I poliziotti – mi fa. – Vorrebbero parlarti ancora. Poi
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I poliziotti – mi fa. – Vorrebbero parlarti ancora. Poi
– I poliziotti – mi fa. – Vorrebbero parlarti ancora. Poi fa una faccia strana. – Lo sai come sono gli sbirri, a tutte le latitudini. No Miki, non lo so come sono fatti gli sbirri. Non c’ho mai avuto a che fare in vita mia. Anche se a te, giramondo per amore, che hai mollato Ce senatico per correr dietro a una fighetta scandinava, questo potrà suonare strano. Be’, credimi, è così. Spengo il walkman e mi tolgo le cuffiette, lasciando a metà una Jungleland del ’76 da brividi rintracciata per vie traverse. Penso di essere l’unico a nord di Tunisi ad avere ancora un vec chio walkman a cassette, ma non è che me ne freghi poi molto... Affondo il collo nella giacca a vento blu scacciando i bri vidi; maledetta giacca, era diventata vecchia, non teneva più la pioggia. Ne aveva presa troppa. Tutta quella pioggia... Sento la pelle della faccia indurirsi e tendersi sulle ossa co me cellophane mentre l’aria gelida del Mare del Nord spazza la prua, incurante del sole anemico di questa mezzanotte artica. Una ragazza dall’aria inglese seduta accanto a me, sui vent’anni, inspira a narici piene, nascosta in un leggero kway rosso, e mi chiedo come faccia a non aver freddo... Lei si accorge che la sto guardando, e scuote all’indietro i capelli spargendoli sulla testa come un mikado, e imitando male un sorriso di cortesia. Ha l’aria di una di quelle che si dimenticano come si scrive il proprio nome mentre si compila un modulo. – Che cazzo vogliono, ancora – esclamo, come se potes sero capire ciò che dico, – ... non gli basta tutto quello che ho fatto? – Voglio che sappiano che ne ho piene le palle. 7 Davide Tessari – Non prendertela con me, dai... – mormora Miki con quel po’ di cortesia che gli rimane, – io sono solo l’interprete. For se devono decidere se riesumare il corpo. – Poi, con gesto plateale come di chi ha calcato l’avanspettacolo di un Amleto parauniversitario, getta il mozzicone di sigaretta nel ventre buio dell’acqua. Sento il severo fluire del mare, molto al di sotto del pon te delle automobili, e provo a immaginare la vasta e fredda mole del postale che fende l’acqua, inesorabile. Come tutto, in questa storia. Di là del vetro c’è l’aria calda e dall’alito di caffè, dove turisti italiani borghesi e avvizziti sbadigliano già stanchi di fiordi sempre uguali. E quei due poliziotti, uno alto, magro e pallido, dai capelli insolitamente scuri e sottili come fili di una ragnatela, l’altro più mingherlino ma massiccio, castano, sui cinquant’anni. Pura razza nordica da tempi non sospetti. Mi guardano tetri, ingabbiati nei loro ridicoli impermea bili color sabbia, il rigonfio della Browning all’altezza dello sterno, nell’attesa che rientri in coperta, che vada da loro. Mi decido. Miki mi segue, fischiettando un motivo di Toto Cutugno, giusto per fare la parodia dell’emigrante italiano o per limare appena il mio malumore. Almeno lo spero. Il salone è pieno di fumo e l’aria stantia puzza di disinfet tante e cibi ipercalorici. I due poliziotti si siedono sulle poltroncine di velluto color salmone attorno a un piccolo tavolino di legno, indicandoci le altre due. Ci sediamo e subito il tipo dai capelli neri borbotta qualcosa a Miki, senza guardarmi. Lui traduce, con le guance arrossate dalla calura del salone. L’altro poliziotto mi sorride con un ghigno candido, fatto di un’accozzaglia di denti mangiucchiati dalla carie e nerastri di fumo. Tira fuori un piccolo registratore e lo appoggia sul tavolino. – Vogliono che gli racconti nuovamente come sono andate le cose. Tutto quello che sai, dall’inizio. Come se fosse facile raccontare il modo in cui sono finito in questo inizio. Come se sapessi davvero quand’è iniziata questa fine... 8 Domenica – Ammettiamolo – disse, – la letteratura è morta. Il ’900 non ha partorito nulla di minimamente potabile – e disse pro prio così, partorito e potabile. Avrà, sì e no, 20 anni, un ves tito di grisaglia grigio, cravatta di seta rossa, completamente rasato in testa e con un codino sottile che gli scende lungo la schiena. Abbassai gli occhi sull’aranciata residua che ristag nava nel mio bicchiere di plastica. Mi immaginai una donna con le doglie intenta a capire se le sue, di acque, fossero po tabili o meno. Mi prese come un conato di vomito, che soffocai disto gliendo lo sguardo dal fondo del bicchiere e andandolo a po sare sulla scollatura, più che generosa, filantropica diciamo, di una ragazza dal vestito color pervinca, stivali neri e la Repubblica sotto il braccio, che annuiva convinta, tirandosi piccole ciocche di capelli biondi tra le dita. – Non si può cer to darti torto – mormorava confidenziale, – sapessi in facoltà quanti la pensano come me e te. Poi entrambi, contemporaneamente, mi guardarono, guar darono il mio silenzio. – Oh... sì... – balbettai – per quanto, un Garcia Marq... – No, eh...? – Torno subito – dissi scusandomi e imboccando la via del cesso. Quando trovai la porta giusta, al quarto tentativo circa, fui investito da una nube di chiara matrice antiproibizionista dietro alla quale intravidi un tizio dall’aria del cowboy metropolitano e dall’accento lagunare, che mi offrì un tiro. Ammettiamolo, disse, ce n’è di gente stronza a questo mondo. Villa Baruzzi è un vecchio attrezzo edilizio del sedicesi mo secolo, uno dei tanti lasciti della nobiltà veneziana in gita 9 Davide Tessari campagnola, venti stanze rimesse recentemente a nuovo e di venute la dimora dell’Editore, Giovanni Dalla Bona, il Re Mida della Letteratura Giovane (tutto è maiuscolo in ciò che fa o lo riguarda), colui che può fare di te, avanzo d’ateneo o scribacchino di buone promesse, il nuovo Autore di Culto, quello per il quale sbavare, discutere, sognare, il tutto con tiratura oceanica, almeno dieci edizioni garantite, rilegatura scintillante, intervista sul Corriere e, già che siamo in ballo, un passaggino sboccato, moderatamente sboccato, da Co stanzo. È già sul contratto. La ragazza dal vestito pervinca, una fatalona dei Colli Trevigiani dall’aria perversa e dalla scrittura sorvegliata, mi raggiunse in bagno (bagno... travi a vista e rubinetti dorati!), sorridendomi sollevata: – Quello è pazzo – disse riferendosi all’apocalittico di prima, – ma ti pare che la letteratura... La guardavo e pensavo alle sei scopate, ops! orgasmi, che aveva avuto in una notte, almeno così scriveva nel suo racconto (Una storia romantica dove il sentimento e il cuore scendono a patti con i primi pudici turbamenti dell’adolescenza, c’era scritto nella nota introduttiva, sorvolando su passaggi come Sentii la sua mano entrarmi tutta dentro sino al polso, e fottermi furiosamente mentre mi veniva in bocca, e io mandavo giù tutto, sperando che non la smettesse mai di venire...). Mi detti del cretino; mai che riuscissi a separare personaggio e autore. Certamente lei era una ragazza timorata di Dio. E pensare che il personaggio principale del mio racconto era un giocatore di bocce omosessuale che moriva d’inedia a causa del lento scomparire dei campi da gioco sostituiti da campetti per il calcio a 5. Io non ho mai, dico MAI, giocato a bocce. Ah, e neanche sono omosessuale, malgrado l’Arcigay nu tra ancora seri dubbi in proposito e continui a mandarmi mo duli d’iscrizione, oltre a un agile volumetto dal titolo Il fallo da dietro: l’omosessualità nel calcio italiano... Comunque, la critica locale, due periodici dall’irrisoria tiratura, ne fu entusiasta e parlò di travolgente e straziante 10 Nordest Hotel metafora sul lento oblio della Sinistra, un urlo di dolore contro il berlusconismo imperante. Nientemeno. – Sai – riprese a dirmi la ragazza, controllandosi allo spec chio la tenuta del mascara, – la letteratura è tutta la mia vita... – poi mi fissò con un’aria così, come un politico alla ricerca dell’ispirazione e dell’ultimo voto. – Oh, se solo riuscissi a esprimere quanto adoro la nostra lingua – gemette, – sentire il ritmo pacato delle allitterazioni, l’esplosione delle metafore più ardite, esplorare l’evoluzione dell’idioma e barattarne le dolcezze con la potenza teutonica di un Goethe... Tu cosa ne pensi? – Stavo per risponderle che sì, certo, le allitterazioni... Goethe... quando improvvisamente il cowboy metropolitan lagunare, gilet di pelle nera e camperos borchiati, sfoderò un rutto post-atomico, degno del miglior bàcaro; la sua scrittura ha il respiro rinascimentale di chi non si piega alla natura corrotta dell’uomo aveva scritto Margaret nell’introduzione al suo racconto Il lungo viaggio, la storia di un Cuba Libre dal bicchiere all’intestino. C’aveva azzeccato proprio. Il Re Mida, un pezzo d’uomo dal fascino in via di ricon versione, un Helmut Berger in mobilità lunga, è lì che scivola fra i saloni della Villa con l’aria di un Papa che fa da cicerone ai Musei Vaticani. È sicuramente un uomo di classe; si dice possieda tutti i dischi di Fausto Papetti. Getta qua e là chicche di conversazione con “i miei ragazzi, il futuro della letteratura italiana”, anche se vedi che gli fa un po’ schifo, e vorrebbe parlare d’altro, magari del perché le Tiscali non salgono più, o di certi paradisi fiscali di cui ha sentito tanto parlare ma dei quali non si ricorda più il nome. Lui, che in un’intervista di qualche anno prima un po’ troppo a ruota libera, ammise di amare soprattutto la lettura dei risvolti di copertina “perché da quelli capisco se un libro è buono o no”. Ma a quel tempo era ancora il Re delle pentole antiaderenti e così... Eravamo in quindici, gli eletti, nove uomini e sei donne, questo incontro celebrativo (all’Editore, durante il discor so di benvenuto, scappò di dire convention, ma nessuno ci 11 Davide Tessari fece caso), programmato in una calda sera di fine giugno, per festeggiare l’uscita del volume contenente i 15 racconti vincitori del “più famoso Premio Letterario Triveneto”. – Il primo tassello della celebrità, – come diceva allargandosi un po’ Margaret, la responsabile del progetto. Fluttuava inde cisa tra un tramezzino e un’oliva nera, in un’atmosfera che molti di noi autori cercavano di rendere New Age a furia di disquisizioni sull’ultima versione che circolava riguardo al suicidio di Kurt Cobain o sul significato recondito di certe affermazioni un po’ forti della Tamaro, e che invece virava vagamente sulla new economy. Forse per via di certi inquie tanti fascicoli, a farci caso un po’ onnipresenti, che parlavano di imminente entrata in Borsa della Casa, e di lotti minimi riservati agli autori-partners. Stock-options le chiamavano, anche se, a una lettura un po’ più approfondita, sembravano molto poco options... Una sottile nuvola di fumo avvolgeva le sale della Villa e con esse gli Amici, gli Amici degli Amici, qualche parente, gli immancabili rappresentanti delle istituzioni, con quell’aria un po’ così, di chi non sa che pesci pigliare, e di voti manco l’ombra. Impassibili e neutrali gli altri rappresentanti, quelli di pentole, vecchi sodali del Re Mida, compagni di tirate e di lap dance a domicilio, venuti a dare un’occhiata, che non si può mai sapere... Io sono venuto da solo. Non che mi sentissi esattamente a mio agio in queste occasioni... Avevo sbirciato le bio degli altri autori e, così a occhio e croce, se non ero il meno accul turato e il più indigente del lotto, poco ci mancava. Era tutto un citare lauree e dottorati, lavori in banca e altre amenità alle quali io opponevo una tenera singletudine e un grigio lavoro da operaio nella più malfamata azienda del triveneto. Non avrei mai fatto strada nel rutilante mondo dell’editoria italiana... Il pianista, un tipo stempiatissimo e coi baffetti, giacca nera e fifi, drink sempre pericolosamente a portata di mano, tormentava le note riarrangiando di tutto un po’, da Bach a 12 Nordest Hotel Smoke Gets in Your Eyes, con l’entusiasmo di un cassintegrato a zero ore. E poi gli inviati del Gazzettino e della Nuova Venezia, gen te che esercitava una certa influenza a livello condominiale, piluccavano qua e là nel buffet, lamentandosi di quanto facesse schifo il salame di cioccolato al latte. Era paté de fois gras. Conservavano quel loro contegno altero, solo un fili no sbracato, come di chi insegue affannosamente la tessera dell’Ordine, e intanto getta occhiate preoccupate al comuni cato stampa redatto appositamente per l’occasione, chieden dosi se basterà per tirarne fuori un articolo o se invece dovrà metterci del suo. Merda, un bel problema... – Ah, così lei è l’omosessuale, quello di sinistra...? – mi chiese vagamente schifato l’Editore, dandomi distrattamente la mano e sparendo immediatamente appresso a un paio di jeans stinti e stazzonati, da cui spuntava assassino l’elastico rosso di un perizoma. Frencie, la ventenne proprietaria del culo che stava nei jeans, ha l’aria vagamente hippie, forse per via delle Adidas sbrindellate, della sciarpa rasta a corto di lavaggi, dei capelli impazziti, come un cespuglio di rovi dopo una lite fra coni gli, e un maglione di qualche taglia più largo del dovuto, ma non così largo da nascondere l’abbondante presenza dei seni. Vabbè hippie, ma insomma... Aveva scritto una furiosa tirata ecologista “ricca di pathos e di un sincero travaglio morale” contro l’industria chimica, che già dal programmatico titolo, Pomodori&marijuana, mo strava interessanti idee in tema di riconversione industriale e reimpiego della manodopera. A chi le faceva timidamente no tare che il Pick Up Ford 3000cc. con cui era arrivata (suo pa dre era esclusivista per le Tre Venezie) non fosse il massimo in quanto a impatto ambientale, rispondeva con sincero strug gimento che “sì, forse, ma è catalizzato... in fondo, è la vita che spesso è ingiusta”. Altre volte, più prosaicamente, si limitava a dare del bastardo fascista provocatore all’incauto interlocutore. Ma che volete, è la vita che è ingiusta... 13