Caso coltello da tasca
Transcript
Caso coltello da tasca
L’ARCIERE TOSCANO B O L L E T T I N O I N F O R M A T I VO P E R G L I A R C I E R I ANNO I_N° 5 LETTERA APERTA 09 Un tempo, le persone dotate di intelligenza dicevano che le critiche, purché costruttive, erano necessarie. Non credo che quelle del mio precedente editoriale siano state prese per ciò che effettivamente erano, delle semplici e spontanee critiche tese ad un miglioramento dell’istruzione. Infatti, in contrasto con la mia intenzione, mi pare si sia insinuato che volessi innescare una polemica su certe affermazioni del manuale “l’arco e la simulazione di tiro venatoria”; tutt’altro! Credo che si debba ampliare il discorso cercando di sgombrare il campo da errate interpretazioni o ancor peggio, dalla convinzione che io voglia screditare la Federazion. Anzi, il mio intento è proprio quello di contribuire a rivalorizzare una federazione che ha un ruolo essenziale nel panorama del il tiro con l’arco. Quindi scusatemi se l’editoriale prenderà forse un po’ più di spazio del solito. Non so da quando e come si sia generato il problema, forse un refuso su un testo, forse un lapsus di qualcuno che poi è stato tramandato di volta in volta ma quello dello spine è solo un esempio di un errore di base (e non c’è solo quello, a mio avviso) che è stato riportato su un testo che dovrebbe essere la prima lettura tecnica per neofiti, TUTTI i neofiti della Federazione. Non è un fatto grave in se per ciò che afferma, è grave perchè destinato ad implementare l’istruzione di base avuta sul campo dagli allievi e se farciamo la prima istruzione di errori banali ed evitabili non ne usciamo più. Avranno tempo di incasinarsi da soli, perchè spingerli già da subito nel dubbio e nella confusione solo perchè non si è voluto dare un'occhiata anche ad altri testi prima di fare delle affermazioni lapidarie sul manuale? Possibile che tutti coloro che avranno sicuramente riletto il manuale prima di mandarlo in stampa, non si siano accorti del refuso? E nessuno ha il coraggio di chiedersi alla fine: qual è il vero grado di preparazione di una parte del nostro settore istruzione? Lasciamo perdere per un momento questo discorso e riflettiamo invece su un’altro. Dopo i corsi di tiro molti allievi chiedono ad un istruttore consigli pratici sul tuning o di indicargli quali tra le .500 o le .540 dovrebbero usare. Anch’io ho delle colpe avendo scritto un paragrafo sul tuning nel mio piccolo manuale per allievi, sottovalutando l’incredibile capacità umana di scaricare su altri, in questo caso l’attrezzatura, le proprie mancanze. Comunque, senza divagare, credo fermamente sia deleterio porgere il fianco a queste domande se si è un istruttore coscienzioso; non c’è differenza apprezzabile tra frecce con questi due spine se le tiri con un arco tradizionale ma soprattutto se sei alle prime armi. Non devi guardare se un certo tipo di frecce del tuo compagno volano meglio, non è che buttando via le tue e comprando quelle che ha lui migliorerai. Il 90% dei problemi di volo o di scarsi risultati è da attribuire all’arciere che sbaglia un movimento o più di uno; si deve quindi correggere il movimento e non l’attrezzatura. Purtroppo, durante i corsi non ho mai sentito fare questo tipo di discorso dai nostri istruttori. Si tende invece ai soliloqui, a pavoneggiarsi snocciolando formule di fisica su Velocità, Massa, fattori di Accelerazione e quant’altro. Paroloni che nella pratica non servono a niente e che la maggior parte degli istruttori, non avendo una conoscenza specifica della fisica del moto, ha imparato a pappagallo senza capirne veramente il concetto. Non servono assolutamente a niente se non vengono spiegati con semplicità ( in primo luogo agli istruttori stessi), potandoli di tutti i termini troppo tecnici che ingenerano confusione in chi non è uso a comprendere certe esposizioni. La confusione genera esposizioni errate o come nel nostro caso, contraddittorie. Come si può pensare che sia tra gli istruttori che tra i corsisti ci siano solo premi Nobel? Io ho la licenza media, quanti altri istruttori o allievi saranno nelle mie stesse condizioni o con un semplice diploma che niente abbia a che fare con la fisica? Il continuare a pensare che sia più professionale riempire i testi di capitoli di balistica anziché di nozioni semplici e spiegazioni chiare fa perdere il contatto con quella realtà con cui ogni istruttore si dovrà alla fine confrontare, che lo voglia o no, cioè con l’umanità e la personalità dell’allievo che si troverà di fronte a dover istruire. Con umiltà si insegnino cose semplici con concetti semplici e con lo stesso criterio si scrivino i testi, relegando i tecnicismi a orecchie e menti preparate ad affrontarli. Un arciere può essere bravissimo anche se analfabeta, così pure un istruttore. Così possiamo tornare alla prima parte del discorso; a mio avviso è essenziale che i corsi di formazione degli istruttori siano incentrati sulle basi del tiro e sulle nozioni ( le più semplici) di anatomia necessarie per spiegare ai neofiti come fare i movimenti, come impiegare gruppi muscolari che non sanno neanche di avere e che scopriranno solo dopo aver iniziato a tirare. Insegnamo i fondamentali della nostra disciplina così come è stata sempre tramandata ormai da decenni. Poi, per le nuove teorie (supportate però da prove e dimostrazioni) ci sarà tempo per parlarne negli stages di aggiornamento. Occorre essere più che attenti a non confondere per primi proprio gli istritturi di base con informazioni contrastanti che si troveranno a tramandare prima o poi a qualche allievo. Nuovamente esorto tutti gli arcieri coinvolti nella didattica e nell’istruzione a considerare tutto il materiale didattico che possono reperire e non solo attenersi alle limitate fonti disponibili in italiano. L’ARCIERE TOSCANO 3 CALENDARIO OTTOBRE FIARC ROVING LAM CAT 04/10 09_LEON DOMENICA 11/10 09_THOR 25/10 TREVI DOMENICA 09_LUNA DOMENICA 4 QUATTRO PASSI NEL MONDO DEI COLTELLI Parlare di coltelli è come invitarmi a nozze, è una passione, un po’ come quella dell'arco, che ci riporta bambini e che ora che siamo adulti possiamo permetterci di gestire con un minimo di padronanza e autorevolezza. Il coltello è con tutta probabilità il primo utensile costruito dall'uomo, ha subìto negli anni una discreta evoluzione passando dalla pietra scheggiata all'acciaio, ma è tuttora strettamente legato alla sopravvivenza dell'uomo stesso; troviamo un "ferro tagliente" nelle nostre tavole tutti i giorni, nelle botteghe di generi alimentari, nelle sale operatorie, nella stragrande maggioranza delle imprese manifatturiere e in molti altri luoghi. Per l'arciere dei boschi è spesso un compagno, lo si porta in cintura perché può servire a tanti impieghi, per l'escursionista e per il cacciatore è un utensile indispensabile. È doverosa una premessa, il coltello, per la (un po’ nebbiosa) legge italiana è un oggetto di libera vendita (e ci mancherebbe altro), ma può essere portato solo per un "giustificato motivo", e su questa definizione si potrebbero spendere fiumi di inchiostro, quindi massima attenzione al di fuori delle mura della vostra abitazione, anche se siete in possesso di Porto d'Armi. Considerazioni diverse, invece, vanno fatte per i coltelli a scatto, i coltelli a doppio filo e le spade, che per la legge sono Armi Proprie e vanno regolarmente denunciate alle autorità. Purtroppo, a volte, il coltello viene reso partecipe di eventi di cronaca, ma non è colpa sua, è il solito "homo sapiens" e il suo deviato modo di usare la ragione ad essere responsabile, a me piace intenderlo come oggetto utile. In Italia possiamo vantare una tradizione coltellinaia molto antica, tre sono attualmente i principali centri di produzione: il maggiore è Maniago in provincia di Pordenone, poi segue Scarperia in provincia di Firenze, e in ultimo Frosolone in provincia di Isernia. Maniago è certamente il più importante, ha iniziato l'attività fabbrile intorno al 1450, mentre quella coltellinaia intorno al 1700, ora vanta un’industrializzazione di tutto rispetto, con numerose e ottime aziende che offrono un prodotto di qualità rivolto al mercato italiano ed estero; ha abbandonato la tradizione per dedicarsi alla coltelleria moderna, sportiva e da cucina. Scarperia è un centro molto antico, iniziò la produzione armigera già dal 1300, quando si chiamava ancora Castel S. Barnaba ed era un avamposto (assieme a Firenzuola, al di là del passo del Giogo) del Comune di Firenze, ora vanta una produzione di coltelli pieghevoli tradizionali italiani tipicamente artigianale, unisce una piccola industrializzazione a processi eseguiti ancora manualmente e tramandati da generazione a generazione; da ricordare la famosa "Zuava" di Scarperia, oltre ai bellissimi coltelli da chef. Ho la fortuna di averla ad un'oretta di auto da casa mia e un giro per le botteghe di Scarperia è sempre un gran piacere. Frosolone, sulla falsa riga di Scarperia, vanta anch'esso tradizioni antiche, è famoso oltre ai sui coltelli, dei quali vale la pena ricordare lo "Sfilato di Frosolone", anche per una grossa produzione di forbici. Oltre a questi importanti centri, in italia convivono tantissime realtà artigianali, delle quali la massima concentrazione si rileva in Sardegna, vera e propria isola/fucina, con un picco nelle città di Pattada e Arbus. Infine si possono menzionare tantissimi singoli coltellinai, che, o per mestiere, o per hobby (tipo me), hanno acquistato e letto tanti libri, hanno sperimentato, si sono auto-costruiti utensili, hanno condiviso esperienze e infine hanno dato concretezza a questa passione sfociata poi nella costruzione manuale di coltelli. Allo stato attuale potremmo distinguere il panorama in due grossi segmenti: Coltello pieghevole o a "serramanico", molto comodo da tenere anche in tasca; e Coltello a lama fissa, che nel suo fodero in cuoio mantiene sempre un fascino impareggiabile. 5 Sui coltelli ci sarebbe da dire tantissimo, in questo caso, se siete d'accordo, mi limiterei a fare alcune considerazioni, senza scendere troppo sul tecnico", sul materiale con cui si realizza la lama: l'Acciaio. È una lega ferro-carbonio, dove il carbonio non deve superare il 2,11 % altrimenti si trasforma in ghisa perdendo tutte le sue caratteristiche meccaniche, ma non deve nemmeno scendere sotto lo 0,4%; il valore ottimale per ottenere una buona lama va dallo 0,5% all’ 1,5 % La qualità di un acciaio dipende dalla percentuale di carbonio che contiene ma anche da tanti altri elementi, che compongono la lega e che contribuiscono a migliorarne le caratteristiche meccaniche, quali Vanadio, Molibdeno, Manganese e Silicio, oltre al suo processo costruttivo. Chiaro che tutti questi elementi non si possono buttare nella "pentola" (crogiolo) e più ce n'è, meglio è, anzi, anch'essi devono sottostare a regole metallurgiche ben precise sperimentate e testate negli anni, dalle quali non si può prescindere. Dal 1913 un inglese (sempre st'inglesi...) scoprì l'acciaio inossidabile (inox) e questo portò una vera rivoluzione anche nel mondo della coltelleria, perché da quel momento in poi, quasi per miracolo, il nostro ferro tagliente non arrugginiva più; bastava aggiungere alla fusione almeno il 13% di cromo. Al giorno d'oggi la metallurgia ha veramente fatto passi da gigante, e su questo si potrebbe aprire un capitolo enorme, per cui se da un lato vediamo comparire sul mercato, anzi sarebbe meglio dire "al mercato", vere e proprie “patacche” prodotte con materiali pietosi e a costi bassi (vorrei anche vedere), dall'altro si dispone (volendo) di materiali dalla qualità eccelsa, prodotti con tecnologie all'avanguardia; chiaramente i costi cambiano. Per chi come me si entusiasma a costruire coltelli c'è solo l'imbarazzo della scelta, e questo è positivo. Diciamo che, semplificando un pò, possiamo dividere gli acciai da coltelleria in tre macro gruppi: - Inossidabili martensitici (attenzione, non quelli delle pentole), cioè resistenti alla corrosione - Semi-inossidabili, parzialmente resistenti alla corrosione - Al carbonio, non resistenti alla corrosione. Di questi gruppi fanno parte tantissime tipologie, che sarebbe lungo e noioso elencare, e che si differenziano per la loro composizione chimica; non consideriamo al momento tutta la gamma degli acciai compositi e i damaschi. Gli acciai "al carbonio" sono semplici acciai che contengono una percentuale utile del suddetto elemento, uno tipico è il C70 (0,7% di carbonio), molto usato in passato, è di facile reperibilità e lavorabilità, e presenta buone caratteristiche meccaniche che lo rendono adatto alla costruzione di una lama; purtroppo si ossida molto facilmente. Gli acciai "semi-inossidabili" sono leghe che vengono impiegate generalmente nell'industria meccanica per creare punzoni per la tranciatura dei metalli o per la realizzazione di stampi, va da se che, proprio per le loro caratteristiche meccaniche eccezionali (tranciano ferro continuamente), ben si prestano alle lame; uno di questi è l'AISI-D2. Contengono una percentuale di carbonio inferiore al 13% (11-12 % circa) per cui presentano una discreta resistenza alla corrosione ma non possono considerarsi Inox. Esistono anche acciai "al carbonio" che hanno lo stesso impiego industriale (e caratteristiche meccaniche) di questi "semi-inox" ma con percentuali di Cromo molto inferiori, per cui con bassissima resistenza alla corrosione. Per gli acciai inossidabili ci sarebbe da aprire un vasto capitolo, perché è in questo settore che avviene la sperimentazione maggiore, ed è con questi acciai che le industrie mondiali producono le loro lame; acciai inox tipici da coltelleria sono gli AISI 420 e gli AISI 440. Fino a poco tempo fa gli acciai inox non raggiungevano le caratteristiche meccaniche 6 (tenuta del filo e resilienza) degli acciai al carbonio, corrosione a parte; questo faceva (e in alcuni casi fa tutt'ora) propendere coloro che usavano il coltello sul serio, a snobbare l'acciaio inox stesso. Oggi possiamo affermare che con nuovi processi tecnologici si sono raggiunti standard elevatissimi anche in questo campo, sono prodotti provenienti dalle più rinomate acciaierie europee, asiatiche e statunitensi, i prezzi per forza di cose sono saliti di pari passo alla qualità e chiaramente influiscono sul prezzo finale di un prodotto, che sia esso industriale o fatto a mano. Concludo menzionando due grandissimi nomi della coltelleria d'oltre oceano, che hanno fatto certamente scuola per tutti e dei quali allego due foto di loro produzioni: Randall e Bob Loveless. Randall è un marchio legato ad una bellissima produzione semi-artigianale, ha un catalogo proprio e realizza numerosi "fuori serie", i suoi coltelli hanno un fascino irresistibile. Bob Loveless invece lo definirei il padre della coltelleria custom moderna, "l'Howard Hill" delle lame, è nato nel 1929 e produce ancora coltelli (chiaramente è impossibile avere un suo pezzo nuovo.... non solo per il prezzo) ed è da considerarsi un vero innovatore per quanto riguarda soluzioni tecniche, materiali e design, oltre ad essere tutt’ora il più imitato. Marco Mirri 08_MISA Randall Bob Loveless 7 7 I luoghi comuni e le leggende metropolitane dell’arco storico La storia dell’arcieria moderna è di brevissima durata rispetto alla storia del’Arco e della freccia. Per moderna, ovviamente, intendo quella da diporto, quella sportiva e ludica nata ufficialmente nel settecento in sordina ed esplosa alla fine dell’ottocento con i primi tornei sportivi in America, le prime Olimpiadi e il ritorno trionfale negli anni settanta. Una manciata di lustri si e no, in cui si sono viste alternanze di mode e consuetudini, tendenze e manie, amplificate velocemente dai sistemi di comunicazione. In Inghilterra l’arcieria si è sempre presa sul serio, fin troppo, forte della sua eroica tradizione medievale. In America lo stile fiero e un po’snob anglosassone in breve derivò verso la wilderness, la ricerca dell’istinto selvaggio, la caccia e l’eredità dei nativi americani (con sensi di colpa più o meno inespressi) e all’opposto, confluendo verso il tecnicismo d’altissimo livello. Una storia piena di contraddizioni in cui la nascita del compound venne salutata come innovazione venatoria… Tranne che per il fenomeno tutto americano della caccia (che comunque ha condizionato la nascita ed evoluzione di un mercato imponente, nulla di paragonabile con quello europeo) lo sport si è evoluto, pur con le sue differenziazioni, in un contesto limitato, sempre di nicchia. Evoluzioni che riguardano il costume, non certo lo “strumento”. Migliorano i materiali ma non certo gli uomini. Uomini composti da carne, muscoli, anima e cervello, in cui queste ultime componenti sono in definitiva uniche vere artefici del risultato. Numericamente parlando, il raffronto tra le due anime dell’Arco contemporaneo oggi si affronta quasi alla pari: una agonistica e tecnologica, l’altra romantica e tradizionale. In quest’ultima si muovono svariati filoni culturali, ed uno di questi in evidente ascesa, è quello delle ricostruzioni storiche. In questo gioco, gli Stati Uniti hanno dato di tutto e di più negli ultimi dieci anni, influenzando, come al solito e con il solito doveroso ritardo, il mercato europeo e del resto del mondo. Certo è che si dovrebbe parlare di “cultura”, forse anche con la C maiuscola. Stanno fiorendo a decine, centinaia gli appassionati. In Italia, nel novantasei, curai la traduzione del primo libro in italiano sugli archi e frecce dei nativi americani di Jim Hamm. Fu una scommessa che si rivelò una scelta editoriale azzeccata (beato l’editore…) ma questo contribuì, non poco, alla nascita progressiva di un vero e proprio movimento culturale. Ma ritorniamo in tema. La ricostruzione di archi e frecce storiche può essere affrontata in due modi: uno morbido ed uno duro. Quello morbido è basato sull’ispirazione creativa, rispettate un minimo le dovute premesse filologiche. Con questo approccio si può parlare di “archi ispirati a..”, “archi in stile”, e spaziare nell’esperienza manuale e creativa: una bellissima avventura con i suoi limiti. Il modo morbido è quello che sicuramente conta più praticanti, a vari livelli di capacità ed è proprio dei raduni, competizioni. Quello duro è proprio della ricerca. Duro perché impegnativo, articolato e complesso. Quello che comporta un approccio sperimentale e che non può essere svolto senza contributi interdisciplinari, studio di pubblicazioni, confronti con altri studiosi. Soprattutto è quello che impone di “spaziare” nelle tecnologie e culture affini e che non può non essere affrontato 8 senza la dovuta dose di sacrificio ed umiltà. Significa anche conoscere bene il significato di “esperimento” e sopportarne le regole. Come ogni categorizzazione, anche questa ha i suoi punti deboli. Il confine tra queste due vie è abbastanza sbiadito, nel senso che esiste una strada intermedia che comprende tanti appassionati che partono sulla via morbida e che progressivamente se la “induriscono”, a mano a mano che aumenta la loro consapevolezza e che chiedono di più. In loro aiuto esiste una sterminata (relativamente parlando) bibliografia scientifica e una buona mole di bibliografia divulgativa. La maggior parte è ovviamente in lingua inglese…e Internet è di grande aiuto. Informazioni blindate, faticosissime da reperire fino a dieci anni fa, oggi sono a diposizione di tutti grazie ad un qualsiasi motore di ricerca. Certo è che non tutto ciò che è americano, corredato di belle foto, è attendibile. La proliferazione di siti di appassionati, forum di discussione e portali tematizzati oggi è impressionante, anche e solo rispetto a tre anni fa. Il problema dell’informazione liberalizzata, in questo caso, è accecante. I veri buoni libri sull’argomento rimangono sempre pochi e di pochi autori, per noi italiani sono difficili da procurare e soprattutto studiare, vista l’indole pigra che ci contraddistingue. Solo pochissimi di questi autori si espongono sulla rete, anche se chi lo fa è prodigo di consigli. In compenso, chiunque pubblica si trasforma in “Guru” in breve tempo. Questo causa qualche problemino. Nascono strane “leggende metropolitane” e “luoghi comuni” che a mano a mano si insinuano, sedimentano e creano effetti bizzarri. E’ un po’ di tempo che mi imbatto in cose simili e che, ahimè, mi hanno visto pure protagonista. Proverò a elencarne qualcuna. La leggenda più duratura e insediata in profondità è legata, ad esempio, del long bow inglese di Tasso e della sua famosa sezione a “D”. La rinascita settecentesca del long bow prese in Inghilterra, Francia, Fiandre e Germania, strane vie. Nell’ottocento esistevano già fior di competizioni e arcieri diportistici (il tiro alla pertica, al Popinjay in Inghilterra o al Vogelschießen in Germania, ad esempio, e al Bersault in Francia). Gli archi che venivano utilizzati erano di carico modesto (basta vedere quelli conservati al Museo di Crepy en Valois), e tutti lunghi, con i puntali in corno e rigorosamente a sezione a D. Ed erano chiamati Longbow e Grand Arc. Da qui, questa tradizione si è tramandata ad oggi, e oggi la sezione a D, puntali in corno e legno di tasso sono sinonimi di Longbow. Ebbene, già negli anni ’30 studiosi del calibro di Forrest Nagler e Clarence Hickman si meravigliavano di questa sezione, interrogandosi – sulla base della teoria elastica degli stress – il perché di una scelta così penalizzante. A tutti gli effetti la sezione a D, con la parte piatta (dorso) rivolta verso il bersaglio, presenta la zona maggiormente sotto stress proprio dove c’è meno legno. Il legno in generale sopporta molto meglio la trazione che non la compressione, e un ventre arcuato che si comprime accumula molto più stress di uno piatto. Le fibre compresse, se l’arco non è ben costruito, tendono a collidere su sé stesse; nella migliore delle ipotesi l’arco si indebolisce progressivamente (seguendo sempre più la corda) e il piano neutro invece di essere simmetrico nella sezione, avanza verso il dorso, sollecitandolo oltre misura fino alla potenziale rottura. Poi vennero scoperti gli archi del Mary Rose, ma non cambiò un gran che, nella coscienza tecnologica costruttiva degli artigiani arcai… mentre questa ricchissima testimonianza archeologica (centinaia di archi) dimostrò che la sezione dei long bow inglesi non era assolutamente a D (perlomeno orientata come la “tradizione” voleva) ma ellittica e circolare, non aveva (nella maggior parte) puntali in corno, e soprattutto non erano “solo” di Tasso, ma anche 9 di Olmo. Nonostante questa scoperta, ed altre simili di questi ultimi 15 anni, il Longbow “è” ancora come prima, per tutti. Una ripercussione (probabilmente) di questa leggenda metropolitana di lunga durata, che dimostra come certe cose “note”, anche se non sottoposte ad un vaglio filologico quando ben insediate nella cultura comune - stentino a stemperarsi, è relativa al profilo dell’arco più antico e integro del mondo, il famoso arco (anzi i famosi due) mesolitici di Holmegaard. Ritrovati in una torbiera danese nel dopoguerra, vennero studiati da eminenti archeologi del tempo. Il primo testo scientifico a stampa che ne parla brevemente è Beker (1945) poi Clark (1963) e Rausing (1967) per citare i più autorevoli, si sbilanciarono sulla sua interpretazione (chi più o chi meno) concordando sul fatto che la sua evidente sezione a “D” rispecchiasse la geometria degli archi lunghi inglesi (quelli di sopra…). La cosa più comica è che tale interpretazione continuò fino alla pubblicazione di quella serie miliare di pubblicazioni che è la “Traditional Bowyer’s Bible”, raccolta oggi in quattro volumi che riunisce articoli dei maggiori e più importanti costruttori d’arco americani. Nel secondo volume (1994), uno di essi, Paul Comstock, presentò una ricostruzione funzionale di “Holmegaard A”, e ponendo il dorso piatto ed il ventre arcuato, elaborò una ricchissima documentazione per giustificare questo “backward bow” elencandone i pregi e le criticità. Comstock è un artigiano senza pari, anzi, uno studioso di altissimo valore. Ma cadde anche lui sulla leggenda metropolitana. E dire che oggi (e anche alla data della pubblicazione del secondo volume della Bibbia) è possibile – addirittura – acquistare il calco in resina fedelissimo di questo reperto archeologico…e quindi è possibilissimo vedere da vicino la disposizione delle fibre e comprendere come dovesse essere orientato l’arco, cioè al contrario. Nel terzo volume, infatti, giunse la smentita da parte di Comstock ed il commento elegante di un altro “grande”, Tim Baker. Ma la leggenda metropolitana non finisce qui, e attanaglia il nostro Holmegaard ancora più strettamente. In questo caso è in gioco il suo profilo in pianta. Nei lavori di Callahan (1994) e Alrune (1996), viene tentata e pubblicata una ricostruzione, e in breve essi diventano testi sacri. Il bello è che nessuno dei due pubblica disegni dettagliati (Callahan lo farà qualche anno dopo sul Bullettin of Primitive Technology) ma entrambi insistono nel far notare la “genialità” costruttiva, in cui un fantomatico restringimento (in pianta) dell’apice dei flettenti e un ispessimento degli stessi (nella sezione trasversa) determinano un comportamento, in fase di apertura, tale da ridurre genialmente l’angolo della corda con il flettente al massimo allungo, facendo flettere maggiormente la parte mediana dei flettenti più larga, un po’ come avviene grazie alla geometria dall’arco composito 10 orientale. Da lì si scatena una Internet-orgia, in cui vengono prodotte ricostruzioni, documentate dettagliatamente, fino alla pubblicazione di La Varenne (2005) in cui viene presentata un’ottima descrizione statica e dinamica dei vantaggi di una tale geometria, con tanto di “piani costruttivi”. Ebbene, oggi l’arco di Holmegaard (tutti e due, anzi) sono quelli, per tutti. Centinaia di topic in tutta la rete riportano esperienze di archi “Holmegaard Style”, non solo nell’Olmo di origine, ma anche in essenze esotiche. Ma l’arco originale in questione ha assolutamente nessun “restringimento” in pianta. Esso ha una linea formidabile si, ma progressiva e triangolare (un profilo parabolico, per dirla alla Hickman). L’unico arco con un profilo dotato di restringimenti, proveniente da uno scavo archeologico, è l’arco di Möllegabet, ritrovato anch’esso in una torbiera, risalente ad una fase del Mesolitico più recente. Peccato che sia lungo solo 120 cm. (o meglio, sia ipotizzabile tale lunghezza sulla base dei profili residui). Un arco da ragazzini, insomma! E dire che le foto dell’originale di Holmegaard e il suo profilo in pianta (oltre che nella pubblicazione di Rausing e Clark) è pubblicato da Morel, su Internet dal 2002, addirittura con i disegni in scala 1/1… Mah! Un’altra perla rara è costituita dalla fissazione, assolutamente comune, di incerare le corde di lino. Sicuramente la cera d’api, o combinazioni di essa con altri intrugli, permette una più agevole lavorazione, sia con i filati artificiali che con quelli naturali…però se si cerca di ottenere maggiore resistenza al filato – nel caso delle corde in lino naturale - le cose sono un po’ diverse. Discussioni infinite su quale cera usare e su come stenderla sono presenti su thread internettiani, in cui arcieri ed arcai si confrontano. Nessuno però che mette in dubbio la reale necessità di farlo, per salvaguardare la corda e farla resistere nel tempo. Ebbene, basterebbe leggere il trattato sulle corde contenuto sulla prima opera scientifica sull’arcieria, pubblicata nel’40 a cura di Klopsteg, Hickman e Nagler, per scoprire, nell’articolo di Tylor, un’esauriente pubblicazione di test su svariatissimi filati (e in quel periodo il lino era ancora utilizzato normalmente, e non per vezzo) in cui appare che il lino, incerato, non è ovviamente in grado di assorbire l’umidità, e, per via della sua struttura cellulare, una corda umida, rispetto ad una asciutta, aumenta il suo carico di rottura dal 20 al 30%... Marinai, acqua alle corde! 11 Sui legni da arco di “leggende metropolitane” se ne potrebbero raccontare della belle, ma celebro solo questa per via della stima ed amicizia che mi lega a Bruno Cimatti, come arcaio sperimentale, il nostro Jeval. Sulla quarta edizione della Traditional Bowyer’s Bible c’è un articolo di Steve Gardner che analizza (in termini pratici, per un costruttore di archi in legno) il “Mass Principle”, un modo per definire uno standard di correlazione “olistico” tra archi diversi. Il rapporto carico/massa fisica dell’arco. La leggerezza dell’arco è una dote indiscutibile, ed è anche intuitivo. Ma se si vuole digerire un po’ di matematica, si scopre che una certa grandezza esoterica, la massa virtuale, rappresenta un elemento critico nella scala di valutazione delle performance di ogni arco. Questo valore, in modo altrettanto intuitivo, rappresenta la massa in movimento che non partecipa alla spinta della freccia, impossibile da “pesare” fisicamente perché parte dell’insieme dell’arco in movimento durante la chiusura, ma ottenibile analiticamente grazie all’applicazione di una serie di formule, calcolando cioè la massa che muovendosi alla velocità della freccia, avrebbe un'energia cinetica uguale a quella dispersa dall'arco. Per ottenere un buon rendimento, la massa della freccia dedicata ad un dato arco dovrebbe essere di massa inferiore alla massa virtuale. Qui il ragionamento, che porta a definire “migliore” quell’arco che accumula la maggior energia con la minore massa fisica. Nell’articolo vengono comparati tanti legni da arco, a parità di geometrie costruttive. Beh, su ogni testo sacro che si conosce, la supremazia in termini di qualità (durevolezza e prestazioni) del legno di Osage (Maclura pomifera) è assolutamente scontata. Un dato di fatto. Nessuno lo mette in dubbio, guai! Bruno ha fatto funzionare zitto zitto il cervello (come suo solito), Ha fatto numerosi test riproducendo archi di varie essenze e cosa ha trovato? Un umile legno (Carpino nero) che batte l’Osage, e non di poco. Ebbene, il Carpino nero, tradizionalmente legno da caminetto, batte tutti, Tasso compreso. E per finire, una perla rara grazie alla mia ingenuità. Essa “matura” nel 2003, mentre ero coinvolto in una serie di analisi e riflessioni per il Comitato Scientifico Archeologico che studia gli “accessori” dell’Uomo dei Ghiacci la cui mummia è conservata a Bolzano. In quel periodo ero in stretto contatto con gli studiosi che avevano analizzato accuratamente tutta la componentistica in legno del corredo di Otzi. Inevitabile fu lo studio dei risultati palinologici e alle analisi del legno dell’arco. Come è noto, grazie alla “inaccortezza” di una guida alpina giunta nelle prime ore sul luogo del ritrovamento, l’arco venne rotto nei trenta cm. terminali. Grazie a quella rottura, gli studiosi austriaci che per primi misero le mani sui reperti, poterono rilevare i particolari dell’interno della sezione, pur con mille difficoltà. Ora, quei disegni li osservai, ma vista la “faida” nata tra gli studiosi italiani e austriaci, dopo il rientro forzato in Italia della mummia e delle sue cose accessorie, non ebbi la possibilità di studiarli attentamente. Comunque, nel 1997, era stata eseguita sull’arco una TAC per leggerne l’interno, da Oberhuber e Knapp. Nella loro pubblicazione compare una slide della tomografia (sezione a 28 cm dall’apice del flettente sano) in cui si leggono solo gli anelli e il loro andamento. Con sgomento, in essa appaiono solo 8 anelli per pollice, un numero veramente ridicolo, quando i testi sacri degli arcai indicano la necessità da 30 a 100 anelli per pollice. Da lì si scatenò l’inferno. Tim Baker, Richard Baugh ed io pubblicammo un articolo sul Bullettin of Primitive Technology in cui riportammo queste osservazioni e cercammo di farcene una ragione. Successivamente la sua traduzione italiana venne pubblicata anche su Arcosophia, nel 12 2005. L’articolo sollevò una ridda di speculazioni tra i lettori (soprattutto americani) e pensammo di istituire un progetto di ricostruzione tenendo conto di questo difetto di partenza. Non si riusciva a comprendere il perché di questa scelta, rimaneva solo l’ipotesi adattativa, ovvero, si fa quel che si può, con un piccolo tasso cresciuto come un razzo, al sole e sopra una pozzanghera…da qui la giustificazione per il suo esuberante spessore, ecc ecc …finché…non decisi di documentarmi sull’apparecchiatura utilizzata per la tomografia. Era un tarlo (!) bestiale che mi rodeva da tempo, la parziale sfiducia nella prassi esecutiva delle rilevazioni via TAC adottata dai due scienziati (nonostante la loro reputazione accademica). Beh, saltò fuori, dopo una lunga serie di telefonate alla Siemens, che il tomografo usato aveva un potere risolutivo (cioè la capacità di separare i particolari) non inferiore al MILLIMETRO! In un tronchetto di Tasso, in un millimetro, potrebbero esserci anche più di dieci anelli! Morale: mai fidarsi e risalire sempre alle Fonti!!! Vittorio Brizzi 04 AIRO 13 RISTORO 1lt di latte 300g. di riso, la scorza grattata di 1/2 limone 200g. di zucchero 100g. di burro 3 uova Mettere a bollire il latte con lo zucchero e la scorza di limone, quando bolle buttare il riso e farlo cuocere fino all’assorbimento del liquido. Fare raffreddare. Unire al riso bollito, le uova e il burro, mescolare molto bene in modo che il composto si amalgami a modo. Imburrate una teglia e cospargetela di pane grattugiato (in modo da formare un sottile velo che eviterà che l’impasto si attacchi e formerà una leggera crosticina), versarvi il composto, infornare con forno caldo a 180° e cuocere per mezz’ora. DANTE PRETTI 08_DARK 14