L`usura dei ricchi il risparmio dei poveri

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L`usura dei ricchi il risparmio dei poveri
Un numero 1 euro
Microfinanza
Anno 1 N. 2 autorizzazione del Tribunale di Vicenza n. 1016
novembre 2002 Direttore responsabile Francesco Terreri
Stampa Publistampa Arti Grafiche Pergine (TN)
Editore Associazione Microfinanza e Sviluppo
via Monticello di Fara 13/b - 36040 Sarego (VI)
tel. 3351284571 e-mail [email protected]
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3-7
Il dibattito sul microcredito
8
Arghiri Emmanuel, Technologie appropriée ou technologie
sous-développée?, Puf, Parigi 1982
L’usura dei ricchi
il risparmio dei poveri
La trappola del caffè
A Zenón Mendoza, leader dei produttori di caffè della Bolivia, morto in un incidente stradale nel 1998
A
metà degli anni ’90 il prezzo internazionale del caffè – consideriamo la quotazione della
qualità “arabica” a New York –
oscillava attorno al dollaro per
libbra (una libbra = poco meno di mezzo chilo). Nel ’97 una fiammata speculativa al rialzo
lo portò sopra i 2 dollari. Ma dal ’98, anche a
seguito della crisi asiatica, il prezzo ha comin-
ciato a diminuire, nel 2000 è sceso stabilmente sotto il dollaro per libbra e nel 2001 è precipitato intorno ai 50 centesimi, il livello più
basso, in termini reali, degli ultimi 40 anni.
In queste settimane segna una modesta ripresa, oscillando tra i 60 e i 70 centesimi di dollaro per libbra. Ma le conseguenze del crollo e
dell’instabilità restano tutte. E sono conseguenze drammatiche sul livello di vita dei 25
milioni di produttori in Asia, Africa e America
Latina. Con un reddito inferiore ai costi, solo in
Centro America 600 mila persone hanno dovuto abbandonare la produzione del caffè,
senza peraltro trovare valide alternative.
La spiegazione principale della crisi è la sovrapproduzione dovuta soprattutto alla rapida crescita delle coltivazioni in Vietnam,
[segue a pagina 2]
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Armi italiane e debito dei paesi poveri 1997- 2002
2
PASSAGGIO A SUD-EST
Speciale microfinanza e nonviolenza
nel Mediterraneo e in Medio Oriente
New York, ultime notizie dal Microcredit Summit
«Il debito attuale del Terzo Mondo ha superato la soglia di
rimborsabilità, non tanto per i problemi dei debitori, ma
soprattutto perché le economie dei creditori non
potrebbero sopportare un tale rimborso. Per farsi
rimborsare, bisognerebbe lasciare che il servizio del debito
fosse pagato attraverso un surplus della bilancia
commerciale dei paesi sottosviluppati. Questo
significherebbe per i paesi creditori raddoppiare le loro
importazioni provenienti dal Terzo Mondo, un’eventualità
che cercano di evitare ad ogni costo. D’altra parte non
possono cancellare il debito per non provocare una
reazione a catena di crolli bancari…»
Bollettino per lo sviluppo plurale
8
Angola, Luanda, mercato di Roque Santeiro [foto Pietro Gigli]
Omaggio ad Arghiri Emmanuel, pioniere degli studi
sullo “scambio ineguale”
Francesco Terreri
I
l 14 dicembre 2001, un anno fa, a Parigi
è morto il professor Arghiri Emmanuel.
Ai più il nome non dice niente, ma sarebbe bene che almeno gli attivisti del
commercio equo e solidale e della finanza etica lo conoscessero, perché senza
saperlo debbono molto a lui. Emmanuel era
nato a Patrasso, Grecia, nel 1911. Dopo aver
fatto studi economici e commerciali, negli
anni ’30 va a lavorare nell’allora Congo Belga. Durante la Seconda guerra mondiale
combatte i nazisti nelle file delle Forze gre-
che libere in Medio Oriente. Poi torna a lavorare in Congo, dove collabora con il movimento indipendentista guidato da Patrice
Lumumba.
Nel 1957 va a vivere in Francia. Nel 1961, a
[segue a pagina 7]
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[segue da pagina 1]
diventato il secondo paese produttore e soprattutto esportatore, in Indonesia, in India.
La varietà “robusta”, meno pregiata, messa
sul mercato dai vietnamiti deprime i prezzi.
D’altra parte i consumi in Occidente sono stabili e il mercato sembra saturo.
Tuttavia la solita spiegazione congiunturale
non basta. Ci sono almeno due aspetti più di
fondo da considerare come cause del crollo
dei prezzi all’esportazione (ma non di quelli al
consumo): il debito estero dei paesi produttori e le politiche di dumping delle imprese multinazionali.
MICROFINANZA 2 NOVEMBRE 2002
2
Debito
Il governo vietnamita ha effettivamente promosso negli ultimi dieci anni la crescita delle
coltivazioni di caffè negli altipiani, provocando
lo spostamento di centinaia di migliaia di persone verso quelle zone e non pochi problemi
sociali ed ecologici. Questa scelta è anche effetto delle politiche della Banca Mondiale, che
spingono in tal senso non solo in Vietnam ma
anche in Colombia (“il caffè al posto della coca”) e in Angola, per la ripresa economica del
paese stremato dalla lunga guerra interna.
Alla World Bank respingono le critiche. Ma forse il contributo di questi discussi progetti alla
sovrapproduzione e quindi alla caduta del
prezzo è relativo. In realtà il caffè è una delle
produzioni che viene attivata dovunque è possibile e il più rapidamente possibile quando si
tratta di far fronte a consistenti pagamenti in
valuta con l’estero. Quello che hanno in comune Vietnam, Angola, Colombia, ma anche
Indonesia o Brasile – i paesi dove si produce
“troppo” caffè, in testa alla classifica degli
esportatori 2001 – è il pagamento delle rate di
un pesante debito estero.
In Vietnam il debito è, secondo l’ultimo World
Development Report della Banca Mondiale, il
36% del reddito nazionale e l’85% delle
esportazioni. In Angola siamo al 137% del reddito nazionale, in Colombia al 41% del reddito
ma a quasi tre volte l’export. Il debito estero
indonesiano è pari al 96% del reddito nazionale lordo, mentre il Brasile del neopresidente Lula deve far fronte ad un indebitamento di
238 miliardi di dollari – il più consistente nel
Sud del mondo, anche se ben lontano dai
1.400 miliardi di dollari di debito estero degli
Stati Uniti – pari al 39% del reddito e a quattro
volte il valore delle esportazioni annue.
Dumping
«Anche alla fine degli anni ’80» ricorda
Giampietro Pizzo di Microfinanza «ci fu una
fortissima crisi nel mercato del caffè e i prezzi scesero a 50 centesimi/libbra. Io allora ero
in Bolivia. Le conseguenze, oltre che strettamente materiali, furono lacerazioni sociali e
organizzative e degrado ambientale e colturale. Un amico e leader boliviano, produttore
di caffè, Zenón Mendoza, cercava di opporsi
tenacemente a quella terribile situazione. Su
quell’impegno e su quella sfida nacquero
cooperative e organizzazioni del caffè boliviane oggi a tutti note. Zenón morì pochi anni dopo, nel 1998, in un incidente stradale,
mentre continuava infaticabile la sua lotta di
dirigente contadino».
In Bolivia, in Messico e in altri paesi, anche
con il sostegno del circuito del commercio
equo e solidale, cresciuto in tutto il mondo in
questi anni, i produttori si sono organizzati e
hanno cominciato a reggere un po’ meglio un
mercato dominato dalle grandi imprese commerciali internazionali e dalla speculazione finanziaria sui futures. Ma gli interessi costituiti hanno reagito.
Con il caffè asiatico a basso costo le grandi imprese del settore hanno cominciato a fare
dumping, cioè vendita concorrenziale sottocosto, contro i produttori che stavano cominciando a guadagnare qualche posizione nel
mercato. Dal 1997 il Messico, uno dei maggiori produttori mondiali con elevati livelli di qualità e un consumo interno basso, importa
caffè. Acquista caffè verde ad esempio dall’Indonesia a prezzi bassi, con i funzionari statali
del settore che approvano l’ingresso del prodotto a dazio preferenziale, cioè 0%. Questo
vero e proprio dumping, denunciato dalle organizzazioni contadine tra cui quelle collegate
al circuito del commercio equo, fa capo alle
poche grandi compagnie che controllano la
commercializzazione nel paese, in primo luogo Nestlè, Jacobs/Philip Morris e Volcafè
(Volkart, Svizzera). Nestlè lo ha giustificato
con il suo prodotto di punta, il caffè solubile
(Nescafè), per il quale “non vale la pena di
sprecare il buon caffè messicano”.
Fair trade
Di fronte alla crisi, una vasta coalizione internazionale di Ong, associazioni, organizzazioni
del commercio equo e solidale chiede, in particolare alla Commissione Europea, una risoluzione d’urgenza che metta al centro l’ampliamento del mercato
equo delle materie prime
e del caffè in particolare.
La dichiarazione è stata
sottoscritta tra gli altri
da Oxfam International,
Christian Aid, Third World
Network, European Fair Trade
Association, Ctm altromercato,
da sindacati come la brasiliana Cut/Contag, da organizzazioni di produttori come la
Central de cooperativas cafetaleras de Honduras, che proprio in queste settimane ha ottenuto dal proprio governo il rispetto
degli accordi nazionali sul caffè,
dopo una dura lotta sostenuta anche da organizzazioni del commercio equo e della finanza etica italiane (TransFair e Etimos).
Il commercio equo, che prevede
prezzi stabili e sostenibili e contratti
di lunga durata, si sta affacciando come
via alternativa alla crisi del caffè. Nell’ultimo numero di Microenterprise Americas, pubblicazione del Banco Interamericano de Desarrollo (Bid), una delle
banche regionali della World Bank, si
parla di “Fair trade: la via d’uscita dalla
crisi del caffè?”. Anche se il titolo è una domanda, nell’ampio servizio la risposta è affermativa, sia pur con cautele e precisazioni. E al
Forum Interamericano sulla Microimpresa,
svoltosi a Rio de Janeiro dal 9 all’11 settembre,
lo stesso Bid ha riconosciuto con un premio
per “eccellenza nella fornitura di servizi per lo
sviluppo delle imprese” il programma di commercio equo e solidale della ong brasiliana
Visão Mundial.
Ma per uscire dalla trappola del caffè ci vuole
anche altro: lo sviluppo del prodotto di qualità
e la diversificazione delle colture e quindi capitali, microcredito, servizi finanziari e imprenditoriali. E una “coffee tax”, pagata dalle multinazionali, per stabilizzare il prezzo ad un
livello “civile”.
Microfinanza
Proprio nel caso del caffè lo sviluppo di reti
commerciali, di servizi e di credito non solo
Nord-Sud, ma anche Sud-Sud è più ampio di
quello che si pensa. Microenterprise Americas
cita ad esempio il circuito costruito tra le cooperative di produttori di caffè con standard
biologici della Sierra Madre e di Oaxaca in
Messico con la Rainforest Trading co. di
Oaxaca, società di servizi alle imprese che cura una parte del trattamento e la ricerca dei
mercati export per conto delle cooperative, e
con la EcoLogic Enterprise Ventures di Cambridge, Massachussets (Usa), che gestisce un
fondo di investimento che non acquista azioni
in Borsa ma, appunto, investe nelle cooperative messicane. Negli Stati Uniti, lo ricordiamo,
c’è un mercato del caffè “equo” da 56 milioni
di dollari e un mercato equo complessivo da
100 milioni di dollari.
Crecer, una ong guatemalteca, offre servizi di
consulenza ai piccoli produttori non solo di
caffè del Centro America e dei Caraibi. Il programma “premiato” di Visão Mundial non riguarda direttamente il caffè ma altri prodotti
agricoli e prevede non solo l’esportazione ma
anche la commercializzazione “equa” nelle
città brasiliane.
Ci sono quindi le condizioni per costruire, at-
torno allo stesso commercio equo, un insieme
di azioni e di misure che affrontino i nodi strutturali della caduta del prezzo, e non solo la regolazione congiunturale della produzione. Ad
Antigua, in Guatemala, nello scorso aprile una
conferenza regionale dei produttori ha indicato due potenziali linee di azione:
• da un lato valorizzare e sviluppare le zone e
le regioni capaci di produrre caffè di qualità,
meglio ancora se biologico o anche nella varietà denominata eco-friendly;
• dall’altro avviare una diversificazione produttiva in quelle regioni che non possono
reggere la sfida della qualità sul caffè.
Sulla qualità, su cui si sofferma anche il documento della coalizione internazionale, si gioca
una partita di grande portata. Spiega Alberto
Hesse, triestino, decano degli esperti
dell’Ico, l’Organizzazione Internazionale del Caffè che ha avviato, dal 1° ottobre, un “Quality improvement program”: «Il programma prevede che
il caffè esportabile non debba
superare i 300 difetti ogni 300
grammi di qualità robusta e
gli 86 difetti nel caso
dell’arabica. Ma le grandi
multinazionali del caffè,
Kraft/Philip Morris, Nestlè,
Sara Lee e Procter & Gamble, premono perché sia
mantenuta la normativa
Usa che consente 610 difetti
per 370 grammi, il 65% in più
per la robusta e addirittura quasi
5 volte in più per l’arabica».
Queste scelte richiedono un complesso di politiche di cui il prezzo equo è solo una componente.
Si tratta di far uscire il caffè, come
altre materie prime, dall’ “anonimato”, di costruire marchi dei produttori diretti. C’è bisogno di avviare e rafforzare, soprattutto in
loco, nei paesi produttori, quelle
strutture di servizi alle imprese, di
microassicurazione (un nuovo campo in crescita), di microfinanza che sostengano i produttori.
Coffee tax
Il documento della coalizione “equa e solidale” chiede «la creazione di un fondo per gli
agricoltori poveri, che li aiuti ad essere meno
dipendenti dal caffè dandogli opportunità di
vita alternative». Per questo scopo e per stabilizzare i prezzi è divenuta di attualità l’istituzione di una “coffee tax”.
Il giornalista economico Mario Deaglio l’ha
così presentata su La Stampa (24/4/2002):
«Stabilito un prezzo di riferimento superiore
ai costi di produzione dei coltivatori – ad
esempio 1 dollaro la libbra, ma il prezzo
equo oggi è 1,26 dollari – le grandi imprese
acquirenti pagherebbero, nel caso il prezzo
scenda sotto il dollaro, una tassa pari alla
metà della differenza tra 1 dollaro e il prezzo
di mercato (ad esempio attualmente, col
prezzo a 60 centesimi, 20 centesimi di tassa)
o anche più della metà per prezzi molto bassi. Le risorse così raccolte costituirebbero un
fondo, proprio per sostenere la produzione
di qualità da un lato e la diversificazione dall’altro».
Commenta Giampietro Pizzo: «Piuttosto che
risorse distribuite a pioggia o come ristorno
ai produttori, i proventi della tassa dovrebbero aiutare lo sviluppo di nuovi flussi finanziari in grado di risolvere i problemi della dipendenza dai sistemi bancari locali».
Insomma quelle “casse del caffè” che costituiscano la nuova finanza dei produttori poveri.
Una “coffee tax” non è più difficile da ottenere che la “Tobin tax” sulla speculazione finanziaria. E aiuta la stabilizzazione dei prezzi, dettaglio non insignificante anche per i
paesi consumatori e ricchi. Come spiegava il
compianto economista Nicholas Kaldor nel
discorso presidenziale alla Royal Economic
Society il 22 luglio 1976 (“Inflazione e recessione nell’economia mondiale”, nella
raccolta I neokeynesiani a cura di Ignazio
Musu, Il Mulino, Bologna 1980): «Ogni grande variazione nei prezzi dei prodotti primari
– a prescindere se sia in favore o contro i
produttori primari – tende ad avere un effetto scoraggiante sull’attività industriale. Nel
1929, quando il boom economico cessò, i
prezzi delle materie prime calarono in modo
catastrofico – di oltre il 50% in tre anni – e
ciò, lungi dallo stimolare l’acquisto dei prodotti primari, ebbe l’effetto opposto: la caduta della domanda di prodotti industriali
da parte dei produttori primari. La rapida
caduta dei prezzi dei prodotti primari introdusse la più grande depressione industriale
●
della storia…».
New York - Microcredit Summit
Il risparmio degli esclusi
S
ono arrivati a quota 35 milioni i poveri che hanno ricevuto un microcredito da una delle oltre 1.500 organizzazioni di microfinanza operanti
attualmente nel mondo. È il dato aggiornato alla fine del 2001 fornito al “Microcredit
Summit + 5”, la conferenza internazionale
svoltasi a New York dal 10 al 13 novembre
scorso che ha fatto il punto sulla campagna, lanciata nel 1997, per raggiungere
con servizi finanziari 100 milioni di famiglie povere in tutti i continenti.
Considerando un arco più ampio di microbanche, che non si rivolgono solo ai poverissimi, i destinatari di microcrediti arriverebbero a 55 milioni. Ciò nonostante a New
York, fra i tremila delegati di 140 paesi, è
stata espressa più di una preoccupazione.
Musaka Kumar dell’organizzazione indiana
Share ha ricordato che pur essendo in India
7 milioni le persone raggiunte dal microcredito, sono 400 milioni – su 1 miliardo di abitanti – coloro che nel paese vivono sotto la
soglia di povertà. Evelyn Grandi, di Credito
con Educación Rural (Bolivia), ha sottolineato gli impedimenti legali che ancora
ostacolano la microfinanza, ad esempio i
persistenti obblighi di chiedere garanzie
reali ai destinatari dei prestiti.
Secondo Elizabeth Littlefield, esperta della
Banca Mondiale, «l’interesse dei donatori
alla microfinanza appare in diminuzione».
Ma oltre quello dei donatori, anche l’orien-
tamento del sistema bancario ufficiale è ancora lontano dal prendere sul serio i milioni
di microimprese e di potenziali sistemi produttivi locali dei paesi poveri. Secondo l’ultimo World Development Report 2002 della
Banca Mondiale, non solo i paesi dove si vive con un dollaro al giorno ricevono solo
l’1,1% del credito mondiale, ma anche i paesi a medio reddito, considerati emergenti,
che producono il 16,3% della ricchezza
mondiale devono contentarsi del 5,5% del
credito totale.
Da questo punto di vista, l’intervento a New
York del Segretario al Tesoro Usa Paul
O’Neill, pur pieno di elogi per la microfinanza e per il suo approccio di mercato, ha confermato che il massimo sforzo dell’amministrazione Bush in questo senso sarà il
modesto “Millennium Challenge Account”,
l’incremento già annunciato degli aiuti allo
La distribuzione mondiale del credito
I dati più recenti secondo il World Development
Report 2002 della Banca Mondiale
Paesi ad alto reddito, 53 paesi con
955 milioni di abitanti, 26.710 dollari di reddito pro capite e l’80,3%
del reddito mondiale
Paesi a medio reddito, 90 paesi con
2 miliardi 667 milioni di abitanti,
1.850 dollari di reddito pro capite e
il 16,3% del reddito mondiale
Paesi a basso reddito, 65 paesi
con 2 miliardi 510 milioni di abitanti, 430 dollari di reddito pro capite
e il 3,4% del reddito mondiale
93,4% del
credito totale
5,5% del
credito totale
1,1% del
credito totale
Aspettando la prossima guerra in Iraq, qualcosa si muove tra i 300 milioni di arabi, ebrei, turchi,
berberi, curdi… che vivono nell’arco della crisi tra Tangeri e Bagdad (senza dimenticare Belgrado e
Tirana). C’è la vivacità dell’economia popolare e della microfinanza. C’è chi rilancia la sfida della
nonviolenza e della democrazia. Per l’Europa e il futuro della sicurezza e della pace il passaggio a
Sud Est è decisivo
[articoli da pagina 4 a pagina 7]
«Non c’è villaggio senza i suoi artigiani, per quanto modesti; senza le sue attività industriali minori. Ma in questo settore tutto o quasi tutto
sfugge allo storico che voglia far calcoli. Quello storico, inoltre, se si abbandona alle abitudini contratte, avrà la tendenza a sottovalutare quel
lavoro oscuro, eppur decisivo, delle campagne povere, che per esse è sovente il solo mezzo per raggiungere le preziose circolazioni
monetarie»
Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino, 2002 (prima edizione: 1953)
ASA
Association for Social Advancement
Banco ADEMI Banco de Desarrollo ADEMI, S.A.
BancoSol
Banco Solidario, S.A.
Bandesarrollo Banco del Desarrollo, Filial
Microempresas
BRI
Bank Rakyat Indonesia, Unit Desa
system
Caja los Andes Caja de Ahorro y Préstamo
Los Andes S.A.
CERUDEB
Centenary Rural Development
Bank Ltd.
Citi Savings
Citi Savings & Loans Co. Ltd.
and Loans
FINAMERICA Financiera América, S.A.
Kafo Jiginew Kafo Jiginew
K-Rep
Kenya Rural Enterprise Program
Mibanco
Banco de la Microempresa
PRODEM FFP PRODEM FFP, S.A.
Bangladesh
Repubblica
Dominicana
Bolivia
Chile
Depositi /
Prestiti 2000
(milioni di dollari)
Depositi
2000
Organizzazioni aderenti al Microfinance Network
Depositi /
Prestiti 1999
Depositi
1999
Il risparmio dei poveri
(milioni di dollari)
[foto Pietro Gigli]
12,4
13,4
17,2%
32,1%
15,3
16,4
20,8%
33,5%
54,9
1,0
66,7%
7,5%
57,8
2,2
70,9%
15,2%
2.429,0
286,4%
1.992,2
244,2%
Bolivia
10,4
29,1%
14,2
29,0%
Uganda
26,8
245,9%
29,2
280,8%
Ghana
4,3
430,0%
1,1
157,1%
Colombia
Mali
Kenya
Peru
Bolivia
8,4
4,6
1,6
5,6
59,6%
61,3%
42,1%
26,5%
n.d.*
n.d.*
7,0
5,0
3,4
9,4
18,0
47,0%
92,6%
73,9%
25,6%
72,9%
Indonesia
* non disponibile
sviluppo, condizionati, ha detto O’Neill,
«ad un ambiente sociale che comprenda il
rispetto delle leggi e dei contratti e la lotta
alla corruzione».
A fronte di questo scenario, acquista più
importanza l’incremento del risparmio dei
poveri come fonte di risorse per le microbanche. Dopo un avvio spesso legato a donazioni di ong o fondazioni dei paesi ricchi,
oggi in molte organizzazioni di microfinanza si accresce il peso del risparmio volontario dei microimprenditori e della popolazione in generale. Piccole cifre individuali che
però messe insieme diventano rilevanti.
Esaminando i dati delle istituzioni del Microfinance Network, una delle reti attualmente
esistenti, si può notare come nel caso delle
banche tradizionali “riconvertite” al microcredito (Bri Indonesia, Cerudeb Uganda, Citi
Savings and Loans Ghana) il risparmio fosse
già da prima superiore ai crediti – il problema semmai era impiegare – mentre gli organismi più giovani, partiti soprattutto con i
microprestiti, stanno rapidamente recuperando sul versante della raccolta. I contadini
del Mali serviti da Kafo Jiginew riescono ormai a mettere da parte risparmio sufficiente
(l’equivalente di 5 milioni di dollari) per
sostenere i crediti della loro microbanca
(5,4 milioni di dollari). Il problema è che da
quelle parti sarebbe utile anche un po’ di
risparmio proveniente dal mondo ricco. ●
Usa, investimenti di comunità
Ecco la finanza anti-Enron
L
e 107 maggiori istituzioni finanziarie per lo sviluppo di comunità degli Stati Uniti
– Cdfi, Community Development Financial Institutions – hanno erogato nel 2001 oltre
1 miliardo di dollari di prestiti, portando il volume dei loro crediti cumulati a 3 miliardi
982 milioni di dollari. Tali finanziamenti hanno aiutato nell’ultimo decennio la creazione o il
mantenimento di circa 180 mila posti di lavoro, la costruzione di 147 mila abitazioni e la realizzazione di 2.500 progetti di servizi per comunità locali. Il rapporto che fa il punto su questo settore di finanza etica statunitense, intitolato “Cdfi: ponti tra il capitale e le comunità”,
è stato presentato all’inizio di ottobre dal Social Investment Forum e da Co-op America, due
organismi che promuovono l’investimento socialmente responsabile in Usa. Le Cdfi sono fondi di credito, fondi di investimento in capitale di rischio e cooperative di credito, nate e sviluppatesi prevalentemente negli ultimi dieci-quindici anni, che finanziano la popolazione più
povera, le microattività economiche e i progetti di comunità in molte aree degli Stati Uniti. Tra
i destinatari, il 72% è a basso reddito, il 49% sono donne, il 46% appartenenti a minoranze
etniche. Siamo dunque sulla linea del microcredito, ma con un campo più vasto di intervento. Nel ’91, ad esempio, il 47,4% dei crediti sono andati alla costruzione o alla sistemazione
di alloggi sia per singoli che per organizzazioni, e in questi casi ci sono anche prestiti superiori a 100 mila dollari, insomma un normale mutuo per la casa, a tassi di interesse intorno al
6% annuo. Il 28,7% degli impieghi ha finanziato attività economiche, a tassi dell’8-9%, tra le
quali il 4,1% può essere propriamente definito microimpresa, il resto piccola impresa, quindi
con dimensioni un po’ superiori, anche se ugualmente tagliata fuori dai circuiti del credito ufficiale. Il 5,1% è stato credito al consumo e il 18,3% delle risorse ha sostenuto servizi sociali
di comunità. Il rapporto precisa che le Cfdi hanno una qualità del credito migliore delle banche Usa tradizionali. Le vere e proprie perdite su crediti non superano lo 0,5% del totale, mentre i prestiti a rischio, cioè i clienti inadempienti per oltre tre mesi, ammontano al 3,3% del totale. Il capitale delle organizzazioni finanziarie di comunità proviene da fondazioni, istituzioni
religiose, singoli risparmiatori e anche, per il 16%, dal Governo, a seguito dell’approvazione
da parte del Congresso nel 1994 di un Cdfi Fund a sostegno a queste esperienze.
Il Social Investment Forum e Co-op America propongono ai fondi di investimento e agli operatori finanziari socialmente responsabili di investire in progetti di comunità almeno l’1% delle loro attività, la cosiddetta proposta “1% in Comunità”. Ma c’è anche chi ha lanciato un vero e proprio fondo di investimento in sviluppo di comunità, che ha in portafoglio bond
municipali o prestiti delle Cfdi, come il Cra Qualified Investment Fund.
SPECIALE MEDITERRANEO
Passaggio a Sud Est
3
MICROFINANZA 2 NOVEMBRE 2002
Microcredito e nonviolenza sul fronte dello “scontro di civiltà”
SPECIALE MEDITERRANEO
Israele/Palestina, l’opzione nonviolenta
Francesco Terreri
In Cisgiordania e Gaza circola la proposta controcorrente del professor Mubarak Awad: per ottenere la
fine dell’occupazione israeliana i palestinesi devono adottare una strategia nonviolenta.
Non è solo più umana, è anche più efficace della lotta armata. Una sfida al governo Sharon, ma anche
al fondamentalismo islamista. Condizione cruciale è il rafforzamento dell’economia popolare e di un nuovo tessuto economico israelo-palestinese. Ad esempio attraverso organizzazioni di microfinanza come
Faten o Asala. La posta in gioco della pace è lo sviluppo di tutta la regione
L
a sua proposta controcorrente
l’ha rilanciata nei giorni più
drammatici dell’operazione “Muraglia di difesa”, nell’aprile 2002,
quando l’esercito israeliano assediava il quartier generale di Yasser Arafat
a Ramallah e a Jenin si combatteva casa per
casa. «Per vincere, i palestinesi devono
adottare una strategia nonviolenta». Mubarak Awad, nato a Gerusalemme 59 anni fa,
psicologo, fondatore del “Palestinian Center
for the Study of Nonviolence”, aveva organizzato un movimento palestinese di resistenza nonviolenta all’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza già negli
anni ’80. Nel 1988 le autorità militari israeliane lo hanno arrestato ed espulso e da allora vive negli Stati Uniti.
Non ha mai cessato però di lavorare per l’adozione di una strategia nonviolenta di lotta
per arrivare alla pace tra israeliani e palestinesi. Non solo negli anni della speranza, pur
controversa, di Camp David e di Oslo, ma
anche oggi di fronte al precipitare della crisi. In questi mesi nei Territori palestinesi oc-
cupati circola il documento-appello “Nonviolent resistance in Palestine: pursuing alternative strategies”, scritto a quattro mani
con Jonathan Kuttab, stimato avvocato palestinese difensore dei diritti umani.
Né rassegnati né violenti
«Il popolo palestinese ha una reale opportunità di raggiungere i suoi obiettivi nazionali
se persegue una consapevole e organizzata
strategia di resistenza nonviolenta all’occupazione». Una strategia, precisano Awad e
Kuttab, su vasta scala: «non semplicemente
simbolica o episodica». Quindi nella comunità palestinese deve riprendere la discussione politica «dove ciascuno abbia una voce invece che un fucile». Anzi occorrono
nuove elezioni democratiche.
La tesi di Awad è che, mentre le autorità
israeliane sanno bene come combattere un
antagonista armato, «un approccio nonviolento neutralizzerebbe molta della loro potenza militare». Ci si aspetta che i palestinesi siano o rassegnati o violenti. Ma c’è una
terza possibilità.
Un’azione nonviolenta di tipo gandhiano
prevede «grandi marce pacifiche», «forme di
boicottaggio economico» e altre azioni di disobbedienza civile, mentre le «minacce di
guerra e la violenza» – non solo gli attacchikamikaze contro i civili ma ogni violenza –
«sono controproducenti».
L’obiettivo è la fine dell’occupazione israeliana della West Bank e di Gaza e lo smantellamento degli insediamenti, per arrivare alla
soluzione “due popoli per due stati”. L’esempio è la transizione democratica in Sudafrica. «Cruciale» per il successo della strategia è il ruolo del mondo arabo e musulmano
e il supporto internazionale. «Occorre tradurre in concreta protesta nonviolenta il sostegno di tante popolazioni arabe» ai palestinesi. E bisogna creare «un’arena mondiale
per una lotta nonviolenta basata sull’etica e
sul diritto internazionale».
L’ “argomento degli Hezbollah”
Un tale programma non è solo una sfida alla
politica del premier israeliano Ariel Sharon,
ma anche al fenomeno politico più impor-
Medio Oriente, la microfinanza
e le condizioni economiche della pace
MICROFINANZA 2 NOVEMBRE 2002
4
L
a resistenza nonviolenta richiede la cozionale, attraverso i canali dell’equo e solidale,
struzione e il rafforzamento di proprie
qualcosa si è mosso, ad esempio con l’Italia. La
istituzioni sociali ed economiche di base
Holy Land Handicraft Cooperative Soe lo sviluppo di un tessuto economico “alterciety, organizzazione di artigiani palestinesi
nativo” tra israeliani e palestinesi, soprattutto
del legno dell’area di Betlemme, ha avviato rese la prospettiva, come indica Awad, è una
lazioni stabili prima con la cooperativa di Ferra“Comunità economica mediorientale”. Ma cora Commercio Alternativo, poi con Equomercame sta l’economia popolare in Palestina?
to di Cantù e con il consorzio Ctm altromercato.
Nel giugno scorso, sotto gli auspici di Usaid, l’aParc, Palestinian Agricultural Relief
genzia statunitense di cooperazione allo svilupCommittes, la maggiore ong palestinese impo – ancora influenzata dall’impostazione
pegnata soprattutto nello sviluppo rurale, ha
clintoniana piuttosto che da quella dell’amministretto rapporti con Ctm altromercato.
strazione Bush – si è riunita a Marrakech in Ma«È anche possibile riconvertire verso forme di
rocco la conferenza “Microfinanza nel Vicino
sostegno meno assistenziali il tradizionale inOriente”. Come per l’analoga conferenza di Butervento di sicurezza alimentare dell’Unrwa
dapest (maggio) sull’Est Europa, in questo apper i rifugiati palestinesi» sostiene inoltre Umipuntamento si è scoperto che i programmi di
liana Grifoni di Microfinanza srl, che ha svolto
microcredito in Medio Oriente sono più di quelrecentemente un’analisi in tal senso in Cisgiorli censiti dal segretariato del Microcredit Sumdania, Gaza e nei paesi limitrofi (Giordania,
mit, fermi a 17 con 54 mila destinatari.
Siria, Libano).
A Marrakech ce n’erano almeno un’altra decina,
Si tratta di esperienze ancora limitate, anche se
anche se la presenza attiva è limitata a Marocnon vanno sottovalutate. Peraltro l’economia
co, Egitto, Libano, Giordania. E Palestina. Dalla
palestinese è, da due anni a questa parte, al diWest Bank e da Gaza, oltre agli operatori uffisastro. Prima del precipitare di quest’ultima criciali di Usaid, dell’Unrwa (Onu), della Arab
si, una popolazione di 3 milioni di persone viOperatori di Parc, Palestinian Agricultural Relief
Bank, c’erano due istituzioni di microfinanza lo- Committes
veva con un prodotto nazionale di 4,9 miliardi
cali, Faten e Asala.
di dollari, cioè con poco più di 1.600 dollari anFaten, Palestine for Credit and Development, nasce nel
nui a testa. Gli aiuti internazionali nel 2000 ammontavano a 636 mi’98 da un programma di microcredito avviato da Save The Children.
lioni di dollari.
È un’organizzazione non profit che fornisce servizi di microfinanza a
Con la cosiddetta seconda Intifada e l’escalation della violenza, il redmicroimprenditori palestinesi, soprattutto donne. In oltre tre anni
dito nazionale pro capite è crollato (-10,3% nel solo 2000). I 120 mila
ha erogato crediti per 18,9 milioni di dollari e al dicembre 2001 avepalestinesi che lavoravano in Israele – 80 mila dei quali illegali – sono
va 4.498 prestiti attivi. Dichiara un tasso di ripagamento del 99% e
quasi sempre impediti a raggiungere il posto di lavoro a causa del
una “sostenibilità operativa” – cioè la capacità di contare sulle problocco dei Territori. La disoccupazione in Cisgiordania e a Gaza è arriprie forze – del 75%.
vata al 75% della popolazione attiva. Tuttavia non è privo di significaAsala, Palestinian Business Women’s Association, è
to il fatto che l’unico settore che nel decennio ’90 ha registrato una
un’organizzazione che opera a Gaza e in Cisgiordania in partnership
crescita media (+3,6% l’anno) superiore a quella della popolazione è
con il Catholic Relief Services. Sostiene le donne imprenditrici a basquello della giovane e piccola industria manifatturiera palestinese.
so reddito nell’avviare nuove attività o nel migliorare quelle esistenti.
Del resto la guerra strisciante sta portando alla crisi anche l’econoCon la chiusura delle frontiere e la riduzione delle opportunità di
mia israeliana, nonostante i fasti del complesso militare-industriale.
lavoro in Israele a seguito della seconda Intifada, le piccole attività
E, vista nel contesto Europa/Mediterraneo, la questione è quella di
economiche autonome hanno
un mondo arabo di 246 milioni di abitanti, oltre la metà dei quali
acquisito una rilevanza molto
popolazione urbana, con una generazione di giovani “mai così numaggiore per il livello di vita delmerosa”, come ricorda il recente Arab Human Development Report
le famiglie.
dell’Undp, che praticamente da venticinque anni non vede miglioraAnche nel commercio internamenti nel tenore di vita: +0,3% medio annuo l’incremento del prodotto lordo pro capite tra il 1975 e il 2000. Difficile immaginare un
Lo staff di Asala, Palestinian
percorso verso la pace, la convivenza, la libertà dalla paura senza
Business Women’s Association, a
pensare ad un futuro possibile per queste persone.
●
Ramallah (foto Catholic Relief Services)
Mubarak Awad
tante del mondo arabo e musulmano contemporaneo: il fondamentalismo islamista.
In un’intervista rilasciata al pacifista israeliano Meir Amor (sul periodico nordamericano
Peace Magazine, ottobre-dicembre 2000),
Awad racconta di come la nonviolenza sia
ostica all’Islam ufficiale, ma di aver trovato
che in India, con Gandhi, lavorava anche il
musulmano Abdul Ghaffar Khan.
Awad e Kuttab, sia pur implicitamente, non
credono alla semplice interpretazione del
“terrorismo come disperazione”. Sanno che
le organizzazioni islamiste sono movimenti
politici con un vasto seguito. E probabilmente sarebbero d’accordo con la lucida
analisi di un’altra psicologa, Grazia Attili
(“Kamikaze. Le basi biologiche dell’attacco
suicida”, Psicologia Contemporanea, marzo-aprile 2002), secondo cui «i meccanismi
su cui poggia l’addestramento dei kamikaze sono gli stessi su cui qualsiasi potere fa
leva per convincere e avviare alla guerra i
propri soldati: patria, terra, famiglia…»
e «le migliaia di persone da sterminare
vengono disegnate come individui estranei,
portatori di caratteristiche così diverse
da essere assimilabili a specie diverse.
Deumanizzati».
Infatti nel documento-appello dei due pacifisti si affronta di petto il principale ostacolo all’adozione della nonviolenza da parte
dei palestinesi, il cosiddetto “argomento
degli Hezbollah”. È la stessa televisione satellitare degli Hezbollah libanesi, Al Manar,
a «ricordare costantemente ai palestinesi
di seguire il loro esempio»: la lotta armata
degli Hezbollah ha costretto gli israeliani a
ritirarsi dal Libano meridionale occupato.
Ma Mubarak Awad e Jonathan Kuttab ribattono: «Gli israeliani non hanno mai considerato il sud del Libano parte di Israele.
L’occupazione poteva cessare quando il
suo costo in vite umane fosse diventato
troppo pesante rispetto ai benefici militari
della sua continuazione. Viceversa, la lotta
armata dei palestinesi è spesso interpretata come una minaccia contro Israele in
quanto tale».
La nonviolenza contro la paura
Siamo al punto dolente, alla tensione che
anima da mesi non solo gli israeliani ma gli
ebrei in tutto il mondo: la violenza e il terrorismo mettono in gioco l’esistenza stessa
dello Stato di Israele. «E quando è in gioco
l’esistenza» commentano Awad e Kuttab
«gli israeliani e i loro sostenitori all’estero
fanno fronte comune e combattono nonostante le perdite». Spiegare, come fanno alcuni, che l’obiettivo delle azioni armate non
è distruggere Israele ma porre fine all’occupazione «non è convincente, soprattutto nel
momento in cui l’israeliano medio viene ucciso o ferito e la guerra arriva nello stesso
Israele».
Ecco la forza dirompente della proposta nonviolenta. «Una lotta nonviolenta non può essere fraintesa come una minaccia fisica a
Israele». Infatti significa «l’accettazione dell’umanità dell’altro popolo». Anzi «un vasto
numero di israeliani che desiderano sinceramente una giusta pace possono essere coinvolti in questa lotta nonviolenta contro l’occupazione e gli insediamenti».
Certo, i palestinesi sceglieranno la nonviolenza «solo se si convinceranno della sua efficacia» mentre ora «la gente è ancora intrappolata nella retorica della lotta armata».
Insomma Awad e Kuttab non si nascondono
le difficoltà. Una di esse, e non di poco con●
to, riguarda l’economia.
«L’
Algeria sembra chiusa in un circolo vizioso, che non le lascia
molta scelta fra le dittature al potere e la
minaccia integralista. Una sola regione sembra sfuggire a questa crudele fatalità, o almeno fa del suo meglio per liberarsene: la Cabilia». Karim Metref, algerino, residente in Italia
da quattro anni, è da molto tempo militante
per i diritti dei popoli berberofoni in Algeria.
Karim è l’animatore di Asaka Italia, un’associazione socio-culturale italo-algerina per gli
scambi culturali ed economici su basi eque e
solidali fra le due rive del Mediterraneo. Asaka
infatti, in berbero, significa “guado”, cioè
“un luogo poco profondo del fiume dove tutti
possono attraversare compresi i più deboli”.
È con Asaka Italia che Microfinanza è entrata
in contatto ed ha lanciato il progetto “Sostegno all’artigianato tradizionale berbero”, assistenza tecnica e promozione di un fondo di
credito per le microimprese artigiane dei villaggi di Ath Yanni, Ath Hichen e Maatkas in
Cabilia, tra i 25 e i 50 km da Tizi Ouzou, capoluogo di provincia, 100 km ad est di Algeri.
Le armi e la banca
Proprio mentre si stava definendo il progetto, è stata pubblicata l’annuale “Relazione
sulle operazioni autorizzate e svolte per il
controllo dell’esportazione, importazione e
transito dei materiali di armamento” presentata dalla Presidenza del Consiglio al Parlamento. Nel 2001 il governo italiano ha autorizzato esportazioni di armi in Algeria per 1
milione 171 mila euro (2 miliardi 267 milioni
di vecchie lire). Si tratta, come emerge dalla
lettura della Relazione, della fornitura di impianti di telecomunicazioni belliche della
Alenia Marconi Systems spa.
Naturalmente il destinatario è il governo di
Algeri. Come nel caso delle consistenti forniture di armi leggere, soprattutto pistole Beretta, degli anni precedenti. Il record fu raggiunto nel 1995 con più di 5 milioni di euro
(10 miliardi di lire). Ma secondo Luis Martinez, del Centro studi e ricerche internazionali (Ceri) di Parigi, che ha seguito da vicino la
situazione nel paese durante la guerra civile
seguita alla cancellazione dei risultati delle
elezioni legislative del ’91, le armi principali
usate dai gruppi armati del fondamentalismo islamista sono «le pistole Beretta e i Kalashnikov».
Microfinanza ha però scoperto anche un’altra cosa: che il Ministero dell’economia l’anno scorso ha autorizzato un’operazione bancaria corrispondente alla fornitura Alenia del
valore di 1.024.808,36 euro (la valuta originaria dell’operazione è il dollaro), con importi accessori, che comprendono i compensi di mediazione per la conclusione
dell’affare, per 223.046,67 euro, attraverso
la Banca Antoniana Popolare Veneta, new
[foto Pietro Gigli]
entry nella lista delle “banche armate”. Proprio la banca presso cui aveva il conto corrente Microfinanza, che l’aveva scelta anche
perché finora fuori dal business del mercato
armiero.
Microfinanza ha immediatamente avviato le
procedure per chiudere il conto all’Antonveneta. «Non possiamo essere, sia pur indirettamente, complici del riarmo nel Maghreb
proprio mentre stiamo promuovendo progetti di sviluppo locale». Il problema delle armi
e della violenza resta. Ma tra i berberi, che si
oppongono all’attuale governo algerino, si
fa strada un’opzione diversa.
L’Algeria e gli “uomini liberi”
La Cabilia, regione centro settentrionale dell’Algeria, è abitata da una popolazione di origine masira comunemente nota come berbera. Il termine berbero è in realtà abbastanza
dispregiativo perché deriva da barbaro. I
berberi definiscono se stessi come amazigh,
ovvero “uomini liberi”. In Cabilia sono circa 6
milioni, più o meno i due terzi della complessiva presenza berberofona in Algeria.
«La questione berbera è indissolubile dalla
questione nazionale algerina così come marocchina. Anzi direi di più: va necessariamente coniugata con il progetto di società
dei popoli marocchino e algerino (e forse anche maliano o nigerino)» commenta Giampietro Pizzo, che segue il lavoro di Microfinanza nel Maghreb. «In Algeria la questione
etnica esplode come ultimo sintomo della
deriva del progetto nato con l’indipendenza.
La liberazione nazionale algerina è nata sulle basi di un’organizzazione statuale plasmata dalla Francia e dalla sua politica coloniale. Da Boumedienne alla struttura di
potere dell’esercito, il discorso retorico di legittimazione è cambiato passando dal socialismo al panarabismo, dal modello di modernizzazione all’integrazione economica con
l’Europa. Ma quello che mancava e manca è
un progetto che rappresenti le legittime
aspirazioni del popolo algerino e della sua
appartenenza a una storia nazionale».
La causa berbera/amazigh, ricorda Pizzo, è
sempre esistita. «Quello che avviene ora
è che si vuole forse giocarla su un piano
strettamente politico. Facciamo attenzione
che questo non diventi ancora una volta un
pretesto per una ennesima svolta autoritaria. La crisi dell’élite al potere è evidente, ma
Artigiano della Cabilia
prima di morire può fare molto male, prolungando questo terribile tunnel di oscurantismo e autoritarismo che vive l’Algeria e questo in nome dello stato di eccezione».
Ma tra gli stessi berberi maturano scelte diverse dalla contrapposizione etnica. «La lotta
per rivendicare la riabilitazione della cultura
e della lingua berbera» spiega Karim Metref
«si è materializzata dopo i tumulti popolari
del 20 aprile 1980 in Cabilia. Ma non si è mai
separata dalle altre lotte per le libertà democratiche sia individuali che collettive e per la
piena cittadinanza di tutti gli algerini, con i
loro punti in comune e le loro differenze».
Anzi, secondo Karim «gli animatori del Movimento culturale berbero, anche se hanno
mobilitato la regione in una opposizione radicale al potere e alla sua dittatura, hanno
chiaramente optato per l’opposizione democratica e nonviolenta».
Gli Aarouch e la nonviolenza
Dal marzo 2002 la Cabilia è di nuovo in rivolta. «Dalla reazione violenta delle fasce giovanili all’arbitrio e alla violenza dei gendarmi
sulla popolazione, si è passati ad un autentico movimento popolare di resistenza, eletto
e controllato dalle popolazioni dei villaggi: il
coordinamento dei villaggi e tribù Aarouch,
che ha raccolto la collera dei giovani per farne un lancio costruttivo e alternativo credibile e non di distruzione come rischiava e rischia ancora di diventare».
Gli Aarouch, aggiunge Metref, hanno prodotto una piattaforma di rivendicazione molto
importante che potrebbe essere una base
costruttiva per un’Algeria democratica, scegliendo un’opzione chiara contro l’uso della
violenza. Tuttavia la mancanza di formazione
ed esperienza impedisce loro di passare a
forme più attive e costruttive di lotta. La
struttura che ha assicurato fin qui la rappresentanza della popolazione della Cabilia comincia a mostrare i suoi limiti e gli animatori
non riescono a rianimarla.
«Entrare in contatto con gli attivisti, raccogliere informazioni, testimonianze, immagini
e suoni di questa protesta, per farla conoscere ad altre realtà attraverso la gente che potrà aiutarla a svilupparsi e migliorare i propri
metodi di organizzazione, di comunicazione,
di resistenza e di lotta; proporre e valutare
con gli attivisti del movimento i bisogni e le
possibilità di organizzare dei momenti di formazione dell’organizzazione dei movimenti
di resistenza e dell’azione nonviolenta».
Questi secondo Metref i prossimi passi da
concretizzare. Accanto al sostegno all’autorganizzazione economica dei villaggi.
Tappeti, terracotta e
gioielli d’argento
Una quarantina di chilometri a sud-est di Tizi
Ouzou, capoluogo dell’omonima wilaya
(dipartimento) dell’Algeria settentrionale,
salendo verso la catena montuosa del
Djurdjura, si incontrano i villaggi del piccolo
comune di Ath Yanni. Qui, dall’epoca che
corrisponde all’alto Medioevo europeo, si
fabbricano gli straordinari gioielli d’argento
e corallo della tradizione cabila.
L’artigianato, soprattutto artistico, è infatti
la maggiore attività economica della Cabilia, dove invece l’agricoltura di montagna è
difficile e povera. Da tempo però anche gli
artigiani sono in difficoltà, non solo per ragioni “tecniche” come l’esaurimento dei
banchi di corallo, oggi protetto e trattato
solo nel mercato nero dalle mafie. La regione è caratterizzata da forte disoccupazione
e alti tassi di emigrazione. Le scelte di sviluppo dei governi di Algeri hanno trascurato la piccola impresa locale, seguendo il miraggio della “modernizzazione” finanziata
con l’esportazione di idrocarburi. È l’altra
faccia della crisi politica che vede la Cabilia
in rivolta contro il governo centrale e colpita anche dal fondamentalismo islamista armato.
Le tre comunità coinvolte nel progetto Microfinanza/Asaka sono specializzate in settori
dell’artigianato tradizionale: le donne di
Maatkas nella terracotta, quelle di Ath Hichen
nella tessitura di tappeti e coperte, ad Ath
Yanni gli artigiani creano bracciali, collane,
orecchini a base di argento cesellato ornato
da filigrane o smalti.
Gli artigiani non sono organizzati in nessun
tipo di associazione o cooperativa e vendono singolarmente i loro prodotti a commercianti che poi li esportano. Il loro guadagno
è irrisorio rispetto a quello degli intermediari. Il primo obiettivo è quindi di costituire un
consorzio di vendita dei prodotti, anche all’estero tramite in particolare i canali del
commercio equo e solidale. Si tratta poi di
offrire agli artigiani servizi imprenditoriali
che aiutino la crescita di un sistema locale
delle produzioni tipiche.
●
Gioielli della tradizione artigianale cabila
SPECIALE MEDITERRANEO
L’Algeria è stretta tra regime
autoritario e violenza fondamentalista, con alle spalle un
fiorente mercato di armi anche
italiane. Ma nel paese, e soprattutto tra i berberi, gli “uomini liberi” della Cabilia, si fa
strada la scelta della lotta nonviolenta. L’autorganizzazione è
però ancora fragile, ha bisogno
di sostegno e formazione.
Come di sostegno ha bisogno
l’economia povera dei villaggi,
dove si incontrano maestri artigiani dell’argento ed esperte
tessitrici di tappeti e coperte.
Microfinanza e l’associazione
Asaka stanno lavorando ad
un progetto di assistenza alla
microimpresa e di microcredito
5
MICROFINANZA 2 NOVEMBRE 2002
I maestri artigiani di Ath Yanni
SPECIALE MEDITERRANEO
[foto Pietro Gigli]
Nel 2001 le rimesse degli immigrati in Italia toccano un nuovo livello record: 749 milioni di euro, il 27,4%
in più dell’anno precedente. Per trasferire questo risparmio senza taglieggiare gli immigrati e per valorizzarlo come risorsa per lo sviluppo dei paesi di provenienza, Microfinanza e la ong Cospe hanno avviato un progetto con la Comunità marocchina di Livorno
N
MICROFINANZA 2 NOVEMBRE 2002
6
el 2001, secondo i dati dell’Ufficio Italiano Cambi resi pubblici dal Bollettino della Banca
d’Italia, le rimesse degli immigrati nel nostro paese hanno
raggiunto la cifra record di 749 milioni di euro, poco meno di 1.500 miliardi di vecchie lire. Nel 2000 ammontavano a 588 milioni,
dunque l’incremento è stato del 27,4%. Le rimesse degli emigrati italiani invece decrescono: dai 389 milioni di euro del 2000 a 359
milioni nel 2001.
Una parte crescente di questo risparmio è
destinato a paesi in via di sviluppo. Secondo
la ricerca dell’Organizzazione Internazionale
del Lavoro (Ilo) e della Caritas di Roma, presentata l’anno scorso, nel 2000 il 52% delle
rimesse andavano verso paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina e un altro 2% a
paesi dell’Est Europa. All’inizio degli anni ’90
ai paesi in via di sviluppo andava appena il
12% delle rimesse. Gli ultimi dati mensili dell’Ufficio Cambi, riferiti al febbraio e al marzo
2002, danno il Sud del mondo al 53-54%.
In ascesa è, in modo particolare, la destinazione Asia – in primo luogo Cina e Filippine –
che nel 2000 copriva quasi il 44% delle rimesse degli immigrati stranieri in Italia.
Sempre secondo la ricerca Ilo-Caritas, ciò dipende dal livello particolarmente elevato di
risparmio pro-capite degli immigrati asiatici:
930 euro. L’Africa, soprattutto il Nord Africa
con in testa il Marocco, riceve invece il 6%
delle rimesse dall’Italia, mentre in America
Latina ne arriva il 2%.
Destinazione Asia
Dal 1974 al 1999 il volume delle rimesse trasferite dagli emigranti in ogni parte del mondo ha superato gli 800 miliardi di dollari. Di
questi quasi 500 miliardi, e quindi la maggior parte, sono stati trasferiti nel corso degli anni ’90 denotando un notevole incremento delle dimensioni del fenomeno, in
parallelo con l’incremento delle migrazioni.
Negli anni ’70 la destinazione prevalente
delle rimesse era l’Europa occidentale (33
miliardi), seguita dall’Africa (14 miliardi) e
dall’Asia (12,6 miliardi). Interessante in quel
periodo il ruolo assolutamente marginale
dell’America (compresa quella Latina) che riceveva rimesse per un importo pari a circa
1,5 miliardi di dollari.
Negli anni ’90 la situazione è completamente cambiata. Il continente più importante per
destinazione resta l’Europa, con circa un terzo delle rimesse mondiali, per un importo
che si aggira intorno ai 157 miliardi di dollari, ma con un rimescolamento sostanziale
dei singoli paesi coinvolti e con un ruolo preponderante dell’Europa Centro-Orientale.
Al secondo posto – 156 miliardi, con un volume analogo quindi a quello europeo – vi è
l’Asia, nella quale assume un ruolo fondamentale il subcontinente indiano (India,
Pakistan e Bangladesh) con circa il 60% delle rimesse giunte nel continente. Segue l’America con 94 miliardi di dollari pari al 19%
del totale (2% negli anni ’70).
Quindi troviamo l’Africa, che vede diminuire
il suo peso in valore percentuale rispetto agli
anni ’70 (17% contro il 22%) anche in questo
mercato. Anche se si tratta di cifre comunque non indifferenti: 86 miliardi di dollari.
Nel continente africano il ruolo predominante è giocato dai paesi settentrionali (Marocco, Egitto e Tunisia) con l’80% delle rimesse.
Il mercato delle rimesse
Questi numeri spiegano la ragione per la
quale, da qualche anno, il mercato delle rimesse è diventato appetibile per una serie di
soggetti finanziari e, recentemente, anche
per le banche.
Tale mercato è dominato oggi, a livello internazionale e anche in Italia, da due aziende:
Western Union (gruppo First Data) e MoneyGram (gruppo Viad Corporation). Ma ne esistono molte altre, pur se minori. Da uno
studio del 2000 dell’Istituto di ricerca economica “Tomas Rivera” si desume che, specialmente in relazione all’America Latina, sono
attivi anche i seguenti soggetti: Gigante
Express, Mateo Express, Vimenca, Pronto
Envio, IRNet.
Le caratteristiche operative peculiari di questo mercato sono rappresentate principalmente dalla velocità di trasferimento del denaro e dalla sicurezza. In nome di esse – e di
una mancanza di alternative che non siano i
trasferimenti informali a mezzo di conoscenti o di “intermediari non formali specializzati” – gli immigrati accettano costi per il servizio molto consistenti che talora superano il
20% della somma da spedire.
Tali costi sono rappresentati di norma da una
percentuale o da una somma fissa per accedere al servizio, dal tasso di cambio applicato per la conversione in valuta locale – di
solito penalizzante a causa dell’elevata in-
stabilità di tali valute – e da una commissione trattenuta all’atto della consegna del denaro ai destinatari.
Secondo lo studio dell’Istituto Rivera, il valore medio dei trasferimenti verso l’America
Latina – ma si può ritenere che per gli altri
paesi sia analogo – supera di poco i 300 dollari.
In Italia, Western Union e MoneyGram sono
per il momento le uniche presenti sul mercato con una diffusione e capillarità notevole.
Gli sportelli della Western Union si trovano
anche in bar e supermercati e sono gestiti da
una società italiana – la Angelo Costa spa
che unisce anche altri servizi per gli immigrati (telefonia, spedizioni di pacchi, ecc.).
MoneyGram ha stipulato un accordo con Poste Italiane e si avvale pertanto dei suoi
14.000 sportelli in tutta Italia.
L’intervento della microfinanza
Le rimesse degli emigrati sono, per molti
paesi del Sud del mondo, una delle poche
voci che evita il tracollo della bilancia dei pagamenti con l’estero. Ma potrebbero diventare anche una vera risorsa per lo sviluppo
locale? Certo, se si considerano a pieno titolo risparmio disponibile per sostenere gli investimenti, che in molte realtà del Sud del
mondo significa microcrediti alle microimprese locali.
È questa la sfida lanciata da Microfinanza e
dall’organizzazione non governativa Cospe
di Firenze con il progetto di gestione delle rimesse degli immigrati marocchini della provincia di Livorno. Il meccanismo del progetto
coinvolge la Comunità marocchina della provincia di Livorno, l’istituzione di microfinanza Amos di Khenifra (Marocco), il Monte dei
Paschi di Siena e le filiali marocchine del Crédit Agricole.
Un primo obiettivo di questo progetto è la
trasmissione a costi il più possibile ridotti e
Le rimesse degli immigrati
dall’Italia (valore in milioni di euro)
Anno
1990
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
Rimesse
32
208
246
292
392
511
588
749
Variazione annuale
Fonte: Elaborazioni Caritas e Microfinanza
su dati dell’Ufficio Italiano Cambi
18,3%
18,7%
34,2%
30,3%
15,1%
27,4%
Risparmi
migranti
Mameli Biasin
con tempi certi del valore della rimessa. In
aggiunta a ciò vi è la non secondaria questione della accessibilità del servizio a tutti i
familiari degli emigranti, anche se residenti
in località rurali o montane, e comunque lontani dai centri urbani dove più facilmente vi è
la possibilità di trovare uno sportello bancario. Sotto questo profilo, il ruolo della microfinanza è assolutamente indispensabile poiché, in molte realtà rurali dei paesi in via di
sviluppo, l’unico “sportello” bancario è rappresentato proprio dalle microbanche di villaggio.
Cruciale in questa iniziativa è il coinvolgimento della comunità marocchina. Essa si
dovrà occupare della diffusione delle informazioni sul servizio e così facendo potrà
percepire una commissione che le permetterà di organizzare attività a sostegno dell’integrazione degli immigrati marocchini nel
territorio di Livorno.
Per lo sviluppo
e non per il terrorismo
Il passaggio decisivo sarà poi l’utilizzo delle
rimesse sul posto, attraverso l’organizzazione locale di microfinanza, per il finanziamento delle piccole attività economiche agricole
e artigianali.
Non è questo peraltro il primo caso di intervento della microfinanza nel mercato delle
rimesse degli emigranti. Tra le altre principali esperienze avviate negli ultimi tempi ricordiamo:
• FIE/FFP (istituzione di microfinanza boliviana) che gestisce le rimesse della comunità boliviana in Argentina;
• Banco Solidario (istituzione di microfinanza ecuadoriana) che gestisce le rimesse
della comunità ecuadoriana in Spagna.
La trasparenza nei trasferimenti delle rimesse e il loro utilizzo per lo sviluppo attraverso
le organizzazioni del microcredito sono anche elementi di chiarezza rispetto ai rischi di
riciclaggio e di utilizzo da parte della criminalità organizzata.
Negli ultimi mesi da più parti si è parlato del
trasferimento di denaro attraverso canali
informali anche come fonte di risorse per organizzazioni terroristiche come Al Qaeda di
Osama bin Laden. Sgombrare il campo da
dubbi sulla destinazione del denaro è quindi
necessario. Organizzarne un utilizzo efficace
per lo sviluppo è il modo più limpido per farlo
●
arrivare a chi ne ha veramente bisogno.
Cresce la microfinanza rurale
A
Prijedor, seconda città della
Repubblica Srpska di Bosnia,
è stato avviato da alcuni anni
un progetto di cooperazione
decentrata promosso da Casa
per la Pace (ong di Trento), da un consorzio
di enti locali (Provincia Autonoma di Trento
e vari consigli comunali) del Trentino Alto
Adige e dal Consiglio d’Europa. All’interno
del “Progetto Prijedor”, tra il 2000 e il 2001
Microfinanza ha seguito sul campo il risanamento del portafoglio incagliato e a rischio e il ridisegno completo della funzione
di microcredito dell’Associazione Agricoltori di Prijedor (Aap).
Oggi questo lavoro sta dando i suoi frutti. Come spiega Annalisa Tomasi dell’Agenzia per la
Democrazia Locale di Prijedor, alla fine del luglio 2002 l’Aap è arrivata ad aver erogato
251.300 marchi (quelli bosniaci valgono come
il vecchio marco tedesco, quindi circa la metà
di un euro) a 122 destinatari, con un portafoglio critico del 6,04% sul totale. Il portafoglio
attualmente attivo è di poco più di 100 mila
marchi per 50 contadini.
Nell’area ci sono altre realtà di microcredito.
Mikrofin, finanziata dalla Banca Mondiale, offre microcrediti al commercio (tasso di interesse annuo del 30%) e alla produzione e servizi (tasso annuo del 24%). La Raiffeisen
Banka (banca cooperativa) presta ad un tasso
annuo medio del 15%, mentre l’associazione
Zdravo daste fa microcredito per l’imprenditoria femminile con un tasso annuo del 16%.
La App, con un tasso annuo del 10,8%, è quindi tra le realtà di microcredito meno costose
ed è pressoché l’unica che opera nel settore
della produzione agricola. Per lo sviluppo del
fondo di credito della App, Microfinanza ha
lanciato la raccolta di altri 100 mila euro. ●
SPECIALE MEDITERRANEO
Bosnia, progetto Prijedor
Forza e debolezze delle banche
dei poveri in Albania
●●●
[segue da pagina 1]
Omaggio ad
Arghiri Emmanuel,
pioniere degli studi sullo
“scambio ineguale”
cinquant’anni, si iscrive all’Ecole Pratique des
Hautes Etudes, dove prende il Dottorato di 3°
ciclo nel 1968 sotto la direzione dell’eminente
studioso marxista Charles Bettelheim. Inizia
quindi la carriera accademica nel ’69 e fino al
1980, quando a quasi settant’anni va in pensione, insegna Rapporti economici internazionali all’Università di Parigi I. Nel 1969 pubblica, sulla base della sua tesi di Dottorato, il
libro che lo renderà celebre almeno tra chi allora si occupava seriamente dei problemi
dello sviluppo e del sottosviluppo: L’échange
inégal cioè Lo scambio ineguale. Gli antagonismi nei rapporti economici internazionali (in
italiano Einaudi, Torino, 1972).
La tesi di Emmanuel, non conformista (neanche per il suo maestro marxista) ma rigorosamente argomentata, dovrebbe essere familiare al mondo dell’economia solidale e
del movimento critico con la globalizzazione
liberista, ma forse non è conosciuta che superficialmente. Emmanuel parte dalla constatazione del divorzio pressoché totale tra
la teoria economica, che è generalmente
convinta dei benefici del libero scambio a livello internazionale, e la pratica di quasi tutti i paesi – almeno di tutti quelli che possono
farlo – che conducono politiche commerciali
in varia misura protezioniste.
Possibile che i governanti, le imprese e i lavoratori che spingono per il protezionismo inve-
ce di ascoltare le sagge ricette degli economisti siano preda dell’irrazionalità più completa?
No, risponde l’autore, la pratica ha senso, è la
teoria che non funziona perché descrive un
mondo idilliaco che non c’è. In realtà negli
scambi economici internazionali c’è chi guadagna e chi perde, non occasionalmente ma
sulla base di un meccanismo strutturale.
Le radici dello scambio ineguale
Discutendo del deterioramento sistematico
delle ragioni di scambio dei paesi in via di
sviluppo, Emmanuel contesta la spiegazione
che molti – spesso anche nel mondo della
solidarietà – danno: si tratterebbe della conseguenza del fatto che i paesi del “Terzo
Mondo” producono prevalentemente materie prime agricole e minerarie e sono i prezzi
delle materie prime che declinano sistematicamente, per ragioni legate all’arretratezza
tecnologica e all’andamento della domanda.
Scrive Emmanuel (trent’anni fa!): «Il deterioramento delle ragioni di scambio dei beni
primari è un errore di ottica. È il risultato dell’identificazione arbitraria delle esportazioni
dei paesi ricchi con quelle di beni manifatturati e delle esportazioni dei paesi poveri con
quelle dei beni primari… Il caffè, il cacao e il
cotone prima di essere esportati devono subire una lavorazione altrettanto, se non più
importante, del legno svedese o canadese;
le banane e le spezie non sono più primarie
della carne o dei prodotti lattieri. Tuttavia i
prezzi degli uni diminuiscono, quelli degli altri aumentano e la sola caratteristica comune ad entrambi è che sono rispettivamente i
prodotti dei paesi poveri e dei paesi ricchi».
L’indicazione centrale de Lo scambio ine-
destinatari dei prestiti di Besa per un valore
totale dell’equivalente di 7 milioni di dollari.
Sono stati praticamente completati i rapporti sul Rural Financial Fund e sul
Partneri Shqiptar ne Mikrokredi
(Pshm). Ai primi del 2003 verrà svolta la valutazione di Mountain Areas Finance
Fund (Maff ) .
Il rating di Microfinanza non prevede un valore sintetico – tipo le AAA di Standard &
Poor’s per intenderci – ma una valutazione
denominata Swot, cioè “Strengths, weaknesses, opportunities, threats”, punti di forza e di debolezza, opportunità e ostacoli di
sviluppo.
●
guale è che per spiegare l’andamento dei
prezzi bisogna guardare alla remunerazione
dei fattori della produzione, cioè del capitale
e del lavoro. E mentre i capitali si fanno ormai concorrenza su scala mondiale e quindi
difficilmente può mantenersi a lungo una
nicchia in cui un singolo capitale guadagna
molto più della media, perché rapidamente
in quella nicchia si gettano anche altri, il lavoro, nonostante i consistenti flussi migratori, è ancora relativamente immobile e le differenze – enormi – nella sua remunerazione
tra paesi ricchi e poveri restano stabili. Per
remunerazione del lavoro non intendiamo
solo il salario del lavoratore dipendente, relativamente poco diffuso nel Sud del mondo,
ma anche il reddito del grandissimo numero
di produttori individuali, di microimprese familiari (500 milioni secondo una stima dell’Unctad), di lavoratori “autonomi”. Di chi si
arrangia a sopravvivere.
Lo scambio ineguale dipende – afferma Emmanuel – dalla differente remunerazione del
lavoro del tutto sproporzionata alle differenze
di livello tecnico o di produttività. Sul mercato
mondiale si scambiano beni di diversa natura,
più o meno manifatturati, ma quelli che provengono dai paesi poveri hanno sistematicamente una parte di lavoro non pagato – e dunque una perdita per l’economia nazionale –
rispetto allo standard produttivo.
altre “provocazioni” stimolanti. In Technologie appropriée ou technologie sous-développée (Puf, Parigi 1982) lo studioso mette
in discussione un tabù del pensiero “terzomondista”: l’investimento diretto da parte
delle multinazionali.
Lungi dall’esserci “la coda” per investire nel
Sud del mondo, le imprese multinazionali
preferiscono di gran lunga, nell’ordine, a)
esportare i loro prodotti, b) vendere la tecnologia o i brevetti e ottenere royalties (vedi il
caso dei farmaci), c) sfruttare il subappalto.
Lo scambio ineguale garantisce infatti molti
più guadagni e meno rischi in questi casi. Solo se non si può fare diversamente, e se c’è
una qualche convenienza, la multinazionale
investe i propri capitali e apre una filiale.
Per la grande impresa l’investimento diretto
estero non è dunque la regola ma l’eccezione. Per i paesi poveri – provoca Emmanuel –
è invece la soluzione migliore: arrivano capitali, vi è un qualche trasferimento di tecnologia attraverso il know-how appreso dai nuovi operai e tecnici, c’è la possibilità, anche se
contrastata, di lotte sindacali per ottenere
remunerazioni migliori. La vicenda recente
dei paesi dell’Asia orientale in effetti insegna qualcosa al riguardo.
Come scrive nel suo ricordo (su “Revue Tiers
Monde”) Claudio Jedlicki, esule dall’America
Latina delle dittature militari e assistente di Emmanuel: «Per noi, che ci sentivamo vittime della Cia e dell’Itt, la sua posizione a favore degli
investimenti delle multinazionali era difficile da
accettare. Ma col suo rigore, ci ha insegnato a
sviluppare il nostro senso critico e a non fidarci
delle idee ricevute, benché dominanti. Il suo
campo è stato sempre quello dei deboli». ●
Investimenti esteri: troppi
o troppo pochi?
È il reddito del produttore diretto il punto
chiave dell’ineguaglianza negli scambi internazionali. Questo elemento ha anche altre
conseguenze che porteranno Emmanuel ad
7
MICROFINANZA 2 NOVEMBRE 2002
M
icrofinanza è l’unica società
italiana tra quelle accreditate presso il Cgap, l’apposito comitato della Banca
Mondiale, come valutatori
(raters) di organizzazioni di microcredito. In
queste settimane sta preparando i rapporti
di rating sulle principali istituzioni di microfinanza albanesi. I rapporti verranno pubblicati sul sito del Cgap.
È pronto quello di Besa Foundation –
“besa” significa “fiducia” – un’organizzazione nata nel 1999 dalla Open Society di George Soros e specializzata nel microcredito a
piccole attività urbane. Sono circa 3.500 i
La polemica
Quel microcredito
così “commerciale”…
Giampietro Pizzo
«Costretto da non so quale necessità una volta, a chiedere danari
in prestanza a uno, il quale scusandosi di non potergliene dare,
concluse affermando, che se fosse stato ricco, non avrebbe avuto
maggior pensiero che delle occorrenze degli amici; esso replicò: mi
rincrescerebbe assai che tu stessi in pensiero per causa nostra.
Prego Dio che non ti faccia mai ricco»
Detti memorabili di Filippo Ottonieri, Operette Morali, Giacomo Leopardi
I
MICROFINANZA 2 NOVEMBRE 2002
8
n Italia di microcredito si comincia a
parlare parecchio. Ma non sempre con
favore, anzi spesso con sospetto. Troppa “imprenditorialità”, troppo “mercato”, troppe aspirazioni “commerciali”,
tassi di interesse “troppo alti”. Insomma
troppo fuori dagli schemi della cooperazione
allo sviluppo tradizionale. La più recente
espressione di queste critiche è dovuta ad
Alberto Sciortino, coordinatore dei programmi del Ciss, Cooperazione Internazionale
Sud Sud, ong di Palermo. La si può leggere
ne “Le mille incognite del microcredito” su
www.terrelibere.it e nell’intervento “Ma a chi
serve il microcredito?” in Microcredito: uno
strumento per lo sviluppo? a cura dell’Aps
Associazione per la Partecipazione allo Sviluppo di Torino (in questo testo sono riportati anche due interventi di Microfinanza: “I
nuovi scenari del debito estero e l’alternativa microcredito” di Francesco Terreri e “La
valutazione d’impatto dei progetti di microcredito: obiettivi e metodologie di valutazione” di Fabio Malanchini).
La moda
«Il microcredito è di moda» si dice ormai da
più parti. Più di 7.000 istituzioni di microfinanza esistono ed operano nel mondo. L’ultimo rapporto della campagna internazionale del microcredito (Microcredit Summit) ne
censisce 1.567 con 30 milioni 681 mila destinatari di microprestiti, di cui 19 milioni 327
mila “molto poveri” – definiti in prima approssimazione come coloro che vivono con
meno della metà del reddito della soglia nazionale di povertà. Di essi oltre 14 milioni sono donne.
Ma più che di moda io parlerei di successo, e
di successo clamoroso dopo anni di afropessimismo, di catastrofismo umanitario, di
reciproci j’accuse fra policy makers e ong di
ogni colore e sponda. Ben vengano queste
mode se ci aiutano a costruire il nuovo e ad
immaginare un futuro per miliardi di “dannati della terra”.
Nel suo intervento Sciortino nota anche che
la microfinanza non ha inventato nulla. Ci sono state le esperienze europee delle casse
rurali e delle banche popolari; i teutonici
Raffeisen e Schulze-Delitzsch prima del bengali Yunus; il signor Tonti prima delle tontines e prima dei francesi con il loro “crédit
mutuel”.
Ebbene sì, come ci insegna Albert O. Hirschman lo sviluppo è un fiume sotterraneo: da
esperienze di fallimento nascono nuove opportunità e da istituzioni ormai morte sorgono nuove Fenici dello sviluppo. Quello che
conta è l’autenticità dei processi organizzativi e delle forme istituzionali: e così la nostra
storia creditizia è la base del nostro sviluppo
odierno.
Analogamente, se vogliamo essere realisti,
la storia economica africana doveva necessariamente passare per il fallimento delle
istituzioni coloniali – francesi, inglesi ecc. –
proprio perché queste erano state estrapolate da contesti, storie e culture totalmente al-
tri. Ma i “fiumi sotterranei” possono sempre
riemergere, e così un banchiere napoletano
può riaffiorare in Camerun, in pieno paese
Bamileke, per dare vita ad una esperienza
originalissima come le tontines.
Le banche e lo sviluppo
Ma veniamo agli argomenti centrali della critica. Il primo è il ruolo del credito e della microfinanza nei processi di sviluppo.
Si afferma, e Sciortino riprende questa tesi,
che le iniziative di credito di carattere mutualistico e cooperativo, come quelle storicamente sperimentate in diverse realtà europee tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del
Novecento, hanno avuto successo perché inserite «in un contesto di sviluppo generale, a
livello continentale, e di trasformazione industriale dell’economia». In definitiva, solo
se esiste quella volontà di investire, simbolicamente rappresentata dagli animal spirits
degli imprenditori, l’istituzione creditizia e
bancaria potrà svolgere degnamente il proprio ruolo di volano dell’economia.
Ma non è proprio questo volano che manca
in molti paesi poveri in Africa, Asia o America Latina? Non è quel diritto negato al credito e l’assenza di un briciolo di democrazia
economica che tarpano le ali ai mille progetti individuali e collettivi degli esclusi, delle
donne e degli uomini nelle periferie urbane
così come nelle campagne? Sono centinaia
di milioni gli “spiritelli imprenditoriali” che
chiedono di poter agire, contare, partecipare
alla costruzione, non solo di economie regionali e nazionali ma anche, e soprattutto, di
una diversa e più equa società civile.
Scomodiamo ancora una volta Hirschman
per dire che non esistono modelli di sviluppo
equilibrato in cui tutti i fattori produttivi, istituzionali, culturali sono sincronicamente riuniti. Lo sviluppo è un processo in cui le tensioni e le contraddizioni, le priorità e le
compatibilità costruiscono un modello sociale ed economico in continua evoluzione e
in cui minime variazioni possono produrre
enormi cambiamenti.
Nella stessa storia europea non tutte le banche sono state uguali: quelle che hanno funzionato come banche dei distretti industriali
di piccole imprese si sono comportate nei
confronti degli imprenditori e del “contesto”
(la “costruzione sociale del mercato”) diversamente dalle istituzioni che hanno affiancato la grande impresa pubblica o privata. E la
differenza non è passata necessariamente
tra banche cooperative e banche “commerciali”.
Profitti
Il secondo argomento critico di Sciortino e di
altri suona così: «Le iniziative di microcredito, nate come finanza a sostegno dell’economia debole e informale, hanno finito per
operare per la ricerca del profitto e sono diventate componenti a tutti gli effetti dell’economia creditizia formale».
Ecco il vizio antico che riaffiora inesorabile!
Se un’esperienza organizzativa funziona, e
[foto Pietro Gigli]
magari è redditizia, subito il demone del profitto la corrompe, portandola dritta dritta
verso una perversa integrazione nell’economia formale.
Ma finché l’economia internazionale opererà
in un contesto di mercato, un’impresa o una
cooperativa debbono poter stare sul mercato, ricercando il profitto per soddisfare i bisogni dei propri aderenti, dei propri soci, dei
propri beneficiari. La questione rimane quella della forma di appropriazione di questi
profitti: i grandi gruppi multinazionali e bancari o i piccoli soci aderenti alle migliaia di
cooperative di risparmio e credito africane,
asiatiche o latinoamericane?
Si tratterà semmai di creare procedure trasparenti e democratiche di investimento e di
rifinanziamento delle istituzioni di microfinanza. Le esperienze di molte banche etiche
del Nord Europa vanno proprio in questa direzione (Triodos, Oikocredit ecc.).
Ma non si tratta solo di questo. Di mercato
non ce n’è un solo tipo, e il fatto che oggi ci
sia la “dittatura” dei mercati oligopolistici o
monopolistici – e che il “modello” siano Enron o WorldCom – non impedisce di pensare
a sistemi di scambio più equi, che hanno al
centro la possibilità di soddisfare i bisogni
essenziali (cibo, acqua, salute, istruzione).
Esperienze come la microfinanza e il commercio equo e solidale – pur con tutti i loro
limiti – mostrano proprio che “un altro mercato è possibile”.
I poverissimi
Ma Sciortino va oltre e si chiede: a chi giova
il microcredito? Ai poveri o a qualcun altro, o
forse semplicemente a nessuno?
Intanto ci sono i 30 milioni di destinatari, soci, beneficiari, clienti, che non sono pochi. La
questione però è che si parla dei “più poveri
fra i poveri” e anche i documenti di riflessione del prossimo Microcredit Summit (New
York, novembre) – che affrontano, come molti operatori della microfinanza, i problemi
dell’impatto del microcredito – si interrogano preoccupati sul numero ancora troppo
basso di poverissimi raggiunti.
Tuttavia bisogna intendersi: chi è veramente
disperato, chi non ha veramente nulla, neppure un patrimonio di relazioni sociali che gli
permetta di avere una garanzia solidale, perché vive alla giornata, è rifugiato o è immigrato da poco in una megalopoli, non può
beneficiare veramente di un credito perché
non ha né un progetto né una visione del
proprio futuro. Con i disperati, con i naufraghi, con i più poveri dei poveri, altri sono gli
strumenti per lottare contro la miseria e per
una politica di emergenza. La donazione è
spesso in questi casi lo strumento da usare,
senza fare confusione e chiamando dono il
dono e credito il credito.
La venditrice di Dakar
Infine la questione che più tormenta, incomoda, fa dubitare chi si occupa di sviluppo e
di finanza etica. Perché questi tassi di interesse così alti, perché questa microfinanza
così prossima all’usura?
Lo stesso Sciortino lo spiega bene: i costi di
intermediazione sono elevati e «nemmeno le
banche vivono del differenziale tra i tassi sui
prestiti e quelli sui depositi». È proprio questa la ragione per cui lo spread finanziario è
così alto nelle istituzioni di microfinanza. Lo
dicono i milioni di poveri e di esclusi dei paesi del Sud: meglio un credito caro che nessun credito. E siccome costa caro dare piccoli, piccolissimi crediti nei più remoti angoli
del pianeta, meglio un tasso d’interesse elevato che nessun credito.
Ma facciamo un caso concreto, il caso della
piccola venditrice di pomodori di Dakar.
Compra una cassetta di pomodori la mattina, al mercato all’ingrosso di Pikine, per
1.000 franchi CFA (la moneta dell’Africa occidentale francofona: vale circa 3 lire, ce ne
vogliono 655 per fare 1 euro) e rivende al
dettaglio gli stessi pomodori ad un angolo
di strada sul Plateau, ricavando a fine giornata 3.000 FCFA. Il suo margine lordo è di
2.000 FCFA, ovvero il 200% del capitale investito.
Poniamo che il prestito serva a coprire l’acquisto di pomodori per un mese. Considerando 26 giornate lavorate, avremo entrate
per 78.000 FCFA e uscite per 40.000 FCFA
(26.000 per l’acquisto delle casse di pomo-
[foto Pietro Gigli]
doro, più 13.000 di trasporto, più spese diverse per 1.000 FCFA). Un prestito di 26.000
FCFA ad un tasso di interesse del 5% mensile (un’enormità, diremmo noi) prevede il pagamento di 1.300 FCFA di interesse.
Meglio pagare questo tasso – dice la saggia
donna wolof – piuttosto che rinunciare a
questo piccolo commercio informale. Anche
perché, a ben guardare, quei 1.300 FCFA di
interesse hanno consentito di produrre un
reddito mensile di 38.000 FCFA. A fronte di
un esorbitante tasso su base annuale pari al
60%, si avrà un’incidenza irrisoria in termini
di oneri finanziari, cioè il 3,4% del margine
lordo.
Semmai uno dei problemi aperti è che non
tutti i settori e le attività economiche richiedono le stesse condizioni di prestito. Altra
cosa è, ad esempio, il credito alla produzione rurale, oggi più difficile proprio perché i
contadini sono molto meno liquidi dei venditori ambulanti. Ma anche su questo terreno
la microfinanza si sta misurando.
Il “credito” della microfinanza
La vera incognita per ora resta la Cooperazione allo Sviluppo, in generale ma soprattutto, nello specifico, in terra italiana. Nessuno sa esattamente in che direzione si
muoverà né con che mezzi. A parte gli ennesimi scherzi sullo 0,7% o sull’1% del Pil.
Viceversa, il “credito” della microfinanza è
stato costruito lentamente, in mezzo alle
storie individuali e collettive di milioni di
persone. È un processo che nasce dal basso
e che solo da poco è agli onori della cronaca.
È un tesoro di esperienze, di conoscenze, di
dispositivi organizzativi che va preservato,
indipendentemente dal fatto che sia di moda
oppure no.
Se la Banca Mondiale ha deciso di adottarlo
come strumento di lotta alla povertà, non
deve essere istintivamente giudicato come
pericoloso, negativo. È, noi crediamo, innanzitutto una vittoria di coloro che credono che
il “sapere dello sviluppo” sia dei contadini,
degli artigiani, dei piccoli commercianti, che
lottano non solo per sopravvivere ma per migliorare davvero la loro condizione e la loro
speranza di vita.
È questo tesoro di conoscenze e di esperienze che non va assolutamente tradito: tutto il
resto potrà e dovrà essere emendato, criticato, aggiustato, migliorato. Ma nessuno dovrà tradire questa lezione.
Certo che «non è sufficiente mettere denaro
nelle mani delle persone, perché si possa innescare lo sviluppo» ma è comunque, ne siamo persuasi, un piccolo e significativo passo
sulla difficile via che conduce alla conquista
della dignità e della libertà per ogni abitante
della terra.
●
9
MICROFINANZA 2 NOVEMBRE 2002
Autosostenibilità
Il termine che più preoccupa i critici del microcredito come Sciortino è autosostenibilità. Io preferisco semplicemente parlare di
“autonomia” – sia questa organizzativa, economica o finanziaria. Ma il punto è: che male c’è a voler costruire processi di sviluppo
autonomi (un tempo si sarebbe detto “autocentrati”)?
Se un’istituzione di microfinanza ce la fa da
sola, con le proprie gambe, e magari riesce
pure a rifinanziarsi privatamente, senza far
ricorso ad una Ong o a un Ministero della
Cooperazione, perché non dovrebbe essere
una buona cosa? Non è questa la storia del
movimento cooperativo o, ancora più vicino
a noi, del movimento del commercio equo e
solidale o di Banca Etica? Perché quello che
va bene per noi non dovrebbe andare bene
per le popolazioni del Sud del mondo?
Ma quello che più conta è l’autonomia organizzativa, cioè la capacità di ogni organizzazione di dotarsi di una propria strategia,
di una propria politica e, soprattutto, di una
propria ragione d’essere. Su questo e per
questo, tutti dobbiamo impegnarci.
Per giunta, mentre preoccupa l’autosostenibilità economica delle organizzazioni di
microfinanza, essa viene auspicata per i destinatari – microimprese o produttori associati. Per quale strana ragione il piccolo artigiano o la cooperativa di contadini
dovrebbero diventare autarchici sul piano
finanziario dopo alcuni cicli di credito? Perché il microcredito – «utile» a detta di Sciortino «per avviare le attività economiche» –
non lo sarebbe più in seguito, e l’artigiano o
la cooperativa dovrebbero accontentarsi
dei fondi propri?
È proprio l’ineguale distribuzione su scala
mondiale dei fondi disponibili per l’investimento – oggi il 95% di essi va al 20% più
ricco della popolazione mondiale – uno dei
macigni sulla strada dello sviluppo dei paesi più poveri. Forse che le multinazionali impiegano solo fondi propri, o non sono davvero i grandi gruppi economici e finanziari
quelli con il più alto “leverage”, quelli che
rastrellano la gran parte del credito mondiale?
[foto Pietro Gigli]
Armi e finanza
Il debito armato dei paesi poveri
Negli ultimi cinque anni esportazioni italiane di armi per 33 milioni
di euro sono andate verso i paesi Hipc, l’Iniziativa sui paesi poveri
e altamente indebitati. Con ciò l’Italia ha violato un impegno preso
in sede internazionale a non aggravare il debito di questi paesi, soprattutto attraverso le vendite di armamenti.
Infatti i paesi Hipc in cui sono arrivate armi italiane hanno visto in
questi anni il loro debito estero militare aumentare di una cifra vicina ai 28 milioni di euro. Alla fine del 2001 resta un debito militare in essere che ammonta, nel calcolo più favorevole, a poco meno di 12 milioni di euro (21 milioni nel caso peggiore), interessi
esclusi.
E ora, oltre alla legge 185 sul commercio delle armi, il governo italiano ha rimesso in discussione anche la recente normativa (legge
209/2000) sulla cancellazione del debito
Le fonti principali su cui si basa questa analisi sono le Relazioni governative sulle esportazioni di armi ai sensi
della legge 185/90, le Relazioni del Ministero del Tesoro sull’attività della Sace (Istituto per i Servizi Assicurativi
del Commercio Estero), i dati di fonte Bri (Banca dei Regolamenti Internazionali) sull’esposizione creditizia
internazionale dell’Italia.
T
MICROFINANZA 2 NOVEMBRE 2002
10
ra le esportazioni italiane di armi degli ultimi cinque anni, una
cifra in valore pari a circa 64 miliardi di lire (33 milioni di euro)
è andata verso i paesi Hipc, l’Iniziativa sui paesi poveri e altamente indebitati promossa dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale. Con ciò l’Italia
ha violato un impegno preso in sede internazionale a non aggravare il debito di questi
paesi, soprattutto attraverso le vendite di armamenti.
La Hipc coinvolge, secondo l’ultimo aggiornamento della Banca Mondiale, 42 paesi, di
cui 34 africani, 4 latino-americani, 3 asiatici
e uno del Medio Oriente. I paesi destinatari,
a vario titolo, di armi italiane negli ultimi cinque anni sono dieci di essi: Costa d’Avorio,
Ghana, Guinea Conakry, Kenya, Mauritania,
Niger, Uganda e Zambia in Africa, Honduras
in America Latina e Vietnam in Asia.
In cinque casi le cifre in gioco sono modeste:
si tratta dell’esportazione di pistole mitragliatrici Beretta in Costa d’Avorio (30 milioni di lire nel 1997) e in Niger (4 milioni di
lire nel 1999-2000) e di parti di ricambio aeronautiche in Guinea Conakry (27 milioni
di lire nel 1999), in Uganda (meno di 1 milione di lire nel 1999) e in Zambia (complessivamente 353 milioni di lire tra il 1997 e
il 2001).
Negli altri cinque casi le dimensioni economiche e le modalità delle forniture hanno inciso sul peso e la sostenibilità del debito di
questi paesi verso l’Italia.
Ghana
Nel 1993 veniva autorizzata la vendita al
Ghana di 2 caccia addestratori MB-339A e di
3 addestratori leggeri MB-326K dell’Aermacchi con relative parti di ricambio, per un valore complessivo di oltre 20 milioni di dollari
(all’epoca 30 miliardi 672 milioni di lire). I velivoli sono stati consegnati tra il 1994 e il
1995. Nel 1995 si aggiungono anche 2 elicotteri Agusta A109AM del valore complessivo
di circa 3 milioni di dollari (5 miliardi e mezzo di lire).
A partire dal ’93 il Ghana paga le commesse
con le seguenti “rate”:
• anticipo di 4 milioni 975 mila dollari (poco
meno di 8 miliardi di lire) nel ’93. Banca
d’appoggio dell’operazione è la Bnl;
• 4 miliardi di lire nel ’94;
• 4 miliardi e mezzo di lire nel ’95;
• 6 miliardi 380 milioni di lire nel ’96.
A questo punto quindi il nuovo debito in essere è pari a 13,3 miliardi di lire, cioè circa
6,8 milioni di euro.
Dal ’97 il Ghana paga ancora
• 4 miliardi 408 milioni di lire nel ’97;
• 5 miliardi 800 milioni di lire nel ’98. Nel
frattempo banca d’appoggio è diventata il
San Paolo-Imi.
Nel ’99 viene autorizzata una massiccia fornitura di componenti e parti di ricambio per
gli aerei Aermacchi del valore di oltre 5 milioni di dollari (9 miliardi e mezzo di lire). Nel
2000 il Ghana riprende i pagamenti per 4 miliardi 174 milioni di lire.
Ad oggi quindi il Ghana ha un debito da saldare per gli acquisti militari in Italia dell’equivalente di 8 miliardi e mezzo di lire (4,4
milioni di euro), senza calcolare gli interessi.
> Nel periodo considerato il debito del
Ghana verso l’Italia è passato dagli 80 miliardi di lire circa del dicembre 1997, crediti d’aiuto esclusi, a 1,5 milioni di euro,
meno di 3 miliardi di lire, a fine 2000. La
drastica diminuzione è dovuta a massicce
ristrutturazioni degli “indennizzi da recuperare” Sace – che costituiscono gran
parte del debito – per cui il Ghana ha pagato alla Sace tra il ’98 e il 2000 quasi 90
miliardi di lire (46 milioni di euro) di debiti pregressi e quasi 83 miliardi (42 milioni
di euro) di interessi. Ciò nonostante resta
un debito di 1,5 milioni di euro a fine
2000, che probabilmente è cresciuto nel
2001 grazie al debito militare che continua ad essere alimentato.
Honduras
La commessa 2000 dell’Honduras, 7.000 fucili automatici e una dozzina di pistole mitragliatrici Beretta per un valore complessivo di
13 miliardi 424 milioni di lire (6,9 milioni di
euro), è stata pressoché tutta pagata nel
2001 (banca d’appoggio Dresdner Bank) e
quindi non ha prodotto nuovo debito.
> L’esposizione dell’Honduras verso l’Italia
è pari a 34,4 milioni di euro al dicembre
2000, praticamente tutti “indennizzi da
recuperare” della Sace.
Kenya
Nel ’97 il Kenya acquista 2 cannoni navali
76/62 dell’Otobreda (Finmeccanica) del valore di 26 miliardi di lire circa. I sistemi sono stati consegnati nel ’98, ma, stando ai dati delle
Relazioni governative, il Kenya avrebbe pagato solo 4,7 miliardi di lire. Tuttavia le banche
d’appoggio sono state autorizzate dal Tesoro
a incassare circa 22,8 miliardi di lire e, per ammissione degli stessi funzionari del Tesoro, la
segnalazione dei pagamenti effettivi a volte è
carente. Il Kenya quindi potrebbe avere un
debito militare in corso per 21,3 miliardi di lire, cioè 11 milioni di euro, o una cifra inferiore,
ma è certamente indebitato per non meno di
1,7 milioni di euro.
> In effetti il Kenya risulta complessivamen-
[foto Pietro Gigli]
Autorizzazioni all’export di armi dall’Italia verso paesi Hipc
(valori in miliardi di lire, salvo dove specificato diversamente)
Destinatario
1997
1998
1999
2000
2001
2001
(milioni
di euro)
Costa d’Avorio
Ghana
Guinea (Conakry)
Honduras
Kenya
Mauritania
Niger
Vietnam
TOTALE
0,030
9,532
0,027
13,424
26,041
0,054
6,547
2,270
1,172
19,971
2,270
1,172
2000
2001
0,004
5,909
31,980
0,054
9,563
Consegne di armi dall’Italia verso paesi Hipc
(valori in miliardi di lire, salvo dove specificato diversamente)
Destinatario
1997
1998
1999
2001
(milioni
di euro)
Costa d’Avorio
Ghana
Guinea (Conakry)
Honduras
Kenya
Mauritania
Niger
Uganda
Vietnam
Zambia
TOTALE
0,030
0,230
0,156
0,539
0,027
0,712
18,982
0,006
0,466
6,219
0,005
0,205
0,106
12,812
4,740
0,319
6,617
2,448
0,165
0,110
18,186
0,057
9,393
0,001
5,942
0,020
6,934
0,091
19,229
te indebitato con le banche e i privati italiani per 24,9 milioni di euro a fine 2000
(esclusi crediti d’aiuto), e presumibilmente di una cifra analoga a fine 2001, e, tra
essi, vi è una richiesta di indennizzo Sace
per 7,8 milioni di euro.
Mauritania
Nel 2000 vengono esportati in Mauritania
4 aerei leggeri da addestramento e antiguerriglia SF-260 (ex Siai Marchetti, oggi Aermacchi) del valore di 6 miliardi e mezzo di lire (3 milioni 381 mila euro). Nel 2001 è
autorizzata anche la fornitura di parti di ricambio e manutenzione per 1 milione 172
0,132
0,705
6,690
mila euro. Nei due anni la Mauritania paga
circa 2 milioni di euro (banca d’appoggio
Bnl, che comunque è stata autorizzata per
3,5 milioni di euro), quindi resta da pagare
un debito commerciale di altri 2 milioni e
mezzo di euro circa.
> Il debito della Mauritania con l’Italia era
praticamente inesistente fino al 2000,
salvo una modesta cifra di crediti d’aiuto
(meno di 1 miliardo di lire) inserita peraltro negli impegni di cancellazione presi
prima del G8 di Genova 2001.
Vietnam
La commessa vietnamita del ’97 riguardava
In crescita le vendite militari nel bilancio semestrale
di Finmeccanica
Armi italiane, vola l’export
Operazioni bancarie legate all’export di armi dell’Italia verso paesi Hipc
(valori in miliardi di lire, salvo dove specificato diversamente)
Destinatario
1997
1998
1999
2000
2001
2001
(milioni
di euro)
Costa d’Avorio
Ghana
Guinea (Conakry)
Honduras
Kenya
0,030 (a)
0,030 (s)
4,408 (s)
5,800 (s)
4,174 (s)
0,027 (a)
21,497 (a)
4,707 (s)
Mauritania
Niger
4,519 (a)
2,228 (s)
0,005 (a)
0,005 (s)
12,824 (a)
12,824 (s)
1,297 (a)
0,163 (s)
2,165 (a)
1,768 (s)
6,623 (a)
6,623 (s)
0,670 (a)
0,084 (s)
1,118 (a)
0,913 (s)
(a) operazioni autorizzate (s) operazioni segnalate, cioè effettivamente avvenute
Elaborazione dati: OS.C.AR. (Osservatorio sul Commercio delle Armi) di IRES Toscana (Istituto di Ricerche Economiche e Sociali della Toscana) su Presidente del Consiglio dei Ministri, Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per
il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento nonché dell’esportazione e del transito dei prodotti ad alta tecnologia. Roma: Camera dei Deputati-Senato della Repubblica, Atti Parlamentari, Doc. LXVII,
vari anni.
un impianto di produzione di materiale
esplosivo della Pravisani di Udine del valore
di 5,9 miliardi di lire. L’impianto è stato consegnato nello stesso anno e non ci sono notizie di operazioni bancarie per il pagamento. A meno quindi che le operazioni non
siano state effettuate in altre forme, è tuttora aperta una posizione debitoria per 3 milioni di euro circa.
> A fine ’97 il Vietnam risultava indebitato
con le banche italiane per 2 milioni di
dollari, ma i crediti all’esportazione verso quel paese ammontavano complessivamente a 131,7 miliardi di lire, di cui
86,2 miliardi di indennizzi Sace da recuperare. A fine 2000 il debito del Vietnam
è a quota 66,8 milioni di euro, di cui 59,6
milioni in capo alla Sace e 7,2 milioni di
crediti all’export di privati (ma non di
banche).
Complessivamente quindi i paesi Hipc in cui
sono arrivate armi italiane hanno visto negli
Assalto alla spesa militare Usa
Oltre la metà delle esportazioni totali del semestre – 268 milioni di euro – sono nell’aeronautica. E quasi 200 milioni è l’interscambio con gli Stati Uniti. Sappiamo di cosa si
tratta dal bilancio semestrale di Finmeccanica, la holding dell’industria militare italiana,
che chiude i primi sei mesi del 2002 con un
risultato complessivo moderatamente positivo – +9,5% di fatturato e 43 milioni di euro
di utile netto – dove però le componenti positive sono soprattutto quelle militari.
“Rallentamento dei programmi civili” ma
“sostanziale tenuta di quelli militari” nell’ala
fissa. Va forte soprattutto il C-27J, aereo da
trasporto tattico sviluppato insieme alla
Lockheed-Martin, già selezionato dalla Grecia e probabilmente fornito anche alla Malaysia. Il 24 giugno è stato siglato il memorandum d’intesa tra Roma e Washington per
la partecipazione italiana allo sviluppo del
bombardiere di nuova generazione “Joint
Strike Fighter”, che si presenta come concorrenziale allo stesso Efa, il programma europeo su cui oggi è più impegnata Alenia, la
società aeronautica di Finmeccanica. Negli
elicotteri, dove l’andamento del militare è
ultimi cinque anni il loro debito estero aumentare a causa degli acquisti di armamenti
di una cifra vicina ai 28 milioni di euro. Il dato comprende il debito residuo del Ghana al
’97 per le forniture della prima metà del decennio (6,8 milioni di euro), l’ulteriore debito
contratto negli ultimi cinque anni (4,9 milioni di euro), il debito del Kenya (11 milioni di
euro), quello della Mauritania (2,5 milioni di
euro circa) e quello del Vietnam (3 milioni di
euro).
Stando alle cifre sui recuperi Sace sul Ghana,
probabilmente all’ammontare in conto capitale va aggiunto almeno qualche milione di
euro di interessi.
Alla fine del 2001 resta un debito militare in
essere che comprende: 4,4 milioni di euro
del Ghana, da 1,7 a 11 milioni del Kenya, 2,5
milioni della Mauritania e 3 milioni del Vietnam. In tutto poco meno di 12 milioni di euro
nel caso più favorevole, poco meno di 21 milioni nel caso peggiore, interessi esclusi. ●
[foto Pietro Gigli]
stato “positivo” mentre la produzione civile
risulta “debole”, tra AgustaWestland, il ramo
Finmeccanica dell’ala rotante, e Lockheed,
decisamente un partner privilegiato per l’industria italiana, parte la coproduzione dell’US101, versione Usa dell’EH-101.
Insieme all’assalto al forziere nordamericano, ci sono gli affari nelle zone “sensibili”
come il Medio Oriente. Tra i 244 milioni di
euro di armi e munizioni – 144 milioni dei
quali sono armi leggere – oltre 21 milioni di
euro sono esportazioni agli Emirati Arabi
Uniti, terzo cliente dopo Stati Uniti (74 milioni) e Francia (39 milioni), 6,3 milioni di euro
forniture alla Turchia e 1 milione 358 mila euro al Libano. Torna in auge anche l’Arabia
Saudita con un ordine per cannoni navali
76/62 Oto Melara-Finmeccanica.
Africa, elicotteri e radar
L’Africa compra armi e munizioni italiane per
4 milioni 251 mila euro, meno del 2001 in cui
c’era stato il boom delle forniture alla Nigeria (6,4 milioni di euro), ma quasi il doppio
del 2000. In testa agli acquirenti l’Algeria
con 1,3 milioni di euro, seguita da Marocco e
Sudafrica. Arrivano anche 125 tonnellate di
materiale bellico in Guinea (122 mila euro),
49 tonnellate in Congo Brazzaville (279 mila
euro), 43 tonnellate in Camerun (111 mila euro) e 20 tonnellate in Burkina Faso (63 mila
euro).
Dove però il mercato africano si mostra sorprendentemente vivace è di nuovo nel campo
delle forniture aeronautiche. L’AgustaWestland, società italo-inglese che produce elicotteri civili e, soprattutto, militari, ha ceduto a gennaio al gruppo sudafricano Denel la
licenza di produzione dell’A109 Power e dell’A119 Koala, due tra i più recenti modelli militari ad ala rotante. L’accordo prevede che si
punti a vendere i prodotti «nei mercati del
Sud-est asiatico, del Medio Oriente, del Sud
America e dell’Africa».
Intanto l’Eritrea riceve nel primo semestre
dell’anno elicotteri per 940 mila euro, mentre la Namibia ha ordinato a settembre all’Agusta due AB139, velivoli di media grandezza per un ruolo “multi-missione”. Sempre
nel campo della strumentazione per l’aeronautica, Finmeccanica conferma che la sua
divisione “difesa elettronica” sta svolgendo
un programma di controllo del traffico aereo
(sistemi radar) in Sudan.
Queste esportazioni a paesi poveri e già fortemente indebitati non sono senza conseguenze, come si può vedere nell’analisi sul
debito militare dei paesi Hipc acquirenti di
armi italiane e nei frequenti casi di utilizzo di
risorse naturali strategiche, dal petrolio al legname pregiato, come merce di scambio con
gli armamenti.
●
11
MICROFINANZA 2 NOVEMBRE 2002
I
l tentativo in corso di modificare in
senso più permissivo la legge 185
sembra far bene al commercio italiano
delle armi. Nel primo semestre del
2002 le esportazioni italiane di armi,
munizioni e velivoli militari ammontano a
512 milioni di euro, contro i 458 milioni dell’analogo periodo dell’anno precedente, con
un incremento dell’11,7%. La stima è di
Os.c.ar., l’Osservatorio sul commercio delle
armi dell’Ires Toscana.
Tira l’export aeronautico più che quello di
cannoni e fucili, come confermano anche i
dati della semestrale di Finmeccanica, l’azienda leader del settore. I produttori di armi
italiane si buttano sul ricco mercato statunitense, trascinato da una spesa militare ormai ben oltre i 300 miliardi di dollari annui, e
su aree strategiche come il Mediterraneo e
l’Estremo Oriente. Anche l’Africa però si rivela un mercato sorprendentemente vivace per
l’industria italiana. Con quali conseguenze
sui conflitti in corso è facile immaginare.
Os.c.ar. si basa sull’analisi dei dati Istat del
commercio con l’estero sull’export di armi
leggere e pesanti, del munizionamento di vario tipo e calibro e degli aerei ed elicotteri
“non civili”. Non è tutto il commercio italiano
di materiale militare sottoposto al regime
della legge 185, ma ne comprende una buona parte. Al tempo stesso il dato include le
vendite di armi classificate come “civili” (da
caccia e da tiro sportivo) che sono al di fuori
dei controlli della legge attuale.