senza destino - Amici del Cabiria
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senza destino - Amici del Cabiria
SENZA DESTINO Sito: http://www.fateless.co.uk/ Anno: 2005 Titolo Originale: SORSTALANSAG Altri titoli: SENZA DESTINO - FATELESS Durata: 133 Origine UNGHERIA Genere: DRAMMATICO Formato: 35 MM, PANAVISION Tratto da: ROMANZO AUTOBIOGRAFICO "ESSERE SENZA DESTINO" (1975) DI IMRE KERTESZ (ED. FELTRINELLI) Produzione: ANDRAS HAMORI PRODUCTION, HUNGARIAN MOTION PICTURES, EUROARTS MEDIEN, MAGIC MEDIA INC., RENEGADE FILMS, HUNGARIAN TELEVISION, MITTELDEUTSCHER RUNDFUNK, MEDUSA FILM Distribuzione: MEDUSA (2006) Data uscita: 27-01-2006 Regia: Lajos Koltai Attori: Marcell Nagy Gyuri Koves Aron Dimeny Bandi Citrom Andras M. Kecskes Finn Jozsef Gyabronka L'Uomo Sfortunato Endre Harkanyi Vecchio Kollmann ZsoltDer Rozi Dani Szabo' Moskovich Tibor Mertz Fodor Peter Vida Lenart Zoltan Bukovszki Zoli Gabor Nyiri Hedge Jeno Nagy Jeno Bence Bihari Bence Patrik Holzmuller Patrik Jakab Pilaszanovich Jakab Attila Magyar Gyulai Judith Schell Matrigna Gabor Mate' Miklos Zoltan Bezeredy Istvan Meszaros Jozsef Kelemen Szabo' Gyorgy Bosze Goz Geza Schramek Boda Istvan Uri Csarnai Gyorgy Barko' Sig. Fleischmann Peter Haumann Zio Lajos Gergely Kocsis Denes Bernath Szegedi Lajos Kulcsar Miklos Benedek Zio Vili Kati Lazar Sig.Ra Fleischmann Sara Herrer Annamaria Szabolcs Thuroczy Soldato Ss Pal Oberfrank Dottore Ungherese Tamas Dunai Dottore Francese Sandor Zsoter Ufficiale Ss Soggetto: Imre Kertesz 1 Sceneggiatura: Imre Kertesz Fotografia: Gyula Pados Musiche: Ennio Morricone Montaggio: Hajnal Sello Scenografia: Tibor Lazar Costumi: Gyorgyi Szakacs Effetti: Ferenc Ormos - Gabor Kiszelly - Buda Gulyas - Sven Martin - Matthias Wittmann - Multifilm Special Effects Ltd. Trama: Racconto doloroso e dettagliato dell'esistenza in un campo di concentramento attraverso lo sguardo di Gyuri, un giovane ebreo ungherese. Dopo la deportazione del padre in quelli che sono creduti semplicemente campi di lavoro, anche Gyuri viene rastrellato sull'autobus che lo sta portando a scuola. Dopo un periodo passato ad Auschwitz, viene poi spostato a Buchenwald, dove viene perseguitato da un kapò ungherese e dove inizia la sua routine di fatica, dolore, sottomissione e degrado: perde i lunghi riccioli neri, dimagrisce progressivamente, spala sassi, trasporta sacchi pesantissimi, si lava di rado, contrae la scabbia, gli va in cancrena un ginocchio, è costretto a dormire vicino ai moribondi e a passare intere giornate in piedi, al freddo o sotto la pioggia. Eppure non "perde se stesso" - come dirà una volta uscito dal lager, prelevato per miracolo da una fossa comune dalle truppe alleate - né il contatto con la realtà. Una realtà fatta anche di piccole e necessarie astuzie per sopravvivere e di momenti che senza imbarazzo definisce "piacevoli"... Critica: "Un ragazzino di buona famiglia che non sa niente della vita la scopre nel posto più lontano dalla vita che si possa immaginare: un lager nazista. E' il soggetto solo apparentemente paradossale di questo film tratto dal romanzo autobiografico del premio Nobel ungherese Imre Kertész. 'Tutti mi chiedono soltanto dell'orrore', dice il giovanissimo György quando torna a Budapest miracolosamente scampato alla morte, 'ma è della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlare'. Nel film naturalmente questa felicità non c'è, non si vede, ma la si intuisce nei vuoti che il grande cineoperatore Lajos Koltaj, qui regista, lascia sapientemente fra le immagini studiatissime di un film fatto non solo di momenti forti ma di sguardi, silenzi, interstizi. (...) E' un modo del tutto diverso di affrontare la questione Shoah (lo stesso Kertész, che preferisce di gran lunga 'La vita è bella' al troppo fittizio 'Schindler's List', ha esitato a lungo prima di adattare il suo romanzo per lo schermo). Peccato che la musica di Morricone, così sentimentale, sia per una volta del tutto inadeguata. Ma il film è una vera sorpresa. Un viaggio al termine della notte che si chiude su una luce fioca e insieme penetrante. Per chi sappia e voglia vederla, naturalmente." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 26 gennaio 2006) "Dal romanzo dell'ungherese Imre Kertész, premio Nobel che ha dedicato la vita alla Shoah, diretto dal candidato all'Oscar Lajos Koltai, direttore di fotografia di Szabò e Tornatore, musicato con ardore da Morricone, interpretato da un giovane, Marcell Nagy, trovato sulla via Paal televisiva, il film è una testimonianza sugli orrori dell'Olocausto. Oleografico perché non sempre arriva nel fondo dell'angoscia ma si ferma alla sua rappresentazione, è diverso: la vittima, nonostante gli orrori, sopravvive e cerca di ricordare il "positivo" di quella mostruosità. È sempre utile ricordare, ci vorrebbe, di questi tempi, non un giorno, ma un anno di molte Memorie." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 27 gennaio 2006) È bene che Senza destino esca nelle sale proprio oggi, giorno della memoria consacrato alla tragedia dell'Olocausto. Se ricordare è essenziale, ancor meglio è farlo nel modo antiretorico di questo bel film d'esordio basato sul romanzo autobiografico (pubblicato da Feltrinelli con il titolo «Essere senza destino») di Imre Kertész (classe 1929), un primo Levi ungherese, premio Nobel per la letteratura. Dove si rievoca l'odissea di Gyurka, quattordicenne ebreo di Budapest che nell'estate del '44 viene richiamato nei campi di lavoro, di lì è mandato a Auschwitz e infine nel più provinciale lager di Zeits, presso Buchenwald. Più che un racconto, il libro è una cronaca impressionistica fatta in prima persona dal protagonista adolescente, che inizia la tremenda avventura con il misto di leggerezza e inconsapevolezza tipico dell'età; e poi, ritrovandosi quasi senza accorgersene rapato e con la divisa a strisce, finisce per adeguarsi «da bravo detenuto» alla spaventosa quotidianità dell'universo concentrazionario. Mai patetico, sulla pagina il lucido soliloquio sfocia in momenti di agghiacciante ironia kafkiana: vedi il commento è «naturale» con cui Gyurka punteggia l'accettazione di ogni orrore, fame, sete, freddo, malattia, crudeltà gratuite, ordini insensati e morte. Nel tradurre sullo schermo il testo straordinario, il neo-regista Lajos Koltai, ottimo direttore di fotografia con cineasti quali Tornatore e Szabo, non ha potuto rispecchiare per ovvi motivi il flusso di coscienza. Nel suo bellissimo bianco e nero seppiato l'immagine ha un'imprescindibile oggettività, nel volto sempre più emaciato del ragazzino Marcell Nagyi (giovanissimo, meraviglioso interprete in un cast tutto perfetto) si riflettono il trauma e la sofferenza fisica e morale e la struggente musica di Ennio Morricone sta lì per sottolineare i momenti di tensione. E tuttavia, nella sua qualità estetica mai estetizzante, il film si mantiene fedele allo spirito di Gyurka/Kertesz, un sopravvissuto che dice: «Sono morto una volta e quindi posso vivere. Forse questa è la mia vera storia». (Alessandra Levantesi, La Stampa - 27/01/2006) L’Olocausto. Ricordato di nuovo con l’adesione piena e convinta di ogni coscienza civile. L’impresa meritoria se l’è assunta oggi il Premio Nobel ungherese Imre Kertész che ha sceneggiato per il cinema un suo libro, «Essere senza destino», 2 pubblicato in Italia da Feltrinelli, in cui aveva rievocato la sua terribile esperienza, a soli quattordici anni, nel Lager di Buchenwald. La regia è di un altro ungherese famoso Laios Koltai, celebrato fino ad oggi come direttore della fotografia non solo in 14 film del suo grande connazionale István Szabó, ma anche in due del nostro Giuseppe Tornatore, Malèna e La leggenda del pianista sull’oceano. La vicenda Kertész l’ha divisa in tre parti. La prima, ancora a Budapest, con il giovane protagonista, chiamato Gyuri nel libro, che già con la stella gialla sul petto, assiste alla partenza obbligata del padre verso un cosiddetto campo di lavoro che sarà invece Matthausen, dove morirà. Vedendosi presto avviato anche lui verso un campo che, dopo varie peripezie, lo farà appunto arrivare a Buchenwald. La seconda parte è tutta sulla vita, anzi, sulla «non vita», a Buchenwald: la fame, le percosse, le umiliazioni, l’ombra della morte sempre imminente, una malattia che, dopo, un intervento a un ginocchio e un ricovero, rappresenterà quasi una pausa, sia pur precaria, all’orrore. Con la terza, ma senza clangori, si dice dell’arrivo degli americani, della chiusura del Lager di un ritorno a casa dove però il giovane protagonista non troverà né comprensione né addirittura, credibilità. Quasi quella follia della storia in cui era stato coinvolto se la fosse soprattutto immaginata... Per le tre parti, Koltai, che la direzione della fotografia l’ha ceduta a un collega giovane, quel Gyula Pados, apprezzato da noi di recente anche per un altro film ungherese, «Kontrol», ha affrontato tre stili diversi: nella prima, con una dominante color ocra; nella seconda, quasi solo in bianco e nero, nella terza, di nuovo l’ocra. Puntualizzando il racconto, in linea con la sceneggiatura di Kertész, con una serie di quadri, o «stazioni», collegate dal filo conduttore dell’angoscia, sempre però in sottotono, sia a confronto con l’atroce, sia al momento della liberazione, sia, da ultimo, in quella della delusione. Mentre un altro grande del cinema, il nostro Ennio MOrricone, sottolinea quell’angoscia con le note di una quasi biblica «lamentazione», tanto più sommessa quanto più lacerante. Il protagonista è un ragazzetto, Marcell Nagy, già visto qui da noi nel televisivo «I ragazzi della via Pal». I suoi occhi pieni di ombre sembrano citare anche Primo Levi: quando si chiedeva «Se questo è un uomo». (Gian Luigi Rondi, il Tempo - 30/01/2006) Quando le storie del cinema si stendono su una barella per infermità. Nel giorno in cui la Berlinale giunge a metà del suo percorso, sono molte le pellicole che cascano sullo schermo appoggiando il proprio baricentro narrativo su una malattia. Non una patologia predefinita, ma qualcosa di più liquido che, scivolando fra le griglie narrative di singole storie, viene catturato da contenitori diversi. Qualcosa di multiforme dove il disturbo prende varie forme, oscilla tra intensità e gravità fra loro differenti, allargando la raggiera delle sue declinazioni. Questa volta non sembra esserci preclusione di campo, la malattia che pare veicolarsi all'interno dei film di Berlino può essere fisica come mentale, storica come sociale, strettamente individuale quanto capace di sbrecciare respiri più universali. Insomma, se le storie captate nelle proiezioni berlinesi rappresentano in qualche modo una tendenza, mai come in questi casi la malattia sembra diventare quel potente prisma visivo attraverso cui osservare i guasti del mondo e della natura umana. Un guardare, quindi, che non porta necessariamente a una guarigione, ma che diventa già di per sé un interpretare, assorbendo tutto il valore metaforico che ogni malessere specifico porta con sé. Non a caso, percorrendo strade centrali o aggrappandosi a vie traverse, passano da questa serratura le vicende raccontate nei tre film in concorso di ieri (Fateless di Lajos Koltai, Gespenster di Christian Petzold, Kakushi Ken di Yoji Yamada) a cui si aggiunge, nella sezione Panorama, The ballad of Jack & Rose diretto da Rebecca Miller. Un cinema, quindi, che somatizza, che risucchia la sporcizia del presente e del passato e la restituisce sui pannelli cinematografici sotto forma di disturbi, morbi, indisposizioni o patologie. Un cinema che annusa i punti di crisi, assorbe gli sconquassi dei cambi epocali e accompagna vere e proprie discese all'inferno. Di conseguenza, ecco comparire sullo schermo magrezze scolpite da campi di concentramento, corpi rattrappiti, ematomi a macerare brandelli di pelle, e poi manie psicologiche, tossi asmatiche, boccette di pillole e letti abbandonati in stanze al freddo. Era già successo nei giorni scorsi, quando la malattia s'incagliava nel pollice succhiato compulsivamente da un adolescente (Thumbsucker), o si trasferiva nei labirinti mentali e distruttivi di uno scultore rinchiuso in una clinica di cura (Asylum), o ancora scontornava il piedistallo di una sofferta celebrazione con il Mitterrand di Guédiguian che, pur a denti serrati, arrivava a dire: la malattia che porta alla morte è un'opera d'arte, un ultimo atto individualista che mette fine a ogni tipo di individualismo. Malattie di ogni tipo, a partire da quella più macroscopica e devastante, un male dell’umanità, rappresentata dalla degenerazione a cui è stato sottoposto il popolo ebraico nei lager nazisti. S'immerge in questo tappeto di fango il film Fateless, tratto dal romanzo del premio Nobel Imre Kertész, che vede passare per la prima volta alla regia un mostro sacro della fotografia come Lajos Koltai. L'odissea livida e degradante di un ragazzo ungherese di 15 anni che, deportato a Buchenwald, scende giorno dopo giorno nel burrone di un'alienazione fisica e psicologica. E mentre la pellicola si fa quasi monocroma nei colori terrosi, sostando su corpi deformati e imputriditi come il ginocchio del giovane protagonista, la vita nel lazzaretto delle baracche accoglie il rimbombo tragico dell'evento, pur rinunciando volutamente a mostrare i carnefici che rimangono per quasi tutto il film fuori campo. È invece una malattia molto più trattenuta quella che, riportandosi al presente e a una dimensione decisamente privata, si aggira come uno spettro nella testa di una donna nel film tedesco Gespenster. Il trauma non riassorbito di una madre, a cui è stata rapita la figlia più di dieci anni prima. Da allora si ostina a «rivederla» in tutte le ragazzine che incontra per strada. Uno scoraggiamento che ha un sobbalzo improvviso quando arriva sulle tracce di un'adolescente sbandata che non solo ricorda la figlia nei tratti del viso, ma che addirittura porta sul corpo le stesse cicatrici. Inseguendo situazioni di vita da strada e svaporando in un finale che rimane ambiguo, il film di Petzold, senza grandi pretese, si mantiene scabro nell'onestà narrativa con cui distribuisce i sintomi della malattia nei suoi 85 minuti. E anche l'universo samurai ottocentesco da cui prende le mosse il film Kakushi Ken del giapponese Yoji Yamada incoccia nei suoi primi sviluppi drammatici la malattia di una giovane donna che qualche tempo dopo essersi sposata con un rappresentante di un'altra casta viene riscattata di forza da Munezo, suo ex-padrone, quando questi la ritrova, nella casa del 3 marito, confinata in un angolo deperita e depressa al punto da spegnersi come una candela. Lo «scippo» ravviverà la ragazza, portando una ventata di felicità nella casa di Munezo, senza per questo metter fine ai duelli che di lì a poco si faranno sempre più esacerbati. In un mondo che sembra decretare la decadenza della casta guerriera degli shogun e dei samurai, alle prese con i corsi di aggiornamento per imparare le tecniche dell'artiglieria moderna, è un'irrequietezza capillare quella che attraversa come una lama il film di Yamada, assestato per il resto ai canoni standard del genere. Spunti di malattie personali che simbolicamente vanno a porre il sigillo di chiusura a un periodo storico anche quelli che racconta Rebecca Miller (figlia dello scrittore Arthur appena scomparso) con il protagonista del suo film The ballad of Jack & Rose. Anche se la stagione hippy sembra ormai relegata nei cassetti della memoria, Jack (Daniel Day-Lewis) rimane fedele ai suoi principi e vive ancora nella comunità che lui stesso ha fondato su un'isola dell'est americano. Dispersi ai quattro venti i vecchi membri, a Jack rimane solo la figlia, Rose, preservata dagli influssi esterni ma ormai pronta a un salto di maturazione. Gli equilibri già precari vengono spazzati via quando Jack si ammala. Salendo il sentiero di un calvario romantico, il film ci accompagna fino all'ultimo respiro di un protagonista che preferisce rimanere ancorato alla sua casa e morire senza arrendersi al futuro. Nel grande falò con cui Rose brucia tutto non c'è soltanto la fine della malattia di suo padre, ma anche l'epilogo di un'epoca ormai finita in cancrena. (Lorenzo Buccella, L'Unità - 20/02/2005) Per moltissimi anni Imre Kertész, lo scrittore ungherese premiato con il Nobel per la letteratura, si era rifiutato di cedere i diritti di trasposizione del suo romanzo più famoso: Essere senza destino. Non si trattava solo di attaccamento a una propria creatura. Quel romanzo scaturiva dalle viscere, era il racconto autobiografico della sua storia. La storia di un giovane ragazzino di Budapest, quindicenne, ebreo che vede deportare nei campi di lavoro, che poi diventano di sterminio, molti dei suoi parenti. Infine tocca anche a lui. Prelevato su un autobus finisce a Auschwitz, infine a Buchenwald. La sua testa riccioluta viene rasata, il suo corpo subisce il degrado legato alle terribili condizioni di vita. Un ginocchio gli si infetta. Contrae la scabbia. Subisce le angherie di un kapò ungherese. Eppure Gyuri, questo il nome del protagonista sopravvive. Mantiene la sua lucidità. Cerca di agire con furbizia in una situazione disperante. E viene premiato. Lo trovano ancora vivo tra una montagna di cadaveri. Ritorna a Budapest, la sua città, dove tutti lo invitano a dimenticare l'orrore. Ma lui non ha alcuna intenzione di farlo, indossa ancora la divisa a strisce che è stato il suo abbigliamento nell'inferno dei campi di sterminio. Soprattutto, quel che suona scandaloso, è che cerca ricordi piacevoli in quel che gli è capitato. Sono questi i motivi che per anni hanno impedito alla storia di diventare film. Sino a quando non è stato Lajos Koltai, regista esordiente, ma direttore della fotografia consacrato a livello internazionale (Szabo, Tornatore), che ha raccolto la sfida e convinto Kertész a lasciargli realizzare il progetto. Anche se inizialmente Koltai voleva incontrare Kertész solo per dirgli quanto gli fosse piaciuto il romanzo. E per capire il senso dell'operazione bisogna tornare al 2002, al discorso di ringraziamento per il Nobel di Kertész. In quell'occasione ha detto: «l'unica cosa sulla quale dobbiamo riflettere è che cosa fare in futuro. Il problema Auschwitz non è tanto quello di metterci una pietra sopra, di conservare la sua memoria o di relegarlo nei meandri della storia; di costruire un monumento per commemorare i milioni di morti o cose simili. Il vero problema di Auschwitz è il fatto stesso che sia successo, che sia esistito e questo è un fatto che non può essere in alcun modo modificato, neanche con la migliore o peggiore volontà del mondo». Con il titolo Senza destino, il film che ha per protagonista Marcell Nagy, esce in Italia proprio in occasione della Giornata della memoria. Così come esce in questo stesso giorno Volevo solo vivere, il film testimonianza che Mimmo Calopresti ha realizzato in collaborazione con la Shoah Foundation di Steven Spielberg. A Milano Volevo solo vivere verrà invece presentato lunedì prossimo. Una scelta precisa. Era il 30 gennaio 1944 quando partì dalla stazione Centrale il treno diretto a Auschwitz con il suo carico di ebrei milanesi, rapiti tra l'indifferenza dei concittadini. E proprio in una sala della stazione Centrale, sarà proiettato il 30. (Antonello Catacchio, Il Manifesto - 30/01/2006) Film puro e semplice, sobrio e profondo, privo di enfasi e di patetismi, Fateless - Senza destino, primo film diretto da Lajos Koltai, racconta di un ragazzino quattordicenne ungherese ebreo deportato nel 1944 ad Auschwitz.. ragazzino (che ha la faccia smunta, struggente e bellissima di Marcell Nagy) cerca di salvarsi dall’atrocità con l’obbedienza agli ordini e il rispetto delle regole dementi del lager; con la forza fisica e la leggerezza dell’età. Però quando, scampato alla morte, si ritrova a camminare per le vie di Budapest, è un’altra persona: il ragazzo obbediente all’orrore si è trasformato in un vecchio quindicenne, sfiduciato e senza futuro. La storia è tratta dal romanzo autobiografico (pubblicato in Italia da Feltrinelli con il titolo “Essere senza destino”) dello scrittore ungherese lmre Kertész, 77 anni, premio Nobel per la letteratura nel 2002. Ricevendo quel premio. Kertész disse sull’Olocausto qualcosa di particolare: «Il problema di Auschwitz non è tanto quello di metterci una pietra sopra, di conservarne la memoria o di relegano nei meandri della Storia, di costruire un monumento per commemorare i milioni di morti. Il vero problema di Auschwitz è il fatto stesso che sia successo, che sia esistito, e questo è un fatto che non può essere in alcun modo modificato». Il pensiero e la lettura appassionata del libro hanno avuto molta influenza su Lajos Koltai. Koltai è un ammiratissimo direttore della fotografia: ha lavorato con il gran regista ungherese Istvan Szabo per 14 film (Mephisto, Colonnello Redl, Diva Julia) e con Giuseppe Tornatore per Malena e La leggenda del pianista sull’Oceano. Il libro di Kertész lo ha indotto a diventare per la prima volta regista., ad affrontare le difficoltà di una storia simile. Ha ricostruito il lager (ne esistono soltanto testimonianze visive fotografiche), ha scelto un cast ammirevole, ha girato in un perfetto bianco e nero seppiato, ha voluto la musica di Morricone: senza tentare di far piangere, ma di far pensare. (Lietta Tornabuoni, L'Espresso - 07/02/2006) 4 In Ungheria, dal 1939 al 1944, le leggi razziali hitleriane limitano progressivamente le libertà dei cittadini ebrei, fino alla deportazione nei campi di concentramento. A Budapest il ragazzino Gyuri assiste prima alla partenza del padre e dopo poco gli tocca la stessa sorte. Con la differenza che Gyuri tornerà a casa. Tratto dal libro del premio Nobel ungherese lmre Kertész Essere senza destino (Adelphi), un film che rinnova la questione della rappresentabilità dell’orrore della Shoah, che va dal carrello di Kapò alle divise scintillanti dei nazisti e al cappottino rosso della bambina di Schindler’s List. Firmato dal direttore della fotografia Lajos Koltai (premio Oscar per Mephisto di lstvàn Szabò, e candidato per Malena di Giuseppe Tornatore), possiede ovviamente una qualità formale apprezzabile che può distogliere da quello che nei cineforum si chiamava “contenuto” (complice anche lo score magniloquente di Morricone). Nella successione degli episodi di quotidianità nel lager, che ormai sono stilemi di un genere a parte, spicca un’immagine, ricercata forse, ma simbolica: all’aperto e al freddo del lager, i corpi scheletriti dei resistenti vacillano, si piegano, barcollano, ma non accettano di crollare. Sintesi di una resistenza universale, ribadisce una dignità umana che prescinde dal fatto storico dell’Olocausto. Oltre al dovere della memoria, si racconta il naturale distacco di chi ritorna, e la capacità di godere del raggio di sole che cade dove ogni Dio è morto. Davanti alla quale, forse, vale la pena non di accantonare, ma di riconsiderare le discussioni estetiche. (Raffaella Giancristofaro, Film Tv - 09/02/2006) "Il film di Lajos Koltai (debuttante come regista, già direttore della fotografia di grande livello: per esempio di Tornatore per 'La leggenda del pianista sull'Oceano') sceglie uno sguardo giustamente attonito, impassibile perché le cose, i volti, le situazioni parlano da soli, per trasferire sullo schermo l'autobiografica odissea di Gyuri: tra i rituali familiari anteguerra di un tradizionalismo ebraico indifeso e inconsapevole, quelli della quotidiana sopravvivenza nel lager, e l'infastidita indifferenza che il ragazzo con la divisa a strisce e il marchio sulla pelle trova tornando a casa." (Paolo D'Agostini, 'la Repubblica', 27 gennaio 2006) "'Senza destino' ('Fateless'), in concorso un anno fa a Berlino, ritorna sul tema dell'Olocausto in coincidenza con le celebrazioni della Giornata della memoria. Purtroppo, preso da un punto di vista specifico, il film è solo un'ennesima illustrazione enfatizzata dalle musiche di Morricone e funestata da una regia senza scatti degni di nota. Stabilendo che la nobiltà del tema procuri a prescindere un salvacondotto d'autore, ci sarebbe poco da disquisire: ma siccome esistono decine e decine di precedenti - tra cui 'Schindler's List' e il recente 'Il pianista' - era lecito attendersi una visione meno stereotipata, prevedibile e pretenziosa. Fotocopiata dal romanzo autobiografico del premio Nobel Imre Kertész ('Essere senza destino', Feltrinelli ed.), la superproduzione europea si è affidata a Lajos Koltai che, peraltro, non fa molto per dimostrarsi degno della promozione ossia maturato rispetto all'onorata carriera di direttore della fotografia." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 28 gennaio 2006) Il romanzo d’esordio del premio Nobel 2002 Imre Kertesz, primo di una produzione che rielabora e ripercorre l’Olocausto, diventa un film sceneggiato dallo stesso scrittore, prima regia per l’apprezzato direttore della fotografia di Istvan Szabo e di Giuseppe Tornatore, candidato all’Oscar per Malena. Senza destino è incentrato sull’anno cruciale nella vita del 14enne Gyuri, come di milioni di ebrei europei. Nell’estate del 1944 i nazisti, a pochi mesi dall’invasione dell’Ungheria, iniziano le deportazioni nei campi di concentramento. L’ingresso nell’età adulta, parallelamente al confronto con la propria identità e appartenenza, avviane quando il padre viene avviato ai lavori forzati. La stella gialla sul petto, gli sforzi di capire i motivi di tanta ostilità, l’attaccamento alla figura paterna lo persuadono a rimanere con la comunità ebraica anziché con la madre separata, non ebrea. Ottenuto un lavoro in fabbrica e un lasciapassare, il ragazzo sarà prelevato dall’autobus, trattenuto nel ghetto sotto le bombe alleate e infine avviato ad Auschwitz. Tutto avviene in un’aura di “normalità”, senza picchi emotivi nella narrazione ma in un flusso costante che annichilisce nella sua ordinarietà. Sin dall’inizio della discesa agli inferi, in Gyuri scatta la consapevolezza di poter essere ucciso in qualunque momento, e il conseguente, disperato attaccamento a qualunque pretesto per sentirsi vivo, per dare un senso alle sofferenze. Che non gli saranno lesinate, soprattutto nella seconda ora in cui i dialoghi sono ridotti al minimo, tra tonalità che dall’ocra e marrone scivolano nel grigio. Di campo in campo, cerca di resistere al duro lavoro mantenendo un barlume di autostima. Ma è dura quando la fame si fa lancinante, quando si è costretti a stare in piedi per ore oscillando come spighe al vento. Tra pidocchi e vermi nelle ferite infette, Gyuri arriva a nascondere la morte del vicino per avere una razione extra. Eppure il ragazzo sopravvive agli stenti, sorprendentemente curato e accudito; la liberazione è simboleggiata dal soldato ebreo americano (un cameo di Daniel Craig pre-007), che gli consiglia di emigrare negli Usa. Il ragazzo preferisce invece tornare a Budapest tra l’ostilità dei concittadini e l’invito degli anziani ebrei a voltare pagina, dimenticando la sorte infausta secondo un fatalismo atavico. Ma Gyuri si trova a riflettere sulla necessità di rinascere pur senza rinnegare l’atroce esperienza; al contrario, elaborandola come ormai una parte di sé, vissuta e dunque accettata, anche nel ritorno alla vita con la madre, al futuro che il destino sembrava serbargli prima dell’orrore. La condizione ebraica come sfida morale, le potenzialità catartiche insite nell’Olocausto, punto zero per l’umanità e apertura ad un futuro possibile rappresentano l’originalità dell’ennesimo approccio alla tragedia del XX secolo, condensate in un film di non facile taratura per l’assenza di enfasi e scene madri; l’aneddotica degli orrori del quotidiano (tra cui, come in Schindler’s list, le docce che non sai se porteranno morte o sollievo) costruisce un nucleo robusto, anche se stilisticamente non molto compatto. Le immagini eleganti, quasi monocromatiche di Gyula Pados e le musiche semplici ma profondissime di 5 Ennio Morricone nobilitano un’opera (in concorso a Berlino 2005) che deve molto allo sguardo di Tornatore, e che dietro all’elegante confezione riserva spunti di riflessione che non si esauriscono sullo schermo. (www.fice.it) Note: - IMRE KERTESZ NEL 2002 HA RICEVUTO IL PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA. - E' IL PRIMO FILM UNGHERESE GIRATO IN PANAVISION. -BERLIN INTERNATIONAL FILM FESTIVAL 2005 NOMINATED GOLDEN BERLIN BEAR: LAJOS KOLTAI -COPENHAGEN INTERNATIONAL FILM FESTIVAL 2005 WON GOLDEN SWAN BEST CINEMATOGRAPHY: GYULA PADOS -EUROPEAN FILM AWARDS 2005 NOMINATED BEST CINEMATOGRAPHER: GYULA PADOS NOMINATED BEST COMPOSER: ENNIO MORRICONE 6