L`usura dei ricchi il risparmio dei poveri
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L`usura dei ricchi il risparmio dei poveri
Un numero 1 euro Microfinanza Anno 1 N. 2 autorizzazione del Tribunale di Vicenza n. 1016 novembre 2002 Direttore responsabile Francesco Terreri Stampa Publistampa Arti Grafiche Pergine (TN) Editore Associazione Microfinanza e Sviluppo via Monticello di Fara 13/b - 36040 Sarego (VI) tel. 3351284571 e-mail [email protected] Gli articoli di Microfinanza possono essere utilizzati citando la fonte 3-7 Il dibattito sul microcredito 8 Arghiri Emmanuel, Technologie appropriée ou technologie sous-développée?, Puf, Parigi 1982 L’usura dei ricchi il risparmio dei poveri La trappola del caffè A Zenón Mendoza, leader dei produttori di caffè della Bolivia, morto in un incidente stradale nel 1998 A metà degli anni ’90 il prezzo internazionale del caffè – consideriamo la quotazione della qualità “arabica” a New York – oscillava attorno al dollaro per libbra (una libbra = poco meno di mezzo chilo). Nel ’97 una fiammata speculativa al rialzo lo portò sopra i 2 dollari. Ma dal ’98, anche a seguito della crisi asiatica, il prezzo ha comin- ciato a diminuire, nel 2000 è sceso stabilmente sotto il dollaro per libbra e nel 2001 è precipitato intorno ai 50 centesimi, il livello più basso, in termini reali, degli ultimi 40 anni. In queste settimane segna una modesta ripresa, oscillando tra i 60 e i 70 centesimi di dollaro per libbra. Ma le conseguenze del crollo e dell’instabilità restano tutte. E sono conseguenze drammatiche sul livello di vita dei 25 milioni di produttori in Asia, Africa e America Latina. Con un reddito inferiore ai costi, solo in Centro America 600 mila persone hanno dovuto abbandonare la produzione del caffè, senza peraltro trovare valide alternative. La spiegazione principale della crisi è la sovrapproduzione dovuta soprattutto alla rapida crescita delle coltivazioni in Vietnam, [segue a pagina 2] ●●● Armi italiane e debito dei paesi poveri 1997- 2002 2 PASSAGGIO A SUD-EST Speciale microfinanza e nonviolenza nel Mediterraneo e in Medio Oriente New York, ultime notizie dal Microcredit Summit «Il debito attuale del Terzo Mondo ha superato la soglia di rimborsabilità, non tanto per i problemi dei debitori, ma soprattutto perché le economie dei creditori non potrebbero sopportare un tale rimborso. Per farsi rimborsare, bisognerebbe lasciare che il servizio del debito fosse pagato attraverso un surplus della bilancia commerciale dei paesi sottosviluppati. Questo significherebbe per i paesi creditori raddoppiare le loro importazioni provenienti dal Terzo Mondo, un’eventualità che cercano di evitare ad ogni costo. D’altra parte non possono cancellare il debito per non provocare una reazione a catena di crolli bancari…» Bollettino per lo sviluppo plurale 8 Angola, Luanda, mercato di Roque Santeiro [foto Pietro Gigli] Omaggio ad Arghiri Emmanuel, pioniere degli studi sullo “scambio ineguale” Francesco Terreri I l 14 dicembre 2001, un anno fa, a Parigi è morto il professor Arghiri Emmanuel. Ai più il nome non dice niente, ma sarebbe bene che almeno gli attivisti del commercio equo e solidale e della finanza etica lo conoscessero, perché senza saperlo debbono molto a lui. Emmanuel era nato a Patrasso, Grecia, nel 1911. Dopo aver fatto studi economici e commerciali, negli anni ’30 va a lavorare nell’allora Congo Belga. Durante la Seconda guerra mondiale combatte i nazisti nelle file delle Forze gre- che libere in Medio Oriente. Poi torna a lavorare in Congo, dove collabora con il movimento indipendentista guidato da Patrice Lumumba. Nel 1957 va a vivere in Francia. Nel 1961, a [segue a pagina 7] ●●● ●●● [segue da pagina 1] diventato il secondo paese produttore e soprattutto esportatore, in Indonesia, in India. La varietà “robusta”, meno pregiata, messa sul mercato dai vietnamiti deprime i prezzi. D’altra parte i consumi in Occidente sono stabili e il mercato sembra saturo. Tuttavia la solita spiegazione congiunturale non basta. Ci sono almeno due aspetti più di fondo da considerare come cause del crollo dei prezzi all’esportazione (ma non di quelli al consumo): il debito estero dei paesi produttori e le politiche di dumping delle imprese multinazionali. MICROFINANZA 2 NOVEMBRE 2002 2 Debito Il governo vietnamita ha effettivamente promosso negli ultimi dieci anni la crescita delle coltivazioni di caffè negli altipiani, provocando lo spostamento di centinaia di migliaia di persone verso quelle zone e non pochi problemi sociali ed ecologici. Questa scelta è anche effetto delle politiche della Banca Mondiale, che spingono in tal senso non solo in Vietnam ma anche in Colombia (“il caffè al posto della coca”) e in Angola, per la ripresa economica del paese stremato dalla lunga guerra interna. Alla World Bank respingono le critiche. Ma forse il contributo di questi discussi progetti alla sovrapproduzione e quindi alla caduta del prezzo è relativo. In realtà il caffè è una delle produzioni che viene attivata dovunque è possibile e il più rapidamente possibile quando si tratta di far fronte a consistenti pagamenti in valuta con l’estero. Quello che hanno in comune Vietnam, Angola, Colombia, ma anche Indonesia o Brasile – i paesi dove si produce “troppo” caffè, in testa alla classifica degli esportatori 2001 – è il pagamento delle rate di un pesante debito estero. In Vietnam il debito è, secondo l’ultimo World Development Report della Banca Mondiale, il 36% del reddito nazionale e l’85% delle esportazioni. In Angola siamo al 137% del reddito nazionale, in Colombia al 41% del reddito ma a quasi tre volte l’export. Il debito estero indonesiano è pari al 96% del reddito nazionale lordo, mentre il Brasile del neopresidente Lula deve far fronte ad un indebitamento di 238 miliardi di dollari – il più consistente nel Sud del mondo, anche se ben lontano dai 1.400 miliardi di dollari di debito estero degli Stati Uniti – pari al 39% del reddito e a quattro volte il valore delle esportazioni annue. Dumping «Anche alla fine degli anni ’80» ricorda Giampietro Pizzo di Microfinanza «ci fu una fortissima crisi nel mercato del caffè e i prezzi scesero a 50 centesimi/libbra. Io allora ero in Bolivia. Le conseguenze, oltre che strettamente materiali, furono lacerazioni sociali e organizzative e degrado ambientale e colturale. Un amico e leader boliviano, produttore di caffè, Zenón Mendoza, cercava di opporsi tenacemente a quella terribile situazione. Su quell’impegno e su quella sfida nacquero cooperative e organizzazioni del caffè boliviane oggi a tutti note. Zenón morì pochi anni dopo, nel 1998, in un incidente stradale, mentre continuava infaticabile la sua lotta di dirigente contadino». In Bolivia, in Messico e in altri paesi, anche con il sostegno del circuito del commercio equo e solidale, cresciuto in tutto il mondo in questi anni, i produttori si sono organizzati e hanno cominciato a reggere un po’ meglio un mercato dominato dalle grandi imprese commerciali internazionali e dalla speculazione finanziaria sui futures. Ma gli interessi costituiti hanno reagito. Con il caffè asiatico a basso costo le grandi imprese del settore hanno cominciato a fare dumping, cioè vendita concorrenziale sottocosto, contro i produttori che stavano cominciando a guadagnare qualche posizione nel mercato. Dal 1997 il Messico, uno dei maggiori produttori mondiali con elevati livelli di qualità e un consumo interno basso, importa caffè. Acquista caffè verde ad esempio dall’Indonesia a prezzi bassi, con i funzionari statali del settore che approvano l’ingresso del prodotto a dazio preferenziale, cioè 0%. Questo vero e proprio dumping, denunciato dalle organizzazioni contadine tra cui quelle collegate al circuito del commercio equo, fa capo alle poche grandi compagnie che controllano la commercializzazione nel paese, in primo luogo Nestlè, Jacobs/Philip Morris e Volcafè (Volkart, Svizzera). Nestlè lo ha giustificato con il suo prodotto di punta, il caffè solubile (Nescafè), per il quale “non vale la pena di sprecare il buon caffè messicano”. Fair trade Di fronte alla crisi, una vasta coalizione internazionale di Ong, associazioni, organizzazioni del commercio equo e solidale chiede, in particolare alla Commissione Europea, una risoluzione d’urgenza che metta al centro l’ampliamento del mercato equo delle materie prime e del caffè in particolare. La dichiarazione è stata sottoscritta tra gli altri da Oxfam International, Christian Aid, Third World Network, European Fair Trade Association, Ctm altromercato, da sindacati come la brasiliana Cut/Contag, da organizzazioni di produttori come la Central de cooperativas cafetaleras de Honduras, che proprio in queste settimane ha ottenuto dal proprio governo il rispetto degli accordi nazionali sul caffè, dopo una dura lotta sostenuta anche da organizzazioni del commercio equo e della finanza etica italiane (TransFair e Etimos). Il commercio equo, che prevede prezzi stabili e sostenibili e contratti di lunga durata, si sta affacciando come via alternativa alla crisi del caffè. Nell’ultimo numero di Microenterprise Americas, pubblicazione del Banco Interamericano de Desarrollo (Bid), una delle banche regionali della World Bank, si parla di “Fair trade: la via d’uscita dalla crisi del caffè?”. Anche se il titolo è una domanda, nell’ampio servizio la risposta è affermativa, sia pur con cautele e precisazioni. E al Forum Interamericano sulla Microimpresa, svoltosi a Rio de Janeiro dal 9 all’11 settembre, lo stesso Bid ha riconosciuto con un premio per “eccellenza nella fornitura di servizi per lo sviluppo delle imprese” il programma di commercio equo e solidale della ong brasiliana Visão Mundial. Ma per uscire dalla trappola del caffè ci vuole anche altro: lo sviluppo del prodotto di qualità e la diversificazione delle colture e quindi capitali, microcredito, servizi finanziari e imprenditoriali. E una “coffee tax”, pagata dalle multinazionali, per stabilizzare il prezzo ad un livello “civile”. Microfinanza Proprio nel caso del caffè lo sviluppo di reti commerciali, di servizi e di credito non solo Nord-Sud, ma anche Sud-Sud è più ampio di quello che si pensa. Microenterprise Americas cita ad esempio il circuito costruito tra le cooperative di produttori di caffè con standard biologici della Sierra Madre e di Oaxaca in Messico con la Rainforest Trading co. di Oaxaca, società di servizi alle imprese che cura una parte del trattamento e la ricerca dei mercati export per conto delle cooperative, e con la EcoLogic Enterprise Ventures di Cambridge, Massachussets (Usa), che gestisce un fondo di investimento che non acquista azioni in Borsa ma, appunto, investe nelle cooperative messicane. Negli Stati Uniti, lo ricordiamo, c’è un mercato del caffè “equo” da 56 milioni di dollari e un mercato equo complessivo da 100 milioni di dollari. Crecer, una ong guatemalteca, offre servizi di consulenza ai piccoli produttori non solo di caffè del Centro America e dei Caraibi. Il programma “premiato” di Visão Mundial non riguarda direttamente il caffè ma altri prodotti agricoli e prevede non solo l’esportazione ma anche la commercializzazione “equa” nelle città brasiliane. Ci sono quindi le condizioni per costruire, at- torno allo stesso commercio equo, un insieme di azioni e di misure che affrontino i nodi strutturali della caduta del prezzo, e non solo la regolazione congiunturale della produzione. Ad Antigua, in Guatemala, nello scorso aprile una conferenza regionale dei produttori ha indicato due potenziali linee di azione: • da un lato valorizzare e sviluppare le zone e le regioni capaci di produrre caffè di qualità, meglio ancora se biologico o anche nella varietà denominata eco-friendly; • dall’altro avviare una diversificazione produttiva in quelle regioni che non possono reggere la sfida della qualità sul caffè. Sulla qualità, su cui si sofferma anche il documento della coalizione internazionale, si gioca una partita di grande portata. Spiega Alberto Hesse, triestino, decano degli esperti dell’Ico, l’Organizzazione Internazionale del Caffè che ha avviato, dal 1° ottobre, un “Quality improvement program”: «Il programma prevede che il caffè esportabile non debba superare i 300 difetti ogni 300 grammi di qualità robusta e gli 86 difetti nel caso dell’arabica. Ma le grandi multinazionali del caffè, Kraft/Philip Morris, Nestlè, Sara Lee e Procter & Gamble, premono perché sia mantenuta la normativa Usa che consente 610 difetti per 370 grammi, il 65% in più per la robusta e addirittura quasi 5 volte in più per l’arabica». Queste scelte richiedono un complesso di politiche di cui il prezzo equo è solo una componente. Si tratta di far uscire il caffè, come altre materie prime, dall’ “anonimato”, di costruire marchi dei produttori diretti. C’è bisogno di avviare e rafforzare, soprattutto in loco, nei paesi produttori, quelle strutture di servizi alle imprese, di microassicurazione (un nuovo campo in crescita), di microfinanza che sostengano i produttori. Coffee tax Il documento della coalizione “equa e solidale” chiede «la creazione di un fondo per gli agricoltori poveri, che li aiuti ad essere meno dipendenti dal caffè dandogli opportunità di vita alternative». Per questo scopo e per stabilizzare i prezzi è divenuta di attualità l’istituzione di una “coffee tax”. Il giornalista economico Mario Deaglio l’ha così presentata su La Stampa (24/4/2002): «Stabilito un prezzo di riferimento superiore ai costi di produzione dei coltivatori – ad esempio 1 dollaro la libbra, ma il prezzo equo oggi è 1,26 dollari – le grandi imprese acquirenti pagherebbero, nel caso il prezzo scenda sotto il dollaro, una tassa pari alla metà della differenza tra 1 dollaro e il prezzo di mercato (ad esempio attualmente, col prezzo a 60 centesimi, 20 centesimi di tassa) o anche più della metà per prezzi molto bassi. Le risorse così raccolte costituirebbero un fondo, proprio per sostenere la produzione di qualità da un lato e la diversificazione dall’altro». Commenta Giampietro Pizzo: «Piuttosto che risorse distribuite a pioggia o come ristorno ai produttori, i proventi della tassa dovrebbero aiutare lo sviluppo di nuovi flussi finanziari in grado di risolvere i problemi della dipendenza dai sistemi bancari locali». Insomma quelle “casse del caffè” che costituiscano la nuova finanza dei produttori poveri. Una “coffee tax” non è più difficile da ottenere che la “Tobin tax” sulla speculazione finanziaria. E aiuta la stabilizzazione dei prezzi, dettaglio non insignificante anche per i paesi consumatori e ricchi. Come spiegava il compianto economista Nicholas Kaldor nel discorso presidenziale alla Royal Economic Society il 22 luglio 1976 (“Inflazione e recessione nell’economia mondiale”, nella raccolta I neokeynesiani a cura di Ignazio Musu, Il Mulino, Bologna 1980): «Ogni grande variazione nei prezzi dei prodotti primari – a prescindere se sia in favore o contro i produttori primari – tende ad avere un effetto scoraggiante sull’attività industriale. Nel 1929, quando il boom economico cessò, i prezzi delle materie prime calarono in modo catastrofico – di oltre il 50% in tre anni – e ciò, lungi dallo stimolare l’acquisto dei prodotti primari, ebbe l’effetto opposto: la caduta della domanda di prodotti industriali da parte dei produttori primari. La rapida caduta dei prezzi dei prodotti primari introdusse la più grande depressione industriale ● della storia…». New York - Microcredit Summit Il risparmio degli esclusi S ono arrivati a quota 35 milioni i poveri che hanno ricevuto un microcredito da una delle oltre 1.500 organizzazioni di microfinanza operanti attualmente nel mondo. È il dato aggiornato alla fine del 2001 fornito al “Microcredit Summit + 5”, la conferenza internazionale svoltasi a New York dal 10 al 13 novembre scorso che ha fatto il punto sulla campagna, lanciata nel 1997, per raggiungere con servizi finanziari 100 milioni di famiglie povere in tutti i continenti. Considerando un arco più ampio di microbanche, che non si rivolgono solo ai poverissimi, i destinatari di microcrediti arriverebbero a 55 milioni. Ciò nonostante a New York, fra i tremila delegati di 140 paesi, è stata espressa più di una preoccupazione. Musaka Kumar dell’organizzazione indiana Share ha ricordato che pur essendo in India 7 milioni le persone raggiunte dal microcredito, sono 400 milioni – su 1 miliardo di abitanti – coloro che nel paese vivono sotto la soglia di povertà. Evelyn Grandi, di Credito con Educación Rural (Bolivia), ha sottolineato gli impedimenti legali che ancora ostacolano la microfinanza, ad esempio i persistenti obblighi di chiedere garanzie reali ai destinatari dei prestiti. Secondo Elizabeth Littlefield, esperta della Banca Mondiale, «l’interesse dei donatori alla microfinanza appare in diminuzione». Ma oltre quello dei donatori, anche l’orien- tamento del sistema bancario ufficiale è ancora lontano dal prendere sul serio i milioni di microimprese e di potenziali sistemi produttivi locali dei paesi poveri. Secondo l’ultimo World Development Report 2002 della Banca Mondiale, non solo i paesi dove si vive con un dollaro al giorno ricevono solo l’1,1% del credito mondiale, ma anche i paesi a medio reddito, considerati emergenti, che producono il 16,3% della ricchezza mondiale devono contentarsi del 5,5% del credito totale. Da questo punto di vista, l’intervento a New York del Segretario al Tesoro Usa Paul O’Neill, pur pieno di elogi per la microfinanza e per il suo approccio di mercato, ha confermato che il massimo sforzo dell’amministrazione Bush in questo senso sarà il modesto “Millennium Challenge Account”, l’incremento già annunciato degli aiuti allo La distribuzione mondiale del credito I dati più recenti secondo il World Development Report 2002 della Banca Mondiale Paesi ad alto reddito, 53 paesi con 955 milioni di abitanti, 26.710 dollari di reddito pro capite e l’80,3% del reddito mondiale Paesi a medio reddito, 90 paesi con 2 miliardi 667 milioni di abitanti, 1.850 dollari di reddito pro capite e il 16,3% del reddito mondiale Paesi a basso reddito, 65 paesi con 2 miliardi 510 milioni di abitanti, 430 dollari di reddito pro capite e il 3,4% del reddito mondiale 93,4% del credito totale 5,5% del credito totale 1,1% del credito totale Aspettando la prossima guerra in Iraq, qualcosa si muove tra i 300 milioni di arabi, ebrei, turchi, berberi, curdi… che vivono nell’arco della crisi tra Tangeri e Bagdad (senza dimenticare Belgrado e Tirana). C’è la vivacità dell’economia popolare e della microfinanza. C’è chi rilancia la sfida della nonviolenza e della democrazia. Per l’Europa e il futuro della sicurezza e della pace il passaggio a Sud Est è decisivo [articoli da pagina 4 a pagina 7] «Non c’è villaggio senza i suoi artigiani, per quanto modesti; senza le sue attività industriali minori. Ma in questo settore tutto o quasi tutto sfugge allo storico che voglia far calcoli. Quello storico, inoltre, se si abbandona alle abitudini contratte, avrà la tendenza a sottovalutare quel lavoro oscuro, eppur decisivo, delle campagne povere, che per esse è sovente il solo mezzo per raggiungere le preziose circolazioni monetarie» Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino, 2002 (prima edizione: 1953) ASA Association for Social Advancement Banco ADEMI Banco de Desarrollo ADEMI, S.A. BancoSol Banco Solidario, S.A. Bandesarrollo Banco del Desarrollo, Filial Microempresas BRI Bank Rakyat Indonesia, Unit Desa system Caja los Andes Caja de Ahorro y Préstamo Los Andes S.A. CERUDEB Centenary Rural Development Bank Ltd. Citi Savings Citi Savings & Loans Co. Ltd. and Loans FINAMERICA Financiera América, S.A. Kafo Jiginew Kafo Jiginew K-Rep Kenya Rural Enterprise Program Mibanco Banco de la Microempresa PRODEM FFP PRODEM FFP, S.A. Bangladesh Repubblica Dominicana Bolivia Chile Depositi / Prestiti 2000 (milioni di dollari) Depositi 2000 Organizzazioni aderenti al Microfinance Network Depositi / Prestiti 1999 Depositi 1999 Il risparmio dei poveri (milioni di dollari) [foto Pietro Gigli] 12,4 13,4 17,2% 32,1% 15,3 16,4 20,8% 33,5% 54,9 1,0 66,7% 7,5% 57,8 2,2 70,9% 15,2% 2.429,0 286,4% 1.992,2 244,2% Bolivia 10,4 29,1% 14,2 29,0% Uganda 26,8 245,9% 29,2 280,8% Ghana 4,3 430,0% 1,1 157,1% Colombia Mali Kenya Peru Bolivia 8,4 4,6 1,6 5,6 59,6% 61,3% 42,1% 26,5% n.d.* n.d.* 7,0 5,0 3,4 9,4 18,0 47,0% 92,6% 73,9% 25,6% 72,9% Indonesia * non disponibile sviluppo, condizionati, ha detto O’Neill, «ad un ambiente sociale che comprenda il rispetto delle leggi e dei contratti e la lotta alla corruzione». A fronte di questo scenario, acquista più importanza l’incremento del risparmio dei poveri come fonte di risorse per le microbanche. Dopo un avvio spesso legato a donazioni di ong o fondazioni dei paesi ricchi, oggi in molte organizzazioni di microfinanza si accresce il peso del risparmio volontario dei microimprenditori e della popolazione in generale. Piccole cifre individuali che però messe insieme diventano rilevanti. Esaminando i dati delle istituzioni del Microfinance Network, una delle reti attualmente esistenti, si può notare come nel caso delle banche tradizionali “riconvertite” al microcredito (Bri Indonesia, Cerudeb Uganda, Citi Savings and Loans Ghana) il risparmio fosse già da prima superiore ai crediti – il problema semmai era impiegare – mentre gli organismi più giovani, partiti soprattutto con i microprestiti, stanno rapidamente recuperando sul versante della raccolta. I contadini del Mali serviti da Kafo Jiginew riescono ormai a mettere da parte risparmio sufficiente (l’equivalente di 5 milioni di dollari) per sostenere i crediti della loro microbanca (5,4 milioni di dollari). Il problema è che da quelle parti sarebbe utile anche un po’ di risparmio proveniente dal mondo ricco. ● Usa, investimenti di comunità Ecco la finanza anti-Enron L e 107 maggiori istituzioni finanziarie per lo sviluppo di comunità degli Stati Uniti – Cdfi, Community Development Financial Institutions – hanno erogato nel 2001 oltre 1 miliardo di dollari di prestiti, portando il volume dei loro crediti cumulati a 3 miliardi 982 milioni di dollari. Tali finanziamenti hanno aiutato nell’ultimo decennio la creazione o il mantenimento di circa 180 mila posti di lavoro, la costruzione di 147 mila abitazioni e la realizzazione di 2.500 progetti di servizi per comunità locali. Il rapporto che fa il punto su questo settore di finanza etica statunitense, intitolato “Cdfi: ponti tra il capitale e le comunità”, è stato presentato all’inizio di ottobre dal Social Investment Forum e da Co-op America, due organismi che promuovono l’investimento socialmente responsabile in Usa. Le Cdfi sono fondi di credito, fondi di investimento in capitale di rischio e cooperative di credito, nate e sviluppatesi prevalentemente negli ultimi dieci-quindici anni, che finanziano la popolazione più povera, le microattività economiche e i progetti di comunità in molte aree degli Stati Uniti. Tra i destinatari, il 72% è a basso reddito, il 49% sono donne, il 46% appartenenti a minoranze etniche. Siamo dunque sulla linea del microcredito, ma con un campo più vasto di intervento. Nel ’91, ad esempio, il 47,4% dei crediti sono andati alla costruzione o alla sistemazione di alloggi sia per singoli che per organizzazioni, e in questi casi ci sono anche prestiti superiori a 100 mila dollari, insomma un normale mutuo per la casa, a tassi di interesse intorno al 6% annuo. Il 28,7% degli impieghi ha finanziato attività economiche, a tassi dell’8-9%, tra le quali il 4,1% può essere propriamente definito microimpresa, il resto piccola impresa, quindi con dimensioni un po’ superiori, anche se ugualmente tagliata fuori dai circuiti del credito ufficiale. Il 5,1% è stato credito al consumo e il 18,3% delle risorse ha sostenuto servizi sociali di comunità. Il rapporto precisa che le Cfdi hanno una qualità del credito migliore delle banche Usa tradizionali. Le vere e proprie perdite su crediti non superano lo 0,5% del totale, mentre i prestiti a rischio, cioè i clienti inadempienti per oltre tre mesi, ammontano al 3,3% del totale. Il capitale delle organizzazioni finanziarie di comunità proviene da fondazioni, istituzioni religiose, singoli risparmiatori e anche, per il 16%, dal Governo, a seguito dell’approvazione da parte del Congresso nel 1994 di un Cdfi Fund a sostegno a queste esperienze. Il Social Investment Forum e Co-op America propongono ai fondi di investimento e agli operatori finanziari socialmente responsabili di investire in progetti di comunità almeno l’1% delle loro attività, la cosiddetta proposta “1% in Comunità”. Ma c’è anche chi ha lanciato un vero e proprio fondo di investimento in sviluppo di comunità, che ha in portafoglio bond municipali o prestiti delle Cfdi, come il Cra Qualified Investment Fund. SPECIALE MEDITERRANEO Passaggio a Sud Est 3 MICROFINANZA 2 NOVEMBRE 2002 Microcredito e nonviolenza sul fronte dello “scontro di civiltà” SPECIALE MEDITERRANEO Israele/Palestina, l’opzione nonviolenta Francesco Terreri In Cisgiordania e Gaza circola la proposta controcorrente del professor Mubarak Awad: per ottenere la fine dell’occupazione israeliana i palestinesi devono adottare una strategia nonviolenta. Non è solo più umana, è anche più efficace della lotta armata. Una sfida al governo Sharon, ma anche al fondamentalismo islamista. Condizione cruciale è il rafforzamento dell’economia popolare e di un nuovo tessuto economico israelo-palestinese. Ad esempio attraverso organizzazioni di microfinanza come Faten o Asala. La posta in gioco della pace è lo sviluppo di tutta la regione L a sua proposta controcorrente l’ha rilanciata nei giorni più drammatici dell’operazione “Muraglia di difesa”, nell’aprile 2002, quando l’esercito israeliano assediava il quartier generale di Yasser Arafat a Ramallah e a Jenin si combatteva casa per casa. «Per vincere, i palestinesi devono adottare una strategia nonviolenta». Mubarak Awad, nato a Gerusalemme 59 anni fa, psicologo, fondatore del “Palestinian Center for the Study of Nonviolence”, aveva organizzato un movimento palestinese di resistenza nonviolenta all’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza già negli anni ’80. Nel 1988 le autorità militari israeliane lo hanno arrestato ed espulso e da allora vive negli Stati Uniti. Non ha mai cessato però di lavorare per l’adozione di una strategia nonviolenta di lotta per arrivare alla pace tra israeliani e palestinesi. Non solo negli anni della speranza, pur controversa, di Camp David e di Oslo, ma anche oggi di fronte al precipitare della crisi. In questi mesi nei Territori palestinesi oc- cupati circola il documento-appello “Nonviolent resistance in Palestine: pursuing alternative strategies”, scritto a quattro mani con Jonathan Kuttab, stimato avvocato palestinese difensore dei diritti umani. Né rassegnati né violenti «Il popolo palestinese ha una reale opportunità di raggiungere i suoi obiettivi nazionali se persegue una consapevole e organizzata strategia di resistenza nonviolenta all’occupazione». Una strategia, precisano Awad e Kuttab, su vasta scala: «non semplicemente simbolica o episodica». Quindi nella comunità palestinese deve riprendere la discussione politica «dove ciascuno abbia una voce invece che un fucile». Anzi occorrono nuove elezioni democratiche. La tesi di Awad è che, mentre le autorità israeliane sanno bene come combattere un antagonista armato, «un approccio nonviolento neutralizzerebbe molta della loro potenza militare». Ci si aspetta che i palestinesi siano o rassegnati o violenti. Ma c’è una terza possibilità. Un’azione nonviolenta di tipo gandhiano prevede «grandi marce pacifiche», «forme di boicottaggio economico» e altre azioni di disobbedienza civile, mentre le «minacce di guerra e la violenza» – non solo gli attacchikamikaze contro i civili ma ogni violenza – «sono controproducenti». L’obiettivo è la fine dell’occupazione israeliana della West Bank e di Gaza e lo smantellamento degli insediamenti, per arrivare alla soluzione “due popoli per due stati”. L’esempio è la transizione democratica in Sudafrica. «Cruciale» per il successo della strategia è il ruolo del mondo arabo e musulmano e il supporto internazionale. «Occorre tradurre in concreta protesta nonviolenta il sostegno di tante popolazioni arabe» ai palestinesi. E bisogna creare «un’arena mondiale per una lotta nonviolenta basata sull’etica e sul diritto internazionale». L’ “argomento degli Hezbollah” Un tale programma non è solo una sfida alla politica del premier israeliano Ariel Sharon, ma anche al fenomeno politico più impor- Medio Oriente, la microfinanza e le condizioni economiche della pace MICROFINANZA 2 NOVEMBRE 2002 4 L a resistenza nonviolenta richiede la cozionale, attraverso i canali dell’equo e solidale, struzione e il rafforzamento di proprie qualcosa si è mosso, ad esempio con l’Italia. La istituzioni sociali ed economiche di base Holy Land Handicraft Cooperative Soe lo sviluppo di un tessuto economico “alterciety, organizzazione di artigiani palestinesi nativo” tra israeliani e palestinesi, soprattutto del legno dell’area di Betlemme, ha avviato rese la prospettiva, come indica Awad, è una lazioni stabili prima con la cooperativa di Ferra“Comunità economica mediorientale”. Ma cora Commercio Alternativo, poi con Equomercame sta l’economia popolare in Palestina? to di Cantù e con il consorzio Ctm altromercato. Nel giugno scorso, sotto gli auspici di Usaid, l’aParc, Palestinian Agricultural Relief genzia statunitense di cooperazione allo svilupCommittes, la maggiore ong palestinese impo – ancora influenzata dall’impostazione pegnata soprattutto nello sviluppo rurale, ha clintoniana piuttosto che da quella dell’amministretto rapporti con Ctm altromercato. strazione Bush – si è riunita a Marrakech in Ma«È anche possibile riconvertire verso forme di rocco la conferenza “Microfinanza nel Vicino sostegno meno assistenziali il tradizionale inOriente”. Come per l’analoga conferenza di Butervento di sicurezza alimentare dell’Unrwa dapest (maggio) sull’Est Europa, in questo apper i rifugiati palestinesi» sostiene inoltre Umipuntamento si è scoperto che i programmi di liana Grifoni di Microfinanza srl, che ha svolto microcredito in Medio Oriente sono più di quelrecentemente un’analisi in tal senso in Cisgiorli censiti dal segretariato del Microcredit Sumdania, Gaza e nei paesi limitrofi (Giordania, mit, fermi a 17 con 54 mila destinatari. Siria, Libano). A Marrakech ce n’erano almeno un’altra decina, Si tratta di esperienze ancora limitate, anche se anche se la presenza attiva è limitata a Marocnon vanno sottovalutate. Peraltro l’economia co, Egitto, Libano, Giordania. E Palestina. Dalla palestinese è, da due anni a questa parte, al diWest Bank e da Gaza, oltre agli operatori uffisastro. Prima del precipitare di quest’ultima criciali di Usaid, dell’Unrwa (Onu), della Arab si, una popolazione di 3 milioni di persone viOperatori di Parc, Palestinian Agricultural Relief Bank, c’erano due istituzioni di microfinanza lo- Committes veva con un prodotto nazionale di 4,9 miliardi cali, Faten e Asala. di dollari, cioè con poco più di 1.600 dollari anFaten, Palestine for Credit and Development, nasce nel nui a testa. Gli aiuti internazionali nel 2000 ammontavano a 636 mi’98 da un programma di microcredito avviato da Save The Children. lioni di dollari. È un’organizzazione non profit che fornisce servizi di microfinanza a Con la cosiddetta seconda Intifada e l’escalation della violenza, il redmicroimprenditori palestinesi, soprattutto donne. In oltre tre anni dito nazionale pro capite è crollato (-10,3% nel solo 2000). I 120 mila ha erogato crediti per 18,9 milioni di dollari e al dicembre 2001 avepalestinesi che lavoravano in Israele – 80 mila dei quali illegali – sono va 4.498 prestiti attivi. Dichiara un tasso di ripagamento del 99% e quasi sempre impediti a raggiungere il posto di lavoro a causa del una “sostenibilità operativa” – cioè la capacità di contare sulle problocco dei Territori. La disoccupazione in Cisgiordania e a Gaza è arriprie forze – del 75%. vata al 75% della popolazione attiva. Tuttavia non è privo di significaAsala, Palestinian Business Women’s Association, è to il fatto che l’unico settore che nel decennio ’90 ha registrato una un’organizzazione che opera a Gaza e in Cisgiordania in partnership crescita media (+3,6% l’anno) superiore a quella della popolazione è con il Catholic Relief Services. Sostiene le donne imprenditrici a basquello della giovane e piccola industria manifatturiera palestinese. so reddito nell’avviare nuove attività o nel migliorare quelle esistenti. Del resto la guerra strisciante sta portando alla crisi anche l’econoCon la chiusura delle frontiere e la riduzione delle opportunità di mia israeliana, nonostante i fasti del complesso militare-industriale. lavoro in Israele a seguito della seconda Intifada, le piccole attività E, vista nel contesto Europa/Mediterraneo, la questione è quella di economiche autonome hanno un mondo arabo di 246 milioni di abitanti, oltre la metà dei quali acquisito una rilevanza molto popolazione urbana, con una generazione di giovani “mai così numaggiore per il livello di vita delmerosa”, come ricorda il recente Arab Human Development Report le famiglie. dell’Undp, che praticamente da venticinque anni non vede miglioraAnche nel commercio internamenti nel tenore di vita: +0,3% medio annuo l’incremento del prodotto lordo pro capite tra il 1975 e il 2000. Difficile immaginare un Lo staff di Asala, Palestinian percorso verso la pace, la convivenza, la libertà dalla paura senza Business Women’s Association, a pensare ad un futuro possibile per queste persone. ● Ramallah (foto Catholic Relief Services) Mubarak Awad tante del mondo arabo e musulmano contemporaneo: il fondamentalismo islamista. In un’intervista rilasciata al pacifista israeliano Meir Amor (sul periodico nordamericano Peace Magazine, ottobre-dicembre 2000), Awad racconta di come la nonviolenza sia ostica all’Islam ufficiale, ma di aver trovato che in India, con Gandhi, lavorava anche il musulmano Abdul Ghaffar Khan. Awad e Kuttab, sia pur implicitamente, non credono alla semplice interpretazione del “terrorismo come disperazione”. Sanno che le organizzazioni islamiste sono movimenti politici con un vasto seguito. E probabilmente sarebbero d’accordo con la lucida analisi di un’altra psicologa, Grazia Attili (“Kamikaze. Le basi biologiche dell’attacco suicida”, Psicologia Contemporanea, marzo-aprile 2002), secondo cui «i meccanismi su cui poggia l’addestramento dei kamikaze sono gli stessi su cui qualsiasi potere fa leva per convincere e avviare alla guerra i propri soldati: patria, terra, famiglia…» e «le migliaia di persone da sterminare vengono disegnate come individui estranei, portatori di caratteristiche così diverse da essere assimilabili a specie diverse. Deumanizzati». Infatti nel documento-appello dei due pacifisti si affronta di petto il principale ostacolo all’adozione della nonviolenza da parte dei palestinesi, il cosiddetto “argomento degli Hezbollah”. È la stessa televisione satellitare degli Hezbollah libanesi, Al Manar, a «ricordare costantemente ai palestinesi di seguire il loro esempio»: la lotta armata degli Hezbollah ha costretto gli israeliani a ritirarsi dal Libano meridionale occupato. Ma Mubarak Awad e Jonathan Kuttab ribattono: «Gli israeliani non hanno mai considerato il sud del Libano parte di Israele. L’occupazione poteva cessare quando il suo costo in vite umane fosse diventato troppo pesante rispetto ai benefici militari della sua continuazione. Viceversa, la lotta armata dei palestinesi è spesso interpretata come una minaccia contro Israele in quanto tale». La nonviolenza contro la paura Siamo al punto dolente, alla tensione che anima da mesi non solo gli israeliani ma gli ebrei in tutto il mondo: la violenza e il terrorismo mettono in gioco l’esistenza stessa dello Stato di Israele. «E quando è in gioco l’esistenza» commentano Awad e Kuttab «gli israeliani e i loro sostenitori all’estero fanno fronte comune e combattono nonostante le perdite». Spiegare, come fanno alcuni, che l’obiettivo delle azioni armate non è distruggere Israele ma porre fine all’occupazione «non è convincente, soprattutto nel momento in cui l’israeliano medio viene ucciso o ferito e la guerra arriva nello stesso Israele». Ecco la forza dirompente della proposta nonviolenta. «Una lotta nonviolenta non può essere fraintesa come una minaccia fisica a Israele». Infatti significa «l’accettazione dell’umanità dell’altro popolo». Anzi «un vasto numero di israeliani che desiderano sinceramente una giusta pace possono essere coinvolti in questa lotta nonviolenta contro l’occupazione e gli insediamenti». Certo, i palestinesi sceglieranno la nonviolenza «solo se si convinceranno della sua efficacia» mentre ora «la gente è ancora intrappolata nella retorica della lotta armata». Insomma Awad e Kuttab non si nascondono le difficoltà. Una di esse, e non di poco con● to, riguarda l’economia. «L’ Algeria sembra chiusa in un circolo vizioso, che non le lascia molta scelta fra le dittature al potere e la minaccia integralista. Una sola regione sembra sfuggire a questa crudele fatalità, o almeno fa del suo meglio per liberarsene: la Cabilia». Karim Metref, algerino, residente in Italia da quattro anni, è da molto tempo militante per i diritti dei popoli berberofoni in Algeria. Karim è l’animatore di Asaka Italia, un’associazione socio-culturale italo-algerina per gli scambi culturali ed economici su basi eque e solidali fra le due rive del Mediterraneo. Asaka infatti, in berbero, significa “guado”, cioè “un luogo poco profondo del fiume dove tutti possono attraversare compresi i più deboli”. È con Asaka Italia che Microfinanza è entrata in contatto ed ha lanciato il progetto “Sostegno all’artigianato tradizionale berbero”, assistenza tecnica e promozione di un fondo di credito per le microimprese artigiane dei villaggi di Ath Yanni, Ath Hichen e Maatkas in Cabilia, tra i 25 e i 50 km da Tizi Ouzou, capoluogo di provincia, 100 km ad est di Algeri. Le armi e la banca Proprio mentre si stava definendo il progetto, è stata pubblicata l’annuale “Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” presentata dalla Presidenza del Consiglio al Parlamento. Nel 2001 il governo italiano ha autorizzato esportazioni di armi in Algeria per 1 milione 171 mila euro (2 miliardi 267 milioni di vecchie lire). Si tratta, come emerge dalla lettura della Relazione, della fornitura di impianti di telecomunicazioni belliche della Alenia Marconi Systems spa. Naturalmente il destinatario è il governo di Algeri. Come nel caso delle consistenti forniture di armi leggere, soprattutto pistole Beretta, degli anni precedenti. Il record fu raggiunto nel 1995 con più di 5 milioni di euro (10 miliardi di lire). Ma secondo Luis Martinez, del Centro studi e ricerche internazionali (Ceri) di Parigi, che ha seguito da vicino la situazione nel paese durante la guerra civile seguita alla cancellazione dei risultati delle elezioni legislative del ’91, le armi principali usate dai gruppi armati del fondamentalismo islamista sono «le pistole Beretta e i Kalashnikov». Microfinanza ha però scoperto anche un’altra cosa: che il Ministero dell’economia l’anno scorso ha autorizzato un’operazione bancaria corrispondente alla fornitura Alenia del valore di 1.024.808,36 euro (la valuta originaria dell’operazione è il dollaro), con importi accessori, che comprendono i compensi di mediazione per la conclusione dell’affare, per 223.046,67 euro, attraverso la Banca Antoniana Popolare Veneta, new [foto Pietro Gigli] entry nella lista delle “banche armate”. Proprio la banca presso cui aveva il conto corrente Microfinanza, che l’aveva scelta anche perché finora fuori dal business del mercato armiero. Microfinanza ha immediatamente avviato le procedure per chiudere il conto all’Antonveneta. «Non possiamo essere, sia pur indirettamente, complici del riarmo nel Maghreb proprio mentre stiamo promuovendo progetti di sviluppo locale». Il problema delle armi e della violenza resta. Ma tra i berberi, che si oppongono all’attuale governo algerino, si fa strada un’opzione diversa. L’Algeria e gli “uomini liberi” La Cabilia, regione centro settentrionale dell’Algeria, è abitata da una popolazione di origine masira comunemente nota come berbera. Il termine berbero è in realtà abbastanza dispregiativo perché deriva da barbaro. I berberi definiscono se stessi come amazigh, ovvero “uomini liberi”. In Cabilia sono circa 6 milioni, più o meno i due terzi della complessiva presenza berberofona in Algeria. «La questione berbera è indissolubile dalla questione nazionale algerina così come marocchina. Anzi direi di più: va necessariamente coniugata con il progetto di società dei popoli marocchino e algerino (e forse anche maliano o nigerino)» commenta Giampietro Pizzo, che segue il lavoro di Microfinanza nel Maghreb. «In Algeria la questione etnica esplode come ultimo sintomo della deriva del progetto nato con l’indipendenza. La liberazione nazionale algerina è nata sulle basi di un’organizzazione statuale plasmata dalla Francia e dalla sua politica coloniale. Da Boumedienne alla struttura di potere dell’esercito, il discorso retorico di legittimazione è cambiato passando dal socialismo al panarabismo, dal modello di modernizzazione all’integrazione economica con l’Europa. Ma quello che mancava e manca è un progetto che rappresenti le legittime aspirazioni del popolo algerino e della sua appartenenza a una storia nazionale». La causa berbera/amazigh, ricorda Pizzo, è sempre esistita. «Quello che avviene ora è che si vuole forse giocarla su un piano strettamente politico. Facciamo attenzione che questo non diventi ancora una volta un pretesto per una ennesima svolta autoritaria. La crisi dell’élite al potere è evidente, ma Artigiano della Cabilia prima di morire può fare molto male, prolungando questo terribile tunnel di oscurantismo e autoritarismo che vive l’Algeria e questo in nome dello stato di eccezione». Ma tra gli stessi berberi maturano scelte diverse dalla contrapposizione etnica. «La lotta per rivendicare la riabilitazione della cultura e della lingua berbera» spiega Karim Metref «si è materializzata dopo i tumulti popolari del 20 aprile 1980 in Cabilia. Ma non si è mai separata dalle altre lotte per le libertà democratiche sia individuali che collettive e per la piena cittadinanza di tutti gli algerini, con i loro punti in comune e le loro differenze». Anzi, secondo Karim «gli animatori del Movimento culturale berbero, anche se hanno mobilitato la regione in una opposizione radicale al potere e alla sua dittatura, hanno chiaramente optato per l’opposizione democratica e nonviolenta». Gli Aarouch e la nonviolenza Dal marzo 2002 la Cabilia è di nuovo in rivolta. «Dalla reazione violenta delle fasce giovanili all’arbitrio e alla violenza dei gendarmi sulla popolazione, si è passati ad un autentico movimento popolare di resistenza, eletto e controllato dalle popolazioni dei villaggi: il coordinamento dei villaggi e tribù Aarouch, che ha raccolto la collera dei giovani per farne un lancio costruttivo e alternativo credibile e non di distruzione come rischiava e rischia ancora di diventare». Gli Aarouch, aggiunge Metref, hanno prodotto una piattaforma di rivendicazione molto importante che potrebbe essere una base costruttiva per un’Algeria democratica, scegliendo un’opzione chiara contro l’uso della violenza. Tuttavia la mancanza di formazione ed esperienza impedisce loro di passare a forme più attive e costruttive di lotta. La struttura che ha assicurato fin qui la rappresentanza della popolazione della Cabilia comincia a mostrare i suoi limiti e gli animatori non riescono a rianimarla. «Entrare in contatto con gli attivisti, raccogliere informazioni, testimonianze, immagini e suoni di questa protesta, per farla conoscere ad altre realtà attraverso la gente che potrà aiutarla a svilupparsi e migliorare i propri metodi di organizzazione, di comunicazione, di resistenza e di lotta; proporre e valutare con gli attivisti del movimento i bisogni e le possibilità di organizzare dei momenti di formazione dell’organizzazione dei movimenti di resistenza e dell’azione nonviolenta». Questi secondo Metref i prossimi passi da concretizzare. Accanto al sostegno all’autorganizzazione economica dei villaggi. Tappeti, terracotta e gioielli d’argento Una quarantina di chilometri a sud-est di Tizi Ouzou, capoluogo dell’omonima wilaya (dipartimento) dell’Algeria settentrionale, salendo verso la catena montuosa del Djurdjura, si incontrano i villaggi del piccolo comune di Ath Yanni. Qui, dall’epoca che corrisponde all’alto Medioevo europeo, si fabbricano gli straordinari gioielli d’argento e corallo della tradizione cabila. L’artigianato, soprattutto artistico, è infatti la maggiore attività economica della Cabilia, dove invece l’agricoltura di montagna è difficile e povera. Da tempo però anche gli artigiani sono in difficoltà, non solo per ragioni “tecniche” come l’esaurimento dei banchi di corallo, oggi protetto e trattato solo nel mercato nero dalle mafie. La regione è caratterizzata da forte disoccupazione e alti tassi di emigrazione. Le scelte di sviluppo dei governi di Algeri hanno trascurato la piccola impresa locale, seguendo il miraggio della “modernizzazione” finanziata con l’esportazione di idrocarburi. È l’altra faccia della crisi politica che vede la Cabilia in rivolta contro il governo centrale e colpita anche dal fondamentalismo islamista armato. Le tre comunità coinvolte nel progetto Microfinanza/Asaka sono specializzate in settori dell’artigianato tradizionale: le donne di Maatkas nella terracotta, quelle di Ath Hichen nella tessitura di tappeti e coperte, ad Ath Yanni gli artigiani creano bracciali, collane, orecchini a base di argento cesellato ornato da filigrane o smalti. Gli artigiani non sono organizzati in nessun tipo di associazione o cooperativa e vendono singolarmente i loro prodotti a commercianti che poi li esportano. Il loro guadagno è irrisorio rispetto a quello degli intermediari. Il primo obiettivo è quindi di costituire un consorzio di vendita dei prodotti, anche all’estero tramite in particolare i canali del commercio equo e solidale. Si tratta poi di offrire agli artigiani servizi imprenditoriali che aiutino la crescita di un sistema locale delle produzioni tipiche. ● Gioielli della tradizione artigianale cabila SPECIALE MEDITERRANEO L’Algeria è stretta tra regime autoritario e violenza fondamentalista, con alle spalle un fiorente mercato di armi anche italiane. Ma nel paese, e soprattutto tra i berberi, gli “uomini liberi” della Cabilia, si fa strada la scelta della lotta nonviolenta. L’autorganizzazione è però ancora fragile, ha bisogno di sostegno e formazione. Come di sostegno ha bisogno l’economia povera dei villaggi, dove si incontrano maestri artigiani dell’argento ed esperte tessitrici di tappeti e coperte. Microfinanza e l’associazione Asaka stanno lavorando ad un progetto di assistenza alla microimpresa e di microcredito 5 MICROFINANZA 2 NOVEMBRE 2002 I maestri artigiani di Ath Yanni SPECIALE MEDITERRANEO [foto Pietro Gigli] Nel 2001 le rimesse degli immigrati in Italia toccano un nuovo livello record: 749 milioni di euro, il 27,4% in più dell’anno precedente. Per trasferire questo risparmio senza taglieggiare gli immigrati e per valorizzarlo come risorsa per lo sviluppo dei paesi di provenienza, Microfinanza e la ong Cospe hanno avviato un progetto con la Comunità marocchina di Livorno N MICROFINANZA 2 NOVEMBRE 2002 6 el 2001, secondo i dati dell’Ufficio Italiano Cambi resi pubblici dal Bollettino della Banca d’Italia, le rimesse degli immigrati nel nostro paese hanno raggiunto la cifra record di 749 milioni di euro, poco meno di 1.500 miliardi di vecchie lire. Nel 2000 ammontavano a 588 milioni, dunque l’incremento è stato del 27,4%. Le rimesse degli emigrati italiani invece decrescono: dai 389 milioni di euro del 2000 a 359 milioni nel 2001. Una parte crescente di questo risparmio è destinato a paesi in via di sviluppo. Secondo la ricerca dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) e della Caritas di Roma, presentata l’anno scorso, nel 2000 il 52% delle rimesse andavano verso paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina e un altro 2% a paesi dell’Est Europa. All’inizio degli anni ’90 ai paesi in via di sviluppo andava appena il 12% delle rimesse. Gli ultimi dati mensili dell’Ufficio Cambi, riferiti al febbraio e al marzo 2002, danno il Sud del mondo al 53-54%. In ascesa è, in modo particolare, la destinazione Asia – in primo luogo Cina e Filippine – che nel 2000 copriva quasi il 44% delle rimesse degli immigrati stranieri in Italia. Sempre secondo la ricerca Ilo-Caritas, ciò dipende dal livello particolarmente elevato di risparmio pro-capite degli immigrati asiatici: 930 euro. L’Africa, soprattutto il Nord Africa con in testa il Marocco, riceve invece il 6% delle rimesse dall’Italia, mentre in America Latina ne arriva il 2%. Destinazione Asia Dal 1974 al 1999 il volume delle rimesse trasferite dagli emigranti in ogni parte del mondo ha superato gli 800 miliardi di dollari. Di questi quasi 500 miliardi, e quindi la maggior parte, sono stati trasferiti nel corso degli anni ’90 denotando un notevole incremento delle dimensioni del fenomeno, in parallelo con l’incremento delle migrazioni. Negli anni ’70 la destinazione prevalente delle rimesse era l’Europa occidentale (33 miliardi), seguita dall’Africa (14 miliardi) e dall’Asia (12,6 miliardi). Interessante in quel periodo il ruolo assolutamente marginale dell’America (compresa quella Latina) che riceveva rimesse per un importo pari a circa 1,5 miliardi di dollari. Negli anni ’90 la situazione è completamente cambiata. Il continente più importante per destinazione resta l’Europa, con circa un terzo delle rimesse mondiali, per un importo che si aggira intorno ai 157 miliardi di dollari, ma con un rimescolamento sostanziale dei singoli paesi coinvolti e con un ruolo preponderante dell’Europa Centro-Orientale. Al secondo posto – 156 miliardi, con un volume analogo quindi a quello europeo – vi è l’Asia, nella quale assume un ruolo fondamentale il subcontinente indiano (India, Pakistan e Bangladesh) con circa il 60% delle rimesse giunte nel continente. Segue l’America con 94 miliardi di dollari pari al 19% del totale (2% negli anni ’70). Quindi troviamo l’Africa, che vede diminuire il suo peso in valore percentuale rispetto agli anni ’70 (17% contro il 22%) anche in questo mercato. Anche se si tratta di cifre comunque non indifferenti: 86 miliardi di dollari. Nel continente africano il ruolo predominante è giocato dai paesi settentrionali (Marocco, Egitto e Tunisia) con l’80% delle rimesse. Il mercato delle rimesse Questi numeri spiegano la ragione per la quale, da qualche anno, il mercato delle rimesse è diventato appetibile per una serie di soggetti finanziari e, recentemente, anche per le banche. Tale mercato è dominato oggi, a livello internazionale e anche in Italia, da due aziende: Western Union (gruppo First Data) e MoneyGram (gruppo Viad Corporation). Ma ne esistono molte altre, pur se minori. Da uno studio del 2000 dell’Istituto di ricerca economica “Tomas Rivera” si desume che, specialmente in relazione all’America Latina, sono attivi anche i seguenti soggetti: Gigante Express, Mateo Express, Vimenca, Pronto Envio, IRNet. Le caratteristiche operative peculiari di questo mercato sono rappresentate principalmente dalla velocità di trasferimento del denaro e dalla sicurezza. In nome di esse – e di una mancanza di alternative che non siano i trasferimenti informali a mezzo di conoscenti o di “intermediari non formali specializzati” – gli immigrati accettano costi per il servizio molto consistenti che talora superano il 20% della somma da spedire. Tali costi sono rappresentati di norma da una percentuale o da una somma fissa per accedere al servizio, dal tasso di cambio applicato per la conversione in valuta locale – di solito penalizzante a causa dell’elevata in- stabilità di tali valute – e da una commissione trattenuta all’atto della consegna del denaro ai destinatari. Secondo lo studio dell’Istituto Rivera, il valore medio dei trasferimenti verso l’America Latina – ma si può ritenere che per gli altri paesi sia analogo – supera di poco i 300 dollari. In Italia, Western Union e MoneyGram sono per il momento le uniche presenti sul mercato con una diffusione e capillarità notevole. Gli sportelli della Western Union si trovano anche in bar e supermercati e sono gestiti da una società italiana – la Angelo Costa spa che unisce anche altri servizi per gli immigrati (telefonia, spedizioni di pacchi, ecc.). MoneyGram ha stipulato un accordo con Poste Italiane e si avvale pertanto dei suoi 14.000 sportelli in tutta Italia. L’intervento della microfinanza Le rimesse degli emigrati sono, per molti paesi del Sud del mondo, una delle poche voci che evita il tracollo della bilancia dei pagamenti con l’estero. Ma potrebbero diventare anche una vera risorsa per lo sviluppo locale? Certo, se si considerano a pieno titolo risparmio disponibile per sostenere gli investimenti, che in molte realtà del Sud del mondo significa microcrediti alle microimprese locali. È questa la sfida lanciata da Microfinanza e dall’organizzazione non governativa Cospe di Firenze con il progetto di gestione delle rimesse degli immigrati marocchini della provincia di Livorno. Il meccanismo del progetto coinvolge la Comunità marocchina della provincia di Livorno, l’istituzione di microfinanza Amos di Khenifra (Marocco), il Monte dei Paschi di Siena e le filiali marocchine del Crédit Agricole. Un primo obiettivo di questo progetto è la trasmissione a costi il più possibile ridotti e Le rimesse degli immigrati dall’Italia (valore in milioni di euro) Anno 1990 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 Rimesse 32 208 246 292 392 511 588 749 Variazione annuale Fonte: Elaborazioni Caritas e Microfinanza su dati dell’Ufficio Italiano Cambi 18,3% 18,7% 34,2% 30,3% 15,1% 27,4% Risparmi migranti Mameli Biasin con tempi certi del valore della rimessa. In aggiunta a ciò vi è la non secondaria questione della accessibilità del servizio a tutti i familiari degli emigranti, anche se residenti in località rurali o montane, e comunque lontani dai centri urbani dove più facilmente vi è la possibilità di trovare uno sportello bancario. Sotto questo profilo, il ruolo della microfinanza è assolutamente indispensabile poiché, in molte realtà rurali dei paesi in via di sviluppo, l’unico “sportello” bancario è rappresentato proprio dalle microbanche di villaggio. Cruciale in questa iniziativa è il coinvolgimento della comunità marocchina. Essa si dovrà occupare della diffusione delle informazioni sul servizio e così facendo potrà percepire una commissione che le permetterà di organizzare attività a sostegno dell’integrazione degli immigrati marocchini nel territorio di Livorno. Per lo sviluppo e non per il terrorismo Il passaggio decisivo sarà poi l’utilizzo delle rimesse sul posto, attraverso l’organizzazione locale di microfinanza, per il finanziamento delle piccole attività economiche agricole e artigianali. Non è questo peraltro il primo caso di intervento della microfinanza nel mercato delle rimesse degli emigranti. Tra le altre principali esperienze avviate negli ultimi tempi ricordiamo: • FIE/FFP (istituzione di microfinanza boliviana) che gestisce le rimesse della comunità boliviana in Argentina; • Banco Solidario (istituzione di microfinanza ecuadoriana) che gestisce le rimesse della comunità ecuadoriana in Spagna. La trasparenza nei trasferimenti delle rimesse e il loro utilizzo per lo sviluppo attraverso le organizzazioni del microcredito sono anche elementi di chiarezza rispetto ai rischi di riciclaggio e di utilizzo da parte della criminalità organizzata. Negli ultimi mesi da più parti si è parlato del trasferimento di denaro attraverso canali informali anche come fonte di risorse per organizzazioni terroristiche come Al Qaeda di Osama bin Laden. Sgombrare il campo da dubbi sulla destinazione del denaro è quindi necessario. Organizzarne un utilizzo efficace per lo sviluppo è il modo più limpido per farlo ● arrivare a chi ne ha veramente bisogno. Cresce la microfinanza rurale A Prijedor, seconda città della Repubblica Srpska di Bosnia, è stato avviato da alcuni anni un progetto di cooperazione decentrata promosso da Casa per la Pace (ong di Trento), da un consorzio di enti locali (Provincia Autonoma di Trento e vari consigli comunali) del Trentino Alto Adige e dal Consiglio d’Europa. All’interno del “Progetto Prijedor”, tra il 2000 e il 2001 Microfinanza ha seguito sul campo il risanamento del portafoglio incagliato e a rischio e il ridisegno completo della funzione di microcredito dell’Associazione Agricoltori di Prijedor (Aap). Oggi questo lavoro sta dando i suoi frutti. Come spiega Annalisa Tomasi dell’Agenzia per la Democrazia Locale di Prijedor, alla fine del luglio 2002 l’Aap è arrivata ad aver erogato 251.300 marchi (quelli bosniaci valgono come il vecchio marco tedesco, quindi circa la metà di un euro) a 122 destinatari, con un portafoglio critico del 6,04% sul totale. Il portafoglio attualmente attivo è di poco più di 100 mila marchi per 50 contadini. Nell’area ci sono altre realtà di microcredito. Mikrofin, finanziata dalla Banca Mondiale, offre microcrediti al commercio (tasso di interesse annuo del 30%) e alla produzione e servizi (tasso annuo del 24%). La Raiffeisen Banka (banca cooperativa) presta ad un tasso annuo medio del 15%, mentre l’associazione Zdravo daste fa microcredito per l’imprenditoria femminile con un tasso annuo del 16%. La App, con un tasso annuo del 10,8%, è quindi tra le realtà di microcredito meno costose ed è pressoché l’unica che opera nel settore della produzione agricola. Per lo sviluppo del fondo di credito della App, Microfinanza ha lanciato la raccolta di altri 100 mila euro. ● SPECIALE MEDITERRANEO Bosnia, progetto Prijedor Forza e debolezze delle banche dei poveri in Albania ●●● [segue da pagina 1] Omaggio ad Arghiri Emmanuel, pioniere degli studi sullo “scambio ineguale” cinquant’anni, si iscrive all’Ecole Pratique des Hautes Etudes, dove prende il Dottorato di 3° ciclo nel 1968 sotto la direzione dell’eminente studioso marxista Charles Bettelheim. Inizia quindi la carriera accademica nel ’69 e fino al 1980, quando a quasi settant’anni va in pensione, insegna Rapporti economici internazionali all’Università di Parigi I. Nel 1969 pubblica, sulla base della sua tesi di Dottorato, il libro che lo renderà celebre almeno tra chi allora si occupava seriamente dei problemi dello sviluppo e del sottosviluppo: L’échange inégal cioè Lo scambio ineguale. Gli antagonismi nei rapporti economici internazionali (in italiano Einaudi, Torino, 1972). La tesi di Emmanuel, non conformista (neanche per il suo maestro marxista) ma rigorosamente argomentata, dovrebbe essere familiare al mondo dell’economia solidale e del movimento critico con la globalizzazione liberista, ma forse non è conosciuta che superficialmente. Emmanuel parte dalla constatazione del divorzio pressoché totale tra la teoria economica, che è generalmente convinta dei benefici del libero scambio a livello internazionale, e la pratica di quasi tutti i paesi – almeno di tutti quelli che possono farlo – che conducono politiche commerciali in varia misura protezioniste. Possibile che i governanti, le imprese e i lavoratori che spingono per il protezionismo inve- ce di ascoltare le sagge ricette degli economisti siano preda dell’irrazionalità più completa? No, risponde l’autore, la pratica ha senso, è la teoria che non funziona perché descrive un mondo idilliaco che non c’è. In realtà negli scambi economici internazionali c’è chi guadagna e chi perde, non occasionalmente ma sulla base di un meccanismo strutturale. Le radici dello scambio ineguale Discutendo del deterioramento sistematico delle ragioni di scambio dei paesi in via di sviluppo, Emmanuel contesta la spiegazione che molti – spesso anche nel mondo della solidarietà – danno: si tratterebbe della conseguenza del fatto che i paesi del “Terzo Mondo” producono prevalentemente materie prime agricole e minerarie e sono i prezzi delle materie prime che declinano sistematicamente, per ragioni legate all’arretratezza tecnologica e all’andamento della domanda. Scrive Emmanuel (trent’anni fa!): «Il deterioramento delle ragioni di scambio dei beni primari è un errore di ottica. È il risultato dell’identificazione arbitraria delle esportazioni dei paesi ricchi con quelle di beni manifatturati e delle esportazioni dei paesi poveri con quelle dei beni primari… Il caffè, il cacao e il cotone prima di essere esportati devono subire una lavorazione altrettanto, se non più importante, del legno svedese o canadese; le banane e le spezie non sono più primarie della carne o dei prodotti lattieri. Tuttavia i prezzi degli uni diminuiscono, quelli degli altri aumentano e la sola caratteristica comune ad entrambi è che sono rispettivamente i prodotti dei paesi poveri e dei paesi ricchi». L’indicazione centrale de Lo scambio ine- destinatari dei prestiti di Besa per un valore totale dell’equivalente di 7 milioni di dollari. Sono stati praticamente completati i rapporti sul Rural Financial Fund e sul Partneri Shqiptar ne Mikrokredi (Pshm). Ai primi del 2003 verrà svolta la valutazione di Mountain Areas Finance Fund (Maff ) . Il rating di Microfinanza non prevede un valore sintetico – tipo le AAA di Standard & Poor’s per intenderci – ma una valutazione denominata Swot, cioè “Strengths, weaknesses, opportunities, threats”, punti di forza e di debolezza, opportunità e ostacoli di sviluppo. ● guale è che per spiegare l’andamento dei prezzi bisogna guardare alla remunerazione dei fattori della produzione, cioè del capitale e del lavoro. E mentre i capitali si fanno ormai concorrenza su scala mondiale e quindi difficilmente può mantenersi a lungo una nicchia in cui un singolo capitale guadagna molto più della media, perché rapidamente in quella nicchia si gettano anche altri, il lavoro, nonostante i consistenti flussi migratori, è ancora relativamente immobile e le differenze – enormi – nella sua remunerazione tra paesi ricchi e poveri restano stabili. Per remunerazione del lavoro non intendiamo solo il salario del lavoratore dipendente, relativamente poco diffuso nel Sud del mondo, ma anche il reddito del grandissimo numero di produttori individuali, di microimprese familiari (500 milioni secondo una stima dell’Unctad), di lavoratori “autonomi”. Di chi si arrangia a sopravvivere. Lo scambio ineguale dipende – afferma Emmanuel – dalla differente remunerazione del lavoro del tutto sproporzionata alle differenze di livello tecnico o di produttività. Sul mercato mondiale si scambiano beni di diversa natura, più o meno manifatturati, ma quelli che provengono dai paesi poveri hanno sistematicamente una parte di lavoro non pagato – e dunque una perdita per l’economia nazionale – rispetto allo standard produttivo. altre “provocazioni” stimolanti. In Technologie appropriée ou technologie sous-développée (Puf, Parigi 1982) lo studioso mette in discussione un tabù del pensiero “terzomondista”: l’investimento diretto da parte delle multinazionali. Lungi dall’esserci “la coda” per investire nel Sud del mondo, le imprese multinazionali preferiscono di gran lunga, nell’ordine, a) esportare i loro prodotti, b) vendere la tecnologia o i brevetti e ottenere royalties (vedi il caso dei farmaci), c) sfruttare il subappalto. Lo scambio ineguale garantisce infatti molti più guadagni e meno rischi in questi casi. Solo se non si può fare diversamente, e se c’è una qualche convenienza, la multinazionale investe i propri capitali e apre una filiale. Per la grande impresa l’investimento diretto estero non è dunque la regola ma l’eccezione. Per i paesi poveri – provoca Emmanuel – è invece la soluzione migliore: arrivano capitali, vi è un qualche trasferimento di tecnologia attraverso il know-how appreso dai nuovi operai e tecnici, c’è la possibilità, anche se contrastata, di lotte sindacali per ottenere remunerazioni migliori. La vicenda recente dei paesi dell’Asia orientale in effetti insegna qualcosa al riguardo. Come scrive nel suo ricordo (su “Revue Tiers Monde”) Claudio Jedlicki, esule dall’America Latina delle dittature militari e assistente di Emmanuel: «Per noi, che ci sentivamo vittime della Cia e dell’Itt, la sua posizione a favore degli investimenti delle multinazionali era difficile da accettare. Ma col suo rigore, ci ha insegnato a sviluppare il nostro senso critico e a non fidarci delle idee ricevute, benché dominanti. Il suo campo è stato sempre quello dei deboli». ● Investimenti esteri: troppi o troppo pochi? È il reddito del produttore diretto il punto chiave dell’ineguaglianza negli scambi internazionali. Questo elemento ha anche altre conseguenze che porteranno Emmanuel ad 7 MICROFINANZA 2 NOVEMBRE 2002 M icrofinanza è l’unica società italiana tra quelle accreditate presso il Cgap, l’apposito comitato della Banca Mondiale, come valutatori (raters) di organizzazioni di microcredito. In queste settimane sta preparando i rapporti di rating sulle principali istituzioni di microfinanza albanesi. I rapporti verranno pubblicati sul sito del Cgap. È pronto quello di Besa Foundation – “besa” significa “fiducia” – un’organizzazione nata nel 1999 dalla Open Society di George Soros e specializzata nel microcredito a piccole attività urbane. Sono circa 3.500 i La polemica Quel microcredito così “commerciale”… Giampietro Pizzo «Costretto da non so quale necessità una volta, a chiedere danari in prestanza a uno, il quale scusandosi di non potergliene dare, concluse affermando, che se fosse stato ricco, non avrebbe avuto maggior pensiero che delle occorrenze degli amici; esso replicò: mi rincrescerebbe assai che tu stessi in pensiero per causa nostra. Prego Dio che non ti faccia mai ricco» Detti memorabili di Filippo Ottonieri, Operette Morali, Giacomo Leopardi I MICROFINANZA 2 NOVEMBRE 2002 8 n Italia di microcredito si comincia a parlare parecchio. Ma non sempre con favore, anzi spesso con sospetto. Troppa “imprenditorialità”, troppo “mercato”, troppe aspirazioni “commerciali”, tassi di interesse “troppo alti”. Insomma troppo fuori dagli schemi della cooperazione allo sviluppo tradizionale. La più recente espressione di queste critiche è dovuta ad Alberto Sciortino, coordinatore dei programmi del Ciss, Cooperazione Internazionale Sud Sud, ong di Palermo. La si può leggere ne “Le mille incognite del microcredito” su www.terrelibere.it e nell’intervento “Ma a chi serve il microcredito?” in Microcredito: uno strumento per lo sviluppo? a cura dell’Aps Associazione per la Partecipazione allo Sviluppo di Torino (in questo testo sono riportati anche due interventi di Microfinanza: “I nuovi scenari del debito estero e l’alternativa microcredito” di Francesco Terreri e “La valutazione d’impatto dei progetti di microcredito: obiettivi e metodologie di valutazione” di Fabio Malanchini). La moda «Il microcredito è di moda» si dice ormai da più parti. Più di 7.000 istituzioni di microfinanza esistono ed operano nel mondo. L’ultimo rapporto della campagna internazionale del microcredito (Microcredit Summit) ne censisce 1.567 con 30 milioni 681 mila destinatari di microprestiti, di cui 19 milioni 327 mila “molto poveri” – definiti in prima approssimazione come coloro che vivono con meno della metà del reddito della soglia nazionale di povertà. Di essi oltre 14 milioni sono donne. Ma più che di moda io parlerei di successo, e di successo clamoroso dopo anni di afropessimismo, di catastrofismo umanitario, di reciproci j’accuse fra policy makers e ong di ogni colore e sponda. Ben vengano queste mode se ci aiutano a costruire il nuovo e ad immaginare un futuro per miliardi di “dannati della terra”. Nel suo intervento Sciortino nota anche che la microfinanza non ha inventato nulla. Ci sono state le esperienze europee delle casse rurali e delle banche popolari; i teutonici Raffeisen e Schulze-Delitzsch prima del bengali Yunus; il signor Tonti prima delle tontines e prima dei francesi con il loro “crédit mutuel”. Ebbene sì, come ci insegna Albert O. Hirschman lo sviluppo è un fiume sotterraneo: da esperienze di fallimento nascono nuove opportunità e da istituzioni ormai morte sorgono nuove Fenici dello sviluppo. Quello che conta è l’autenticità dei processi organizzativi e delle forme istituzionali: e così la nostra storia creditizia è la base del nostro sviluppo odierno. Analogamente, se vogliamo essere realisti, la storia economica africana doveva necessariamente passare per il fallimento delle istituzioni coloniali – francesi, inglesi ecc. – proprio perché queste erano state estrapolate da contesti, storie e culture totalmente al- tri. Ma i “fiumi sotterranei” possono sempre riemergere, e così un banchiere napoletano può riaffiorare in Camerun, in pieno paese Bamileke, per dare vita ad una esperienza originalissima come le tontines. Le banche e lo sviluppo Ma veniamo agli argomenti centrali della critica. Il primo è il ruolo del credito e della microfinanza nei processi di sviluppo. Si afferma, e Sciortino riprende questa tesi, che le iniziative di credito di carattere mutualistico e cooperativo, come quelle storicamente sperimentate in diverse realtà europee tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, hanno avuto successo perché inserite «in un contesto di sviluppo generale, a livello continentale, e di trasformazione industriale dell’economia». In definitiva, solo se esiste quella volontà di investire, simbolicamente rappresentata dagli animal spirits degli imprenditori, l’istituzione creditizia e bancaria potrà svolgere degnamente il proprio ruolo di volano dell’economia. Ma non è proprio questo volano che manca in molti paesi poveri in Africa, Asia o America Latina? Non è quel diritto negato al credito e l’assenza di un briciolo di democrazia economica che tarpano le ali ai mille progetti individuali e collettivi degli esclusi, delle donne e degli uomini nelle periferie urbane così come nelle campagne? Sono centinaia di milioni gli “spiritelli imprenditoriali” che chiedono di poter agire, contare, partecipare alla costruzione, non solo di economie regionali e nazionali ma anche, e soprattutto, di una diversa e più equa società civile. Scomodiamo ancora una volta Hirschman per dire che non esistono modelli di sviluppo equilibrato in cui tutti i fattori produttivi, istituzionali, culturali sono sincronicamente riuniti. Lo sviluppo è un processo in cui le tensioni e le contraddizioni, le priorità e le compatibilità costruiscono un modello sociale ed economico in continua evoluzione e in cui minime variazioni possono produrre enormi cambiamenti. Nella stessa storia europea non tutte le banche sono state uguali: quelle che hanno funzionato come banche dei distretti industriali di piccole imprese si sono comportate nei confronti degli imprenditori e del “contesto” (la “costruzione sociale del mercato”) diversamente dalle istituzioni che hanno affiancato la grande impresa pubblica o privata. E la differenza non è passata necessariamente tra banche cooperative e banche “commerciali”. Profitti Il secondo argomento critico di Sciortino e di altri suona così: «Le iniziative di microcredito, nate come finanza a sostegno dell’economia debole e informale, hanno finito per operare per la ricerca del profitto e sono diventate componenti a tutti gli effetti dell’economia creditizia formale». Ecco il vizio antico che riaffiora inesorabile! Se un’esperienza organizzativa funziona, e [foto Pietro Gigli] magari è redditizia, subito il demone del profitto la corrompe, portandola dritta dritta verso una perversa integrazione nell’economia formale. Ma finché l’economia internazionale opererà in un contesto di mercato, un’impresa o una cooperativa debbono poter stare sul mercato, ricercando il profitto per soddisfare i bisogni dei propri aderenti, dei propri soci, dei propri beneficiari. La questione rimane quella della forma di appropriazione di questi profitti: i grandi gruppi multinazionali e bancari o i piccoli soci aderenti alle migliaia di cooperative di risparmio e credito africane, asiatiche o latinoamericane? Si tratterà semmai di creare procedure trasparenti e democratiche di investimento e di rifinanziamento delle istituzioni di microfinanza. Le esperienze di molte banche etiche del Nord Europa vanno proprio in questa direzione (Triodos, Oikocredit ecc.). Ma non si tratta solo di questo. Di mercato non ce n’è un solo tipo, e il fatto che oggi ci sia la “dittatura” dei mercati oligopolistici o monopolistici – e che il “modello” siano Enron o WorldCom – non impedisce di pensare a sistemi di scambio più equi, che hanno al centro la possibilità di soddisfare i bisogni essenziali (cibo, acqua, salute, istruzione). Esperienze come la microfinanza e il commercio equo e solidale – pur con tutti i loro limiti – mostrano proprio che “un altro mercato è possibile”. I poverissimi Ma Sciortino va oltre e si chiede: a chi giova il microcredito? Ai poveri o a qualcun altro, o forse semplicemente a nessuno? Intanto ci sono i 30 milioni di destinatari, soci, beneficiari, clienti, che non sono pochi. La questione però è che si parla dei “più poveri fra i poveri” e anche i documenti di riflessione del prossimo Microcredit Summit (New York, novembre) – che affrontano, come molti operatori della microfinanza, i problemi dell’impatto del microcredito – si interrogano preoccupati sul numero ancora troppo basso di poverissimi raggiunti. Tuttavia bisogna intendersi: chi è veramente disperato, chi non ha veramente nulla, neppure un patrimonio di relazioni sociali che gli permetta di avere una garanzia solidale, perché vive alla giornata, è rifugiato o è immigrato da poco in una megalopoli, non può beneficiare veramente di un credito perché non ha né un progetto né una visione del proprio futuro. Con i disperati, con i naufraghi, con i più poveri dei poveri, altri sono gli strumenti per lottare contro la miseria e per una politica di emergenza. La donazione è spesso in questi casi lo strumento da usare, senza fare confusione e chiamando dono il dono e credito il credito. La venditrice di Dakar Infine la questione che più tormenta, incomoda, fa dubitare chi si occupa di sviluppo e di finanza etica. Perché questi tassi di interesse così alti, perché questa microfinanza così prossima all’usura? Lo stesso Sciortino lo spiega bene: i costi di intermediazione sono elevati e «nemmeno le banche vivono del differenziale tra i tassi sui prestiti e quelli sui depositi». È proprio questa la ragione per cui lo spread finanziario è così alto nelle istituzioni di microfinanza. Lo dicono i milioni di poveri e di esclusi dei paesi del Sud: meglio un credito caro che nessun credito. E siccome costa caro dare piccoli, piccolissimi crediti nei più remoti angoli del pianeta, meglio un tasso d’interesse elevato che nessun credito. Ma facciamo un caso concreto, il caso della piccola venditrice di pomodori di Dakar. Compra una cassetta di pomodori la mattina, al mercato all’ingrosso di Pikine, per 1.000 franchi CFA (la moneta dell’Africa occidentale francofona: vale circa 3 lire, ce ne vogliono 655 per fare 1 euro) e rivende al dettaglio gli stessi pomodori ad un angolo di strada sul Plateau, ricavando a fine giornata 3.000 FCFA. Il suo margine lordo è di 2.000 FCFA, ovvero il 200% del capitale investito. Poniamo che il prestito serva a coprire l’acquisto di pomodori per un mese. Considerando 26 giornate lavorate, avremo entrate per 78.000 FCFA e uscite per 40.000 FCFA (26.000 per l’acquisto delle casse di pomo- [foto Pietro Gigli] doro, più 13.000 di trasporto, più spese diverse per 1.000 FCFA). Un prestito di 26.000 FCFA ad un tasso di interesse del 5% mensile (un’enormità, diremmo noi) prevede il pagamento di 1.300 FCFA di interesse. Meglio pagare questo tasso – dice la saggia donna wolof – piuttosto che rinunciare a questo piccolo commercio informale. Anche perché, a ben guardare, quei 1.300 FCFA di interesse hanno consentito di produrre un reddito mensile di 38.000 FCFA. A fronte di un esorbitante tasso su base annuale pari al 60%, si avrà un’incidenza irrisoria in termini di oneri finanziari, cioè il 3,4% del margine lordo. Semmai uno dei problemi aperti è che non tutti i settori e le attività economiche richiedono le stesse condizioni di prestito. Altra cosa è, ad esempio, il credito alla produzione rurale, oggi più difficile proprio perché i contadini sono molto meno liquidi dei venditori ambulanti. Ma anche su questo terreno la microfinanza si sta misurando. Il “credito” della microfinanza La vera incognita per ora resta la Cooperazione allo Sviluppo, in generale ma soprattutto, nello specifico, in terra italiana. Nessuno sa esattamente in che direzione si muoverà né con che mezzi. A parte gli ennesimi scherzi sullo 0,7% o sull’1% del Pil. Viceversa, il “credito” della microfinanza è stato costruito lentamente, in mezzo alle storie individuali e collettive di milioni di persone. È un processo che nasce dal basso e che solo da poco è agli onori della cronaca. È un tesoro di esperienze, di conoscenze, di dispositivi organizzativi che va preservato, indipendentemente dal fatto che sia di moda oppure no. Se la Banca Mondiale ha deciso di adottarlo come strumento di lotta alla povertà, non deve essere istintivamente giudicato come pericoloso, negativo. È, noi crediamo, innanzitutto una vittoria di coloro che credono che il “sapere dello sviluppo” sia dei contadini, degli artigiani, dei piccoli commercianti, che lottano non solo per sopravvivere ma per migliorare davvero la loro condizione e la loro speranza di vita. È questo tesoro di conoscenze e di esperienze che non va assolutamente tradito: tutto il resto potrà e dovrà essere emendato, criticato, aggiustato, migliorato. Ma nessuno dovrà tradire questa lezione. Certo che «non è sufficiente mettere denaro nelle mani delle persone, perché si possa innescare lo sviluppo» ma è comunque, ne siamo persuasi, un piccolo e significativo passo sulla difficile via che conduce alla conquista della dignità e della libertà per ogni abitante della terra. ● 9 MICROFINANZA 2 NOVEMBRE 2002 Autosostenibilità Il termine che più preoccupa i critici del microcredito come Sciortino è autosostenibilità. Io preferisco semplicemente parlare di “autonomia” – sia questa organizzativa, economica o finanziaria. Ma il punto è: che male c’è a voler costruire processi di sviluppo autonomi (un tempo si sarebbe detto “autocentrati”)? Se un’istituzione di microfinanza ce la fa da sola, con le proprie gambe, e magari riesce pure a rifinanziarsi privatamente, senza far ricorso ad una Ong o a un Ministero della Cooperazione, perché non dovrebbe essere una buona cosa? Non è questa la storia del movimento cooperativo o, ancora più vicino a noi, del movimento del commercio equo e solidale o di Banca Etica? Perché quello che va bene per noi non dovrebbe andare bene per le popolazioni del Sud del mondo? Ma quello che più conta è l’autonomia organizzativa, cioè la capacità di ogni organizzazione di dotarsi di una propria strategia, di una propria politica e, soprattutto, di una propria ragione d’essere. Su questo e per questo, tutti dobbiamo impegnarci. Per giunta, mentre preoccupa l’autosostenibilità economica delle organizzazioni di microfinanza, essa viene auspicata per i destinatari – microimprese o produttori associati. Per quale strana ragione il piccolo artigiano o la cooperativa di contadini dovrebbero diventare autarchici sul piano finanziario dopo alcuni cicli di credito? Perché il microcredito – «utile» a detta di Sciortino «per avviare le attività economiche» – non lo sarebbe più in seguito, e l’artigiano o la cooperativa dovrebbero accontentarsi dei fondi propri? È proprio l’ineguale distribuzione su scala mondiale dei fondi disponibili per l’investimento – oggi il 95% di essi va al 20% più ricco della popolazione mondiale – uno dei macigni sulla strada dello sviluppo dei paesi più poveri. Forse che le multinazionali impiegano solo fondi propri, o non sono davvero i grandi gruppi economici e finanziari quelli con il più alto “leverage”, quelli che rastrellano la gran parte del credito mondiale? [foto Pietro Gigli] Armi e finanza Il debito armato dei paesi poveri Negli ultimi cinque anni esportazioni italiane di armi per 33 milioni di euro sono andate verso i paesi Hipc, l’Iniziativa sui paesi poveri e altamente indebitati. Con ciò l’Italia ha violato un impegno preso in sede internazionale a non aggravare il debito di questi paesi, soprattutto attraverso le vendite di armamenti. Infatti i paesi Hipc in cui sono arrivate armi italiane hanno visto in questi anni il loro debito estero militare aumentare di una cifra vicina ai 28 milioni di euro. Alla fine del 2001 resta un debito militare in essere che ammonta, nel calcolo più favorevole, a poco meno di 12 milioni di euro (21 milioni nel caso peggiore), interessi esclusi. E ora, oltre alla legge 185 sul commercio delle armi, il governo italiano ha rimesso in discussione anche la recente normativa (legge 209/2000) sulla cancellazione del debito Le fonti principali su cui si basa questa analisi sono le Relazioni governative sulle esportazioni di armi ai sensi della legge 185/90, le Relazioni del Ministero del Tesoro sull’attività della Sace (Istituto per i Servizi Assicurativi del Commercio Estero), i dati di fonte Bri (Banca dei Regolamenti Internazionali) sull’esposizione creditizia internazionale dell’Italia. T MICROFINANZA 2 NOVEMBRE 2002 10 ra le esportazioni italiane di armi degli ultimi cinque anni, una cifra in valore pari a circa 64 miliardi di lire (33 milioni di euro) è andata verso i paesi Hipc, l’Iniziativa sui paesi poveri e altamente indebitati promossa dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale. Con ciò l’Italia ha violato un impegno preso in sede internazionale a non aggravare il debito di questi paesi, soprattutto attraverso le vendite di armamenti. La Hipc coinvolge, secondo l’ultimo aggiornamento della Banca Mondiale, 42 paesi, di cui 34 africani, 4 latino-americani, 3 asiatici e uno del Medio Oriente. I paesi destinatari, a vario titolo, di armi italiane negli ultimi cinque anni sono dieci di essi: Costa d’Avorio, Ghana, Guinea Conakry, Kenya, Mauritania, Niger, Uganda e Zambia in Africa, Honduras in America Latina e Vietnam in Asia. In cinque casi le cifre in gioco sono modeste: si tratta dell’esportazione di pistole mitragliatrici Beretta in Costa d’Avorio (30 milioni di lire nel 1997) e in Niger (4 milioni di lire nel 1999-2000) e di parti di ricambio aeronautiche in Guinea Conakry (27 milioni di lire nel 1999), in Uganda (meno di 1 milione di lire nel 1999) e in Zambia (complessivamente 353 milioni di lire tra il 1997 e il 2001). Negli altri cinque casi le dimensioni economiche e le modalità delle forniture hanno inciso sul peso e la sostenibilità del debito di questi paesi verso l’Italia. Ghana Nel 1993 veniva autorizzata la vendita al Ghana di 2 caccia addestratori MB-339A e di 3 addestratori leggeri MB-326K dell’Aermacchi con relative parti di ricambio, per un valore complessivo di oltre 20 milioni di dollari (all’epoca 30 miliardi 672 milioni di lire). I velivoli sono stati consegnati tra il 1994 e il 1995. Nel 1995 si aggiungono anche 2 elicotteri Agusta A109AM del valore complessivo di circa 3 milioni di dollari (5 miliardi e mezzo di lire). A partire dal ’93 il Ghana paga le commesse con le seguenti “rate”: • anticipo di 4 milioni 975 mila dollari (poco meno di 8 miliardi di lire) nel ’93. Banca d’appoggio dell’operazione è la Bnl; • 4 miliardi di lire nel ’94; • 4 miliardi e mezzo di lire nel ’95; • 6 miliardi 380 milioni di lire nel ’96. A questo punto quindi il nuovo debito in essere è pari a 13,3 miliardi di lire, cioè circa 6,8 milioni di euro. Dal ’97 il Ghana paga ancora • 4 miliardi 408 milioni di lire nel ’97; • 5 miliardi 800 milioni di lire nel ’98. Nel frattempo banca d’appoggio è diventata il San Paolo-Imi. Nel ’99 viene autorizzata una massiccia fornitura di componenti e parti di ricambio per gli aerei Aermacchi del valore di oltre 5 milioni di dollari (9 miliardi e mezzo di lire). Nel 2000 il Ghana riprende i pagamenti per 4 miliardi 174 milioni di lire. Ad oggi quindi il Ghana ha un debito da saldare per gli acquisti militari in Italia dell’equivalente di 8 miliardi e mezzo di lire (4,4 milioni di euro), senza calcolare gli interessi. > Nel periodo considerato il debito del Ghana verso l’Italia è passato dagli 80 miliardi di lire circa del dicembre 1997, crediti d’aiuto esclusi, a 1,5 milioni di euro, meno di 3 miliardi di lire, a fine 2000. La drastica diminuzione è dovuta a massicce ristrutturazioni degli “indennizzi da recuperare” Sace – che costituiscono gran parte del debito – per cui il Ghana ha pagato alla Sace tra il ’98 e il 2000 quasi 90 miliardi di lire (46 milioni di euro) di debiti pregressi e quasi 83 miliardi (42 milioni di euro) di interessi. Ciò nonostante resta un debito di 1,5 milioni di euro a fine 2000, che probabilmente è cresciuto nel 2001 grazie al debito militare che continua ad essere alimentato. Honduras La commessa 2000 dell’Honduras, 7.000 fucili automatici e una dozzina di pistole mitragliatrici Beretta per un valore complessivo di 13 miliardi 424 milioni di lire (6,9 milioni di euro), è stata pressoché tutta pagata nel 2001 (banca d’appoggio Dresdner Bank) e quindi non ha prodotto nuovo debito. > L’esposizione dell’Honduras verso l’Italia è pari a 34,4 milioni di euro al dicembre 2000, praticamente tutti “indennizzi da recuperare” della Sace. Kenya Nel ’97 il Kenya acquista 2 cannoni navali 76/62 dell’Otobreda (Finmeccanica) del valore di 26 miliardi di lire circa. I sistemi sono stati consegnati nel ’98, ma, stando ai dati delle Relazioni governative, il Kenya avrebbe pagato solo 4,7 miliardi di lire. Tuttavia le banche d’appoggio sono state autorizzate dal Tesoro a incassare circa 22,8 miliardi di lire e, per ammissione degli stessi funzionari del Tesoro, la segnalazione dei pagamenti effettivi a volte è carente. Il Kenya quindi potrebbe avere un debito militare in corso per 21,3 miliardi di lire, cioè 11 milioni di euro, o una cifra inferiore, ma è certamente indebitato per non meno di 1,7 milioni di euro. > In effetti il Kenya risulta complessivamen- [foto Pietro Gigli] Autorizzazioni all’export di armi dall’Italia verso paesi Hipc (valori in miliardi di lire, salvo dove specificato diversamente) Destinatario 1997 1998 1999 2000 2001 2001 (milioni di euro) Costa d’Avorio Ghana Guinea (Conakry) Honduras Kenya Mauritania Niger Vietnam TOTALE 0,030 9,532 0,027 13,424 26,041 0,054 6,547 2,270 1,172 19,971 2,270 1,172 2000 2001 0,004 5,909 31,980 0,054 9,563 Consegne di armi dall’Italia verso paesi Hipc (valori in miliardi di lire, salvo dove specificato diversamente) Destinatario 1997 1998 1999 2001 (milioni di euro) Costa d’Avorio Ghana Guinea (Conakry) Honduras Kenya Mauritania Niger Uganda Vietnam Zambia TOTALE 0,030 0,230 0,156 0,539 0,027 0,712 18,982 0,006 0,466 6,219 0,005 0,205 0,106 12,812 4,740 0,319 6,617 2,448 0,165 0,110 18,186 0,057 9,393 0,001 5,942 0,020 6,934 0,091 19,229 te indebitato con le banche e i privati italiani per 24,9 milioni di euro a fine 2000 (esclusi crediti d’aiuto), e presumibilmente di una cifra analoga a fine 2001, e, tra essi, vi è una richiesta di indennizzo Sace per 7,8 milioni di euro. Mauritania Nel 2000 vengono esportati in Mauritania 4 aerei leggeri da addestramento e antiguerriglia SF-260 (ex Siai Marchetti, oggi Aermacchi) del valore di 6 miliardi e mezzo di lire (3 milioni 381 mila euro). Nel 2001 è autorizzata anche la fornitura di parti di ricambio e manutenzione per 1 milione 172 0,132 0,705 6,690 mila euro. Nei due anni la Mauritania paga circa 2 milioni di euro (banca d’appoggio Bnl, che comunque è stata autorizzata per 3,5 milioni di euro), quindi resta da pagare un debito commerciale di altri 2 milioni e mezzo di euro circa. > Il debito della Mauritania con l’Italia era praticamente inesistente fino al 2000, salvo una modesta cifra di crediti d’aiuto (meno di 1 miliardo di lire) inserita peraltro negli impegni di cancellazione presi prima del G8 di Genova 2001. Vietnam La commessa vietnamita del ’97 riguardava In crescita le vendite militari nel bilancio semestrale di Finmeccanica Armi italiane, vola l’export Operazioni bancarie legate all’export di armi dell’Italia verso paesi Hipc (valori in miliardi di lire, salvo dove specificato diversamente) Destinatario 1997 1998 1999 2000 2001 2001 (milioni di euro) Costa d’Avorio Ghana Guinea (Conakry) Honduras Kenya 0,030 (a) 0,030 (s) 4,408 (s) 5,800 (s) 4,174 (s) 0,027 (a) 21,497 (a) 4,707 (s) Mauritania Niger 4,519 (a) 2,228 (s) 0,005 (a) 0,005 (s) 12,824 (a) 12,824 (s) 1,297 (a) 0,163 (s) 2,165 (a) 1,768 (s) 6,623 (a) 6,623 (s) 0,670 (a) 0,084 (s) 1,118 (a) 0,913 (s) (a) operazioni autorizzate (s) operazioni segnalate, cioè effettivamente avvenute Elaborazione dati: OS.C.AR. (Osservatorio sul Commercio delle Armi) di IRES Toscana (Istituto di Ricerche Economiche e Sociali della Toscana) su Presidente del Consiglio dei Ministri, Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento nonché dell’esportazione e del transito dei prodotti ad alta tecnologia. Roma: Camera dei Deputati-Senato della Repubblica, Atti Parlamentari, Doc. LXVII, vari anni. un impianto di produzione di materiale esplosivo della Pravisani di Udine del valore di 5,9 miliardi di lire. L’impianto è stato consegnato nello stesso anno e non ci sono notizie di operazioni bancarie per il pagamento. A meno quindi che le operazioni non siano state effettuate in altre forme, è tuttora aperta una posizione debitoria per 3 milioni di euro circa. > A fine ’97 il Vietnam risultava indebitato con le banche italiane per 2 milioni di dollari, ma i crediti all’esportazione verso quel paese ammontavano complessivamente a 131,7 miliardi di lire, di cui 86,2 miliardi di indennizzi Sace da recuperare. A fine 2000 il debito del Vietnam è a quota 66,8 milioni di euro, di cui 59,6 milioni in capo alla Sace e 7,2 milioni di crediti all’export di privati (ma non di banche). Complessivamente quindi i paesi Hipc in cui sono arrivate armi italiane hanno visto negli Assalto alla spesa militare Usa Oltre la metà delle esportazioni totali del semestre – 268 milioni di euro – sono nell’aeronautica. E quasi 200 milioni è l’interscambio con gli Stati Uniti. Sappiamo di cosa si tratta dal bilancio semestrale di Finmeccanica, la holding dell’industria militare italiana, che chiude i primi sei mesi del 2002 con un risultato complessivo moderatamente positivo – +9,5% di fatturato e 43 milioni di euro di utile netto – dove però le componenti positive sono soprattutto quelle militari. “Rallentamento dei programmi civili” ma “sostanziale tenuta di quelli militari” nell’ala fissa. Va forte soprattutto il C-27J, aereo da trasporto tattico sviluppato insieme alla Lockheed-Martin, già selezionato dalla Grecia e probabilmente fornito anche alla Malaysia. Il 24 giugno è stato siglato il memorandum d’intesa tra Roma e Washington per la partecipazione italiana allo sviluppo del bombardiere di nuova generazione “Joint Strike Fighter”, che si presenta come concorrenziale allo stesso Efa, il programma europeo su cui oggi è più impegnata Alenia, la società aeronautica di Finmeccanica. Negli elicotteri, dove l’andamento del militare è ultimi cinque anni il loro debito estero aumentare a causa degli acquisti di armamenti di una cifra vicina ai 28 milioni di euro. Il dato comprende il debito residuo del Ghana al ’97 per le forniture della prima metà del decennio (6,8 milioni di euro), l’ulteriore debito contratto negli ultimi cinque anni (4,9 milioni di euro), il debito del Kenya (11 milioni di euro), quello della Mauritania (2,5 milioni di euro circa) e quello del Vietnam (3 milioni di euro). Stando alle cifre sui recuperi Sace sul Ghana, probabilmente all’ammontare in conto capitale va aggiunto almeno qualche milione di euro di interessi. Alla fine del 2001 resta un debito militare in essere che comprende: 4,4 milioni di euro del Ghana, da 1,7 a 11 milioni del Kenya, 2,5 milioni della Mauritania e 3 milioni del Vietnam. In tutto poco meno di 12 milioni di euro nel caso più favorevole, poco meno di 21 milioni nel caso peggiore, interessi esclusi. ● [foto Pietro Gigli] stato “positivo” mentre la produzione civile risulta “debole”, tra AgustaWestland, il ramo Finmeccanica dell’ala rotante, e Lockheed, decisamente un partner privilegiato per l’industria italiana, parte la coproduzione dell’US101, versione Usa dell’EH-101. Insieme all’assalto al forziere nordamericano, ci sono gli affari nelle zone “sensibili” come il Medio Oriente. Tra i 244 milioni di euro di armi e munizioni – 144 milioni dei quali sono armi leggere – oltre 21 milioni di euro sono esportazioni agli Emirati Arabi Uniti, terzo cliente dopo Stati Uniti (74 milioni) e Francia (39 milioni), 6,3 milioni di euro forniture alla Turchia e 1 milione 358 mila euro al Libano. Torna in auge anche l’Arabia Saudita con un ordine per cannoni navali 76/62 Oto Melara-Finmeccanica. Africa, elicotteri e radar L’Africa compra armi e munizioni italiane per 4 milioni 251 mila euro, meno del 2001 in cui c’era stato il boom delle forniture alla Nigeria (6,4 milioni di euro), ma quasi il doppio del 2000. In testa agli acquirenti l’Algeria con 1,3 milioni di euro, seguita da Marocco e Sudafrica. Arrivano anche 125 tonnellate di materiale bellico in Guinea (122 mila euro), 49 tonnellate in Congo Brazzaville (279 mila euro), 43 tonnellate in Camerun (111 mila euro) e 20 tonnellate in Burkina Faso (63 mila euro). Dove però il mercato africano si mostra sorprendentemente vivace è di nuovo nel campo delle forniture aeronautiche. L’AgustaWestland, società italo-inglese che produce elicotteri civili e, soprattutto, militari, ha ceduto a gennaio al gruppo sudafricano Denel la licenza di produzione dell’A109 Power e dell’A119 Koala, due tra i più recenti modelli militari ad ala rotante. L’accordo prevede che si punti a vendere i prodotti «nei mercati del Sud-est asiatico, del Medio Oriente, del Sud America e dell’Africa». Intanto l’Eritrea riceve nel primo semestre dell’anno elicotteri per 940 mila euro, mentre la Namibia ha ordinato a settembre all’Agusta due AB139, velivoli di media grandezza per un ruolo “multi-missione”. Sempre nel campo della strumentazione per l’aeronautica, Finmeccanica conferma che la sua divisione “difesa elettronica” sta svolgendo un programma di controllo del traffico aereo (sistemi radar) in Sudan. Queste esportazioni a paesi poveri e già fortemente indebitati non sono senza conseguenze, come si può vedere nell’analisi sul debito militare dei paesi Hipc acquirenti di armi italiane e nei frequenti casi di utilizzo di risorse naturali strategiche, dal petrolio al legname pregiato, come merce di scambio con gli armamenti. ● 11 MICROFINANZA 2 NOVEMBRE 2002 I l tentativo in corso di modificare in senso più permissivo la legge 185 sembra far bene al commercio italiano delle armi. Nel primo semestre del 2002 le esportazioni italiane di armi, munizioni e velivoli militari ammontano a 512 milioni di euro, contro i 458 milioni dell’analogo periodo dell’anno precedente, con un incremento dell’11,7%. La stima è di Os.c.ar., l’Osservatorio sul commercio delle armi dell’Ires Toscana. Tira l’export aeronautico più che quello di cannoni e fucili, come confermano anche i dati della semestrale di Finmeccanica, l’azienda leader del settore. I produttori di armi italiane si buttano sul ricco mercato statunitense, trascinato da una spesa militare ormai ben oltre i 300 miliardi di dollari annui, e su aree strategiche come il Mediterraneo e l’Estremo Oriente. Anche l’Africa però si rivela un mercato sorprendentemente vivace per l’industria italiana. Con quali conseguenze sui conflitti in corso è facile immaginare. Os.c.ar. si basa sull’analisi dei dati Istat del commercio con l’estero sull’export di armi leggere e pesanti, del munizionamento di vario tipo e calibro e degli aerei ed elicotteri “non civili”. Non è tutto il commercio italiano di materiale militare sottoposto al regime della legge 185, ma ne comprende una buona parte. Al tempo stesso il dato include le vendite di armi classificate come “civili” (da caccia e da tiro sportivo) che sono al di fuori dei controlli della legge attuale.