Sexy shopping,Il futuro è troppo grande,La favola mia,Nulla è

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Sexy shopping,Il futuro è troppo grande,La favola mia,Nulla è
Sexy shopping
Sarà facile riconoscere molti dei dedali che costituiscono
Bologna, una città che vive della animata via di strada, dei locali
che riversano direttamente nelle piazze i loro clienti tra i quali
camminano chiassosi venditori ambulanti. Di ogni nazionalità.
Questa è proprio la storia di un ambulante, Miah, che per spiegare alla moglie in cosa consiste il suo
lavoro decide di filmare la sua attività notturna. La vicenda così è un intreccio narrativo interessante
di tre punti di vista: la videocamera alla quale Miah parla direttamente con l’intento di far pervenire
alla moglie il messaggio, l’occhio nascosto che riprende i clienti e infine la presenza interna/esterna
della regia che registra le scene nella loro complessità. Il confine tra la finzione e l’aspetto
documentario è talmente sottile da confondere abilmente lo spettatore: la storia di Miah potrebbe
essere vera fino all’ultimo dettaglio, quanto potrebbe essere una sceneggiatura pensata ad hoc per
questo prodotto co-diretto da Antonio Benedetto e Adam Selo.
Non urta lo saltellare tra il punto di vista soggettivo
e l’inquadratura generale: infatti il montaggio
costruisce sapientemente un filo logico e narrativo
perfettamente sostenuto dall’allegro Miah, il quale
dal canto suo si trova perfettamente a suo agio,
seppure sommerso di occhiali luminosi, megafoni,
cover per cellulare, anatre luminose, accendini,
cartine e caricabatterie. La sua attività, il suo Sexy
Shopping (perché è lui quello sexy) termina
puntualmente con l’emissione di una ricevuta: già,
per evitare ulteriori multe quello si è aperto Partita IVA, un dettaglio che ci potrà anche far
sorridere, ma è in realtà la prova concreta della grande motivazione che lo muove.
Probabilmente non ci metteremo a fare spesa presso gli ambulanti; ma sicuramente guarderemo a
loro con un occhio più attento. Almeno per limitarci nelle lamentele che avanziamo tutti i giorni
guardando alla nostra situazione, dove la crisi sembrerebbe essere una giustificazione per lasciarsi
andare, mentre una birra in più: c’è sempre più spesso chi non ha nemmeno questa scelta.
Il futuro è troppo grande
Il documentario di Buccheri e Citoni, realizzato anche tramite la tecnica del crowdfunding, ha
senz’altro il merito di scegliere un approccio diverso dal solito per parlare di immigrazione ed, in
particolare, delle seconde generazioni. Si evita lo sguardo pedagogico e viziato dall’eccesso di
politically correct che esalta in modo incondizionato i benefici dell’immigrazione. I due autori
scelgono due giovani, figli di immigrati, li seguono (si, è un caso di pedinamento zavattiniano che si
è svolto nel corso di alcuni anni) o meglio fanno si che si seguano e si raccontino, mostrando la
quotidianità delle loro vite. I due giovani sono Re Salvador e Zhaxing Xu, il primo di origine filippina,
la seconda cinese. La scelta dei due giovani risponde più a criteri di empatia ed esigenze narrative
piuttosto che a ragioni sociologiche o di rilevanza statistica. Pertanto non si potrà affermare, né si
suppone possa essere stato un obiettivo, che il documentario abbia la pretesa di descrivere modelli
di integrazione o fare il punto sullo stato dell’arte ma si limita ad aprire una finestra dalla cui visuale
possiamo osservare due esempi reali di integrazione, senza eccessi di mediazione (per quanto questo
sia possibile). Re è un amante dell’Hip hop e desidera fare cinema, parla seguendo gli stilemi e
l’accento del dialetto romano, del cittadino romano condivide anche l’approccio scanzonato, ironico,
esuberante: la sua è sostanzialmente un’integrazione per assimilazione. Re è italiano, o meglio
romano a tutti gli effetti, della sua origine filippina restano solo i tratti somatici e la sua famiglia, di
cui, come ogni buon romano, è un fan.
Zhaxing, invece, ha utilizzato la sua doppia appartenenza culturale per crearsi lavori che funzionino
da mediazione culturale ed economica tra Cina ed Italia. La sua è un’integrazione di mediazione.
Una mediazione che fa i conti con le tradizioni, la storia e le differenze culturali dei due paesi. Molta
parte delle riprese, alcune svolte anche in Cina, sono effettuate dai due ragazzi direttamente con il
cellulare o con la webcam del pc mentre sono collegati via Skype. Il racconto è, quindi, anche
un’autobiografia che in molte parti scava nelle vite dei due adolescenti, scoprendoli assolutamente
“normali” eppure con la straordinaria capacità di mettere in dialogo monti lontani e differenti.
Per la straordinaria simpatia dei due giovani, per il ritmo narrativo che integra felicemente diverse
tecnologie, per l’approccio scevro da sovraccarichi da sinistra benpensante, il lavoro risulta
interessante sia come modello di narrazione sia come contributo di indagine sulla realtà.
Sui titoli di coda gli autori ricordano come giovani, totalmente integrati nella società italiana, siano
spesso privi della cittadinanza italiana. Che Re o Zhaxing possano non essere italiani è solo un
paradosso. E non perché siano nati in Italia (evento non sempre dato) ma perché l’Italia li ha
cresciuti (consapevole o no) per quasi venti anni come suoi cittadini ed ora deve permettergli di
esserlo fino in fondo.
La favola mia
Con il respiro del mediometraggio La favola mia
racconta la storia di integrazione dei lavoratori di
una ditta di facchinaggio del Mantovano (Viadana)
che vede tra i suoi dipendenti il 98% di stranieri,
provenienti da ogni parte del mondo. Attraverso la
struttura dell’intervista aperta si ricostruisce il
contesto dell’ambiente di lavoro, le storie private dei
lavoratori immigrati ed anche la loro collocazione
all’interno del tessuto sociale che ospita la cooperativa. Il quadro che Cristian Dondi fa emergere
restituisce storie di immigrazione che hanno avuto un buon esito, i lavoratori raccontano il loro
percorso di vita che li ha portati da paesi lontanissimi in questo angolo di Italia in cui hanno
ricostruito spazi di socialità e convivenza che integrano le culture in un melting pot che appare
armonico e assolutamente non conflittuale. La struttura tecnica del film è improntata allo stile
del reportage giornalistico, concentrata a raccontare la storia attraverso le parole dei protagonisti e
le immagini dei luoghi di lavoro. La buona fede degli autori che si sono impegnati in questo progetto
per dimostrare che l’integrazione delle culture tra immigrati e residenti è possibile e può diventare
una ricchezza e fonte di armonia, è fuori discussione.
Purtroppo non si può non evidenziare che la
dimensione aproblematica in cui il documentario
colloca il fenomeno dell’immigrazione è certamente
illusoria ed è sorretta da un’analisi superficiale della
realtà che trova radicamento in una cultura cattolicoprogressista che difronte al tema dell’immigrazione
non è ancora riuscita a trovare una risposta che
coniughi solidarietà e reale progresso sociale
(per italiani ed immigrati). Gli autori del film dovrebbero interrogarsi sui motivi per cui il 98% dei
lavoratori siano immigrati. Potrebbero credere alla favola che certi lavori gli italiani non vogliono più
farli oppure prendere atto che la riduzione del salario che si ottiene impiegando lavoratori stranieri
impedisce agli italiani di accedere a certi posti di lavoro che restano disponibili solo nel precariato e
nell’assenza di diritti sindacali. In ogni caso non si può non essere felici del fatto che in una zona
ricca dell’Italia tanti lavoratori provenienti da paesi poveri abbiano trovato una possibilità per
migliorare le loro condizioni di vita.
Nulla è accaduto
Nulla è accaduto è stato realizzato da un’associazione di
volontariato, L.I.M.EN, con il sostegno anche del centro Astalli,
organizzazione gesuita che si occupa di rifugiati e migranti
forzati e diretto da Sebastiano Luca Insinga. E’ una
ricognizione dello stato dell’arte delle politiche di accoglienza dei
migranti sull’isola di Lampedusa, effettuata nel 2012 dunque
dopo la grande ondata migratoria che si riversò sulle coste
dell’isola in contemporanea alle primavere arabe e al crollo dei
regimi che mettevano un freno all’emigrazione verso l’Italia,
secondo accordi presi con il nostro paese.
Il racconto è affidato alle persone che vivono la realtà di Lampedusa, sia come abitanti sia, si
presume, come operatori delle strutture di accoglienza. Il percorso narrativo e politico che si segue
riconnette le preesistenti condizioni disagiate degli abitanti dell’isola al dramma di migliaia di
persone che dopo viaggi estenuanti vengono accolti in strutture inadeguate e spesso abbandonati a
se stessi. Fondamentalmente, è questo il nucleo del problema che sta cuore agli autori del film:
l’aspetto umanitario del fenomeno migratorio. Pur realizzato senza dispendio di risorse e
affidandosi un po’ troppo alle parole, non manca anche una trapuntatura di immagini curate ed
evocative che racconta la bellezza di quella terra sulla quale ora si ispessisce un velo di tristezza, già
steso dalla sua antica povertà, in conseguenza dei drammi che accompagnano i fenomeni migratori.
Come è giusto che sia, è ascoltando le storie individuali di alcuni migranti che si comprende meglio
la disumanità di questa vicenda, a cui spesso fa riscontro solo la pietas o l’impegno di una manciata
di persone.
Da un punto di vista politico l’operazione
cinematografica si presenta ammirevole per il
richiamo ad una maggiore sensibilità nella
gestione del fenomeno migratorio ma anche limitata
in relazione all’individuazione delle soluzioni e
probabilmente anche controversa nella visione di
lungo periodo. L’immigrazione non è solo una
condizione che produce una sofferenza che occorre
provare a ridurre ma è anche una variabile
economica che occorre gestire. Fatta salva l’accoglienza da offrire ai rifugiati, la migrazione per
cause economiche significa trasferimento di lavoratori da un contesto all’altro. Se questo
trasferimento non è in sintonia con i cicli economici dei paesi riceventi si creano squilibri sociali che
possono determinare conseguenze esplosive.
Solo contemperando una molteplicità di sguardi, che tengano conto dell’economia, dei diritti
acquisiti dai lavoratori occidentali e della solidarietà verso gli altri, si potrà uscire dalla dialettica
egoismo/buonismo che attualmente caratterizza il dibattito sull’immigrazione.
Ciò non toglie che nell’estremo lembo del nostro paese da diversi anni va in scena un dramma che
non dobbiamo ignorare e che questo film ci aiuta conoscere.
All'Ombra del Gigante
Quale altro poteva essere il gigante se non l’imponente vulcano Etna? Ci scherzano Mira e Tano,
canzonandosi l’un l’altro come amici di vecchia data. In realtà i primi due personaggi di questo
documentario di vite e di coppie, si conoscono da qualche anno; da quando cioè, la disoccupazione
dell’Est ha spinto Mira a fuggire dalla sua Romania per rifugiarsi tra le fragole dei paesi etnei. E non
è la sola.
Questa coppia improbabile di amici non è cioè l’unica
ad aver fatto dell’aiuto prima, e poi della
condivisione, la base solida su cui fondare un
rapporto multiculturale, che nel caso di Joan e
Marinela diventa pure una storia d’amore. E così
come succede a Nunziato ed Angela, che dal mutuo
soccorso celebrano una unione contestata quanto
invidiata. Ecco che i sei personaggi di Adriano
Cutaro e Mirko Melchiorre ci raccontano di una
vita di periferia, alle pendici di un padre natura, sulle rive del mare e tra le fila delle succose e rosse
fragole che, prima dell’arrivo della manodopera immigrata, stavano morendo. Colori quasi HDR e
corone ovattate, piani strettissimi su accenti siciliani o italiani stentati, la dinamica narrativa dei due
registi è molto pacata sebbene a tratti prepotente nei ritmi ignari di questi personaggi. Nulla
sarebbe senza la voce soave di Rita Botto che ha ceduto le musiche come naturale coronamento di
All’Ombra del Gigante.
C’è chi leggendo tra le righe degli sguardi dispiaciuti delle persone vi troverà lo sfruttamento e
l’interesse; ma checché se ne pensi, questo documentario è una storia di fratellanza e aiuto
reciproco che supera quei confini geografici imposti e parla di ritmi quotidiani, di passi cauti per
superare le difficoltà della vita, per ritagliarsi un angolo di mondo di serenità.
Sebbene traspaia a tratti la finzione di gesti
indirizzati per una ripresa perfetta (che
probabilmente Zavattini non avrebbe apprezzato),
l’onesto racconto delle parti della storia di Nunziato
e Angela vale la visione della prima metà debole del
documentario, prolissa nelle risate e arrancata nelle
bottiglie di birra e nei bicchieri di vino; una storia,
quella del vecchio e della badante, di conforto e
sostegno che in un Paese disperato e senza sollievi,
va ormai accettata come serena soluzione di (r)esistenza.
Pomodoro nero
Mediterraneo: culla di culture e tradizioni secolari; l’azzurro delle onde separa le coste frastagliate
dell’Italia da quelle del Nord Africa, ma anche le rispettive realtà e problematiche. Mentre nei vari
Paesi dell’UE si discute di debiti, crisi finanziarie, titoli di stato ed investimenti, oltremare c’è chi di
preoccupazioni ne ha già tante, drammaticamente legate alla sopravvivenza quotidiana, e che
pertanto l’Europa la guarda col binocolo, sognante di potersi ritagliare, un giorno, il proprio piccolo
angolo di benessere. Riuscire a compiere la traversata è solo l’inizio
dell’odissea che attende molti degli immigrati irregolari: la cattiveria umana,
infatti, non conosce frontiere.
Pomodoro nero, breve ma intenso documentario firmato da Antonio Laforgia, Rossella Anitori e
Raffaele Petralla, pone in primo piano la dura realtà dello sfruttamento degli immigrati irregolari
nei campi del foggiano, costretti ogni giorno a lavorare a ritmi incessanti per sradicare con le mani
sanguinanti quegli ortaggi che divengono merci, esattamente come chi li raccoglie.
Le riprese ci mostrano la disumanità in cui riversano le
condizioni dei lavoratori, i quali si trovano a dover (soprav)vivere
all’interno di baraccopoli costruite da loro stessi con lamiere e
altri oggetti di scarto per poter riposare la notte, o perlomeno
provare a farlo, data la frequente impossibilità nel dormire a causa
della fatica e dei molteplici dolori fisici, come alcuni di loro
confessano alla telecamera. La regia schiva eventuali virtuosismi di macchina dedicandosi alla
cruda trasposizione del degrado e della sofferenza, principalmente tramite interviste che
costituiscono una valvola di sfogo per chi, colmo di rabbia e dolore, ha deciso di rinunciare alla
propria famiglia, ai propri usi e costumi in cambio del massacro giustificato da pochi, miseri
spiccioli. I dettagli catturano sguardi, oggetti e particolari degli interni dei capanni, supportando
così l’essenza del cortometraggio nel constatare la drammaticità di una storia di sfruttamento.
Jovid
Jovid è un giovane afgano che lavora in una kebabberia in quel di Cagliari. Le sue giornate sembrano
sin da subito saldamente legate a quel mondo lontano che gli ha dato vita: una telefonata, uno
sguardo trasognato, un’espressione preoccupata al sentire dell’inasprirsi dei conflitti a Kabul. Jovid
è in Italia, per esigenza pare, ma il suo cuore palpita lontano e non può che vivere con sofferenza
e angoscia l’assenza di notizie da parte della famiglia.
Cosa passa nella sua testa mentre cerca
disperatamente di contattare la madre in
Afghanistan e quel telefono squilla senza risposta?
Quale tormento emozionale lo attraversa quando è
costretto ad apparire calmo ed impegnato nel
proprio lavoro, con i clienti ignari se non addirittura
indelicati? Non gli resta che pregare, con il cuore e
lo sguardo persi nel mare fino alla lontana casa, mentre l’obiettivo descrive discreto il suo rito e
il suo successivo riappacificarsi con il pensiero della famiglia.
Con una regia ermetica e un moderato uso dell’azione, Silvia Perra nel suo ultimo cortometraggio
Jovid, presentato nella sezione Visioni Sarde del Festival Visioni Italiane 2014, sa tratteggiare un
quadro essenziale della realtà di questi immigrati in fuga da Paesi difficili: l’integrazione,
l’intolleranza, la lontananza, l’impotenza nel poter soccorrere o dare conforto a quelle radici che
ancora permangono a chilometri di distanza. Tutto appena accennato, tutto sufficiente a richiamare
quello che si sa, ma che è bene non dimenticare, anche nella Cagliari dal lungomare illuminato
artificialmente. Uno scorcio dimesso, forse un po’ timido, che coinvolge fotograficamente ed
immerge nella malinconia dei close up intensi e ripetuti.