Pop Art - Scuderie del Quirinale

Transcript

Pop Art - Scuderie del Quirinale
dossier pedagogico
Pop Art !
1956-1968
Roy Lichtenstein
Little Aloa
1962
Sonnabend Collection
© Roy Lichtenstein
by SIAE 2007
La Pop Art è popolare, effimera, spiritosa, ingegnosa, sexy, giovane.
Richard Hamilton
• la mostra, gli artisti, le opere
• pianeta pop: Europa – America, andata e ritorno
• approfondimenti:
l’originale e la copia
Factory e The Store
• i consigli di lettura dello Scaffale d’arte
• siti internet
1
la mostra
Richard Hamilton
My Marilyn
1965
Courtesy Fondazione Marconi, Milano
by SIAE 2007
Zoom
•
A cinquant’anni dalla nascita della Pop art le Scuderie del Quirinale aprono al pubblico
Pop Art! 1956-1968 a cura di Walter Guadagnini. Se la notorietà del fenomeno è legata
soprattutto all’esperienza americana, obiettivo della mostra è sottolineare
la convergenza di temi di artisti del vecchio e del nuovo continente. Con l’avvento
della pop gli artisti utilizzano un vocabolario filtrato dai mezzi di comunicazione
di massa: cinema, televisione, manifesti pubblicitari, fumetti e rotocalchi. Il successo
della Pop Art è grande e di lunga durata. Più di ogni altro movimento del XX secolo,
la pop influenza tutti i campi della cultura, dal costume alla moda, dall’arredamento
all’architettura. Sono gli anni del boom economico, in cui la società cambia e le arti
conoscono un momento di grande fervore. Pittura, collage, assemblaggio, happening,
ogni mezzo espressivo viene messo in campo pur di realizzare il sogno di un’arte
moderna accessibile a tutti. In questo modo si torna alla figurazione, prelevando
dal quotidiano soggetti e materiali. “La Pop Art è per tutti”, dicono, dai due estremi
del mondo, Andy Warhol e Mario Schifano.
pianeta pop: Europa - America, andata e ritorno
Ma cos’è che rende le case di oggi così diverse, così attraenti? di Richard Hamilton
è l’opera madre della Pop Art, (poi restaurata nel 1992 con il titolo Ma cos’è che rende
le case di ieri così diverse, così attraenti?). Il piccolo collage illustra il catalogo della
mostra This is tomorrow (1956), organizzata dall’IG, Indipendent Group di Londra,
un circolo di intellettuali costituito dagli artisti Hamilton e Eduardo Paolozzi,
dagli architetti Alison e Peter Smithson e dal critico d’arte Lawrence Alloway.
This is tomorrow non è una mostra sulla pop art ma è proprio questo evento, che attira
l’attenzione sulle novità visive della nascente società dei consumi, a trasmettere
al movimento un impulso decisivo in Europa e, successivamente, negli Stati Uniti.
Hamilton in proposito ricorda:
Il risultato fu stupefacente: il ventaglio delle proposte spaziava da padiglioni
puramente architettonici alle merci vendute nei supermercati, passando
per un chiassoso assemblaggio da fiera di paese. L’effetto fu incredibile.
Sono infatti gli studenti del Royal College of Art di Londra a portare avanti per primi
e a sviluppare le ricerche dell’IG in direzione di un’estetica accattivante, nutrita
di pubblicità, cinema e televisione. La percezione del mondo cambia, i riferimenti
e le citazioni si moltiplicano. A partire dal 1960, sulla scia delle contemporanee
sperimentazioni d’oltreoceano, saranno ancora gli studenti del Royal College
a dare vita alla seconda fase della pop inglese. Assemblano materiali eterogenei,
creano composizioni ispirate al paesaggio urbano e dipingono marchi di aziende
famose, sperimentano le possibili mescolanze tra cultura alta e cultura bassa.
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Richard Hamilton
Just What Was It That Made
Yesterday's Homes So Different,
So Appealing
1992
collage del 1956 restaurato
elettronicamente
© Richard Hamilton
by SIAE 2007
Zoom
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Allen Jones
Hatstand
1969
© Allen Jones
by SIAE 2007
Zoom
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Il collage è la tecnica che per eccellenza manipola la realtà: estrapola le immagini
dal contesto originale e le assembla dando loro un nuovo significato. Hamilton prende
dalle locandine, dai fumetti e dalle riviste patinate immagini che sovrappone fino
a creare l’illusione di un interno domestico. La casa rappresentata nell’opera
è una sorta di catalogo dei simboli della nuova cultura popolare: la televisione,
l’aspirapolvere, il mangianastri, il cibo in scatola, perfino lo stemma della Ford
e una pinup. Al centro un culturista ostenta i suoi muscoli, tenendo in mano
un gigantesco lecca-lecca, in inglese lollipop, facendo risaltare la scritta “POP”.
Sullo sfondo brilla la pubblicità di The Jazz Singer, il primo film parlato. Hamilton
si lascia coinvolgere dal paesaggio metropolitano, dominato dai prodotti fabbricati
in serie e dai mezzi di comunicazione di massa. Il suo vocabolario da tabloid
contribuisce a rompere la barriera che finora aveva separato l’arte dalla cultura
popolare e conferisce agli oggetti di consumo la dignità dell’opera.
Allen Jones, espulso dal Royal College a causa del suo comportamento indisciplinato,
modella corpi di donna che svolgono il ruolo di oggetti d’arredamento: un tavolo,
una sedia, un appendiabiti. Volutamente provocatorie e ironiche, le sue sculture
delineano un’ideale di donna servile, relegata a oggetto delle fantasie erotiche
maschili. Questa ha il palmo delle mani rivolte verso l’alto, in attesa di ricevere cappelli
o di prendere un vassoio da porgere ai suoi ospiti. Calza stivali fino alle cosce e uno slip
in pelle legato al collare da schiava. Sconvolgono il realismo di certi particolari,
lo sguardo perso nel vuoto e l’aspetto anonimo da manichino. Alle prime esposizioni
il pubblico femminista, che legge in queste sculture l’ostentazione della mercificazione
del corpo femminile, grida all’oltraggio. Non è difficile cogliere l’ironia dell’opera
con cui Jones sfida la reazione dell’osservatore maschile, si beffa dei suoi fremiti erotici
e lo invita a riflettere sulla propria identità sessuale.
La pop si diffonde rapidamente negli Stati Uniti, regno delle icone, dei media,
della seduzione femminile e della politica in TV. La maggior parte degli artisti inizia
la propria carriera nella grafica pubblicitaria e nel design industriale. Andy Warhol
nasce come illustratore commerciale, James Rosenquist come cartellonista,
Roy Lichtenstein come disegnatore meccanico. In Warhol l’immagine scelta diventa
una foto serigrafata, in Lichtenstein il particolare di un fumetto, in Rosenquist
un frammento di pubblicità. Si tratta di immagini immediatamente leggibili, spesso
anonime: abolita la mano dell’artista, il coinvolgimento è ridotto all’essenziale.
Fare della spersonalizzazione uno stile è la caratteristica dell’arte pop.
Claes Oldenburg
Gli artisti isolano, estraggono e citano immagini “di seconda mano”, scelte
non per la loro bellezza, ma per la loro semplicità e riconoscibilità. Il gesto si concentra
più sul mezzo che sul soggetto e la parodia si basa più sulla reazione dell’osservatore
che sull’intenzione dell’artista.
Il Pop è amore, perché accetta qualunque cosa. Il Pop è sganciare la bomba.
È il sogno americano, ottimista, generoso e ingenuo.
Robert Indiana
3
Andy Warhol
Brillo Box
1964-1968
Lisbona, Museu Colecção Berardo
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•
l’originale e la copia
Un’opera d’arte non si dice originale
quando è bizzarra e inaspettata,
ma quando è capace di dare origine
a qualcos’altro, di far nascere ciò
che prima non c’era, arricchendo
il mondo con la sua portata
di novità. Le Brillo Boxes di Andy
Warhol sono la copia esatta dei
contenitori di un detersivo comune:
non si tratta di una falsificazione,
ma del risultato di un dialogo con
il prodotto originale. Sono tanto
copia di scatole di detersivo quanto
autentiche sculture. Chi guarda
entra nel dialogo e crea un nuovo
significato grazie alla sua facoltà
d’interpretazione. In questo senso
non ci sono copie: tutte le copie
sono originali. È il caso di tante
opere pop, dai fumetti
di Lichtenstein alle insegne al neon
di Ed Ruscha, con cui gli artisti
arricchiscono il mondo aumentando
le possibilità di riferirsi al testo
d’origine. Il mito dell’unicità
dell’opera lascia il posto a una
concezione nuova: cambiano il ruolo
e la funzione dell’artista, i temi
e le tecniche di realizzazione.
La pop americana si afferma nel corso del 1962; si susseguono numerose mostre
e in autunno è New Realists, alla Galleria di Sidney Janis di New York, a consacrarne
il successo internazionale. Se la mostra suscita alcune reazioni negative, provoca
l’entusiasmo di giornalisti e pubblico. Andy Warhol è, tra gli artisti pop, il più famoso,
il più chiacchierato e il più radicale. Con cinica obiettività trasferisce nelle sue opere
l’esperienza del mondo che mutua dai mass media e dal loro carattere artificiale.
La middle class americana, di cui Warhol si sente parte, è profondamente legata
ai prodotti industriali della società dei consumi: il detersivo Brillo, la zuppa Campbell,
la Coca Cola e i cornflakes Kellogg’s, ai quali l’artista conferisce il valore di opera d’arte.
La sua opera è elogio della cultura popolare, ma è anche presa di coscienza
dell’impatto sociale del consumismo.
Ciò che rende straordinaria l’America è che è il primo paese ad aver fatto sì
che i consumatori più ricchi comprino le stesse cose dei più poveri. Guardi la televisione
bevendo una Coca Cola e sai che anche il presidente beve la Coca, che la beve anche Liz
Taylor, e pensi: “anch’io bevo la Coca”. La Coca Cola è la Coca Cola e nessuna ricchezza
al mondo può darti una Coca Cola di qualità superiore.
Andy Warhol
La prima volta che le Brillo Boxes vengono esposte alla Ferus Gallery di Los Angeles
vengono scambiate né più né meno per scatole di merce, al punto che la galleria di
fronte decide di esporre delle “vere” scatole, sostenendo che si tratta degli “originali”.
Le Brillo Boxes sono autentiche sculture che simulano le vere scatole di prodotto,
ricalcandone la reazione visiva ed emotiva.
C’è un grado di distacco dalle scatole vere; le scatole di Warhol diventano oggetti
che non sono veramente scatole; in un certo senso sono l’illusione di una scatola,
e questo le colloca nel regno dell’arte.
Claes Oldenburg
L’opera d’arte diventa merce nello stesso modo in cui la merce richiede di essere
apprezzata e valutata dal punto di vista estetico. Con lo stesso rituale riservato
agli oggetti di culto le Brillo Boxes si rivolgono tanto ai consumatori del supermercato
quanto ai visitatori del museo. La loro provocazione non risiede soltanto nel soggetto
banale e nella rappresentazione stereotipata, ma anche nel parallelismo che l’artista
instaura tra galleria, supermercato e mercato dell’arte.
Claes Oldenburg
Lunch box
1961
© Louisiana Museum of Modern Art
Humlebæk (Danimarca)
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•
Factory e The Store
Factory e The Store sono due luoghi
di creazione particolari. Il primo
è parte della leggenda di Andy
Warhol: suo studio-abitazione e
officina di lavoro collettivo in cui
si mescolano pittura, cinema, design,
editoria, musica, teatro. Dal 1963
la Factory è frequentata da celebrità
del mondo dello spettacolo,
da giovani artisti in cerca di uno
spazio in cui creare e da personaggi
«maledetti» degli ambienti
underground di New York,
le cosiddette «talpe». Factory
in inglese significa “fabbrica”
e di fatto, al suo interno, si produce
serialmente: gli assistenti di Warhol
realizzano numerose riproduzioni,
seguendo le istruzioni del maestro.
Warhol apre le porte a una nuova
concezione dell’artista come manager
di altri artisti, che scopre
e sponsorizza il loro talento;
basti pensare al pittore Jean-Michel
Basquiat o al gruppo rock dei Velvet
Underground. Oltre a “fabbrica”,
Factory è lo specchio della società
del tempo, dei suoi sogni, delle sue
inquietudini e disperazioni.
È il luogo in cui passa tutto
ciò che è sperimentale, stravagante
e anticonformista. Nel 1968
Valerie Solanis, attrice, femminista,
fondatrice di SCUM, la società
per l’eliminazione dei maschi, spara
a Warhol nella Factory,
costringendolo a una lunga
convalescenza. The Store invece viene
aperto da Oldenburg nel suo studio
nel 1961 per presentare sugli scaffali
cibi verosimili che invitano
all’acquisto e al consumo.
Chiude l’anno successivo e Oldenburg
espone gli oggetti rimasti
e le “sculture soffici” nella Green
Gallery di Manhattan. Il mercante
d’arte Sidney Janis poco tempo dopo
compra la mostra per soli 324,98
dollari e la presenta nella celebre
esposizione New Realists dello stesso
anno. Realizzati in gesso, plastica
e stoffa i cibi in scala gigante
appaiono buffi e stravaganti,
provocando il sorriso e al tempo
stesso la riflessione sul rapporto
quotidiano che si ha con il cibo.
Oldenburg è uno degli scultori più rappresentativi della pop americana; l’artista orienta
le sue ricerche intorno agli oggetti usuali e ai cibi stile fast food. Nella maggior parte
dei casi si tratta di imitazioni di prodotti industriali made in America ingigantiti
e in versione molle: hamburger, hot dog, macchine da scrivere, cerini, che l’artista
presenta in una galleria singolare, per l’occasione trasformata in un negozio, appunto
the store, in cui le opere si espongono e si vendono come fossero veri e propri generi di
consumo. Questi tramezzini di plastica sono oggetti soffici che, se a un primo sguardo
ricordano le immagini invitanti della pubblicità, in un secondo tempo appaiono
artificiali e immangiabili. Davanti a loro le sensazioni si confondono, le dimensioni
lievitano e la consistenza si modifica: il friabile diventa gommoso e ciò che dovrebbe
essere profumato e appetitoso odora di plastica e colori acrilici. Nonostante
l’apparenza giocosa delle sue opere, Oldenburg è un acuto indagatore dei riti e dei miti
della società contemporanea, e anche dei meccanismi di percezione della realtà.
Non idealizza l’oggetto, ma nemmeno lo distrugge: ci lavora intorno, modificando
la sua natura attraverso gli strumenti dell’arte, con tecniche ancora artigianali,
vale a dire legate all’individualità del fare.
In Europa l’ondata pop corrisponde a una messa in discussione di società, cultura,
stili di vita e gerarchie dei valori estetici. In questo clima nasce in Francia il Nouveau
Réalisme (1960): un movimento artistico di cui è portavoce il critico d’arte Pierre
Restany. Per i nuovi realisti bisogna guardare il mondo con occhi nuovi, esplorare
il quotidiano e appropriarsi di tutto ciò che fa parte della realtà, compresi i suoi rifiuti.
Gli esponenti del Nouveau Réalisme sono Arman, César, Daniel Spoerri, Jean Tinguely,
Niky de Saint-Phalle, Christo e l’italiano Mimmo Rotella e, di tutta la storia dell’arte,
si può considerare la corrente che ha avuto la durata minore: infatti, solo venti minuti
dopo la sua costituzione, è il litigio generale. L’aspetto positivo è la grande libertà
espressiva di ciascun componente. Spesso si “riciclano” gli oggetti d’uso comune,
facendoli entrare di diritto nell’immaginario artistico alla stregua del marmo,
del bronzo o del legno. Se nella vita non si può fare a meno degli oggetti, questi vanno
usati anche nell’opera d’arte, seppure decontestualizzati. È un po’ come il gesto
di Marcel Duchamp che per primo, con i suoi ready-made, sposta l’oggetto
da un contesto comune a uno artistico. La scelta degli oggetti per i nuovi realisti si basa
sull’indifferenza visiva-emotiva, il margine di manodopera si riduce al minimo
e in questo modo l’aspetto sentimentale dell’opera viene azzerato.
Durante le manifestazioni dei nuovi realisti accadono cose stravaganti: Tinguely,
che prende in giro la riverenza dell’uomo nei confronti dei meccanismi industriali,
fa azionare e autoesplodere una delle sue “macchine inutili” nella piazza antistante
il Museum of Modern Art di New York. Spoerri ferma per sempre, con una passata
di resina, i resti di un pasto apparecchiato che poi presenta come se fosse un quadro.
Christo impacchetta di tutto: dagli oggetti di piccole dimensioni ai monumenti,
le facciate degli edifici, i ponti, le montagne, perfino una parte della Grande Muraglia
cinese, per restituire un’aura di mistero a ciò che lo sguardo anestetizzato non riesce
più a cogliere.
5
Arman
Accumulation de Haut-parleurs
1963
© Saint Etienne, Musée d’Art
Moderne, Saint-Etienne Métropole
Zoom
•
Arman è uno dei rappresentanti più significativi del Nouveau Réalisme; invece
di esaltare le forme dei prodotti della società dei consumi, lavora sui suoi rifiuti.
Sin dal momento in cui abbandona la pittura, dichiara di voler creare un nuovo
rapporto con l’oggetto. Con lui l’oggetto diventa l’opera d’arte: non più rimaneggiato
o inserito in un contesto pittorico, ma semplicemente proposto all’osservatore.
Non c’è più posto per gli spazi immaginari o e per la natura: la sola natura possibile
è quella delle città e delle fabbriche. Per le sue opere sceglie gli oggetti e i simboli
del consumo culturale di massa, poiché ne siamo sommersi. Se l’uomo non si appropria
o ri-appropria di tali oggetti in modo creativo, rischia di esserne sopraffatto.
Prevalentemente usati, gli oggetti vengono posti all’interno di contenitori trasparenti,
così da essere cambiati di significato e presentati secondo un altro punto di vista.
In questo caso gli altoparlanti sono inseriti in una cassetta di legno poco profonda
che dà alla composizione un senso pittorico, come se gli oggetti divenissero una nuova
tavolozza, in un gioco di rimandi tra la concretezza del singolo oggetto e il suo
annullamento per mezzo della ripetizione. Arman è un artista-collezionista che
accumula, addiziona e utilizza la quantità come elemento fondamentale della sua arte.
Colleziono perché collezionare fa parte del mio profondo.
Ho sempre accumulato molto più che collezionato. E per il semplice fatto di
accumulare, ho sempre intorno a me oggetti.
Arman
Tano Festa
La creazione dell'uomo
1964
© Collezione Franchetti
Zoom
•
Attrazione e repulsione sono i due atteggiamenti tra cui oscilla Arman nei confronti
dell’oggetto: se l’attrazione lo porta ad accumulare, la repulsione lo porta a frantumare
gli oggetti nel corso dell’operazione artistica e a tentare poi di rimetterne insieme
i pezzi in modo decorativo. Anche in Italia gli artisti creano opere ispirate ai temi pop
evidenziando un atteggiamento critico nei confronti della società dei consumi. Questo
atteggiamento è dovuto al ritardo economico e sociale dell’Italia, che ha fatto percepire
il consumismo come un fenomeno estraneo alla cultura del paese. È come se, per essere
accettato, il linguaggio pop debba contenere un messaggio, una morale. Fino al 1962
nessuno cita il termine “pop” a proposito degli artisti italiani, poiché la confusione con
la cultura bassa è sentita più come pericolo che come opportunitàdi scambio. Gli italiani
non riescono ad azzerare l’arte precedente e in generale il passato. La storia non
è qualcosa di distante e sostituibile con l’attualità, ma è una continua presenza: basta
affacciarsi alla finestra di casa per rendersi conto che il passato è un elemento stesso
del paesaggio. Mentre a New York la storia è chiusa in un museo, a Roma, Milano
o Pistoia si incontra camminando per strada. L’interesse degli italiani ruota intorno
alle nuove immagini del contesto urbano e a quelle della cultura tradizionale italiana.
I fermenti più vicini al gusto statunitense si hanno a Roma, con la cosiddetta Scuola
di Piazza del Popolo i cui maggiori rappresentanti sono Tano Festa insieme ad altri
pittori romani come Mario Schifano, Franco Angeli e Giosetta Fioroni. Se Angeli
si concentra su emblemi densi di significato storico-ideologico e Schifano fa riferimento
alla pittura del Novecento, Festa dà vita a cicli pittorici in cui ripete ossessivamente
immagini di artisti del passato, fino a svuotare il loro significato originario. È il caso
de La creazione dell’uomo, in cui Festa cita esplicitamente una delle immagini
più famose di Michelangelo, a cui guardare come a un modello perduto, capace
di comunicare solo per frammenti. Il capolavoro del Rinascimento viene riproposto
ed elaborato a partire dalla sua riproduzione e non dall’originale.
6
Un americano dipinge la Coca Cola come valore, per me Michelangelo è la stessa cosa
nel senso che siamo in un paese dove invece di consumare cibi in scatola consumiamo
la Gioconda sui cioccolatini.
Tano Festa
Pino Pascali
Torso di negra
1964-1965
© Roma, Galleria Nazionale
d’Arte Moderna
Zoom
•
Tra le caratteristiche primarie della pop italiana emerge il rapporto irrinunciabile
con la cultura alta, con l’arte e la sua storia. Gli affreschi della Cappella Sistina non
appartengono più solo agli storici dell’arte, ma a una massa indistinta di persone.
Ogni giorno migliaia di persone consumano le sue immagini, per cui non esiste
più un solo Michelangelo, ma ne esistono diversi, ognuno legittimato a far parte
del mondo delle immagini come le star del cinema, le automobili o i cartelli stradali.
Meteore della pop, che solo per un breve periodo della loro carriera artistica hanno
contribuito alla vicenda della Pop italiana, Pino Pascali e Michelangelo Pistoletto tentano
di ricostruire il rapporto tra arte e vita. I soggetti sono le icone della cultura
di massa come il cinema, la moda e il cibo. Pascali è un grande sperimentatore.
Scultore, scenografo e performer, crea un genere del tutto personale di arte pop.
Nel 1965 dà vita a grandi tele sagomate con dettagli anatomici femminili ingranditi.
In Torso di negra la tela è piegata verso l’esterno grazie a un’intelaiatura in legno così
da rendere visivamente le tre dimensioni. Il disegno è semplificato al massimo,
poiché per rappresentare la realtà all’artista sono sufficienti pochi elementi essenziali.
Per Pascali l’arte non consiste nel descrivere gli oggetti, ma ha un valore simbolico
e suggestivo. Il suo fine è quello di suscitare ricordi, sensazioni ed emozioni,
di distogliere l’osservatore dalla routine quotidiana e dal rapporto abituale
con le immagini. Con questa e altre opere della stessa serie partecipa a mostre importanti
per la storia della pop art in Italia – come Revort 1 a Palermo – in occasione
della quale dichiara:
Per noi pittori e scultori di Revolt 1 la pop art è considerata un “fenomeno tipico”
e nient’altro, come per noi lo sono i luoghi comuni del sesso, della cultura di massa,
e della nostra stessa storia dell’arte. La nostra pittura e scultura […] è critica oggettiva,
al di fuori di problemi estetizzanti, e analizza quei fenomeni della nostra società
con la presentazione oggettiva dell’immagine.
Pino Pascali
Nel corso degli anni successivi passa a realizzare le sue “false sculture” con materiali fragili
ed effimeri: tela, legno, lana d’acciaio, pelo acrilico, paglia, rafia. A una società opulenta
come quella consumistica Pascali risponde con un’arte fatta di materiali semplici,
che si oppone all’ideologia borghese del progresso, al mondo meccanizzato dell’industria
e non da ultimo al mercato dell’arte. Nel resto del mondo la pop si traduce soprattutto
in una critica alla superficialità e alla freschezza tipiche dell’esperienza americana,
pur utilizzando i suoi stessi mezzi: è il caso del gruppo Equipo Crónica in Spagna, di Öjvind
Fahlström in Svezia, di Gerard Richter in Germania e di Erró in Islanda. Verso la fine degli
anni ’60 tutto il mondo si avvia verso il grande sconvolgimento sociale dovuto
al movimento del 1968. Intorno a questa data l’arte riflette il clima di contestazione
legato al rifiuto del consumismo e allo scontro generazionale in atto. Negli Stati Uniti
la saturazione del repertorio iconografico, la progressiva stilizzazione e semplificazione
dei soggetti e la tendenza sempre latente all’astrazione conducono il gusto collettivo verso
il minimalismo e, all’opposto, a un tipo di figurazione in cui viene riabilitata la traccia
della mano dell’artista e dunque la soggettività dell’artista. In Italia invece è l’arte povera,
a cambiare il corso della vicenda artistica del paese, elaborando un’espressione personale
e autonoma.
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consigli di lettura dello scaffale d’arte
saggi
Alberto Boatto, Pop Art, Laterza, 2003
Maurizio Calvesi, Le due avanguardie. Dal futurismo alla pop art, Laterza, 2004
Carolina Carriero, Il consumo della pop art. Esibizione dell’oggetto e crisi
dell’oggettivazione, Jaca Book, 2003
Matteo Chini, Pop art. Miti e linguaggio della comunicazione di massa, Giunti, 2003
Pat Hackett, Pop. Andy Warhol racconta gli anni ‘60, Meridianozero, 2004
Klaus Honnef, Pop Art, Taschen, 2004
Lucy R. Lippard, Pop Art, Rusconi, 1989
Paola Pitagora, Fiato d’artista. Dieci anni a Piazza del Popolo, Sellerio, 2001
Corrado Rizza, Piper generation. Beat, shake & pop art nella Roma anni ‘60, Lampi di
Stampa, 2007
per bambini e ragazzi
a cura di
Laboratorio d’arte
progetto grafico
mussetti rocchi pavese
AA. VV., Anni pop, rivista DADA n. 16, Artebambini, 2006
AA. VV., Arte e cibo, rivista ZIGZAC, Art’è ragazzi, 2003
AA. VV., Créer avec Warhol, Courtes et longues, 2007
AA. VV. Keith Haring. I wish I didn’t have to sleep, Prestel, 1997
AA. VV., Les années pop, rivista DADA n.71, Mango, 2001
AA. VV., Made in America. La peinture américaine, rivista DADA n.114, Mango, 2005
Alison Baverstock, Joseph Cornell. Secrets in a Box, Prestel, 2003
Brigitte Baumbusch, Cibo, La Biblioteca, 2001
Linda Bolton, Andy Warhol, Watts, 2002
Cristina Cappa Legora, Andy Warhol, Mazzotta, 1995
Anne Civardi, What is a Sculture ?, Watts, 2005
Niki de Saint Phalle, Il giardino dei tarocchi, Benteli, 2007
Franette Guérin-Fermigier, Richard Nicolas, Warhol. Ten lizes, Centre Pompidou, 1990
Ulrich Krempel, Niki’s World, Prestel, 2004
Francesca Mancini, Andy Warhol dentro il carrello, Lapis, 2007
Ilaria Musio, Uno strappo alla regola, dedicato a Mimmo Rotella, Artebambini, 2007
Silvia Neysters – Sabine Söll-Tauchert, Andy Warhol. Painting for Children, Prestel, 2004
Debra Pearlman, Where is Jasper Johns?, Prestel, 2006
Catherine Prats-Okuyama, Kimihito Okuyama, Nevelson. Tropical garden II,
Centre Pompidou, 1997
James Warhola, Uncle Andy’s, Putnam, 2003
siti internet
www.lichtensteinfoundation.org
www.warhol.org
www.fondazionerotella.org
www.palazzopinopascali.it
www.ceroli.com
www.fondazionemarioschifano.it
www.arman-studio.com
www.danielspoerri.org
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