Mughanda Muhindo
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Mughanda Muhindo
INTERVENTI LA CRISI ONTOLOGICA DELLO STATO MODERNO IN AFRICA di MUGHANDA MUHINDO Oggi, gli Stati Uniti sono l’unica Superpotenza mondiale e l’Europa, già economicamente imponente sullo scenario internazionale, sta diventando un soggetto anche politicamente rilevante. Tra le pedine che può giocare l’Unione Europea l’internazionalista Vittorio Emmanuele Parsi, tenendo conto del rifiuto dell’uso della forza tra le democrazie, diventato ormai consuetudine, propone quella del recente passato coloniale : «L’Europa dovrebbe essere guardata con qualche timore, sopratutto da quelle popolazioni che hanno sperimentato le “delizie” del dominio coloniale europeo sulla loro pelle»1. Lo stesso autore sottolinea la centralità della Spagna per fare dell’Unione Europea un vero challenger economico degli Stati Uniti. La Spagna servendosi dei legami tradizionali con il mondo musulmano e di una rete consolidata di rapporti con l’America Latina, potrebbe permettere all’Unione Europea di riaprire la partita della penetrazione economica in Sudamerica.2 C’è quindi un gigante già consolidato nella sua potenza e un altro che ha tutte le carte in regola per potersi inserire con successo nella partita. E gli altri? Agli altri non rimane molto da fare. Si potrebbero unire e formare altri giganti idonei a fronteggiare quelli che ci sono già. Ma questo richiede che le loro possibilità messe insieme abbiano una rilevanza tale da costituire davvero una forza capace di farsi valere. 1 V.-E. PARSI, L’alleanza inevitabile. Europa e Stati Uniti oltre l’Iraq, Egea, Milano 2003, p. 192. 2 Cfr. ibid., p. 188. 59 Esprimendo la rilevanza e la non rilevanza in termini di dipendenza e non dipendenza, ci si rende conto che se A dipende da C e B dipende dallo stesso C, non è detto che A+B dipenda da C così come non è evidente che A+B non sia dipendente da C. Tutto dipende da «quanto» mettono (o siano disposti a mettere) insieme e da «quanto hanno a disposizione». La transitività della dipendenza si osserva nel caso in cui due soggetti A e B che dipendono da un soggetto C, anche se mettono insieme le loro forze non riescono a costituire un blocco di forza capace di mettere in difficoltà, anche per poco, C. In questo caso A dipende da C, B dipende da C e A+B dipende da C e l’unione delle forze risulta una operazione inutile, sopratutto se è finalizzata a un affrancamento da C. Nel caso contrario potrebbe valere la pena unirsi. Molti Paesi del mondo si trovano davanti alla questione della transitività della dipendenza, in modo particolare quelli dell’Africa subsahariana che vogliono contare ma sanno bene che nemmeno mettendosi insieme possono riuscire a costituire un soggetto rilevante. Ciò è dovuto alla virtualità dei soggetti che decidono di mettersi insieme e alla loro conseguente irrilevanza internazionale. La stessa Unione Africana che è appena nata non è altro che una delle tante operazioni cosmetiche che si applicano ai problemi del continente nero. Una malattia si guarisce solo sradicandone le cause profonde. Per molti problemi che infliggono colpi dolorosi al Continente Nero, molti africani e i loro amici propongono soluzioni che si accontentano di fasciare le ferite, soluzioni che riparano ma che non risolvono le questioni sostanziali. È il ruolo che ha giocato l’Organizzazione per l’Unità Africana (OUA) e che rischia di svolgere anche la neonata Unione Africana (UA) se non si pone la questione dell’esistenza dello Stato sul continente. Questa è una delle questioni di fondo che riguardano l’organizzazione sociale sulla quale si possono costruire tutte le altre cose socialmente utili. Se lo Stato non esiste in Africa o non è mai esistito dalle indipendenze in poi, tutte le formule d’integrazione, pensate come soluzioni capaci di inserire l’Africa nell’arena internazionale, non sono altro che forme virtuali di aggregazione. Un ripensamento dello Stato che tenga conto degli aspetti distintivi delle società africane e delle esigenze della mondializzazione è la condizione di riuscita di qualsiasi programma per l’Africa. Scopo di questo lavoro è quello di dimostrare il fallimento ontologico dello Stato moderno in Africa (fallimento dal quale si potrebbe, senza essere sbrigativi, dedurre l’irrilevanza delle organizzazioni interna60 zionali africane sullo scenario globale) e proporre un modello di Stato capace di inserire l’Africa nell’arena internazionale e di rendere rilevanti le organizzazioni continentali. 1. Il fallimento ontologico dello Stato africano 1.1. Per porre il problema Quando si parla di Stato moderno si pensa a un insieme di istituzioni complesso e organizzato gerarchicamente, formalmente indipendente e riconosciuto come tale dalla comunità internazionale, per la definizione e l’implementazione di decisioni collettive che la possibilità del ricorso alla coercizione rende vincolanti su un dato territorio e per una data popolazione. L’esserci di uno Stato presuppone un territorio, un popolo e una legge sovrana che costituiscono la sua dimensione ontologica. Gli scopi dello Stato (e quindi il suo dover essere) sono essenzialmente la sicurezza, la libertà, l’ordine/giustizia e la ricchezza/benessere che costituiscono la sua dimensione deontologica. La sicurezza viene garantita dagli Stati tramite le forze proprie e le alleanze. La libertà può essere intesa come libertà personale e indipendenza, ma la libertà che perseguono gli Stati sulla scena internazionale è la libertà come indipendenza. Per quanto riguarda l’ordine e la giustizia gli Stati hanno interesse a stabilire una cornice sistemica in cui garantire i loro interessi; hanno bisogno di stabilità per sopravivere. L’altro scopo dello Stato è quello di massimizzare il benessere dei propri cittadini, la loro ricchezza e il loro benessere. Scarsa sovranità, territorio non controllato, popolazione disomogenea e senza coscienza nazionale sono i segni dell’evidente crisi ontologica dello Stato in Africa. La crisi deontologica invece viene resa essenzialmente dall’incapacità dello Stato di rispondere ai bisogni di sicurezza e di benessere delle proprie popolazioni. In questo lavoro ci concentreremo solo sulla prima dimensione. La crisi ontologica degli Stati africana è data già dalla loro origine. Essi sono stati creati attraverso l’imposizione esterna delle istituzioni dello Stato moderno europeo: non sono frutto di un’evoluzione graduale simile a quella dello Stato moderno che ha le sue origini culturali in Europa. Lo Stato moderno in Europa è il risultato di un lungo processo che 61 ha reso possibile la frammentazione della configurazione territoriale medioevale e la concentrazione progressiva del potere nelle mani delle autorità nazionali e sovrane3. Le frontiere di questo Stato sono frutto di guerre e di negoziati tra entità statali emergenti. I suoi apparati burocratici complessi hanno rispettato, nel loro costituirsi, un criterio graduale che ha permesso che pian piano si consolidasse il loro controllo sul territorio e sulle popolazioni. C’è voluto molto tempo perché queste trasformazioni si concretizzassero. Pretendere che, a 40 anni dalla colonizzazione, sia possibile creare degli Stati sul modello europeo è solo un’illusione: questo richiede un cambiamento culturale profondo della concezione del territorio, del popolo e della sovranità. 1.2. Sovranità ridotta ai minimi Nella maggior parte dell’Africa subsahariana non sono mai esistiti Stati indipendenti e sovrani (nel senso politologico del termine). Le indipendenze cosiddette formali, cioè giuridiche e testuali, acquisite negli anni ’60, sono astratte. La scarsa sovranità delle entità statali dell’Africa si può cogliere con l’ausilio di tre chiavi di lettura: il «neocolonialismo», le multinazionali e la fretta che c’è stata, dal punto di vista del diritto internazionale, nel riconoscere allo Stato africano la sovranità. 1.2.1. Il «neocolonialismo». Uno dei concetti che rendono meglio l’assenza di una sovranità effettiva degli Stati africani è quello di neocolonialismo. Per neocolonialismo si intende la pratica che consiste nel concedere una specie di indipendenza con l’intenzione segreta di fare del paese liberato uno Stato-Cliente, e mantenendo su di esso un controllo effettivo tramite mezzi diversi da quelli politici. Questo «neocolonialismo» si manifesta in molte forme. La prima consiste nel mantenimento della dominazione del capitale straniero all’interno delle economie, impedendo in questo modo la scomparsa dell’antica struttura economica coloniale, in cui la colonia forniva materie prime a basso prezzo e un mercato protetto per i prodotti della potenza imperiale. La seconda forma consiste nell’imposizione di istituzioni di governo e amministrative tanto complesse da rendere necessaria la dipendenza di questo Stato da tecnici stranieri. La terza forma invece è il mantenimento delle posizioni strategiche tramite lo stabili- 3 Cfr. G. CARBONE, L’Africa. Gli Stati, la politica, i confini, Mulino, Bologna 2005, pp.7ss. 62 mento delle basi militari4. Ci sono anche gli obblighi imposti a una nazione, troppo giovane e troppo debole per resistere, di siglare accordi diplomatici e di cooperazione che minano la sua sovranità. Il neocolonialismo si esprime anche tramite l’erezione di barriere tariffarie e non su tutto il continente africano, attraverso organizzazioni internazionali come l’Unione Europea con i suoi programmi coerenti con la previsione del professore Parsi alla quale abbiamo accennato all’inizio di questo lavoro5. L’ultima espressione del neocolonialismo è l’incitamento alle rivalità tribali e personali che distruggono l’unità nazionale, attraverso l’imposizione e il rafforzamento di Stati che espongono al tribalismo, oppure tramite la corruzione dei soggetti scontenti all’interno dello Stato. 1.2.2. Le multinazionali e le istituzioni finanziarie internazionali. L’altro parametro che ci permette di riconoscere la scarsa sovranità degli Stati africani è l’attività delle multinazionali e delle istituzioni finanziarie internazionali. Lo Stato africano, avendo pochi mezzi finanziari, per soddisfare i suoi bisogni, ricorre all’aiuto estero sacrificando la propria indipendenza e sovranità all’economia. «Già fragili, i giovani Stati africani indipendenti hanno ereditato una sovranità precaria che la dominazione delle multinazionali e la dislocazione della società civile sotto l’effetto delle politiche di aggiustamento strutturale sono riusciti a ridurre a nulla. In questo modo, il potere pubblico diventa una finzione»6. Anche i conflitti etnici derivano principalmente dai calcoli d’interesse dei governi e delle multinazionali, che strumentalizzano i conflitti regionali o locali per ottenere o conservare mercati e privilegi. Il ruolo degli industriali del legno nella scomposizione del Liberia e della Repubblica Democratica del Congo denunciato dalle ONG e da una relazione delle Nazioni Unite testimonia l’alienazione della sovranità dello Stato africano. Se a questo si aggiunge che la risoluzione dei conflitti necessita ancora di un intervento degli Stati stranieri in connivenza con imprese di loro nazionalità di cui vogliono difendere gli interessi, si capisce meglio come lo Stato in Africa non sia 4 Cfr. K. KAOUNDA, A Humanism in Africa, in «Afrique Contemporaine», 55, maggiogiugno 1971, pp. 140-141. 5 Cfr. V.-E. PARSI, L’alleanza inevitabile, cit., p. 192. 6 P.F. TAVARES, Pourquoi tous ces coups d’Etat en Afrique, in «Le monde diplomatique», Gennaio 2004, p. 16. 63 altro che «una moltitudine di feudi controllati dai vassalli che hanno promesso fedeltà a un feudatario»7. 1.2.3. La fretta del riconoscimento internazionale. L’ultimo parametro che permette di dimostrare la scarsa sovranità dello Stato africano è l’immediato riconoscimento della formale sovranità degli Stati africani da parte della comunità internazionale, a prescindere dalla presenza o meno di effettive strutture di governo sui territori. La legittimazione internazionale ha costituito per questi Stati un’incrollabile garanzia esterna della loro stessa esistenza. Tale garanzia ha ridotto drasticamente la loro necessità di affermarsi come entità dotate di solidi apparati istituzionali e burocratici, nonché il bisogno di acquisire una più piena legittimità interna. Al contrario, «agli Stati africani venne di fatto concessa l’opportunità di sopravivere rimanendo dei gusci semivuoti, costruzioni che, nonostante la loro immancabile presenza su ogni mappa geografica, mantenevano una scarsa rilevanza per la vita quotidiana degli africani»8. Il sostegno esterno da parte della comunità internazionale e regionale ha in parte spiazzato il processo di state-building interno, mantenendo in vita soggetti statuali dalle istituzioni fragili e con radici poco profonde, scarsamente presenti sul territorio e labilmente connessi alla popolazione9. 1.3. La popolazione 1.3.1. Una popolazione dimenticata. Lo Stato africano, una forma senza contenuto. Lo Stato in Africa non è il prodotto delle forze sociali ma una divina sorpresa imposta da fuori. Esso è stato poi occupato da una élite burocratica locale che ha ripreso la conchiglia vuota lasciata dai colonizzatori10. Istituendolo, i colonizzatori pensavano che lo Stato non potesse subire pressioni dalla società locale e non poteva permettere che vi fossero altre forme di socializzazione accanto a sé. Questo modo di pensare ereditato dalla colonizzazione è sopravissuto in molti dirigenti africani, formati alla scuola occidentale e consigliati, per la maggior parte, da esperti europei. Essi continuano a rifiutare di tener conto delle specificità sociali, 7 D. DARBON, L’Etat prédateur, in «Politiques Africaines: L’Afrique autrement», 39, ottobre 1990, pp. 25-26. 8 G. CARBONE, L’Africa, cit., p. 97. 9 Cfr. ibid., p. 98. 10 Cfr. D. DARBON, L’Etat prédateur, cit., p. 42. 64 invocando il rischio della messa in questione dell’unità nazionale e i pericoli di indebolimento dello Stato. Ciò che viene valorizzato in questa concezione dello Stato è la sua forma a scapito del suo contenuto11. Ci sono anche élite africane che, recuperando questa carcassa, non vogliono integrare la società nella costruzione dello Stato per incrementare il loro controllo politico e economico su di esso. Allora cercano di costituire uno Stato convinto della propria impunità e che non ha bisogno di negoziare con la società. Nemmeno con l’era delle democratizzazioni (anni ’90) sono state coinvolte le società. Sullo scenario internazionale i governi africani non andavano in cerca di una credibilità nazionale ma di quella internazionale da cui dipendevano i sussidi esteri e la sopravivenza dello Stato. Tutto ciò fa sì che in molti Paesi africani non sia difficile distinguere tra nazione giuridica e nazione sociologica. «C’è un disaccordo abissale tra le nazioni e i cittadini a proposito dei valori fondamentali della collettività: definizione di una società delle libertà, di un potere realmente consentito e accettato, di un diritto percepito come naturale»12. 1.3.2. Una popolazione eterogenea. All’interno dei territori di molti Stati dell’africa subsahariana delimitati arbitrariamente sono riunite popolazioni eterogenee che hanno avuto raramente l’esperienza di una vita insieme nel passato. I popoli eterogenei non si sentono per niente legati tra loro. Sono le loro affinità etniche, che non corrispondono ai territori entro i quali si trovano racchiusi, che continuano a valere come vincolo sociale. Molti africani si considerano più legati ai vicini dell’altro lato della frontiera che ai cittadini del loro Stato. Nemmeno il nazionalismo predicato dalla maggior dei padri delle indipendenze riuscì a scardinare questa difficoltà, perché non era un nazionalismo di massa, ma di classe, una classe costituita da una minoranza d’intellettuali, formati alla scuola occidentale. Il nazionalismo propugnato non era per nulla unificatore perché, anche in questo caso, mancava la base sociale. La disomogeneità della popolazione viene rafforzata dal fatto che pochi sono gli Stati dove c’è stata una lingua comune locale capace di esprimere la coscienza nazionale e condividerla con le masse. L’utilizzo delle lingue dei colonizzatori ha creato tra il vertice e la base un dialogo di sordi che crea scarsa partecipa11 Cfr. ibid., p.38. T. MWAYILA, L’Afrique face au défi de l’Etat multinational, in «Le monde diplomatique», settembre 2000, pp. 14-15. 12 65 zione della popolazione alla vita politica. La maggior parte delle volte solo l’etnia del capo di Stato è solidale con la politica, il che gli garantisce sulle altre entità (minoritarie o meno) una certa egemonia. 1.3.3. Una popolazione disinteressata allo Stato. Nella sua analisi dei rapporti di potere, Michel Foucault parte dal fatto che essi si radicano nell’insieme della rete sociale e non possono ridursi alle istituzioni politiche. «Le forme e i luoghi del governo degli uomini sono molteplici in una società; si sovrappongono, si intralciano, si limitano e si annullano a volte e a volte si rinforzano a vicenda. I rapporti di potere, con il tempo, si “governalizzano”»13. Nella stessa direzione va il pensiero di Fabien Eboussi Boulaga quando, parlando dell’assenza dell’integrazione nazionale delle popolazioni, afferma che «lo Stato fétichiste senza presa sulla realtà è strutturalmente una menzogna e una violenza mortale che si impone in questo modo per mancanza di legittimità e di radicamento sociale. Lo Stato postcoloniale inverte tutto. Esso si definisce senza il suo popolo, diventa il suo opposto, il suo nemico; recupera l’ordine coloniale e schiavista con la scusa dell’ordine nuovo da stabilire»14. L’assenza dell’integrazione nazionale conduce a una carenza di solidarietà e porta a una sorta di «demobilitazione generale» il cui segno evidente è la dimissione morale della società nei confronti dello Stato. In molte società africane vige rigorosamente il principio chacun pour soi, Dieu pour tous, perché a ognuno bastano i propri problemi. Si usa dire «il passato è stato difficile, il presente è duro e l’avvenire è incerto». In questo contesto, chi si prenderà cura delle cose pubbliche, dell’interesse comune? Il popolo, disinteressato allo Stato, inizia a interessarsene solo quando si tratta di rovesciare un governo e dare preminenza al proprio gruppo etnico in un Paese o in una regione. La crisi dei Grandi Laghi è un esempio classico a questo proposito. Si tratta di una catena di crisi costituita da tre anelli. Il primo anello della catena è Yoweri Museveni che nel 1981 decide di rovesciare in Uganda il discusso regime di Milton Obote. Perché? Mille sono i motivi, uno dei quali è la lotta contro la tendenza egemonica di un gruppo etnico. Infatti, fin dall’indipendenza del Paese, negli anni ’60, si erano succeduti al potere 13 Cfr. M. FOUCAULT, Le pouvoir, comment s’exerce-t-il?, in La pensée politique, a cura di D. COLAS, Larousse, Paris 1992, pp. 754-762. 14 F. EBOUSSI BOULAGA, Les conférences nationales en Afrique noire, une affaire à suivre, Kathala, Paris 1993, p. 101. 66 governanti del nord che avevano marginalizzato le comunità meridionali come quelle dei baganda e dei banyangole. Queste ultime avrebbero costituito il nucleo principale dei guerriglieri di Museveni nella sua National Resistance Army (NRA). Vi era anche un rifugiato rwandese di nome Paul Kagame. Nel 1986, all’epoca in cui il NRA instaurò un nuovo governo a Kampala, i profughi tutsi rwandesi, che avevano sofferto discriminazioni e violenze sotto il regime di Obote, costituivano circa il 20-30% dei ribelli che erano al servizio di Museveni. La visibilità dei tutsi rwandesi nell’Uganda di Museveni attirò rapidamente le antipatie delle popolazioni locali e rese auspicabile l’organizzazione di una campagna militare per ritornare in Rwanda e rovesciare il regime Hutu di Habyarimana. Nel 1990, il Rwanda Patriotic Front (RPF), guidato da Paul Kagame, passò il confine tra Uganda e Rwanda per aprirsi la strada verso Kigali. Quattro anni di guerra civile portarono a una tale polarizzazione politica che le frange estreme del regime di Habyarimana reagirono con le violenze che avrebbero poi portato al famoso genocidio rwandese. Dopo cento giorno di sangue, nel 1994, il RPF mise in fuga la leadership e i quadri del regime hutu, che ripiegarono nei Paesi vicini assieme a 2 milioni di persone terrorizzate dalla prospettiva delle ritorsioni del nuovo governo. Nonostante la conquista del potere a Kigali, il regime del RPF era reso altamente insicuro dalla presenza di immensi campi di rifugiati appena oltre il confine con lo Zaire. Qui le ex autorità rwandesi e le milizie interahamwe avevano riorganizzato il controllo delle masse di profughi hutu e promettevano un ritorno a Kigali. Intanto, dal 1993, nelle comunità nande, hunde e nyanga dello Zaire orientale erano sorte milizie giovanili che prendevano di mira con attacchi violenti gli immigrati banyarwanda, che oltre a volersi saldamente installare sulla terra che li aveva accolti come stranieri, nutrivano mire espansionistiche. Per Kagame, che puntava a proteggere il nuovo regime rwandese, i banyarwanda presenti nello Zaire rappresentavano un alleato naturale. Verso la fine del ’96, Kagame e Museveni decisero di rispondere alle incursioni dei movimenti ribelli dello Zaire orientale, appoggiati da Mobutu, collocando un oppositore locale, Laurent Kabila, alla guida dell’insurrezione dei banyamulenge (rifugiati tutsi rwandesi istallatisi in Congo dagli anni 50 che richiedevano la cittadinanza): egli avrebbe percorso il territorio nazionale fino a Kinshasa, rovesciando Mobutu e ribattezzando nuovamente il paese col nome di «Congo». Così si chiude il terzo anello della crisi dei Grandi Laghi, che sembra una continuazione delle guerre di conquista e riconquista dei 67 vecchi regni, consacrando il disinteresse allo Stato in quanto tale per l’interesse delle comunità di appartenenza. 1.3.4. Il popolo tra Stato e capo tribù? Diversi antropologi indicano che in certe società africane tradizionali un oligopolio esercitato dai capi tribù assicuri un controllo sociale giuridico. Questo potere locale sarebbe addirittura più effettivo del potere centrale di governo. Di conseguenza la rottura teorica tra Stato nazione egemonico e unitario che si ritrova nello Stato importato appare necessaria per chi vuole comprendere il potere nei suoi rapporti con i popoli e nelle comunità africane15. Molti conflitti nascono dalla difficoltà di coesistenza tra le aspirazioni di legittimità tradizionali e le esigenze imposte dall’efficacia di tipo burocratico. Le tensioni risultano dalla produzione di nuove norme sociali apparentemente devianti rispetto alle norme ufficiali, ma conformi agli usi e ai costumi della maggior parte dei cittadini africani16. È il caso della norma secondo la quale la terra appartiene allo Stato, che si trova in molte costituzioni. Una norma del genere spodesta il capo tribù, che è tale anche in virtù del possesso della terra, e non mette a disposizione della popolazione una garanzia mentale di sopravivenza. La stessa possibilità di comprare la terra è uno schiaffo a molte tradizioni, soprattutto a quelle che alla terra riservano una certa sacralità, un’importanza vitale. La terra è come una madre. Non si dà in vendita! La si consegna in mano a una persona di fiducia che poi ne distribuisce i benefici ai fratelli. In questo contesto i popoli devono scegliere tra lo Stato con cui non hanno nessuna affinità di parentela e il capo tribù che è sicuramente figlio di un loro comune antenato. 1.3.5. La bassa densità della popolazione. Un ostacolo strutturale alla formazione di autorità e burocrazie centralizzate caratteristiche dello Stato viene anche dalla bassa densità di popolazione che ha da sempre caratterizzato il continente africano. A metà degli anni ’70 del XX secolo la concentrazione media della popolazione in Africa aveva raggiunto solo i livelli dell’Europa del 1500. Anche per questa ragione, come già verificato15 Cfr. P. DIAGNE, Le pouvoir en Afrique, in AA.VV., Le concept de pouvoir en Afrique, Presse-Unesco, Paris 1986, p. 88. 16 Cfr. P. HEBGA, Afrique de la raison, Afrique de la foi, Kathala, Paris 1995, pp. 34-56, e T. MICHELON, L’Etat africain: quête d’une nouvelle légitimité, in «Terroirs, Revue Africaine des Sciences sociales», 4, gennaio 1995, pp. 5-17. 68 si in epoca precoloniale, nella regione subsahariana non ha avuto luogo una concorrenza analoga a quella che i ben più popolati paesi europei si fecero vicendevolmente per secoli, attraverso la guerra, per il controllo di terre scarse. In molte parti dell’Africa, al contrario, una relativa abbondanza di territorio disabitato non solo ha per lungo tempo contenuto la competizione tra gruppi, ma ha reso più agevole, per gran parte degli africani, sottrarsi alle mire di controllo da parte di autorità centralizzate di tipo statuale. La disponibilità di terre libere ha a lungo permesso alle popolazioni locali di rispondere ai tentativi di imposizione di un’autorità centrale sul loro territorio spostandosi oltre la portata di tale autorità. Non è un caso che le aree subsahariane in cui emersero realtà di tipo statuale in epoca precoloniale furono in genere zone a densità relativamente elevata, come la regione dei Grandi Laghi (dove sorsero ad esempio i regni del Buganda, del Rwanda e del Burundi), gli altopiani dell’Etiopia e alcune zone dell’Africa occidentale come l’Ashanti, in Ghana17. L’esercizio e il controllo dell’autorità politica si fanno inevitabilmente più difficili in presenza di una popolazione relativamente sparpagliata e di un tessuto sociale poco fitto. «Maggiori sono le distanze tra gli insediamenti umani, più elevati diventano gli ostacoli e i costi della comunicazione, delle infrastrutture e dei servizi governativi».18 L’emarginazione della popolazione nella costituzione dello Stato africano consacra uno Stato «forma senza contenuto», uno Stato inconsistente e inadeguato. Se a questo aggiungiamo il fatto che la popolazione è eterogenea, sparpagliata sul territorio e disinteressata all’acquisizione di una coscienza nazionale e deve ancora scegliere tra governo tradizionale e statale in termini di legittimazione, la qualifica dello Stato africano come «forma senza contenuto» diventa un truismo. 1.4. Il territorio Nessuna tradizione ha mai registrato come patrimonio comune i territori degli stati africani legittimandoli sotto forma di miti, commemorandoli sotto forma di leggende, celebrandoli in epopee: disegnate dalla Conferenza di Berlino (1885) e sancite dai testi istitutivi dell’Organizzazione 17 Cfr. C. CLAPHAM, Africa and the International System. The Politics of State Survival, Cambridge University Press, Cambridge 1996, pp. 26-28. 18 N. CHAZAN, P. LEWIS, R. MORTIMER, D. ROTSCHILD, S.J. STEDMAN, Politics and Society in Contemporary Africa, Lynne Rienner, Boulder 1999, p. 27. 69 dell’Unità Africana, le frontiere di questi Stati sono diventate fittizie. Miliziani e mercenari sono diventati incontrollabili. E non solo. Le multinazionali hanno abolito de facto le frontiere ereditate dalla colonizzazione e hanno profondamente modificato la natura degli Stati in Africa. 1.4.1. Un territorio rinnegato: la delegittimazione sociale. Quando nascono, gli Stati africani soffrono già di un handicap: l’arbitrarietà delle frontiere con la conseguente diffusa delegittimazione sociale. Essi furono creati a tavolino con l’intenzione di ottimizzare lo sfruttamento del territorio e garantire ad altre potenze la loro parte del bottino, e, nella mente dei loro ideatori, le popolazioni erano equiparabili agli animali che giravano per i boschi, per le savane e per le sabbie del deserto, e su cui qualunque configurazione territoriale non avrebbe avuto nessun effetto. Non si accorsero che stavano dividendo delle comunità umane consolidate con storie millenarie. La conseguenza meno attesa è stata il disconoscimento sociale delle frontiere. Nello stesso ordine di idee Bartholomäus Grill afferma: «Africa era stato il nome di una terra sconosciuta e quello dei suoi abitanti, anch’essi sconosciuti. Nemmeno loro sapevano di essere africani. Sugli atlanti dei Romani, nelle regioni oltre il Sahara, troviamo solo la nota: hic sunt leones. […] A un certo punto però da queste parti giunse l’uomo bianco e dichiarò questa terra un continente, e i suoi abitanti dalla pelle scura li chiamò africani. L’Africa fu inventata così come oggetto di conquista. In realtà forse non esiste»19. Le divisioni territoriali ideate dalle potenze coloniali, risultato di una spartizione per nulla attenta alle realtà sociali, furono tanto pubblicamente esecrate quanto rapidamente fatte proprie dalle nuove leadership africane. La crisi del Katanga – la regione congolese ricca di giacimenti minerari che, allo scoccare dell’indipendenza nel 1960, diede vita alla prima ribellione secessionista postcoloniale – mise da subito in luce l’esistenza di un comune interesse dei paesi africani a rifiutare i tentativi di modifica degli odiati confini lasciati loro in eredità dal dominio europeo. Prontamente e giustamente Immanuel Wallerstein scrisse che in questo contesto «ogni nazione africana, grande o piccola, ha il suo Katanga»20. 19 B. GRILL, Africa!, Fandango, Roma 2005, p. 15. R. EMERSON, Parties and national integration in Africa, in Political Parties and Political Development, a cura di J. LA PALOMBARA e M. WEINER, Princeton University Press, Princeton 1966, p. 271. 20 70 1.4.2. Un territorio mai controllato. Con il riconoscimento ufficiale dello status di Stato ai Paesi africani, si riconosceva la sovranità dei loro governi centrali su territori che essi non necessariamente controllavano di fatto. La consacrazione internazionale dei Paesi di nuova formazione implicava la totale delegittimazione di qualsiasi alterazione dei confini che non fosse direttamente promossa o accettata dagli Stati interessati. Ma esistono di fatto ben poche frontiere attraverso le quali, giorno dopo giorno e notte dopo notte, non transitino persone, merci ed eserciti sfidando in modo più o meno plateale la sovranità territoriale. Gli Stati non riescono adeguatamente a rispondere alle invasioni. Molti Stati hanno a lungo subito l’occupazione di eserciti stranieri. È il caso della contesa tra Libia e Ciad per la striscia di Aouzou, un’area lungo il lato ciadiano del confine ritenuta ricca di uranio e petrolio. La Libia di Muammar Gheddafi appoggiò la ribellione del Front de Libération nationale (Frolinat) di Goukouni Oueddei e del nord arabo-musulmano del Ciad contro il sud cristiano e francofono, arrivando a proporre l’unificazione dello Stato ciadiano con quello libico. Dopo una temporanea spartizione del Ciad lungo il 16° parallelo, alla fine degli anni ’80 le forze libiche che spalleggiavano Goukuni e occupavano il nord subirono una serie di pesanti sconfitte da parte di Hissein Habré, attivamente sostenuto dai francesi. Il conflitto venne così avviato verso una risoluzione con la sentenza della Corte internazionale di giustizia del 1994, con la quale la striscia di Aouzou venne definitivamente restituita al Ciad e si diede inizio al ritiro delle truppe. La fragilità dei confini viene testimoniata anche dalle ostilità dell’Ogaden nel 1977, un episodio in cui l’alterazione dei confini nazionali era evidente. L’esercito somalo tentò di approfittare di una situazione di caos interno all’Etiopia intervenendo a sostegno del Western Somali Liberation Front e occupando una parte di una regione da sempre rivendicata da Mogadiscio perché abitata da popolazioni di lingua somala. Dopo otto mesi e ingenti perdite per entrambi i belligeranti, all’inizio del 1978 la superiorità dell’esercito etiope si impose e Addis Abeba si riappropriò della provincia contesa21. L’esempio attuale più lampante della fragilità dei confini è dato dalla guerra in coso attualmente nella Repubblica Democratica del Congo: 3/5 del suo territorio sono occupati da truppe straniere. 21 Cfr. G. CALCHI NOVATI, Il Corno d’Africa nella storia e nella politica. Etiopia, Somalia, Eritrea tra nazionalismi, sottosviluppo e guerra, Sei, Torino 1994, p. 140. 71 1.4.3. Un territorio ridefinito da interessi economici: le multinazionali e le IFI. Privati della possibilità di costruirsi un ampio sostegno attraverso distribuzioni clientelari, diversi capi di Stato hanno optato, a partire dalla fine degli anni ’80, per la costruzione di alleanze politico-economiche informali e private, in larga misura esterne alle strutture burocratiche statali. L’Angola e la Liberia hanno chiesto l’intervento dei mercenari sudafricani della società Executive Outcomes per proteggere il regime da ribelli e warlords che, a loro volta, potevano contare su propri network politicoeconomici transfrontalieri. Nemmeno l’intrusione delle istituzioni finanziarie internazionali sembra disinteressata. È come se volessero smantellare la potenza dello Stato africano per aprire le sue frontiere al commercio mondiale, per facilitare il drenaggio dei capitali privati e il monopolio sul commercio. Per fare ciò sono disposte anche a indebolire i confini dello Stato, utilizzando lo strumento della corruzione alle frontiere e sviluppando scambi informali. Nei rapporti di forza con questi nuovi attori, lo Stato ha solo due alternative: o partecipa al gioco accettando la logica dell’aiuto (perdita della sovranità in tutti i sensi) o non accetta di partecipare, aprendosi così a operazioni di razzia delle proprie risorse. Molti confini di Stati sono stati indeboliti dalle multinazionali tramite il loro finanziamento di forze estere di occupazione. I casi della Sierra Leone, della Repubblica Democratica del Congo e della Costa d’Avorio ne sono la prova. Le frontiere vengono spesso indebolite per aver accesso alle risorse di un Paese a costi contenuti rispetto a quelli delle vie legali. La libera circolazione delle multinazionali, addirittura sollecitata da governi economicamente in fin di vita, è talmente libera che sono loro a disegnare i veri confini dei territori nazionali. In diversi paesi africani, la capacità dei ribelli di impadronirsi di determinate risorse e immetterle illegalmente nei mercati internazionali dipende da alcune caratteristiche che tali risorse devono possedere, caratteristiche di volta in volta dettate da finanziatori esteri di varia natura, multinazionali comprese. La prova dell’indebolimento delle frontiere non sta solo nella possibilità di occupare un territorio per sfruttarlo, ma anche nella grande e facile trasferibilità dei conflict goods22. La stabilizzazione di questi confini, ridisegnati di continuo, viene resa dal fatto che tutti coloro che sono coinvolti nelle cosiddette guerre economiche (cui partecipano le multinazionali), non hanno da guadagnare da un ritorno alla pace. La pace, teoricamente, impedireb22 Cfr. G. CARBONE, L’Africa, cit., p. 138. 72 be e delegittimerebbe quegli abusi e quelle illegalità che invece, sotto la copertura della guerra, possono essere ampiamente e impunemente sfruttati per iniziative economicamente remunerative. In tal senso, «chiedere a un leader ribelle o alle multinazionali di accettare la pace è come chiedere a un campione di nuoto di svuotare la piscina».23 2. Lo Stato di cui l’Africa ha bisogno Pochi sono gli analisti che pongono la domanda di un nuovo modello di Stato, ispirato alle tradizioni africane. Eppure questa è la conditio sine qua non per fare uscire lo Stato africano dalla sua crisi ontologica. Senza questo rinnovamento, non ci sarà sul continente né Stato di diritto, né sviluppo durevole.24 Lo Stato che serve all’Africa dovrebbe essere, a nostro avviso, allo stesso tempo multinazionale, federale, indigenizzato ed aperto all’Africa e al mondo. 2.1. Uno Stato multinazionale e di federalismo integrale 2.1.1. Lo Stato multinazionale. È necessario un ricorso allo Stato multinazionale, che preesisteva alla colonizzazione e che continua a sopravivere anche se in maniera informale. In esso, all’opposto dello Stato-nazione che ha il monopolio della produzione del diritto, c’erano spazi autonomi di produzione del diritto: lo spazio statale (luogo di produzione del diritto generale) e lo spazio nazionale o etnico (luogo di produzione del diritto particolare). In questo Stato multinazionale, i diritti delle minoranze non erano opponibili ai diritti della maggioranza perché l’atto di rifondazione del «patto repubblicano» conteneva l’obbligazione per le diverse nazioni dello Stato di rispettare i principi di uguaglianza e del diritto alla differenza per realizzare un destino comune. In controparte, queste nazioni automaticamente godevano degli stessi diritti e doveri, in particolare di quello di parlare la propria lingua, di praticare la propria religione e cultura. 23 P. COLLIER, Civil Wars. The Global Menace of Local Strife, in «The Economist», 22 maggio 2003. 24 Cfr. T. MWAYILA, L’Afrique face au défi de l’Etat multinational, cit., pp. 14-15. 73 2.1.2. Un federalismo integrale. Lo Stato multinazionale aveva bisogno di una specie di federalismo integrale che distribuiva il potere secondo la logica di una triplice federazione di nazioni, di cittadini e di territori. La funzionalità di questo sistema riposava sull’idea secondo la quale lo Stato è un apparato composto da molte nazioni sparse su molteplici territori. In questo senso, il potere veniva attribuito innanzitutto in funzione della nazione e dei cittadini, poi in funzione dei territori. Il punto forte del federalismo integrale è la trasformazione delle collettività infrastatali in spazi politici di cogestione. Questo permette di recuperare i centri di legittimità politica, la formazione di una vera rappresentanza e una garanzia per una maggior propensione alla partecipazione alla cosa pubblica. Tutto ciò richiede il superamento del concetto europeo di territorio e l’investimento nel concetto africano di spazio pensato come ambito vitale, flusso di scambi e luoghi di memorie che legano gli esseri umani alla loro terra e al loro ambiente. In molti casi, non c’è una correlazione tra spazio politico e spazio culturale. È proprio per questo che c’è bisogno di un nuovo patto sociale che possa consacrare il principio di multinazionalità di cui il federalismo integrale è una base necessaria. Il principio di multinazionalità include due altri principi: da un lato quello della doppia rappresentanza delle nazioni e dei cittadini in quanto entità distinte; dall’altro quello della divisibilità della sovranità. Concretamente, questo potrebbe richiedere che tutte le popolazioni ai confini abbiano una doppia cittadinanza in virtù della doppia rappresentanza delle nazioni, divise ormai da confini che non è il caso rivedere in un secolo in cui tutti tendono a toglierli per lodevoli ragioni. Dalla doppia cittadinanza, espressione della doppia rappresentatività, si capisce anche il principio delle divisibilità della sovranità che rende trans-statale la sovranità che appartiene al popolo, ai popoli. Questo rinnovamento non rimette in discussione le frontiere interne ed esterne dello Stato, ma risana profondamente la «balcanizzazione» delle nazioni operata dalla Conferenza di Berlino. A differenza dello Stato nazione, lo Stato multinazionale non si appropria dei cittadini: «la costituzione di uno Stato multinazionale non ha solo l’obiettivo di dare uno statuto al potere e al cittadino. Essa offre sopratutto uno statuto politico e giuridico alle nazioni sociologiche per fondare il loro diritto inalienabile alla legittimazione dello Stato e all’esercizio 74 del potere. Questo crea una compatibilità tra lo Stato e le logiche sociali delle società africane»25. 2.2. Uno Stato «indigenizzato» 2.2.1. Indigenizzazione dello Stato, quid? Non ci sarà democrazia e quindi Stato di diritto sul continente, finché non ci sarà una scelta popolare dello Stato. C’è bisogno di una indigenizzazione dello Stato26. Indigenizzare lo Stato significa tener conto delle sensibilità e delle preoccupazioni quotidiane della dimensione africana della società, nella sua elaborazione delle risposte ai problemi che si pongono. 2.2.2. Implicazioni pratiche dell’indigenizzazione dello Stato. L’indigenizzazione dello Stato è l’applicazione del principio di sussidiarietà a una strategia di rifondazione di uno Stato. Quest’ultimo interverrà sono negli ambiti per i quali l’interesse generale e il servizio pubblico sono effettivamente invocati come luoghi dell’interesse generale. Per i casi d’interesse particolare, personale o privato, bisogna inventare altre forme di istituzionalizzazione, valorizzarle e renderle ufficiali27. In altre parole lo Stato multinazionale e indigenizzato cercherà di stabilire un meccanismo in base al quale le decisioni siano prese il più vicino possibile al cittadino tramite i centri socialmente legittimi recuperati, ma anche mirerà a una collaborazione tra le realtà periferiche basata sul principio per cui interviene sul problema chi meglio può risolverlo. 2.3. Uno Stato nello spazio continentale e mondiale 2.3.1. La necessità dell’apertura. La modernità africana non deve dimenticare di promuovere un’apertura ai valori continentali e mondiali di cui non può fare a meno. Accanto alle proposte di Stati alternativi di cui sopra, ci vorrebbe quindi non solo una valorizzazione della dimensione panafricana dello Stato, per far sì che l’Africa non solo cessi di offrire lo spettacolo desolante di un continente ricco ma abitato dalle popolazioni più povere del mondo, ma anche una progressivo inserimento nel sistema glo25 Ibid. Cfr. J.E. PONDI, Une approche pluridimensionelle e tri-continentale pour repenser l’Etat en Afrique, Institut des relations Internationales- Camerun. 27 Cfr. E. LE ROY, L’Odyssée de l’Etat en Afrique, in «Politiques Africaines, besoin d’Etat», 61, marzo 1996, p. 10. 26 75 bale. La continentalizzazione richiede che i dirigenti africani al potere siano disposti a sacrificare i loro interessi personali e ad accettare la divisibilità della sovranità e la fluidità dei confini territoriali che devono essere visti come spazi vitali. E in questo, il ricorso allo Stato multinazionale, federale e indigenizzato potrebbe costituire una base di partenza solida. 2.3.2. Governance e decentralizzazione. Qualcuno si potrebbe opporre a questo modello di organizzazione sostenendo che governance e decentralizzazione non possono andare insieme. In realtà, governance e decentralizzazione non sono metodi concorrenti, come pensano alcune politiche della cooperazione presentate dall’aiuto internazionale, ma complementari; la prima dà il primato al governo degli uomini mentre la seconda determina il dispositivo adeguato per assicurare la partecipazione delle popolazioni alla gestione delle loro istituzioni. La decentralizzazione è così una delle condizioni della buona governance. In Africa governance e decentralizzazione soffrono di un deficit di legittimazione. Uno dei modelli di legittimazione è la congruenza tra i processi decisionali delle istanze già riconosciute localmente come legittime e i processi deliberativi del sistema-Stato. Lo Stato multinazionale, federale e indigenizzato risulta così un’esigenza per l’organizzazione dello spazio politico africano. 3. Conclusioni L’Africa che vuole sollevarsi non ha più bisogno di soli slogan unitaristi, ma della riabilitazione di centri nazionali di rappresentanza politica, che contribuirà alla definitiva scomparsa di un buon numero di soluzioni cosmetiche ai problemi del continente. L’Unione Africana, per esistere davvero, ha bisogno di uno Stato multinazionale, federale, indigenizzato e aperto al continente a al mondo: uno Stato veramente africano, possibile e capace di mettersi insieme ad altri in programmi di integrazione politica o economica. Accanto a questo aggiustamento organizzativo della società bisogna trovare il modo e i mezzi attraverso i quali multinazionali, capi di Stato signori della guerra – implicati nei tentativi di destabilizzazione – possano essere sottoposti a giudizio davanti alla Corte penale internazionale. Per riuscirci, servirebbe un corpo giudiziario internazionale specializzato nella tracciabilità dei movimenti di capitali che finanziano le ribel76 lioni e i colpi di Stato. Questo permetterebbe di smantellare quei gruppi che non vogliono veder compromessi i loro interessi dalla costruzione di uno Stato africano. Il mondo d’oggi è interconnesso: la realizzazione di questi modelli richiede quindi la collaborazione di tutte le nazioni del mondo. Altrimenti si darà ragione a chi sostiene che l’invocazione ritualista dello Stato di diritto comincia a diventare sospetta quando non si cerca di sapere, al di là dei criteri formali dello Stato di diritto, quale è l’ordine sociale e politico che si intende promuovere. La stessa invocazione potrebbe essere un mero strumento di fascino (soft power) per le potenze che promuovono lo Stato di diritto ma che hanno interesse a che non si radichi per mantenere la propria posizione di potere. Ciò richiede sicuramente un’obbligazione morale di solidarietà, che dovrebbe trovare come stimolo elementare la disumanizzazione delle persone che si trovano in quegli Stati produttori di miseria e sui quali si sono abbattute catastrofi naturali e malattie di difficile guarigione. 77