Anna Pelamatti - Libera Università dell`Autobiografia

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Anna Pelamatti - Libera Università dell`Autobiografia
IL CAMMINO DA ANGHIARI a LA VERNA Anna Pelamatti (Anna-­‐Pelix) Ho partecipato al cammino mentre sto scrivendo la mia autobiografia. Dopo i primi tre incontri di Graphein, che mi hanno rimesso in contatto con ingredienti della mia vita affondati nella memoria, ho cercato tra le proposte della LUA un seminario in relazione con le prime e le ultime fasi della mia vita, accomunate dal rapporto costante con la natura. Nella mia prima parte di vita non avevo alternative e mi vien da dire per fortuna! negli ultimi anni mi sono ritrovata, per l’accudimento che richiedeva la mia mamma, a ritornare con continuità alla mia valle e alle mie montagne, dove erano sopravvissuti al tempo e alle lontananze geografiche legami di amicizia importanti, in mia assenza rete di protezione preziosissima anche per la mia mamma. E in questi lunghi e preziosi anni si è così bene integrata l’Anna grande con l’Anna piccola che è stata cercata, trovata e abitata, una casa contadina molto simile alla fattoria dell’infanzia e che Gian Antonio-­‐Giovanni sta ristrutturando in modo conservativo con i ritmi delle stagioni. Piano piano stanno diventando il luogo e il ritmo curativi dei dolori del corpo e dell’anima, non solo suoi ma anche miei, dei famigliari, degli amici. Naturalmente questo luogo di integrazione ha particolarmente arricchito e rinforzato il rapporto con Gian Antonio-­‐Giovanni, per noi lassù Tone. Ma torniamo a me e al cammino per raccontare che ho voluto offrirci, a me e a Giovanni, guida alpina, la possibilità di un cammino nuovo, seppur nella natura, nuovo per contesto, ritmo, ruolo e interiorità. Ho, senza insistenza, approfittato di ogni occasione vissuta nella nostra natura per raccontargli quanto mi avevano arricchito le sollecitazioni e le parole scritte e condivise, anche poche, anche incerte, col mio amato gruppo di Graphein. Per me significava anche la possibilità di scrivere con e sulla natura, degli sguardi, delle emozioni e dei ricordi che questo cammino avrebbe catturato. Figlia di guida alpina e rifugista, cresciuta tra la fattoria dei nonni adagiata su una spalla solatia della montagna e il rifugio in quota, fin da piccola ho camminato sui sentieri che attraversavano, salivano e scendevano boschi e radure, pascoli e ruscelli. Dal tardo autunno fino a primavera camminavo soprattutto sulla neve, con gli sci o le piccole ciaspole ai piedi perchè il rifugio era aperto anche in inverno e io non accettavo di stare a valle durante i fine settimana dopo la scuola. E si camminava per quasi un’ora anche per andare e tornare dalla scuola, in parecchi e di diverse età ci incamminavamo disciplinati e in fila indiana con i piccoli in mezzo, almeno fino a scomparire dietro il dosso che ci nascondeva alla fattoria. Ci facevano uscire in anticipo perché sapevano che ci saremmo persi a inseguire tracce, a controllare le nostre tane sugli alberi o sotto una roccia, a raccogliere bacche e frutta, a dondolarci sulla passerella di legno e 1 corde sopra il fiume. Ricordo lo sguardo all’indietro e verso l’alto, alla fattoria ormai nascosta ma già baciata dal sole, un’ultima chiassosa corsa sopra il fiume, una scrollata allo zainetto, una spolverata alle scarpe e a testa bassa si imboccava la strada in paese. Camminavo con un passo pesante, ma vuoto come la testa. Mi colpiva la trasformazione, perché era come se mi prendesse una stanchezza mai conosciuta, nemmeno nelle lunghissime camminate verso le cime o le corse a perdifiato nei boschi. All’inizio della scuola superiore mi si è aperto il mondo dello sport, delle prime cotte e delle prime consapevolezze sociali e politiche, il cammino si è fermato sui libri, ha preso il passo della curiosità sociale, della voglia di capire cosa c’era oltre la semplicità profonda e complessa del vivere contadino. Ho continuato però a frequentare malga e rifugio estivi, luoghi non più presenti nel mio pensare quotidiano e forse per questo ritrovati ogni volta con emozione e immediata naturalezza. Il giorno che mi incamminavo era un giorno di festa, e i miei occhi tornavano a scoprire i chiaro scuri tra le foglie e la luce così pura delle radure che continuando a salire sarebbero diventate pascoli anticipati dal suono armonioso delle campanelle o campanoni al collo delle capre e delle mucche che poi avrei accarezzato riconoscendole per suono, colore e nome, Rosa, Alpina, Bionda, Bianchina, Stella, Bruna, Luna… Rigustavo con gli occhi, il naso, il palato, i frutti e le bacche selvatiche, le erbe aromatiche; le orecchie ritrovavano la capacità di dare nome ai fruscii delle fughe improvvise all’avvicinarsi dei miei piedi, al suono del vento tra le fronde. Per non dire della felicità e del senso di pienezza fisica e mentale della polenta con il latte, il formaggio e il salame nostrani. Per l’università ho lasciato la valle e le montagne dove per molti anni sono ritornata poco, concentrata sui percorsi di studio e sulle lotte politiche degli anni 70. Avrei perso il contatto concreto con questo mondo, per lunghi anni l’ho messo da parte se non per le parole via telefono di mio padre, che riportavano a galla tutto quanto. Una sua parola, un suo accenno, il nome di un luogo presentificavano sensorialità e stupori. Mai, mai, ho però perso la consapevolezza di appartenere a quel mondo, mai ho dimenticato le mie radici, nonostante sia diventata un’intellettuale prof universitaria. Le ho ricontattate dopo un lungo percorso altrove, affidato alla mia parte più forte, grintosa e combattiva, coraggiosa e lucida che mi aveva sicuramente strutturato quel mondo montanaro, complesso e difficile ma naturale, primitivo e poetico, faticoso e comunque armonioso. Ho scoperto con stupore anche in questo cammino che mi ha offerto la Libera come siano rimaste attente e sensibili le corde di Anna, bambina e adolescente montanara, e come si siano integrate con le sensibilità culturali e professionali di oggi e la razionalità imperante di Pelix, la giovane studente universitaria e leader trainante di lotte femministe e non solo. 2 Durante il cammino mi chiamo appunto Pelix. Se il mio cammino parte da qui, sceglierei la soglia di Palazzo testi come primo passo. Sono uscita, e mentre mi mettevo lo zaino in spalla ho subito sentito che sarebbe stato un cammino senza mappa, ne fisica ne mentale. Rossano, la nostra guida ambientale si era presentato senza dirci e darci nulla, Gilberto ci aveva letto qualche riga dalla “Geografia commossa dell’Italia intera” di cui avevo scritto sul quaderno qualche sostantivo…silenzio, terra, natura, luoghi, ore, e qualche verbo…guardare-­‐percepire, ascoltare-­‐sentire, 2 frasi… allungare la vita, misurare la distanza con la pianta dei piedi. Mi piace questo inizio, la sollecitazione tocca corde sensibili. Scopro alla prima tappa, consigliata da uno scroscio di pioggia dopo poche centinaia di metri, eravamo appena partiti e i metri erano ancora l’unità di misura per la distanza e l’altitudine, che ci saremmo inoltrati nei Monti Rognosi. Mi sono immaginata spigolosità e seccume ma dovrò ricredermi, roccia lavica nero-­‐verde, il serpentino lisciato dal tempo, e alberi piantumati per bene, l’occhio s’infila ancora oggi nelle forme geometriche della forestazione. Mi ricordano gli abeti piantati durante le feste degli alberi, iniziative del ministero dell’istruzione per favorire la riforestazione. Si sono tenute per decenni dopo la guerra e io mi ricordo negli anni sessanta tutte le classi delle elementari in fila, ognuno di noi con un piccolo abete abbracciato dalle piccole mani attente. Si piantavano in ottobre, dopo qualche settimana di scuola, cantando una canzone dedicata all’’utilità degli alberi. Sui Monti Rognosi ho raccolto tre ciotoli molto belli che sono entrati nel mio sguardo che cercava (le parole pronunciate da Gilberto in aula…guardare, percepire, curare lo sguardo) molto neri e molto verdi, un contrasto vivo e liscio; andranno ad aggiungersi ai reperti naturali che raccolgo qua e là, anche nelle passeggiate dietro casa. Mi stupiscono sempre queste sentinelle della memoria, nonostante siano state colte da passaggi spesso veloci del passo e dello sguardo, anche dopo anni connotano ancora un luogo, un gesto, un’emozione. La pioggia non da tregua e per un po’ si continua a camminare senza smarrire l’entusiasmo ma nascosti dalle mantelle e dalle giacche antipioggia che ostacolano l’interazione e la reciproca conoscenza ma che, colorate vivacemente, infondono allegria e fanno gruppo. Rimedieremo appena ci possiamo liberare dai gusci bagnati che a me ricordano le uscite da ragazzina dopo i temporali, con le lampade a zolfo a caccia di lumache; i gusci bagnati riflettevano la luce e noi facevamo a gara a metterle nei contenitori con la segatura per poi venderle nelle cucine delle trattorie, dove ci pagavano e ci regalavano un pezzo di dolce o un bicchiere di aranciata. La pioggia è subito dimenticata grazie ai rami di ciliegio gocciolanti, lucidi e colorati, con i frutti polposi, freschi e dolci. Ci affolliamo e rimescoliamo intorno alle ciliegie, è il primo momento di coralità gioiosa, poi ne seguiranno molti altri. Io ho persino costruito un cammino del ciliegio, mappato dal gusto 3 delle diverse ciliegie, dai duroni neri, tondi e dolci del primo pomeriggio, alle ciliegie più proletarie rosse e fresche, alle marasche di un rosso chiaro trasparente e acidule e poi man mano si saliva di quota ciliegie sempre più selvatiche, piccole e aromatiche. Mi ha generato continuo stupore il ciliegio. Abituata a trovarlo accanto alle case contadine, come nel mio prato di montagna, o al bordo delle mulattiere o delle radure verso le baite di media quota; lassù non si spinge fino a intrufolarsi tra i pini, le querce, i carpini. Qui c’è una convivenza di alberi che la mia montagna non offre, forse la quota che sale con ripide pendenze seleziona le fasce di sopravvivenza. Ho una sensazione di famigliarità e disorientamento al tempo stesso che cerco di scrivere in una piccola radura soleggiata accucciata sulla staccionata che cerca di tenere la foresta lontano dal tavolo su cui sono piegate tante teste arruffate e luminose che pensano Haiku. Pini con ciliegi, frassini con ginestre ne son disorientata Chiazze di sole, nell’aria chiara, fresca, ciliegie rosse Pioggia col sole, si sposano le streghe maghi in festa Nei primi due giorni questo cammino ci regala temporali e luce cristallina, ondulazioni paesaggistiche morbide, e già al finire del primo giorno misuro la quota con lo sguardo alle valli sottostanti, alla grandezza del lago artificiale con la diga in terra e le rive come un lago naturale, coi prati che finiscono in acqua. L’associazione immediata è al piccolo lago artificiale sotto la montagna, sul lato della piana che arriva al mio paese. Un lago profondo tutto in cemento che si riempie di giorno e si svuota di notte: l’acqua viene ripompata a monte per contribuire al funzionamento della grande centrale idroelettrica sotto la montagna. Un lago che indurisce e spezza il paesaggio, anche se defilato. L’immagine è presto resettata dal bel racconto storico-­‐economico di Rossano sul significato del lago, di cui mi ha colpito anche il nome “Lago di Montedoglio” perché di nuovo emerge un rimando ai miei luoghi: il fiume Oglio nasce sotto casa mia, dalla confluenza di due ruscelli, l’Ogliolo e il Frigidolfo. Nomi onomatopeici perché il primo è piuttosto tranquillo tanto da formare un’isoletta e un’ansa ghiaiose proprio ai piedi del paese, ancora oggi divertimento estivo per i ragazzini e i cani; il Frigidolfo appunto frigge, salta 4 sassi e aggira massi spumeggiando e vorticando fino all’entrata del paese dove gli è stato concesso un ultimo salto divertente e un letto ampio di pietre che permette all’acqua di pacificarsi e lambire con dolcezza i cespugli delle sponde. Al Cerreto ritroverò il panorama completamente aperto e dolce, la pietra rosata e morbida che mi hanno incantato in Anghiari e per tutto il cammino. L’apertura, la dolcezza e la morbidezza saranno sottolineate dall’accoglienza, dal cibo, e dalle centinaia di lucciole che mi han fatto tornar bambina, ai giochi serali nei prati. Mi addormento pensando che il tempo scorre veloce anche al contrario, ed è flessibile e generoso perché le ore del cammino nel mio pensiero sono dilatate, sono tantissime, affollate di sensorialità e di andirivieni dal dopo al prima, dal presente al passato, dal fuori al dentro. Mentre scrivo si dilata il tempo delle letture e dei racconti, delle condivisioni e delle soste a singhiozzo dedicate anche al gusto fragrante e lento delle fragoline di bosco che ci accompagnano per tutta una mattina. Mentre alcuni camminanti avevano assaporato le ciliegie senza eccedere, tutti saremo conquistati da questi piccoli rubini, ci attardiamo a raccoglierle e a riempirci letteralmente la bocca anche sotto la pioggia. Al Sasso della Regina arriviamo sotto una pioggia molto intensa ma nulla ci distoglie dal paesaggio sottostante e dall’ebrezza delle fragoline, che quassù sono particolarmente colorite e grosse e in quantità incredibile. Nonostante le mani gelide e la pioggia battente non è possibile sottrarsi al loro invito, persino spudorato. Arriviamo, dopo passi bagnati e pazienti alla Cà del Guardia dove ci accoglie il sole e stendiamo i panni bagnati sulle staccionate intorno alla baita e davanti al fuoco generoso che ci attende; dopo un pranzo frugale ci regaliamo qualche haiku stentato ma vitale, qualche scritto autobiografico, e tutto il sole possibile. L’esperienza che ci accoglie a fine giornata è una squisita cena cenobitica in un posto senza luce, senz’acqua, ma con buoni focolari, l’Eremo della Casella. Si mangia intorno al tavolone alla luce delle torce e del fuoco, poi si racconta e si legge di S. Francesco, ci si scalda davanti al fuoco, e io ritrovo la morbidezza delle luce delle candele e torno all’infanzia, un tempo fatto di cibi veri, essenziali, saporiti, delle serate lente e morbide in stalla, delle preghiere recitate coi nonni e dei racconti di fate e di streghe, di scoiattoli e lupi. La notte, sui giacigli preparati alla meglio, sarà accompagnata dal calore del fuoco e della luce di una sola candela, tremula e gialla sulle pietre del muro; L’addormentamento e il sonno saranno simpaticamente animati dalle scorribande dei ghiri, disorientati dalla nostra presenza ma ghiotti dei nostri doni. E io mi sento bene, ho un senso di pienezza esistenziale, come se le mie parti adulte e bambine si addormentassero insieme; questo cammino mi adagia nella tana di piuma preparata con attenzione e maestria da Giovanni. So che ci aspetta un altro giorno di cammino nei prati, tra i fiori e il cielo, ne sono felice e 5 dispiaciuta allo stesso tempo perché è l’ultimo di un tempo che mi ha nutrito i sensi e la memoria, il corpo e la mente…sassi e erbe e fiori, alberi e radure, frutti e cielo, silenzi, parole sottovoce, interiorità, ritmi e relazioni lente. La mattina è fredda, le poesie recitate o cantate nella piccola cappella, dormitorio per alcuni, mi rammentano che apparteniamo alla natura ma nello stesso tempo siamo estranei ad essa. Mentre scrivo risento il paesaggio attraversato coi piedi e con tutti i sensi, aiutata dalle sollecitazioni di Simplicio; sento che il camminare ha generato un pensiero contemplativo, sensoriale, mnestico e comunque cheto… andature di passo e di pensiero che la scrittura mi fa scoprire: ecco dove si colloca la parola scritta, ne ho scoperto il senso! Un affettuoso grazie a tutti i camminanti e alla LUA. 6