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Terra dalle mille e una guerra prima, durante e dopo i Mongoli. Spazzata
dalle più terrificanti trombe d’aria, invasioni, pogrom, purghe, deportazioni.
Dice la scrittrice Oxana Pachlovska: “Impossibile capire le tensioni
Ucraina, spazio senza fine
di popoli, acque e migratori
ON THE ROAD
di Monica Bulaj
esplose con le presidenziali se non entri nel vissuto collettivo, nell’anima
mistica di un popolo umiliato, distrutto, annichilito prima dagli zar, poi
dallo stalinismo e dalla guerra”.
alla collina vedi solo villaggi, betulle, il
Dnjepr che arriva da Cernobyl color dell’acciaio, lento, largo e senza direzione
come il mare. Sulla sommità, un gigantesco
monumento a forma di semicerchio scintilla
nel sole, esalta la fratellanza slava che non c’è
più, quella tra Russia e Ucraina. Dopo la protesta “arancione” e l’ascesa alla presidenza del
candidato inviso al Cremlino, Viktor
Yuschenko, quel semicerchio è diventato solo
l’anello di una catena da spezzare. Sotto la silhouette d’acciaio, uomini e donne vestiti a
festa arrivano per un matrimonio, improvvisano una canzone dalla polifonia sconosciuta,
si piegano viso contro viso, si sorpassano in
una gara di semitoni di dolcezza struggente.
Sotto la collina, brillano le cupole d’oro di
Kiev, e le mura color panna delle chiese creano
un riverbero che non ricorda Mosca, ma
l’Italia.
Ucraina, risveglio di un gigante alle porte
dell’Europa unita. Fertile Ucraina, granaio
della Russia sovietica, “terra di frontiera”
come dice il nome, linea di confronto fra
Oriente e Occidente della cristianità. Spazio,
soprattutto. Spazio senza fine di popoli, acque
e migratori. “Sono più numerosi delle stelle
nei cieli e dei granelli della sabbia”, scriveva
stupefatto nel Settecento il monaco Pavlo di
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Aleppo, venuto dalla Terrasanta. “Ci sono così
tanti uccelli, che i bambini a primavera riempiono le loro barchette di uova di oche, anatre,
cigni e gru”. I suoi quattro fiumi maggiori –
Danubio, Dnjestr, Dnjepr e Don – contengono
tutti la stessa radice indoeuropea “Dn”, che
vuol dire “acqua”, sul loro corso pigro i pesci
vanno controcorrente, giganteschi pesci che le
donne mettono a seccare per poi venderli sulle
strade, nei mercati, persino sui treni.
L’ho attraversata tante volte, in tutte le stagioni. Con la vampa estiva, il fango, i prati disseminati di fiori, soprattutto d’inverno. Colline e
montagne a ovest, boschi e paludi a nord, un
mare temperato a sud, orlato di vigne e frutteti, l’Ucraina sarebbe un perfetto modello europeo, quasi mediterraneo, se non ci fosse
l’Oriente col suo spazio fuori misura, dove
nulla più crea ostacolo, rifugio, respiro, dove
l’uomo diventa sempre più piccolo e la terra
sempre più immensa. Steppa, pianura, una
dimensione già asiatica dove si sono impantanati gli eserciti del re persiano Dario, di
Napoleone e – solo sessant’anni fa – quelli di
Adolf Hitler.
Terra dalle mille e una guerra, prima, durante
e dopo i Mongoli, spazzata dalle più terrificanti trombe d’aria della storia. Invasioni,
pogrom, purghe, deportazioni. Qui è nato un
Monica Bulaj
nuovo tipo di sterminio, quello per fame.
Talmente nuovo che s’è dovuto inventare un
nome per definirlo: “Holomodor”. Si portò
via, negli anni Trenta, nella parte centroorientale del Paese (quella occidentale apparteneva allora alla Polonia) tra i sei e gli otto
milioni di uomini, privati di cibo per ordine di
Stalin. Vecchi, bambini, donne, ridotti a larve,
creparono per le strade per dare un esempio a
chi si opponeva al collettivismo.
“Impossibile capire la tensione esplosa in
Ucraina per le presidenziali – dice Oxana
Pachlovska, scrittrice, figlia di una poetessa
dissidente di Kiev – se non entri nel suo tremendo vissuto collettivo, nell’anima mistica di
un popolo umiliato, distrutto, annichilito
prima dagli zar, poi dallo stalinismo e dalla
guerra”. Solo così rileggi correttamente quelle
candele accese nella tormenta a Kiev, quei
canti gregoriani in mezzo ai comizi di piazza.
Le bandiere arancione e i palloncini indipendentisti sui tetti dei monasteri.
Soltanto così capisci i comizi pro Putin con in
prima fila i pope dalle lunghe barbe, le processioni di croci, le nuvole d’incenso, la mobilitazione delle icone degli ultimi zar. E poi, i controraduni di greco-cattolici, ebrei e ortodossi
del dissenso per denunciare i brogli elettorali e
la pressione del Grande Fratello slavo. E le
scomuniche dal patriarca di Mosca sul candidato filo-occidentale, definito “Satana”. E
Yuscenko stesso, che giura sulla Bibbia
ingioiellata di Ostrog, scritta negli anni remoti
del rinascimento ucraino. Qui tutti hanno Dio
dalla loro parte.
Inverno, inizio anni Novanta, stazione di
Przemysl, in Polonia, a due passi dalla frontiera. Il Muro è appena caduto, fa un freddo cane,
è il mio primo viaggio nel Paese profondo.
Lungo un binario morto, bivaccano centinaia
di persone intabarrate, soprattutto donne, cariche di pacchi legati con lo spago, elettrodomestici, rubinetterie, lavabi, scope. Vesti larghe
che contengono tutto, inventate proprio per
questo. Gente stravolta, incapace di reggersi in
piedi, sprofondata in un silenzio irreale, che
attende – mi dicono – il treno per Cernovcy.
Cernovcy. Il nome parla di un mondo dove
non cambia lo spazio, ma il tempo. Non il paesaggio ma l’epoca. “Mach den Ort aus, mach
Wort aus”, definisci il luogo e avrai la parola,
diceva il poeta ebreo Paul Celan, che si ostinò
a scrivere in tedesco – la lingua degli assassini
– anche dopo l’Olocausto e lo sterminio della
sua famiglia in Ucraina. Ecco, venire qui significa spesso andare alla ricerca di nomi scomparsi, di luoghi cancellati dalla carta, causa l’alternarsi delle dominazioni. La città di Celan,
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UCRAINA, SPAZIO SENZA FINE DI POPOLI, ACQUE E MIGRATORI
terra arata. I binari larghi continuano il loro
viaggio rettilineo nelle nubi, verso oriente, ma
la città si aggrappa alle ultime colline, è come
se diffidasse della pianura. Alberi spogli, corvi
neri sulla neve, figure che escono dal buio. I
sassi delle vie, lisce, umide, rotonde, riflettono
la luce che nasce, salgono e scendono, obbligano i vecchi tram a uno sforzo acrobatico e frenate che spargono scintille e puzza di bruciato.
Le mura evanescenti nella prima luce svelano
l’antica sapienza dell’encaustica, l’arte che
faceva stendere su malte fresche ogni strato di
colore.
In posti così, dove i poeti scrivevano in yiddish,
tedesco, ucraino e rumeno – quattro lingue
“diventate fraterne in tempi di inimicizia” –
capisci che il bello è ciò che non vedi. È l’indefinibile nascosto nelle penombre, la resistenza
della notte alla luce che svela la miseria postsovietica, gli ornamenti e i simboli ora decapitati, i templi fatti saltare in aria dall’ateismo
stalinista, bruciati, violentati, senza più memoria di ciò che furono, la lingua familiare e quasi
estinta dei vecchi, i vicoli dove resiste un
mondo campagnolo, i pozzi con la leva a bilancere, i recinti in legno con le pentole in cima, i
cimitieri ebraici e cristiani, i simboli d’un
Monica Bulaj (2)
Cernowitz, oggi è appunto Cernovcy. Nomi di
regioni come Galizia, Bucovina o Bessarabia,
non li conosce quasi più nessuno, ma nutrono
la tua voglia di partire alla ricerca del tempo
perduto.
“Vai in Ucraina?” mi dicono i polacchi alla
stazione. “Ci vai con quel treno, da sola, di
notte? Sei matta? Sono carri bestiame come
quelli di Auschwitz! Non andare, ti amazzeranno!”. Mi trova e adotta un’ucraina di
nome Olena; è giovanissima, ha un corpo
immenso e un sorriso largo che emana sicurezza materna. Succede quando arriva il treno
e la folla lo prende d’assalto attraverso le porte
e i finestrini. I suoi vestiti sembrano un armadio, mi sento scomparire nella sua ombra. Mi
ficca una scopa in mano e mi spinge verso il
vagone. Ho la febbre, mi mette sotto coperte
calde e porta té bollente. Gioca concentratissima a carte con tre uomini. Pare la regina Saba.
Potente, immacolata, candida come la neve.
L’Ucraina è donna.
La notte scivola nel cigolio delle ruote, nel trillo dei campanelli ai passaggi a livello, in risate,
passi e respiri. Poi Cernovcy appare nelle nebbie dell’alba, in mezzo a un immenso campo
di dimensione sovietica, dai grassi solchi di
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Grazia Neri_AFP
chi, ucraini ortodossi. Atei e credenti. Rumeni,
zingari e russi. E tutti vogliono la benedizione
del rabbino. “Mia moglie è russa ortodossa, ora
può andare in chiesa, ma dice che le parole del
rabbino sono più importanti”. Dentro, solo
otto ebrei. Aspettano l’arrivo di altri due, gli
ultimi, per iniziare la preghiera.
A Kosov, in mezzo ai Carpazi, verso la
Romania, in mezzo ai campi c’è un uomo che
sembra un enorme uccello, un pastrano quasi
_La tormentata vicenda delle presidenziali, che ha decrenapoleonico, un cappellaccio nero e lunghe
tato la vittoria di Yuscenko, ha visto raduni di greco-catciocche di capelli che incorniciano il viso pallitolici e ortodossi per denunciare i brogli elettorali e comido. È un chassidim, uno tra tanti che vengono
zi pro Putin capitanati da pope dalle lunghe barbe
qui a cercare le tombe degli “zadiq”, i santi.
Viene qui, nella culla del misticismo ebraico,
per lasciare un foglio con supplica e raccontare
tempo, grifoni, stelle, madonne, angeli, croci.
storie di miracoli, vere o immaginate che
Incontro un vecchio, mi porta verso un vicolo importa. Tanto, dice, l’uomo è immerso in un
dove, spiega, c’è la sinagoga. Cernovcy era abi- sonno da cui si risveglia un po’ solo quando
tata da ebrei, prima dell’Olocausto erano più
parla dei santi. Cammina velocemente e velodel 50%. Oggi non ce n’è quasi nessuno. Il
cemente sussura preghiere, poi sparisce. Torna
vecchio non è ebreo, è nato di lingua tedesca e ai grattacieli di Manhattan, o in Israele.
famiglia protestante, ma dopo l’arrivo
Magari a Mes Ha Sarim, una copia perfetta di
dell’Urss nel ’45 s’è guardato bene dal rivelar- un villaggio ebreo ucraino in mezzo alla sablo. È diventato un uomo senza volto, la sua
bia della Terrasanta.
memoria è spezzata. Anche la gente nella sina- Ancora inverno, ancora le valli arcane dei
goga non è ebrea. C’è di tutto. Cattolici polac- Carpazi, paesaggi alla Peter Brueghel, la faccia
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intende le variazioni sul tema, magiche, infinite e quasi floreali. “Quello non lo puoi trascrivere né ripetere. È la melodia che ti porti
dalla notte, dal sogno. La melodia bastarda,
della gente che qui visse assieme per secoli”.
E poi, la primavera, sulle foci del Danubio.
Uno spazio franco sopravvissuto alla violenza
dei totalitarismi, arcipelago di popoli e
migratori, la forza placida della corrente, gli
alberi immensi nel bagnasciuga, sospesi su
radici altrettanto immense che ripetono la
geometria dei rami. A maggio devi chiudere
le labbra per non inghiottire le zanzare. Ai
margini di questo regno incantato, il porto
industriale di Ismail è un mostruoso bastione
metallurgico, un baluardo dell’Impero scomparso, dove tutto sembra creato non per produrre ma per incutere timore, come sul confine della Corea del Nord. Nella bruma
appaiono camini, colonne di fumo, ombre di
cemento, cataste di ferro, rotoli di filo spinato, ruderi di una frontiera socialista fraterna
ma invalicabile. Poi tutto che scompare di
nuovo. Ridiventa uccelli e silenzio.
C’è anche il monastero ortodosso di Pocajev,
nelle fiammate d’autunno. Folle di pellegrini
dormono nelle grotte accanto alla tomba di
un santo, odore di aringhe affumicate e salame, pianto di bambini, mormorio di preghiere. È il luogo che non ha mai perso il senso
del sacro, la Czestochowa degli ucraini. I cori
dei monaci neri, la calma della preghiera, la
Monica Bulaj (3)
scolpita di Roman Kumlyk, montanaro degli
Hutzuli, popolazione deportata da Stalin.
“Hanno ucciso mio padre, portato in Siberia
mia madre. All’ultimo momento qualcuno mi
ha strappato dalle sue braccia, e da allora
sono rimasto nascosto qui”. Accende il fuoco,
ha occhi neri ardenti, ride come un diavolo e
suona come un diavolo, contrabbasso e violino. Una fetta di lardo, un bicchiere di grappa
ardente, senza fiato, senza pensieri, una fetta
di lardo, “bevi, na zdarawie, bevi”, gli sguardi
vuoti dei compagni distrutti dall’alcol, le
teste che battono sul legno della tavola. Poi
partiamo nella notte, con gli strumenti, oltre
il gelo, l’urlare dei cani, fino alla fine del
bosco.
Lassù, in una casa piena di addobbi, un’altra
vampata di calore, luce forte, musica, piedi
che battono, fruscio di gonne rosse, guance
rosse di ragazze, dipinte come di succo di
rapa, giovani che girano come trottole.
Kumlyk prende il violino, gioca con l’archetto, emette il trillo di un uccello, poi parte con
una forza da far ballare i morti. Le donne
ridono, con i loro denti tutti d’oro la casa si
illumina come in un quadro di Kandinskij, la
notte diventa scintille di fuoco, scattano
danze antiche e potenti, kolomyjka, resheto,
arkan, hutzulka. Tempi sincopati, dispari,
orientali, yiddish, armeni, zingari, rumeni,
ungheresi, turchi. “Il segreto sta nell’ornamento”, dice Kulmyk, e per ornamento
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dolcezza irregolare del ritmo degli inchini, la
navata piena di donne velate e colorate come
un prato di fiori accarezzato dal vento. Una
giovane monaca raccoglie nel fazzoletto le
briciole di “prosfora”, il pane eucaristico:
“Non importa da dove arrivi e chi sei, vieni e
mangia. Finché non verrà trafitto con la
lanza questo è solo il pane”. Dietro l’iconostasi il Cristo si pugnala. Un mistero tremendo che racchiude tutta la passionalità del rito
ortodosso. E poi incontro Vera, una delle
“Jurodive”, le cosiddette pazze di dio, portatrici dell’estasi contro il dogma, pellegrine
solitarie e nullatenenti come il Poverello
d’Assisi. Questa donna minuta, vestita di
nero, ha lasciato tutto, marito, casa e figli, per
girare a piedi da un monastero all’altro, da
Novgorod in Russia fino a Gerusalemme, con
un vecchio libro di preghiere e un fagotto.
E come descrivere i grilli della Polesie, verso
la Bielorussia, terra in bilico tra Baltico e
Mar Nero, labirinto di fiumi e paludi? Una
notte d’estate, una casa nel bosco, una legnaia
con la stufa, un grande fuoco acceso, e attor-
_Una religiosità antica è vissuta dal popolo. Come nel
monastero ortodosso di Pocajev, dove folle di pellegrini
dormono nelle grotte accanto alla tomba di un santo, tra
pianti di bambini e preghiere. Ma è anche una nazione
dove convivono greci, cattolici, ebrei e ortodossi
no uomini nudi a sudare. Avevo viaggiato
molto quel giorno, le donne dei villaggi mi
avevano insegnato antichissimi canti sulla
tomba dei loro cari; il loro rapporto con
l’Altrove era naturale, per nulla tenebroso.
Rimasi sola, gli uomini erano andati a
bagnarsi al fiume, sentivo le loro risa. Alla
fine ci andai anch’io, la notte era così fonda
che dovetti procedere a tentoni, esplorando
con i piedi l’umidità dell’erba. Ma fu facile,
bastò la temperatura di quel terreno vellutato
a pilotarmi sotto le stelle verso i canneti, la
scarpata sabbiosa e l’acqua nera, morbida
come seta.
Tutti i viaggi finiscono a oriente, il nostro
finisce alla frontiera con la madre Russia, con
un treno d’autunno che parte inspiegabilmente vuoto da Charkov, lasciando a terra
centinaia di persone che non protestano,
piene di pacchi e valigie, tenute a bada dalla
polizia, e un controllore che mi guarda e non
capisce perché un occidentale stia lì anziché
viaggiare in aereo. Un treno-fantasma che
cigola, pieno di correnti d’aria, davanti cimiteri industriali di un’Ucraina più russa, più
sovietica, più stuprata, con piazze gigantesche
e giganteschi monumenti a Lenin. L’Ucraina
delle miniere, e degli elettori di Yanukovych,
il candidato presidente legato al Cremlino.
Ma anche lì la natura si riprende il suo spazio, dopo un’ora il treno già viaggia solitario
tra le betulle, verso il placido Don.
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