I poliziotti – mi fa. – Vorrebbero parlarti ancora. Poi

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I poliziotti – mi fa. – Vorrebbero parlarti ancora. Poi
– I poliziotti – mi fa. – Vorrebbero parlarti ancora.
Poi fa una faccia strana. – Lo sai come sono gli sbirri, a
tutte le latitudini.
No Miki, non lo so come sono fatti gli sbirri. Non c’ho mai
avuto a che fare in vita mia.
Anche se a te, giramondo per amore, che hai mollato Ce­
senatico per correr dietro a una fighetta scandinava, que­sto
potrà suonare strano. Be’, credimi, è così.
Spengo il walkman e mi tolgo le cuffiette, lasciando a metà
una Jungleland del ’76 da brividi rintracciata per vie traverse.
Penso di essere l’unico a nord di Tunisi ad avere anco­ra un vec­
chio walkman a cassette, ma non è che me ne freghi poi molto...
Affondo il collo nella giacca a vento blu scacciando i bri­
vidi; maledetta giacca, era diventata vecchia, non teneva più
la pioggia. Ne aveva presa troppa. Tutta quella pioggia...
Sento la pelle della faccia indurirsi e tendersi sulle ossa co­
me cellophane mentre l’aria gelida del Mare del Nord spazza
la prua, incurante del sole anemico di questa mezzanotte artica.
Una ragazza dall’aria inglese seduta accanto a me, sui
vent’anni, inspira a narici piene, nascosta in un leggero kway rosso, e mi chiedo come faccia a non aver freddo... Lei
si ac­corge che la sto guardando, e scuote all’indietro i capelli
spar­gendoli sulla testa come un mikado, e imitando male un
sor­riso di cortesia.
Ha l’aria di una di quelle che si dimenticano come si scri­ve
il proprio nome mentre si compila un modulo.
– Che cazzo vogliono, ancora – esclamo, come se potes­
sero capire ciò che dico, – ... non gli basta tutto quello che ho
fatto? – Voglio che sappiano che ne ho piene le palle.
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– Non prendertela con me, dai... – mormora Miki con quel
po’ di cortesia che gli rimane, – io sono solo l’interpre­te. For­
se devono decidere se riesumare il corpo. – Poi, con gesto
plateale come di chi ha calcato l’avanspettacolo di un Amleto
parauniversitario, getta il mozzicone di sigaretta nel ventre
buio dell’acqua.
Sento il severo fluire del mare, molto al di sotto del pon­
te delle automobili, e provo a immaginare la vasta e fredda
mole del postale che fende l’acqua, inesorabile. Come tutto,
in questa storia.
Di là del vetro c’è l’aria calda e dall’alito di caffè, dove
tu­risti italiani borghesi e avvizziti sbadigliano già stanchi di
fior­di sempre uguali. E quei due poliziotti, uno alto, magro
e pal­lido, dai capelli insolitamente scuri e sottili come fili di
una ragnatela, l’altro più mingherlino ma massiccio, castano,
sui cinquant’anni. Pura razza nordica da tempi non sospetti.
Mi guardano tetri, ingabbiati nei loro ridicoli impermea­
bili color sabbia, il rigonfio della Browning all’altezza dello
sterno, nell’attesa che rientri in coperta, che vada da loro.
Mi decido. Miki mi segue, fischiettando un motivo di Toto
Cutugno, giusto per fare la parodia dell’emigrante ita­liano o
per limare appena il mio malumore. Almeno lo spero.
Il salone è pieno di fumo e l’aria stantia puzza di disinfet­
tante e cibi ipercalorici.
I due poliziotti si siedono sulle poltroncine di velluto co­lor
salmone attorno a un piccolo tavolino di legno, indican­doci le
altre due. Ci sediamo e subito il tipo dai capelli neri borbotta
qualcosa a Miki, senza guardarmi. Lui traduce, con le guance
arrossate dalla calura del salone.
L’altro poliziotto mi sorride con un ghigno candido, fat­to
di un’accozzaglia di denti mangiucchiati dalla carie e nera­stri
di fumo. Tira fuori un piccolo registratore e lo appoggia sul
tavolino.
– Vogliono che gli racconti nuovamente come sono andate
le cose. Tutto quello che sai, dall’inizio.
Come se fosse facile raccontare il modo in cui sono finito
in questo inizio. Come se sapessi davvero quand’è iniziata
questa fine...
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Domenica
– Ammettiamolo – disse, – la letteratura è morta. Il ’900
non ha partorito nulla di minimamente potabile – e disse pro­
prio così, partorito e potabile. Avrà, sì e no, 20 anni, un ves­
tito di grisaglia grigio, cravatta di seta rossa, completamente
rasato in testa e con un codino sottile che gli scende lungo la
schiena. Abbassai gli occhi sull’aranciata residua che ristag­
nava nel mio bicchiere di plastica. Mi immaginai una donna
con le doglie in­tenta a capire se le sue, di acque, fossero po­
tabili o meno.
Mi prese come un conato di vomito, che soffocai disto­
gliendo lo sguardo dal fondo del bicchiere e andandolo a po­
sare sulla scollatura, più che generosa, filantropica diciamo,
di una ragazza dal vestito color pervinca, stivali neri e la
Repubblica sotto il braccio, che annuiva convinta, tirandosi
piccole ciocche di capelli biondi tra le dita. – Non si può cer­
to darti torto – mormorava confidenziale, – sapessi in facoltà
quanti la pensano come me e te.
Poi entrambi, contemporaneamente, mi guardarono, guar­
darono il mio silenzio. – Oh... sì... – balbettai – per quan­to, un
Garcia Marq... – No, eh...? – Torno subito – dissi scusandomi
e imboccando la via del cesso. Quando trovai la porta giusta,
al quarto tentativo circa, fui investito da una nube di chiara
matrice antiproibizionista dietro alla quale intravidi un tizio
dall’aria del cowboy metropolitano e dall’accento lagunare,
che mi offrì un tiro. Ammettiamolo, disse, ce n’è di gente
stronza a questo mondo.
Villa Baruzzi è un vecchio attrezzo edilizio del sedicesi­
mo secolo, uno dei tanti lasciti della nobiltà veneziana in gita
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campagnola, venti stanze rimesse recentemente a nuovo e di­
venute la dimora dell’Editore, Giovanni Dalla Bona, il Re
Mida della Letteratura Giovane (tutto è maiuscolo in ciò che
fa o lo riguarda), colui che può fare di te, avanzo d’ateneo o
scribacchino di buone promesse, il nuovo Autore di Culto,
quello per il quale sbavare, discutere, sognare, il tutto con
ti­ratura oceanica, almeno dieci edizioni garantite, rilegatura
scintillante, intervista sul Corriere e, già che siamo in ballo,
un passaggino sboccato, moderatamente sboccato, da Co­
stanzo. È già sul contratto.
La ragazza dal vestito pervinca, una fatalona dei Colli
Trevigiani dall’aria perversa e dalla scrittura sorvegliata, mi
raggiunse in bagno (bagno... travi a vista e rubinetti dorati!),
sorridendomi sollevata: – Quello è pazzo – disse riferendosi
all’apocalittico di prima, – ma ti pare che la letteratura...
La guardavo e pensavo alle sei scopate, ops! orgasmi, che
aveva avuto in una notte, almeno così scriveva nel suo rac­conto
(Una storia romantica dove il sentimento e il cuore scen­dono
a patti con i primi pudici turbamenti dell’adolescenza, c’era
scritto nella nota introduttiva, sorvolando su passaggi come
Sentii la sua mano entrarmi tutta dentro sino al polso, e fottermi furiosamente mentre mi veniva in bocca, e io manda­vo
giù tutto, sperando che non la smettesse mai di venire...). Mi
detti del cretino; mai che riuscissi a separare personaggio e
autore. Certamente lei era una ragazza timorata di Dio.
E pensare che il personaggio principale del mio racconto
era un giocatore di bocce omosessuale che moriva d’inedia
a causa del lento scomparire dei campi da gioco sostituiti da
campetti per il calcio a 5. Io non ho mai, dico MAI, giocato
a bocce.
Ah, e neanche sono omosessuale, malgrado l’Arcigay nu­
tra ancora seri dubbi in proposito e continui a mandarmi mo­
duli d’iscrizione, oltre a un agile volumetto dal titolo Il fallo
da dietro: l’omosessualità nel calcio italiano...
Comunque, la critica locale, due periodici dall’irrisoria
ti­ratura, ne fu entusiasta e parlò di travolgente e straziante
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me­tafora sul lento oblio della Sinistra, un urlo di dolore contro il berlusconismo imperante. Nientemeno.
– Sai – riprese a dirmi la ragazza, controllandosi allo spec­
chio la tenuta del mascara, – la letteratura è tutta la mia vita...
– poi mi fissò con un’aria così, come un politico alla ricerca
dell’ispirazione e dell’ultimo voto. – Oh, se solo riuscissi a
esprimere quanto adoro la nostra lingua – gemette, – sentire
il ritmo pacato delle allitterazioni, l’esplosione delle metafore
più ardite, esplorare l’evoluzione dell’idioma e barattarne le
dolcezze con la potenza teutonica di un Goethe... Tu cosa ne
pensi? – Stavo per risponderle che sì, certo, le allitterazioni...
Goethe... quando improvvisamente il cowboy metropolitan­
lagunare, gilet di pelle nera e camperos borchiati, sfoderò un
rutto post-atomico, degno del miglior bàcaro; la sua scrittura
ha il respiro rinascimentale di chi non si piega alla natura
cor­rotta dell’uomo aveva scritto Margaret nell’introduzione
al suo racconto Il lungo viaggio, la storia di un Cuba Libre dal
bicchiere all’intestino. C’aveva azzeccato proprio.
Il Re Mida, un pezzo d’uomo dal fascino in via di ricon­
versione, un Helmut Berger in mobilità lunga, è lì che scivo­la
fra i saloni della Villa con l’aria di un Papa che fa da cice­rone
ai Musei Vaticani. È sicuramente un uomo di classe; si dice
possieda tutti i dischi di Fausto Papetti. Getta qua e là chicche
di conversazione con “i miei ragazzi, il futuro della let­teratura
italiana”, anche se vedi che gli fa un po’ schifo, e vorr­ebbe
parlare d’altro, magari del perché le Tiscali non salgo­no più,
o di certi paradisi fiscali di cui ha sentito tanto parlare ma dei
quali non si ricorda più il nome. Lui, che in un’in­tervista di
qualche anno prima un po’ troppo a ruota libera, ammise di
amare soprattutto la lettura dei risvolti di copertina “perché
da quelli capisco se un libro è buono o no”.
Ma a quel tempo era ancora il Re delle pentole antiaderenti
e così...
Eravamo in quindici, gli eletti, nove uomini e sei donne,
questo incontro celebrativo (all’Editore, durante il discor­
so di benvenuto, scappò di dire convention, ma nessuno ci
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fece caso), programmato in una calda sera di fine giugno,
per festeggiare l’uscita del volume contenente i 15 racconti
vincitori del “più famoso Premio Letterario Triveneto”. – Il
primo tassello della celebrità, – come diceva allargandosi un
po’ Margaret, la responsabile del progetto. Fluttuava inde­
cisa tra un tramezzino e un’oliva nera, in un’atmosfera che
molti di noi autori cercavano di rendere New Age a furia di
disquisizioni sull’ultima versione che circolava riguardo al
suicidio di Kurt Cobain o sul significato recondito di certe
affermazioni un po’ forti della Tamaro, e che invece virava
vagamente sulla new economy. Forse per via di certi inquie­
tanti fascicoli, a farci caso un po’ onnipresenti, che parlavano
di imminente entrata in Borsa della Casa, e di lotti minimi
riservati agli autori-partners. Stock-options le chiamavano,
anche se, a una lettura un po’ più approfondita, sembravano
molto poco options...
Una sottile nuvola di fumo avvolgeva le sale della Villa e
con esse gli Amici, gli Amici degli Amici, qualche parente,
gli immancabili rappresentanti delle istituzioni, con quell’aria
un po’ così, di chi non sa che pesci pigliare, e di voti manco
l’ombra. Impassibili e neutrali gli altri rappresentanti, quelli
di pentole, vecchi sodali del Re Mida, compagni di tirate e di
lap dance a domicilio, venuti a dare un’occhiata, che non si
può mai sapere...
Io sono venuto da solo. Non che mi sentissi esattamente
a mio agio in queste occasioni... Avevo sbirciato le bio degli
altri autori e, così a occhio e croce, se non ero il meno accul­
turato e il più indigente del lotto, poco ci mancava. Era tutto
un citare lauree e dottorati, lavori in banca e altre amenità alle
quali io opponevo una tenera singletudine e un grigio lavoro
da operaio nella più malfamata azienda del triveneto.
Non avrei mai fatto strada nel rutilante mondo dell’editoria
italiana...
Il pianista, un tipo stempiatissimo e coi baffetti, giacca
ne­ra e fifi, drink sempre pericolosamente a portata di mano,
tormentava le note riarrangiando di tutto un po’, da Bach a
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Smoke Gets in Your Eyes, con l’entusiasmo di un cassintegra­to
a zero ore.
E poi gli inviati del Gazzettino e della Nuova Venezia, gen­
te che esercitava una certa influenza a livello condominiale,
piluccavano qua e là nel buffet, lamentandosi di quanto fa­cesse
schifo il salame di cioccolato al latte. Era paté de fois gras.
Conservavano quel loro contegno altero, solo un fili­
no sbracato, come di chi insegue affannosamente la tessera
dell’Ordine, e intanto getta occhiate preoccupate al comuni­
cato stampa redatto appositamente per l’occasione, chieden­
dosi se basterà per tirarne fuori un articolo o se invece dovrà
metterci del suo. Merda, un bel problema...
– Ah, così lei è l’omosessuale, quello di sinistra...? – mi
chiese vagamente schifato l’Editore, dandomi distrattamente
la mano e sparendo immediatamente appresso a un paio di
jeans stinti e stazzonati, da cui spuntava assassino l’elastico
rosso di un perizoma.
Frencie, la ventenne proprietaria del culo che stava nei
jeans, ha l’aria vagamente hippie, forse per via delle Adidas
sbrindellate, della sciarpa rasta a corto di lavaggi, dei capelli
impazziti, come un cespuglio di rovi dopo una lite fra coni­
gli, e un maglione di qualche taglia più largo del dovuto, ma
non così largo da nascondere l’abbondante presenza dei seni.
Vabbè hippie, ma insomma...
Aveva scritto una furiosa tirata ecologista “ricca di pathos
e di un sincero travaglio morale” contro l’industria chimica,
che già dal programmatico titolo, Pomodori&marijuana, mo­
strava interessanti idee in tema di riconversione industriale e
reimpiego della manodopera. A chi le faceva timidamente no­
tare che il Pick Up Ford 3000cc. con cui era arrivata (suo pa­
dre era esclusivista per le Tre Venezie) non fosse il massimo
in quanto a impatto ambientale, rispondeva con sincero strug­
gimento che “sì, forse, ma è catalizzato... in fondo, è la vita
che spesso è ingiusta”.
Altre volte, più prosaicamente, si limitava a dare del bastardo fascista provocatore all’incauto interlocutore. Ma che
volete, è la vita che è ingiusta...
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