Bayle, in questo contesto vorrei sottolineare gli elementi legati alla
ambivalenza ed all’angoscia di gravidanza fino al rigetto vero e proprio (così frequenti e operanti
nelle «nuove figure identitarie femminili») (Vigneri, 2009), elementi comunque presenti
nell’inconscio di ogni donna ma che assumono particolare potere e visibilità nella condizione di
infertilità e che vengono potenziati dall’invasività e dalla violazione fisica e psichica delle pratiche
mediche. Si viene a costituire cioè un tipo particolare di rinforzo, pari a quello che Freud definiva
relativo all’istaurarsi di una «serie complementare» (Freud, 1915-17, 504).
Credo che si possano considerare molteplici corollari di valenze psichiche legate all’infertilità
ed alla esperienza tecnologica: potrei citare fra tutti una relazione con una madre interna disastrata e
disastrante, o ancora il rifiuto e la mortificazione del sessuale, ma vorrei soffermarmi in particolare
sulla possibilità, esperita in tutte le pazienti infertili seguite in analisi, di delineare alcune
prevalenze o tipologie figurative rappresentazionali ed oniriche, segnalando alcune differenze che
ritengo tipo-specifiche tra donne con esperienze lunghe e fallimentari e quelle esitanti in gravidanza.
Nelle donne con alle spalle lunghi anni di pratiche mediche fallimentari le rappresentazioni
disarmoniche, causa o conseguenze che siano, appaiono sovente nei sogni sotto forma di espressioni
figurative di un orribile «bambino-mostro tecnologico», quasi mai visibile in sé ma frammentato e
parzializzato ed albergante in un corpo di donna parimenti a pezzi. In queste donne,
presumibilmente sotto la spinta di una condizione regressiva complessa e, per così dire fagocitante,
i sogni sono molto spesso «pregni» di qualcosa di simile ad un oggetto-parte, spesso dislocato in
zone esse stesse parziali arcaiche, bocca, ano, a volte confuse tra loro, de-erotizzate e preda
dell’azione torturante di simulacri medici. Aghi, siringhe, ferree scale risalenti la cavità orale alla
ricerca di piccoli denti bianchi, ovuli di pietra, ma anche arti di ferro, oggetti di plastica, pervadono
la scena onirica: quasi mai materiale organico riconoscibile, tranne fiumi di sangue, sangue nero,
abortifero, mestruale. Sembra si metta in opera nei sogni, in queste donne, un intenso sviluppo di
processi di frammentazione dove l’«odio parziale d’oggetto», parafrasando Abraham, è
rappresentativo di una molteplicità di distruzioni, e in cui ogni frammento allude ad un diverso
persecutore (interno-esterno). Questi popolano una scena interna sempre teatro di aggressività e di
ostilità che si riversa e si riproduce in analisi in relazioni transferali torve e cupamente sottomesse
(ho altrove parlato dei complessi transfert multipli in pazienti sottoposte a PMA), che ripercorrono
il cammino scisso (un tentativo dopo l’altro, senza requie) e cruento dell’esperienza medica. La
figura materna è sempre, analiticamente, una alterità in-identificabile, devastata, cannibalica,
fagocitante, temuta ed odiata.
Ciò che mi preme sottolineare in questo contesto è come anche nei sogni di donne che
giungono alla gravidanza in tempi brevi vengono messi in scena raffigurazioni che posso
considerare espressione di un intimo travaglio e di un attacco alla gravidanza ed alla sessualità, per
di più nella contraddittoria condizione di una gestazione in atto. Vi è però una differenza del
linguaggio onirico delle due categorie di donne, essendo relativo il primo ad una distruzione già
operante ed esecutiva, presumibilmente in una sorta di area psicotica della mente frammentata e
scissa. Nelle pazienti infertili giunte più o meno rapidamente alla gestazione indotta medicalmente
mi è sembrato particolarmente interessante osservare come il bambino dei sogni, non ancora del
tutto pensabile e rappresentabile, e tuttavia esistente, fosse raffigurato (con una frequenza
sorprendente) con tratti zoomorfici, struggenti e suggestivi, in una sorta di simbologia non
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antropomorfica della maternità. Riporto il primo sogno in gravidanza di una di loro: una donna dai
tratti anoressoidi dotata di tutto il corollario fusionale ambivalente materno; un sogno tenero e
terribile al contempo: «Sognavo», dice la giovane sposa infertile sconvolta intimamente da un
precocissimo successo medico al primo tentativo a cui non è ancora pronta, «di partorire».
«Partorivo il mio cucciolo. Lo partorivo direttamente dalla pelle», aggiunge, indicando con le mani
le spalle. Al di là delle molte implicazioni analitiche (cui penso quel «di spalle» si riferisse) è la
incalzante ripetizione della parola partorire, quasi a tentare di prendere confidenza con la
«concezione» di tale evenienza, che mi colpisce, unitamente alla peculiare assenza degli organi
gestazionali, utero, vagina, e la comparsa del bambino ancora prigioniero in un piccolo animale. Ho
già diffusamente parlato di questa paziente e delle straordinarie trasformazioni (Vigneri, 2010), nel
procedere del lavoro analitico e della gravidanza, del linguaggio onirico che diviene nel tempo
esaustivo e saggio. Ad analisi avanzata, la paziente mise mirabilmente in scena, in un sogno
all’ottavo mese di gravidanza, i personaggi coinvolti: tre ovuli (il bambino nato senza amore, il
bambino morto e il bambino vero) e tre donne (che come tre parche si contendono il diritto di
volere e di rifiutare). Un’altra rappresentazione zoomorfica di gravidanza è quella di una paziente
anch’essa restata incinta ai primi tentativi medici, dopo il fatidico anno d’attesa per la diagnosi di
infertilità, che sogna per la prima volta la propria gravidanza. Sogna se stessa sdraiata nel letto,
leggermente di fianco, il capo chino, come una dolente Madonna, il braccio curvo lungo il fianco a
cingere… un topo. Un grosso ratto nero. Si avvicina qualcuno, lei dice sottovoce «sch… non lo
svegliate. Ma poi, il topo sparisce». Il sogno termina quindi nell’incertezza di una trasformazione, e
di una tetra e terrificante Maternità Sacra consegnata ad un surrealismo alla Dalì o ad un torbido
Magritte. Un bambino quindi, ma rappresentato come bestia repellente, l’unico modo di potere
raffigurare la maternità; un oggetto morbosamente fallico-anale, forse la rappresentazione di una
vagina, «la topa», tanto idealizzata quanto negata e perduta. Forse un attacco alla sessualità: il topo
poi sparisce. O forse è proprio questo il desiderio del sogno: la scomparsa della gestazione, il
desiderio di «non avere» un bambino. In un sogno di un’altra paziente in fecondazione assistita (di
cui ho ampiamente scritto), al quarto mese di gravidanza quando è finalmente sfatato il rischio di un
ulteriore aborto, il feto era un grande ragno nero che si nutriva di lei dentro la sua pancia (una
«vagina-pene» materna che la divora dall’interno). E come non ricordare la prima paziente, quando
ancora il tema era misconosciuto ed io dovetti andare a consultare i ginecologi per comprendere
cosa significassero quei dieci anni sprecati a insistere in pratiche tanto cruente quanto inconcludenti,
in un crescendo di odio verso tutti, i medici, il marito, i familiari, l’analista cui nulla fu risparmiato,
e soprattutto il bambino mai nato. Al termine di una lunga analisi, in cui nei primi anni di lavoro la
decennale esperienza medica per altro fallimentare era apparsa sotto forma di orribili reperti
frammentati e scissi, in uno degli ultimi sogni, un sogno di fine analisi a lavoro prossimo al termine,
può infine comparire la madre e forse, con essa, il proprio stesso corpo. Vi è una nave. Una nave
con la tolda di legno innaffiata da un gigantesco tubo saettante, e una micina di cui lei sentiva i
sempre più fievoli miagolii, nascosta nel fondo della nave. Lei sapeva che non avrebbe mai visto la
micina e che questa sarebbe, infine, morta affogata. Sembrava cioè che la scena interna si fosse
ricomposta, persino nell’accettazione dell’esperienza medica, senza però ritrovare
un’armonizzazione: c’è una madre (la nave) e il fallo (ingigantito e saettante), commisti agli
strumenti medici di ferro e di gomma; un fallo forse materno e la bambina – pur sempre ancora una
micetta – perduta per sempre, affogata, morta, che non emette che un ultimo e tenue richiamo, un
inutile gemito. Né destino migliore ha, recentemente, il bambino, in uno dei rari sogni in cui appare
nella sua forma umana, in una donna in fecondazione assistita fallimentare ed in analisi avanzata:
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«Ero con un neonato, il mio bambino, dentro un supermercato: lo mettevo in un angolo ad
attendere mentre andavo a comprare delle cose. Al mio ritorno scoprivo che l’avevano affogato nel
water del gabinetto del supermercato. Piangevo disperatamente, volevo suicidarmi. Poi ho
pensato: facciamone un altro» (che è poi la frase della più nota Madre Assassina del nostro secolo).
Mentre io riflettevo sul sogno, ed in particolare, su quel gabinetto collegandolo ai gabinetti medici,
la paziente mi disse: «Quello che mi aveva distratto dal bambino, erano gli scaffali del
supermercato, pieni di alimentari. Cornetti, erano cornetti. File e file di cornetti. Da bambina li
adoravo», riportandomi al suo passato bulimico ed alla sua infanzia irrisolta, ampiamente implicati
nell’infertilità, come sarà messo in luce durante l’analisi. Riferisco infine uno degli ultimi sogni di
una donna al sesto mese di analisi, un sogno che mi ha molto colpito e che mi ha spinto a leggere
una sorta di versione ontologica degli aspetti più dolorosi della procreazione medicalmente assistita
inducendomi a scrivere queste note. È il sogno di una donna infertile, incinta al quarto mese dopo
pochi tentativi; una donna «felicemente» resa incinta, grazie alle tecniche. «Ero in una cucina.
Cucinavo con mia madre, lei mi porge un gattino piccolo morto, forse il mio. Lo dovevo scuoiare,
fare a pezzi, e cucinare. Penso che arriveremo a qualcosa di vivo. Sotto il tavolo c’è un gattino
piccolissimo, ma temo di doverlo ammazzare. Temo che mia madre mi chieda di ucciderlo. Decido
di uscire da quel posto, ma quando sono sulla porta, un piccolo babbuino mi salta addosso, proprio
qui sulla pancia». (Indica il proprio addome, premendovi sopra le mani a palmo aperto).
Tutte queste raffigurazioni di animaletti, solo apparentemente domestici ed amabili, lungi dal
costituirsi come rappresentazioni benefiche ed aurorali di maternità, ne esprimono piuttosto, io
credo, un’aggressività, un ripudio, una impossibilità a sentire il sessuale e gli organi genitali come
parte di sé, viva e vitale. Non solo l’enorme ratto o il grosso ragno nero, forse intrusioni di un
materno vissuto come invasivo e roditore, ma anche gli animaletti, comunque sempre cucinati,
scuoiati, fatti a pezzi.
In analisi è necessaria una disidentificazione da questo bambino indesiderato e da tutte le
bestioline vive-morte e internamente divoranti. È da notare come nell’ultimo sogno che vi ho
trascritto è comunque la madre della paziente, l’assassina. Nel sogno credo sia chiara l’intricata e
mitologica relazione fra l’immagine di madre assassina a capostipite dell’infertilità, e il proprio
desiderio di restare viva con il proprio bambino (anche se l’angoscia lo rende ancora «la scimmia
addosso»).
Comunque, che si accetti o meno l’idea di una sorta di specificità rappresentazionale, sono
sempre vicina a credere che dietro l’infertilità e le sue cure agisca una profonda ambivalenza
femminile colma di diniego (individuale e socioculturale) verso la maternità.
Avevo prima parlato della reciproca induzione a «doppio circolo» fra direzione della ricerca
scientifica, immaginario sociale, e istanze inconsce.
Credo sia possibile affermare che le tecniche mediche si costituiscano come riparazione
preservatrice di una eguale e contraria istanza antigenerativa (basti pensare allo sviluppo del
binomio anticoncezionali-tecniche procreative), inoltre le tecniche potenziano e virulentano
l’angoscia e l’attacco alla maternità, che è per altro a sua volta ingigantito dalle induzioni culturali
(movimento femminista, parificazione dei sessi, «mascolinizzazione del femminile»,
procrastinazione dei tempi generativi). Di conseguenza, il sempre più elevato incremento del tasso
di infertilità ha fatto crescere visibilmente la richiesta di procreazione assistita. Inoltre un ulteriore
andamento a spirale dei fenomeni, la sempre più avanzata ricerca scientifica protesa alla
preservazione della funzione biologica contro la malattia organica e la morte tissutale, viene messa
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oggi al servizio dell’infertilità, potremmo dire in una sorta di complicità proprio con il diniego di
maternità.
Dalle cosiddette nuove frontiere procreative infatti sta sorgendo, ed è proprio la più recente
delle notizie, l’ennesima soluzione all’infertilità che è però anche l’implicita conferma di un diniego
di gravidanza; l’idea, ultima in ordine di tempo, è forse la più indicativa e sorprendente: originatasi
questa volta non dai medici ma proprio da una richiesta delle donne, giovani donne sane, non
malate e non infertili, che hanno pensato bene di trasformare la preservazione in prevenzione. Una
nuova categoria di «pazienti», che nella previsione di un ritardo del progetto generativo hanno
pensato e proposto un nuovo panorama di applicazione delle tecniche di conservazione delle
funzioni riproduttive.
Parlerò quindi delle ultime frontiere procreative tratteggiando infine la via che ha condotto ad
un loro inusitato utilizzo sociale.
Nuove frontiere procreatiche: preservazione della fertilità nelle malattie
oncologiche e ripercussioni sociali
Nel suo ultimo scritto in via di pubblicazione: Nata a Palermo. Storia della fecondazione in
vitro, Ettore Cittadini (2012), fautore della prima nascita assistita a Palermo e scienziato sempre
all’avanguardia sul fronte della scienza procreativa, citando Seneca, afferma: «Breve è la vita che
viviamo veramente; tutto il resto è tempo». E aggiunge: «vi è sempre più una sperequazione fra la
vita secolare di uno scienziato all’opera e la grandiosità vertiginosa e impetuosa della scoperta
scientifica. Ma vi è anche uno scarto che sembra ingigantirsi fra la limitatezza della finestra
temporale della vita dell’esperienza individuale e il tempo della scienza». Gli effetti sociali di tale
scarto sono al fondamento di nuove ideologie e di trasformazioni del pensiero collettivo talmente
straordinari ed in certo senso perturbanti da meritare un apposito discorso. Da alcuni anni la
preservazione della fertilità si è estesa ad aree di patologia organica, originariamente concepita per i
pazienti neoplastici la cui affezione e le terapie di cura chemioterapica avrebbero dovuto prevedere
la fine delle capacità procreative (Cittadini et al., 2010). In un precedente articolo (Vigneri, 2011)
ho ampiamente descritto le modalità mediche dei processi di conservazione tramite congelamento e
vitrificazione del tessuto ovocitario, altrimenti destinato a perire, soffermandomi sulle implicazioni
emotive che il procedimento comporta per le pazienti. Si tratta di comunicare alla persona cui è
stato diagnosticato un tumore della possibilità di conservare la funzione generativa nel momento
stesso della notifica della malattia cancerosa, prospettandone la possibilità di uno specifico
intervento ablativo del tessuto ovocitario o spermatocitico, che verrà preservato con tecniche di
congelamento lento e di vitrificazione; l’ablazione dovrà ovviamente essere eseguita
antecedentemente l’inizio delle cure chemioterapiche e chirurgiche, con l’avvertimento per altro al
paziente della pericolosità potenzialmente insita in tale procedura (la possibilità di diffusione delle
cellule cancerose ad esempio). A guarigione avvenuta, o anche in un ragionevole tempo di latenza e
di remissione, si procederà ad un reinnesto e/o uso fecondativo del tessuto preservato. Ancora una
volta, l’esistenza dei molti bambini che non sarebbero mai nati senza questi nuovi accorgimenti
scientifici restituisce credibilità e speranza a qualsiasi difficoltà e problematiche ne debbano
derivare. Di quanto dolore e difficoltà tuttavia possano comportare nei singoli individui questi
nuovissimi presidi conservativi ho avuto modo di avere contezza da supervisioni con psicologhe
che operano nel campo (di cui ho riferito nel sopracitato recente articolo) e recentemente da una
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esperienza clinica personale. Si tratta della storia di un uomo che ben rivela la portata del
coinvolgimento psichico ed emotivo di tali situazioni. Nella prima parte di una consultazione che
esiterà in un invio analitico, il quarantenne mi parla dei suoi problemi coniugali e sessuali. Nel
prosieguo del dialogo, potrò collegare l’eiaculatio praecox da lui lamentata con un’infanzia ed una
giovinezza incerte e solitarie, poco sostenute da genitori oberati dal dilaniante lutto del primogenito;
lutto che colma il paziente, oltre che di dolore, di senso di colpa in ragione dell’invidia che il
fratellino gli aveva sempre suscitato. Subito dopo il matrimonio, a seguito della diagnosi di cancro a
un testicolo, il giovane uomo affronta interventi chemioterapici e di ablazione chirurgica, per
scoprire, appena dichiarato «guarito», un secondo cancro, all’altro testicolo. Alla ulteriore trafila
medica e chirurgica fa eco, oltre alla paura per la propria stessa vita, la consapevolezza, da sempre
emotivamente paventata, di una incapacità a generare. Né lo conforta la proposta, estremamente
cauta da parte dei medici, di provare una nuovissima metodologia (tutto questo accadeva alcuni
anni addietro), con un consenso di cui il giovane, alle prese con il secondo intervento vissuto come
feroce condanna, in verità poco aveva capito. «Vede, dott.ssa, avevano conservato un pezzetto dei
miei organi malati. Un brustolino», mi dice strisciando l’indice e il pollice della mano destra, ad
indicare pochezza e polvere ad un tempo. «E così è nata la bambina, bellissima, identica a mia
moglie; e allora, come dire di no quando mi hanno proposto di tentare una seconda volta. Ne è
rimasta ancora una briciola, tentiamo, mi dissero. Ed è nata l’altra femminuccia. Ora ho due figlie,
come i miei due cancri. Le figlie del miracolo. Ma è questo il problema, mi sento sdoppiato, una
parte di me è come fosse già morta e tutto questo non mi appartenesse. Morta la mia virilità, il
desiderio, il senso di me, esistono solo loro: i due miracoli».
Prima di continuare a parlare dell’argomento, proprio sulla scia dell’emozione che la clinica
sempre suscita, vorrei premettere alcune considerazioni. Direi che l’elemento che più mi ha colpito,
in questi quindici anni dedicati alle questioni inerenti la procreazione medica, è la profonda
trasformazione del mio vissuto emotivo e del mio pensiero psicoanalitico nei confronti di una
scienza da cui non posso fare a meno di farmi affascinare, riconoscendovi, in un panorama culturale
sempre più desertico di idee e di speranza, la persistenza di uno spirito colmo di passione,
intraprendenza, movimento esplorativo; devo tuttavia constatare continuamente nel mio lavoro
quanto l’incalzante passo scientifico non sia in grado di preservare i singoli individui da pressioni
psichiche a volte strazianti e quanto le persone possano essere lasciate in balia della loro capacità di
tolleranza e di tenuta. Tanto innovativo è lo strumento tecnico, tanto elevata è la prova e la
sofferenza da affrontare, tanto potente il coinvolgimento inconscio. Ritengo tuttavia che questo sia
ineludibile così come inarrestabile è il cammino scientifico; se nei primi anni di esperienza di
procreazione medicalmente assistita era legittimo interrogarsi sull’opportunità dei «tentativi ad ogni
costo» e dell’ostinazione a volte decennale che avevo registrato nelle prime pazienti, tanto da
ispirare gli scritti e le considerazioni analitiche di due articoli (Vigneri, 1999, 2003), man mano che
la fecondazione assistita si andava espandendo così massicciamente in ragione dell’incremento del
tasso di infertilità, e con l’estendersi dei presidi medici alla preservazione ed alla prevenzione della
fertilità, non mi è restato, nell’accettare queste nuove evenienze come espressione conclamata della
nostra era, che affrontarne nel mio lavoro le implicazioni psichiche più profonde. Sempre più
frequentemente nella stanza d’analisi verifico quanto ne venga enormemente coinvolta la
responsabilità analitica del farsi adeguatamente carico di quanto dovrà essere affrontato, senza per
altro il conforto di precedenti competenze che saranno acquisite faticosamente in campo. Tutto
quanto attiene all’infertilità e alla sua cura ha sempre a che fare con l’angoscia di morte e di
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castrazione. Nella mente di donne in fecondazione assistita, vita e morte sono connesse da terrifici
fantasmi, esitanti da istanze aggressive intrapsichiche e/o proiettive, enormemente potenziate. Il
successo medico non sempre ha esiti salvifici, forzando la cura «il segreto diniego» insito molto
spesso nell’infertilità. Nel caso della procreazione assistita, le rappresentazioni psichiche della
nascita, della gestazione e del bambino risultano sempre compromesse e non raramente, come ho
cercato di descrivere, esse irrompono distruttivamente proprio al momento del successo.
Riprendendo il discorso sulle nuove frontiere procreative, giungo quindi all’ultimo capitolo,
l’innovazione dell’ultima ora.
«Social freezing»
Dall’area del rifiuto di gravidanza sta prendendo ultimamente campo un fenomeno sociale che,
investendo un presumibile futuro prossimo, coniuga i più recenti ritrovamenti tecnologici ad una
trasformazione socio-culturale di una portata talmente vasta da potersi considerare pandemica; è il
cosiddetto social freezing, tecnologia nuova, che prevede la preservazione ovarica per
congelamento di tessuto sano, in donne giovani e fertili. Si è recentissimamente estesa ad una
modalità sociale di preservazione della fecondità in donne che decidono di sottostare alle tecniche
preventive di fertilità, presumendo un ritardo dei loro progetti generativi per considerazioni di
carriera, instabilità finanziaria, incertezze sentimentali, identità di genere, o, ancora più
genericamente, per l’esistenzialistica motivazione di un preventivo «non si sa mai». Il che lascia
molto da riflettere, tenuto conto che la tecnica prevede tutte le tappe della fecondazione in vitro,
dalla stimolazione ovarica, alla fecondazione intracitoplasmatica, così come al processo di
vitrificazione, ed al flash-congelamento (così come ovviamente le possibili complicanze della
sindrome di iperstimolazione o di processi infettivi di varia intensità, emorragici o meno). A fronte
degli elevati costi economici e medici, la neotecnologia «offre il vantaggio» di una prospettiva
realistica di ritardare la maternità al pari del maschio, ed apre «nuove opportunità per coppie ed
individui».
Realizzata inizialmente per ovviare alla soppressione della fertilità a causa di malattie
cancerose o delle terapie volte ad affrontarle (chemioterapia, radiazioni o chirurgie ablative),
divenne evidente per i ricercatori, dietro specifica richiesta di donne in assenza di infertilità e di
malattie, che la preservazione della fertilità può trovare nuove applicazioni, quali ad esempio a
presidio dell’invecchiamento ovarico precoce o fisiologico, o disturbi autoimmuni o anche come
soluzione all’incidenza di insuccessi di PMA per oociti invecchiati. La tecnica, di cui si comincia
sempre più di frequente a parlare, offre non pochi spunti di riflessione dal punto di vista sociale
oltre che problemi di precipuo carattere medico-scientifico. In un momento in cui le ultime
generazioni sembrano perdere il desiderio di riprodursi e vengono a mancare le condizioni
economiche e lavorative per potere concedersi un progetto generativo, gli individui (uomini e donne,
per il congelamento di sperma e tessuto testicolare, tessuto ovarico ed oociti, ma anche ove
consentito, embrioni) diverrebbero «donatori di se stessi» in un momento successivo della vita,
congelando, letteralmente, l’idea della genitorialità, paterna e materna: una proroga della capacità
generativa biologica che sarebbe rimandata a tempo indeterminato. Diffusasi originariamente in
America, la tendenza, per quel processo di incalzante velocizzazione dei fenomeni proprio della
nostra era informatica, si sta diffondendo rapidamente anche da noi, almeno nella discussione
scientifica. Avvertendone l’oramai noto binomio, intriso di contraddittorietà, in cui il progresso
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scientifico si muove a spirale, nel provocare i fenomeni, per poi trovarne soluzioni che a loro volta
generano nuovi fenomeni, e così via al limite del paradosso, possiamo pensare che al crollo
demografico delle nascite si contrappone una formulazione tecnologica apparentemente atta a
preservare la capacità riproduttiva, di fatto complice dell’infertilità stessa nel rimandare la
procreazione ad un lontano futuro. Ne emergono, inoltre, nuovi fantasmi sociali, quali ad esempio:
l’idea di una procreatività femminile sempre più simile ad una longevità maschile, la scomparsa
almeno ideologica della menopausa, l’abbattimento dei confini biologici ed un nuovo modo di
combattere la vecchiaia in un mondo che invecchia sempre di più. La tecnica di preservazione deve
essere effettuata in età giovanile fra i venti e i trenta anni di età. Non esiste al momento garanzia
che il materiale sia utilizzabile in seguito, o che sarà fecondante portando ad una gravidanza, poiché
nulla ancora si sa del congelamento a lunga scadenza, eppure le percentuali di successo stanno
migliorando con il tempo e con l’uso di tecnologie moderne. Molte donne, interrogate sulla
questione, vedono, nella possibilità di congelare gli ovociti estratti in un tempo e in una condizione
ottimale per la funzione fecondativa che trasborda ampiamente dalla stretta finestra biologica,
un’importante presidio tecnologico ma soprattutto una forma di dovuto risarcimento sociale, come
una stipula assicurativa non solo contro rischi sanitari ma in generale contro gli innumerevoli fattori
di rischio sociale, economico, sentimentale, nonché direi contro gli auto attacchi interni alla propria
dimensione femminile.
Il trattamento del social freezing, anche se ancora progetto futuristico (se pur a breve termine),
rappresenta di fatto un nuovo stile esistenziale che rientra nel capitolo delle nuove identità
concezionali e che si inscrive in panorami sovrapponibili a quelli aperti con la scoperta degli
anticoncezionali. Attiene al concetto del «non essere pronti», in una proroga non solo dell’età
biologica ma dell’insieme dell’interno progetto generativo. Se in un’atmosfera ottimistica Marina
Mengarelli (2011), membro della Consulta di Bioetica Luca Coscioni, nel libro: A che serve la
bioetica? scrive: «Conservare la fertilità è una possibilità in più per avvicinare la vita vissuta alla
vita sognata, pensata, immaginata, progettata: immaginare, progettare il proprio futuro e tentare di
realizzarlo…», da parte mia come non osservare l’inquietante filo rosso che lega il diniego
femminile al suo rimedio?
Il dott. Roberto Palermo, ginecologo della infertilità, intervistato sull’argomento commenta
soprattutto il fenomeno dell’invecchiamento riproduttivo (reproducting aging) in un mondo che
invecchia totalmente. «Le coppie fanno figli», dice Palermo, «in una finestra temporale tardiva e
stretta; questo porta ad un basso tasso di rimpiazzo, la popolazione mondiale cresce perché si
invecchia di più e si nasce meno. La stessa prevenzione primaria di una condizione di infertilità
tempo-correlata è la soluzione di un contesto sociale che la prevede. Il problema riproduttivo e
soprattutto questa nuova idea del social freezing influiscono in molti modi sul cambiamento del
contesto sociale. Cambia ad esempio il valore antropologico della menopausa. Occorre riflettere in
termini previsionali. La riproduzione assistita porta con sé nuovi fenomeni sociali già avvenuti
prima ancora che possano essere pensati nella loro luce collettiva. Si profilano, io credo, nuovi lutti:
il lutto relativo al fantasma dei bambini morti, certamente, nell’esperienza dei tentativi non andati a
termine, ma anche del lutto dell’embrione, cui si tende sempre di più, forse a causa della sua
mancanza e precarietà, a dare identità biologica. Se si pensa l’embrione sempre di più come
soggetto, lo si fantastica come un lutto il cui funerale si compie in utero, ove l’embrione che
esprime la sua incapacità evolutiva muore disintegrandosi.
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Concludo infine con le parole del prof. Cittadini: «L'attuale luogo della scienza, sconosciuto e
per molti aspetti inedito», mi dice lo specialista, «necessita di un esercizio prospettico per potere
essere compreso. Sarà forse la sua collocazione nel tempo storico a conferirgli un valore
antropologico».
SINTESI
L’Autrice si sofferma su quanto relativo alla procreazione medicalmente assistita, al suo affermarsi
come presidio tecnologico sempre più richiesto, alle sue molteplici influenze sul vissuto degli individui, sulla
società, e persino sulla specie. Nello scritto si riflette principalmente sui rapporti fra contesto sociale e le
nuove frontiere procreative, in particolare della preservazione ovocitaria e spermatocitica in pazienti
oncologici, e del nuovissimo fenomeno del Social freezing, consistente nella conservazione preventiva in
donne giovani e sane.
PAROLE CHIAVE: Bioetica, identità concezionale, infertilità, motherhood in ice, preservazione della
fertilità in oncologia, procreazione assistita, psicopatologia del concepimento umano, social freezing.
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