Leggi il brano - Nuove Tendenze

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Leggi il brano - Nuove Tendenze
JOHN WESLEY HARDING (BOB DYLAN) - THEA GILMORE
di Giorgio Ceccarelli Paxton
Scopo esplicito di queste note non è quello di recensire dischi di recente pubblicazione, quanto piuttosto di suggerire,
partendo da un criterio assolutamente soggettivo, alcune produzioni discografiche di particolare interesse il cui spessore
artistico sia al di sopra della norma. Il tutto andando però a pescare comunque nella produzione discografica degli ultimi
due/tre anni.
Ciò detto, può meravigliare la presenza di un disco uscito 44 anni fa, nel 1967, ad opera di un (ora) attempato
cantautore settantenne, allora ventiseienne.
Ma lo spunto per questa operazione – parlo di Bob Dylan e del suo disco John Wesley Harding appunto del 1967 – mi è
stata data dalla recente re-incisione da parte della giovane cantante folk britannica Thea Gilmore dell’intero album,
come suo tributo al settantesimo compleanno del cantautore americano, avvenuto il 24 maggio di quest’anno.
Ma non è solo per questo intreccio di date e di omaggi che mi piace riproporre questo prodotto, quanto piuttosto perché
si tratta di un album spesso sottovalutato e sotto stimato, mentre invece è da annoverarsi tra i migliori (e sono più di
cinquanta) di Dylan.
Vediamone brevemente la storia.
Dylan cominciò a lavorare all’album John Wesley Harding a Nashville (capitale americana della musica country) il 17
ottobre 1967, a poche settimane dalla conclusione della registrazione a livello semi-amatoriale nella cantina di Big Pink,
vicino Woodstock, Saugerties, nell’upper state di New York, di una serie numerosa di tracce che saranno poi editate
otto anni più tardi come The Basement Tapes.
Dylan veniva da anni bellissimi sotto il profilo artistico e terribili sotto il profilo della tensione personale sia fisica sia
psicologica, e si era necessariamente e forzatamente indirizzato verso un periodo di tranquillità e di riflessione.
Dal periodo delle canzoni simboliste degli album del 1964-1966 egli ora vede la Bibbia come fonte primaria e diretta di
ispirazione, e il ritorno alla serenità personale coincide con il ritorno alla gioia familiare di Woodstock dopo l’incidente
motociclistico del 1966. E già nei Basement Tapes sono moltissimi i brani che abbondano di citazioni bibliche come
Open the Door Homer, Lo and Behold, Sign on the Cross, This Wheel’s on Fire, Too Much of Nothing, I Shall be
Released ecc.
Nel 1967, in sei settimane, Dylan compose le dodici canzoni dell’album John Wesley Harding, in cui si narrano storie
di fuorilegge, vagabondi, immigranti, messaggeri e santi. Un album pieno di immagini religiose con un linguaggio che
ricordava quello della Bibbia, e personaggi che sembravano presi di peso dal Vecchio Testamento ma che andavano
vagando per una terra che avrebbe potuto essere la frontiera americana il giorno dopo l’Apocalisse, al confine tra
passato e presente. Si contano almeno sessantuno citazioni bibliche contenute nelle canzoni di questo album. 1
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Bert Cartwright: The Bible in the Lyrics of Bob Dylan (Wanted man 1985)
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Dylan stesso chiamò questo album «il primo album di rock biblico della storia» e in esso la Bibbia comincia a essere
considerata come lo strumento per interpretare l’esistenza. Nasce l’idea della venuta di un liberatore alla fine della
storia umana; l’escatologismo si fa più serrato. In questo album ci sono tutte le basi emotive, ideali e di fede per fare il
salto verso il Cristianesimo che Dylan fece negli anni 1979-81.
Ma in questo album c’è anche la mitologia fuorilegge del vecchio West, elemento sempre presente nell’arte dylaniana,
derivata dalle radici e dalle influenze del folk americano. Dylan ha sicuramente letto molto, ma soprattutto ha ascoltato i
bluesmen, i cantanti di ballate, i menestrelli popolari delle montagne degli Appalachi, i folksingers che ha conosciuto
nei suoi primi anni a New York e al Folk Festival di Newport. La sua vera fonte è la musica popolare americana, nelle
sue origini inglesi, irlandesi, africane e centroamericane, in cui si cela un intero cosmo, un intero sistema di sapere.
Personaggi completamente dimenticati ma che furono capiscuola negli anni Venti come il cantore delle montagne Dock
Boggs o il cantante blues Rabbit Brown o la musica country di Lefty Frizzell sono presenti nel suo modo di cantare non
meno di Woody Guthrie o Hank Williams, tanto per citare due autori verso i quali Dylan stesso si riconosce in
grandissimo debito.
Questo insieme di influenze, la Bibbia e le sue parabole e la musica popolare americana, è presente in misura massiccia
in questo album, la cui musica scarna è espressa dalla succinta band scelta da Dylan - Pete Drake alla pedal steel guitar,
Charlie McCoy al basso, Kenny Buttrey alla batteria, oltre a Dylan stesso chitarra, pianoforte e armonica.
Le dodici canzoni furono registrate in sole tre sessioni, che terminarono il 29 novembre 1967, e l’album uscì tra la
sorpresa generale tra Natale e Capodanno, in un periodo commercialmente morto, senza pubblicità o promozione. Il
successo fu comunque notevole.
Il suo carattere austero, completamente diverso dai precedenti album di Dylan, è già evidente dalla copertina in cui
appaiono, insieme all’autore, due menestrelli girovaghi bengalesi, Purna e Lakshman Das, componenti del gruppo dei
Baul, che Dylan (un Dylan quasi irriconoscibile) aveva conosciuto tramite il suo impresario e che cantavano canzoni
basate su elementi tratti dal Buddismo e dal Sufismo islamico del decimo secolo.
Il sound è asciutto e vivace, le parole assolutamente funzionali al loro significato simbolico, senza fronzoli o
abbellimenti inutili. Dylan stesso lo conferma in un’intervista del 1978: «Su quell’album ci sono solo due canzoni nate
contemporaneamente alla musica. In tutti gli altri casi, prima scrissi il testo, e quindi, in un secondo tempo, inventai la
melodia. Non l’avevo mai fatto prima, e non l’ho più fatto da allora. Questo la dice lunga su quanto fosse speciale
quell’album».
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Questa filosofia minimalista è però in netto contrasto con la ricchezza di contenuti delle canzoni medesime. Come dice
un suo storico: «le figure che occupano questo paesaggio sono astratte, universali, isolate» 2.
Non c’è più il flusso di coscienza soggettivo, autoreferenziale e autobiografico di buona parte delle sue canzoni dei due
anni precedenti, ma – dice Dylan – «…colloco me stesso al di fuori di queste canzoni, non sono più dentro le canzoni».3
Una analisi più dettagliata delle singole songs conferma che esse, nel loro insieme, costituiscono non solo un omaggio
ad un mondo scomparso, ma nello stesso tempo una ricerca di valori morali ormai desueti unitamente ad una visione
malinconica della realtà, presaga della disillusione esistenziale dell’ultimo Dylan. Passato, presente e futuro: è come se
dall’alto di una montagna lo sguardo a 360 gradi dell’autore abbracciasse la storia del suo paese e della sua stessa anima
senza vis pugnandi, ma con lo sguardo retrospettivo di chi ha raggiunto la saggezza. Sappiamo che non è così e che altre
prove attenderanno Dylan sotto il profilo personale ed artistico, ma questo è ciò che richiamano il sound scarno e
asciutto, la resa melodica e i testi enigmatici. E’ quello che viene chiamato un concept-album ed è tra i pochi di Dylan
cui si dovrebbe rivolgere chi volesse prendersi la briga di ricercare un “sistema filosofico” nelle più di mille canzoni
composte dal cantautore di Duluth.
La prima canzone dell’album è appunto John Wesley Harding. Personaggio storico, Hardin (senza la g finale, aggiunta
da Dylan) era in realtà un assassino cui furono attribuiti quarantaquattro omicidi; dopo ben 17 anni di carcere, durante i
quali si laureò in giurisprudenza, fu poi assassinato poco tempo dopo il suo rilascio. Dalla mitologia dylaniana esce
fuori una specie di Robin Hood (derivazione di quel Pretty Boy Floyd cantato dal maestro di Dylan, Woody Guthrie)
«amico dei poveri», che «non ha mai fatto del male ad un uomo onesto» e sul cui conto «nessuna accusa fu mai
provata». Non è l’unica volta che Dylan mitizza, o per lo meno assolve, qualcuno che storicamente non fu proprio un
santo. Accadrà ancora con Joey sull’album Desire e, in una certa misura, anche con il pugile Rubin “Hurricane” Carter.
D’altronde Dylan ebbe sempre una passione per gli eroi anche negativi e per i fuorilegge, da Jesse James a Billy the
Kid. Ma Dylan in realtà non è un giudice che assolve o condanna (non lo è ancora, lo sarà durante il periodo “BornAgain-Christian”): vuole cantare un mondo scomparso – quello dell’epopea del vecchio West – in cui bene e male si
intersecano e si confondono: di lì a poco nel 1971 parteciperà come attore – componendone anche la colonna sonora,
con atmosfere non dissimili da questo album – al film Pat Garrett e Billy the Kid in cui non si sa chi è il “buono” e chi
il “cattivo”.
La seconda track, As I Went Out One Morning (Un mattino andando a spasso) è un incontro immaginario dell’io
narrante con Tom Paine.4 Il famoso intellettuale illuminista inglese era già comparso nella vita di Dylan nel 1963,
quando questi ritirò il premio intestato allo scrittore facendo delle dichiarazioni infelici sull’assassinio di Kennedy. Non
mi sembra improbabile che Dylan si riferisca a questo episodio citandolo in questa canzone, che parla di un incontro
con una “damigella” in catene, che però dà l’impressione di volergli fare del male. Mentre cerca di liberarsene, ella gli
promette di accoglierlo in segreto e “insieme voleremo verso sud”. Accorre Tom Paine che si scusa con lui, allentando
la morsa della mano di lei e “intimandole obbedienza”. 5 Chi simboleggi la ragazza è materia di aperta discussione
insieme con le altre centinaia di personaggi presenti nella canzoni dylaniane. La libertà, la religione, la New Left
americana e chissà quanto altro sono tutte interpretazioni possibili e impossibili, ma questa è una delle attrazioni
dell’arte di Dylan.
Segue la meravigliosa I Dreamed I Saw St. Augustine (Ho sognato di vedere sant’Agostino), un adattamento della
canzone di protesta Joe Hill.6 Anche in questo caso, come nelle due canzoni precedenti, ci troviamo di fronte ad un
simbolo, non al vero sant’Agostino di Ippona, che, fra l’altro morì di morte naturale e non martirizzato, come nella
versione dylaniana. L’andamento cantilenante e da ballata (come John Wesley Harding) insieme ad uno stupendo assolo
di armonica creano un’atmosfera ipnotica che, pur nella sua semplicità, ha le stigmate dell’arte pura.
Segue la straordinaria e famosissima All Along the Watchtower (Dalla torre di vedetta) incisa decine di volte da altri
artisti – basti citare le versione allucinata di Jimi Hendrix o quella più “hard” degli U2. Questo brano forte, inquietante,
simbolista, che ricorda la minacciosa attesa de Il deserto dei tartari di Dino Buzzati, presenta uno scenario che sembra
essere ripreso a piene mani da Isaia 21 quando descrive la caduta di Babilonia e poi sempre Isaia 24,10 dove si parla
della distruzione della “città del caos”. Ma che la Bibbia fosse sempre presente sullo scrittoio di Dylan in questo
periodo (e anche dopo) lo abbiamo già detto. E’ una canzone “circolare” in cui l’ultima strofa potrebbe essere letta per
prima senza che cambi lo scenario o il senso apocalittico di essa.
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Mike Marqusee: Wicked Messenger (il Saggiatore 2010)
Intervista a McGregor in Sing out
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Thomas Paine (1737 – 1809) fu un rivoluzionario, politico, intellettuale, idealista e studioso inglese, considerato uno dei Padri Fondatori degli Stati
Uniti d'America; combatté a fianco di George Washington nella rivoluzione americana e partecipò alla stesura della costituzione della Pennsylvania.
Scrisse Rights of Man in cui dichiara la non superiorità dei nobili rispetto alla gente comune, perché ogni uomo ha dei diritti naturali che non sono
basati sulla ricchezza o sulla nascita. Scrive inoltre The Age of Reason in cui rifiuta ogni forma di religione consolidata e demolisce l'autorità dei testi
sacri.
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Colgo l’occasione per ricordare le bellissime traduzioni italiane dei testi a cura di Alessandro Carrera in Bob Dylan - LYRICS (1962-2001) uscito nel
2006 per i tipi della Feltrinelli.
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Joe Hill era un sindacalista e compositore di canzoni di origine svedese, messo a morte su base indiziaria nello Utah nel 1915 sotto accusa di
omicidio. Non fu mai appurato se le accuse fossero veritiere. La canzone popolare I Dreamed I Saw Joe Hill Last Night, composta nel 1936 da due
intellettuali di sinistra, divenne un classico del repertorio folk americano.
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The Ballad of Frankie Lee and Judas Priest è dichiaratamente una ballata fin dal titolo e presenta lo stesso carattere di
“narrazione” presente in quasi tutte le altre songs. Anche in questo caso, il dedalo di battute, di domande e risposte, le
emozioni, gli avvenimenti si intrecciano e danno luogo ad una storia complicata, senza sbocchi, in cui il nome del
protagonista (Frankie) richiama il Frank delle note di copertina, anch’esse dichiaratamente criptiche!
Drifter’s Escape (La fuga dello sbandato) è piena di umana compassione verso gli oppressi e richiama alcune sue
vecchie canzoni (Percy’s Song, Seven Curses) in cui il giudizio su un uomo non deve essere espresso da altri uomini ma
da Dio.
La canzone seguente Dear Landlord (Caro padrone di casa) sembra ispirata al suo manager Al Grossman (Dylan negò
che fosse esplicitamente stata composta in tal senso, anche se ammise a posteriori che inconsciamente poteva esserne
stato influenzato), ma in genere a tutti coloro che «mettono un prezzo alla mia anima».
I Am a Lonesome Hobo (Sono un vagabondo solo e triste) e I Pity the Poor Immigrant (Ho pietà del povero
immigrante) sono due canzoni gemelle in cui si esprime ancora una volta la solidarietà e la simpatia verso i diseredati, i
poveri e gli oppressi.
Con The Wicked Messenger (Il cattivo messaggero) si chiude il ciclo delle canzoni “etiche” presenti nell’album. La
morale di questa song – ma ogni canzone ha una sua morale, implicita o esplicita – è: «Se non puoi portare buone
nuove, allora non portarne».
Le ultime due canzoni Down Along the Cove (Laggiù nella cala) e I’ll Be Your Baby Tonight (Stanotte il tuo amore sarò
io) sono più intimiste e personali e preludono al nuovo album del 1969 Nashville Skyline.
Una analisi più approfondita delle canzoni ci avrebbe portato troppo lontano e oltre i limiti di queste note. In
conclusione John Wesley Harding è un album composito ma compatto in cui appaiono i simboli delle parabole bibliche
intessuti nei fantasmi dell’epopea americana dell’Ottocento. Un album da studiare e da godere per la sua attualità e
perché, come molti aspetti dell’arte dylaniana, travalica il momento storico della sua ideazione e realizzazione per
affondare le sue radici nell’intimo dell’animo umano, che, per sua natura, è universale.
Sono ora doverose alcune brevi note sulla cantante Thea Gilmore (http://www.theagilmore.net/welcome.cfm) che, come
si diceva all’inizio, ha recentemente inciso tutto l’album come omaggio per il settantesimo compleanno di Dylan.
La voce della Gilmore richiama quelle voci angeliche, eteree ma potenti che partendo da Joan Baez ed Emmylou Harris
arrivano fino a lei.
Nata nel 1979 in Inghilterra da genitori irlandesi andò via da casa molto giovane per lavorare in uno studio di
registrazione. Fondò quindi una propria società discografica per la quale incise nel 1998 il suo primo album, Burning
Dorothy e due anni dopo The Lipstick Conspiracies. Cito poi, senza entrare in dettaglio, gli album successivi più
importanti e originali: Avalanche (2003), Harpo’s Ghost (2006) e Murphy's Heart (2011).
La Gilmore si è avvicinata a questa operazione con molta umiltà e rispetto. Ella stessa si chiedeva in un’intervista:
«Qualcuno potrebbe – o dovrebbe – tentare di ri-registrare, reinterpretare un lavoro leggendario, vecchio di
quarant’anni, che si può considerare inseparabile dal suo autore? Probabilmente no». Eppure lo ha fatto e i risultati sono
molto buoni. Si tratta essenzialmente ed esclusivamente di un omaggio, teso a ricreare e riflettere, come davanti ad uno
specchio, le atmosfere originali dell’album dylaniano. Non vi è ri-arrangiamento o re-interpretazione, ma un far rivivere l’atmosfera originale in quel sound dal profumo tutto particolare caratteristico di quel disco.
Anche la bellissima voce della Gilmore rende perfettamente l’originario senso di solitudine che emana dalle canzoni.
John Wesley Harding è cantata con enorme sentimento e l’accompagnamento di mandolino e armonica crea l’immagine
di un bivacco serale di cowboys intorno al fuoco. In As I Went Out One Morning l’accompagnamento sostenuto della
band fa da controcanto al sentimento rassegnato della voce solista. La dolce cantilena di St. Augustine è cantata con una
voce vibrata che ricorda Joan Baez e dopo un bell’assolo di chitarra la canzone si spegne con “tutto” orchestrale che
svanisce in una eco finale. Questa canzone era già stata incisa come “cover” nel 2002 ed aveva avuto le lodi di Bruce
Springsteen.
All Along The Watchtower sprigiona tutto il senso di mistero che le è proprio e l’accompagnamento delle chitarre è a
metà tra la versione originaria e il superomismo apocalittico di Hendrix.
La ballata Frankie Lee avrebbe potuto essere più mossa e meno monotona – è più che altro “raccontata” e questo le
nuoce non poco – mentre l’anima sconsolata di Lonesome Hobo, la malinconia autunnale di Landlord si alternano alle
espressioni di denuncia dell’ingiustizia sociale presenti in Drifter’s Escape.
I Pity The Poor Immigrant viene resa come una grande ballata in cui si racchiude tutto il dolore della terra per l’epopea
dolorosa e grandiosa di tutti i migranti del mondo.
Robbie McIntosh è la lead guitar, Paul Beavis il batterista e Nigel Stonier il bassista, produttore, nonché marito di Thea
Gilmore attualmente in dolce attesa, come si può notare da qualche recentissimo video presente su youtube.
Insomma è un album che non aggiunge nulla a quello originale, ma non è una semplice operazione nostalgia: è un
arricchimento di un capolavoro che resiste nel tempo. Alcuni critici hanno ritenuto l’uscita di questo album superflua, in
quanto appunto non aggiunge nulla a quanto si sapeva, ma pur essendo d’accordo sul vecchio adagio che “nobody sings
Dylan like Dylan” non sottovaluterei la bontà del prodotto di Thea Gilmore. Su tutto però vale il suggerimento iniziale
di riprendere in mano il capolavoro dylaniano e studiarlo e goderlo non come un reperto archeologico, ma come una
serie di canzoni – un concept-album – la cui bellezza e profondità rimangono intatte durante i decenni.
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