Il cannocchiale e il microscopio: il rito fra - CISADU

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Il cannocchiale e il microscopio: il rito fra - CISADU
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Università degli Studi di Roma 'La Sapienza' - Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in Teorie e pratiche dell'antropologia - a.a. 2002/2003
Documento pubblicato sul sito del Dipartimento di Studi glottoantropologici e Discipline musicali l'11/6/2003 <http://rmcisadu.let.uniroma1.it/glotto/index.html>
Vincenzo Cannada Bartoli
il cannocchiale e il microscopio: il rito fra etnografia e modellizzazione1
(pubblicato in Religioni e società, XVIII, n. 2, 37-62)
1. il cannocchiale
Stavo ‘facendo ricerca’. Ero a Monteflavio, in Sabina, vicino Roma. Dovevo osservare la
festa di S. Martino. Era il novembre del 1992. Lavoravo per conto della IX Comunità
Montana del Lazio a una ricerca sulle “tradizioni popolari” presenti nel proprio comprensorio.
Era la prima volta che osservavo una festa in qualità di antropologo, ed ero emozionato
pensando di stare per assistere a uno di quei rituali di ‘comunione’ della collettività, stretta
intorno ai suoi simboli, nel ciclico rinnovarsi di tempo e spazio. Avevo la macchina
fotografica puntata verso la Chiesa, da dove doveva uscire la statua del santo. Ero andato così,
un po’ alla cieca per quella prima volta. A un certo punto ho visto che dalle persone sulla
piazza si staccava un gruppo di uomini in giacca e cravatta che andava verso una casa. Dopo
un poco, riuscirono dalla casa tenendo dei ceri in mano, e sulla soglia si affacciarono due
bambini con due statuine: una raffigurava un cavaliere, l’altra un vescovo. Quelle due
statuine, diverse fra loro, erano il ‘santo’. I signori in giacca e cravatta accesero i ceri, si
misero su due file e si diressero verso la chiesa. In testa alle due file, i due bambini con le
statuine.
Ho conservato quello stranimento iniziale quella sorpresa di vedere uno svolgimento
inaspettato davanti a sé durante gli anni di ricerca su “il ‘santo’ in casa” quando questo ormai
era l’argomento della mia tesi di dottorato di ricerca (Cannada Bartoli 1997) e non più un
aspetto di una ricerca più generale e quando ormai avevo in mente a priori lo svolgimento
delle sequenze di azioni non l’ho voluto risolvere cercare di darne risposte definite e
definitive. Forse lo serbo – e servo – ancora adesso.
Siccome il comprensorio della IX Comunità Montana comprendeva altri paesi, iniziai a
domandare se anche là si tenesse in casa la ‘statuina’ e cominciai a pensare a una
comparazione. La mia bibliografia di riferimento era orientata verso la dimensione
dell’interazione, Goffman in primis, e alla sua eredità su fronti diversi: qualche anno prima,
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Ringrazio Fabio Dei per avermi proposto di scrivere questo articolo e per avermi invitato a un seminario presso
il Dipartimento di studi glottoantropologici dell’Università di Roma per un’esposizione della seconda parte dello
scritto. Ringrazio Laura Sterponi per una ‘data-session’ e Alessandra Fasulo per alcuni consigli.
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avevo scoperto, nella biblioteca dell’Istituto Italo Africano di Roma, un libro che sarebbe
stato molto importante per me – e non solo per la ricerca – The social practice of
symbolization, di Ivo Strecker (1988), che affrontava lo studio di un rito africano secondo una
prospettiva interazionista, fortemente indebitata alla politeness theory di Brown e Levinson
(1978), alla pragmatica griceana (Grice 1993), ma anche alla decostruzione sperberiana delle
concezioni correnti del simbolismo in antropologia (Sperber 1981) e, come si può evincere
dal titolo, dalla prospettiva della pratica di Bourdieu (1980).
Negli altri paesi avevo visto altre feste con la ‘statuina’: in particolare, mi aveva colpito la
festa di Montorio – a quattro chilometri da Monteflavio – per S. Barbara: mi avevano detto
che era una festa ‘privata’ e non riuscivo a capire come ci potesse essere una festa patronale
‘privata’. Lì il ‘festarolo’ – si chiama così chi tiene in casa la statuina del santo – invitava a
pranzo, il giorno della festa, le bambine del paese. Il giorno della vigilia, avveniva lo
“scambio”: il ‘vecchio’ festarolo – quello che aveva finito il proprio anno con la statuina in
casa – riceveva a casa, il pomeriggio prima dei Vespri, il gruppo del festarolo ‘nuovo’ –
quello che avrebbe preso la statuina per l’anno successivo – poi insieme andavano in chiesa
portando la statuina; alla fine della messa, andavano a casa del nuovo festarolo, dove la
statuina sarebbe rimasta per l’anno successivo. Mi aveva colpito che questi tragitti, da casa
alla chiesa, fossero compiuti quasi soltanto dai gruppi dei due festaroli – bambine, mogli,
parenti, magari vicini o amici, ma insomma poche persone – e che non ci fosse la processione
con la statua grande della santa neanche il giorno della festa; e mi aveva colpito anche il fatto
che fosse il festarolo a pagare tutto – rinfresco, pranzo, fuochi d’artificio, offerte alla chiesa,
gioiellino alla statuina della santa – di tasca propria, per una spesa che si aggirava, ormai dieci
anni fa, sui cinque-sei milioni.
Quello che mi cominciava a interessare era un’analisi dell’uso nei diversi paesi – o, per
meglio dire, della diversità dell’uso nei differenti paesi, e anche al loro interno: non tutti i
santi di un paese avevano le stesse modalità di festeggiamento (ad esempio, sempre a
Montorio Romano, per S. Antonio abate si faceva una colletta e c’erano più festaroli insieme).
Questo mi dava anche la possibilità di guardare alla relazione fra contesto e comportamento e
quindi di utilizzare il mio interesse per le prospettive incentrate sull’interazione. In
particolare, avevo continuato ad andare in giro per paesi, incontrando le differenti modalità
con cui si teneva e si ‘passava’ la statuina del ‘santo’2 e avevo iniziato a pensare a queste
differenti modalità in termini di variazioni di un uso, analogamente a quanto avviene per la
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Ad esempio, a S. Angelo Romano, erano gli adulti, e non i bambini a portare la statuina in processione; i
festaroli, se non c’erano candidati, venivano scelti dal prete due settimane prima della festa, dicendo i loro nomi
dal pulpito; il prete stesso ‘gestiva’ il passaggio in chiesa, veniva a ‘prendere’ e a portare la statuina a casa dei
vecchi e nuovi festaroli; a ‘Belpaese’, a fianco alla bambina che portava S. Barbara, altre due ragazze, più
grandi, portavano due ceri, ed erano vestite uguali; in alcuni paesi, il ‘passaggio’ della statuina avveniva in
chiesa, in altri erano i ‘vecchi’ festaroli a portarla direttamente a casa dei ‘nuovi’; in tutti gli altri paesi, il
passaggio avveniva il giorno della festa, a Montorio invece il giorno della vigilia; a Monteflavio, la statuina –
anzi le statuine, visto che erano due – giravano all’interno delle quattro confraternite (S. Antonio abate, S.
Antonio di Padova, S. Croce e S. Martino), ognuna con le proprie immagini, ed erano estratti da due a quattro
festaroli alla volta, a seconda del tipo di regole che si era data la confraternita, e così via.
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tradizionale classificazione delle narrazioni orali; cercavo di scorgere quale potesse essere un
aspetto comune ai diversi contesti, che permettesse di definire un ceppo unico – un idealtipo,
se si vuole – rispetto al quale misurare gli scarti: prospettiva che mi sembrava aprire la
possibilità a una sistematizzazione che cercavo di intravedere e di cui intuivo la possibilità.
Cominciai a pensare che forse, dietro la girandola di differenti condizioni e regole, una
caratteristica comune potesse essere rappresentata dal fatto che ci fosse un oggetto che
circolava all’interno di un ambito (pre)determinato, e che per la circolazione di questo oggetto
si stabilissero dei turni. Era una caratteristica che sembrava particolarmente evidente per
quanto riguarda le confraternite: lì, per ottenere nuovamente il ‘santo’, bisognava aspettare
che si fosse esaurito il ‘bussolo’, ovvero che tutti gli iscritti l’avessero avuto almeno una
volta: ma, a ben guardare – o a ben immaginare – era qualcosa che forse si poteva ritenere
estensibile anche a quelle situazioni in cui il ‘santo’ veniva assegnato su prenotazione (in
genere presso il parroco, come a Montorio e a ‘Belpaese’) o anche a quei casi in cui veniva
assegnato ex pulpito dal prete (come a S. Angelo Romano’): in fin dei conti, in quest’ultimo
caso, era il prete che stabiliva i turni, mentre in un altro caso erano i dadi.
Un altro aspetto che mi aveva colpito, fin da quella prima festa a Monteflavio, era che, se
ben mi ricordo, il santo fosse stato portato, dopo la processione e la messa, al nuovo festarolo
– anzi al primo estratto dei due nuovi festaroli – dove c’era stato un piccolo rinfresco; mentre,
il pomeriggio, la statuina era stata portata a casa del secondo festarolo, dove c’era stato un
altro rinfresco. In ogni caso, questo aspetto era evidente in modo macroscopico a Montorio
Romano, dove, per S. Antonio abate, il giorno della festa, il ‘santo’ veniva portato a fare il
giro dei nuovi festaroli e di quelli che l’avrebbero preso l’anno successivo: e, ogni volta,
c’erano fuochi d’artificio e rinfresco a ogni fermata nelle case dei diversi festaroli.
I turni, insomma, non riguardavano soltanto l’assegnazione del ‘santo’, ma anche i suoi
spostamenti nel corso della festa, rispecchiando l’ordine di designazione – salvo il fatto che,
specialmente a Montorio, se veniva di strada un festarolo che era estratto dopo, per accorciare
la cosa si passava prima da lui, con un aggiustamento pratico. C’era, insomma, una
correlazione fra il sistema di designazione, gli spostamenti cerimoniali del ‘santo’ e le varie
‘prestazioni’ offerte – o ‘erogate’ – in occasione dell’entrata e dell’uscita del ‘santo’ dalle
case, cioè della ‘visita’ del ‘santo’.
la modellizzazione
Gira e rigira, avevo trovato il criterio guida proprio in questa correlazione. Questo mi
permetteva di ‘risolvere’ anche quei casi in cui l’oggetto non era una statuina (ad esempio, un
quadro per la festa della Madonna dell’Addolorata a ‘Belpaese’, una reliquia per la festa di S.
Ulpia a Pozzaglia), svincolandomi, cioè, dalla dipendenza verso la concretezza dell’oggetto,
ma, soprattutto, mi permetteva di confrontarmi con altri casi presenti nella letteratura sulle
feste, in cui avevo trovato casi simili: ad esempio, in un articolo su La Ricerca Folklorica di
Mariano Fresta (1983), veniva descritta una festa in Sicilia, in cui ogni anno c’era un
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“governatore” della festa, che, quando subentrava, riceveva dal suo predecessore dei vassoi
d’argento; oppure, pensavo a tutti quei casi di avvicendamento nel ‘comando’ della festa,
descritti da Pola Faletti di Villafaletto (1939-42); ancora, per certi versi, i casi descritti da
Clara Gallini in Feste lunghe di Sardegna (1971) mi sembravano avere in comune sia il ruolo
e l’uso della statuina del santo, sia la pratica di avvicendarsi nella gestione della festa da parte
dei diversi priori; alcuni dei quali, è vero, avevano raggiunto un grado di stabilità nella loro
carica, ma questo aspetto di stabilizzazione era qualcosa che avevo incontrato anche nelle
zone di cui mi occupavo, e anzi rappresenta(va) uno dei punti di maggiore ricerca, spesso
oggetto di una doppia presentazione contraddittoria o antagonista: da parte di chi si sentiva
ormai obbligato a fare la festa e a sostenerne le spese e le incombenze, e da parte di chi
muoveva accuse di monopolizzazione del santo.
Ma, soprattutto, l’aver astratto la caratteristica di correlazione tra modalità di circolazione
mi permetteva di guardare a quello che era il corpus più esteso di letteratura su feste di questo
tipo, o su questo tipo di feste: a tutti gli studi, cioè, sulla mayordomia condotti nell’America
centrale e in quella meridionale3. In questi casi, infatti, era stato studiato estesamente il cargosystem (cargo, cioè “incarico”, ma anche nel senso di “avere in carico”, di “peso”), cioè il
fatto che l’organizzazione delle feste corrispondesse alla ‘sponsorizzazione’ individuale da
parte di qualcuno, che, adempiendo a questo incarico, spesso votivo, “ascendeva”, secondo le
descrizioni etnografiche, nella scala del prestigio locale, potendo, alla fine del cursus
honorum, essere in grado di ricoprire anche gli incarichi più alti in seno alla comunità.
Naturalmente, c’erano – e ci sono – differenze macroscopiche di situazione, se si vuole di
“contesto”, di storia, di religiosità e di ogni altro fattore di ordine socio-economico-culturalepolitico ecc. fra paesi a meno di cinquanta chilometri da Roma e centri appartenenti
all’America Latina: ma, del resto, le differenze erano già presenti all’interno delle diverse
situazioni esaminate dagli etnografi, senza aver impedito di parlare di un “cargo-system” per
contesti ugualmente differenti e lontani fra loro, come centri appartenenti alle Ande o al
Messico.
In ogni caso, senza entrare ulteriormente nel dettaglio di una possibile comparazione,
quello che mi sembra(va) divertente era che ci fosse una comunanza di problemi inerenti il
sistema e le sue proprietà4 : ad esempio, era evidente che, perché ci fosse circolazione
dell’oggetto in questione fosse necessario che il numero delle persone che costituivano di
volta in volta gli estratti (k) dovesse essere di numero pari o inferiore al numero dei
partecipanti complessivi (n), ma non di numero inferiore:
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La letteratura sull’argomento è copiosissima: cito soltanto qualche studio di più facile reperibilità: Brandes
1988, Chance, Taylor 1985; Monaghan 1990, Vogt 1976. Tra le maggiori riviste, in particolare American
Ethnologist pubblica spesso articoli sull’argomento.
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Ad esempio, nella differenza di contesto, il problema del rapporto, in condizioni di ridotta circolazione della
festa, fra (supposta) monopolizzazione e (supposta) obbligatorietà ormai controvoglia del festeggiamento, che
avevo scorto fra i festaroli, si ritrova nei cargueros di Brandes (1988).
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1) k≤ n;
e che nel caso in cui il numero fosse pari, il sistema selezionava ogni volta la/le stessa/e
persona/e, e, quindi veniva meno, di fatto, la circolazione, dando luogo a un monopolio che,
alla lunga, e specialmente se si trattava di una sola persona estratta, poteva far venir meno il
festeggiamento; e che il tempo necessario a completare il ciclo (z) delle estrazioni è costituito
dal rapporto fra il numero complessivo dei partecipanti (n) e il numero degli estratti (k):
2) z=n/k;
e che l’incremento o la diminuzione del valore numerico incideva sull’onere economico
dell’incarico e sui tempi dell’ammortamento delle spese, potendo quindi essere utilizzato per
una ‘politica’ di ribasso o di rialzo del costo dell’incarico5.
Questo tipo di problemi – inerenti, cioè il rapporto fra partecipanti al sistema e l’onere da
(sop)portare per la festa – si trova(va)no sia nel Lazio che nell’America Latina – e, azzarderei,
probabilmente anche in altri contesti in cui viga la sponsorizzazione degli eventi – e
porta(va)no, nella diversità di contesti sociali e nella differenza di motivazioni addette dagli
studiosi, a cicli di innalzamento e di ribasso dell’uso, per cui, a fasi di crescita progressiva
dell’importo da sostenere per la sponsorizzazione della festa, facevano seguito, una volta
giunti a un livello in cui l’elevato costo restringeva progressivamente la circolazione, fasi di
abbandono dell’uso e quindi una sua ripresa: almeno, per il Lazio, seguendo le indicazioni di
Andreina De Clementi per Sacrofano (1989). Naturalmente, sarebbe riduttivo imputare
soltanto a questo tipo di fattori la vitalità o la crisi dell’uso, sul quale potevano influire altri
tipi di ragioni – ad esempio, per la zona che studiavo, sembrerebbe che una flessione a partire
dalla fine degli anni Sessanta fosse dovuta alla diffusione di ideologie post-sessantottesche.
Anche la correlazione fra modalità di designazione e ordine cerimoniale degli spostamenti
si ritrova(va) nelle descrizioni etnografiche provenienti dall’America Latina, dove si parlava
di primo, secondo, terzo ecc. carguero, e di come si effettuasse fra loro, nella cerimonia di
passaggio della festa, visite in ordine di rango, correlate a loro volta a offerte di cibo e,
soprattutto, di bevande, con stati di ebbrezza progressivi.
Avevo pensato di rendere conto degli spostamenti della statuina in un modo che rendesse
conto della relazione fra l’ordine di designazione, l’ordine di visita e gli scambi di offerte: in
un primo tempo, avevo pensato a una raffigurazione ‘tradizionale’, in termini, cioè, di una
sorta di cartina, ma non mi avevano soddisfatto l’introduzione di notazioni specifiche e il fatto
che l’economia della rappresentazione fosse carente rispetto al discorso rappresentato.
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Volendo perseguire l’aspetto formalizzante del modello – o della descrizione – si potrebbe anche provare a
trovare, per le diverse situazioni, i “valori-soglia” di questo rapporto a partire dai quali si giunge a un
restringimento o a un allargamento della base di partecipazione: naturalmente, il limite di questi calcoli è nella
stessa prospettiva di pensare di poter ridurre a calcolo tutto il versante connesso alla pratica sociale dell’uso, o,
se si preferisce, di realizzare un calcolo a partire dall’esclusione di questa dimensione.
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Cominciai quindi a percorrere l’altra strada, quella aperta dal sistema di notazione
concepito attorno al numero degli estratti e al numero dei partecipanti. In sostanza, si aveva a
che fare, generalmente, con due serie di estratti: quelli in carica, che lasciavano, e quelli che
subentravano, e fra queste due serie si svolgeva la cerimonia, il ‘rito di passaggio’.
Potevo quindi concepire il passaggio come una relazione fra serie di turnanti (‘a’ e ‘b’),
pensabili, come individui, famiglie o altro: relazione che includeva la modalità di
designazione al suo interno – nel senso che parlare di serie di turnanti equivale ad avere già
assunto l’effettuazione di una designazione – e che scomponevo, a sua volta, in tre relazioni:
spostamento, passaggio di turno, offerta di una prestazione (alimentare, di fuochi d’artificio, o
altro).
(S): lo spostamento di uno o di entrambi gli elementi;
(T): l’effettuazione del passaggio del turno6 fra i due elementi;
(O): l’offerta di una prestazione (alimentare, di fuochi, o altro) fra i due elementi.
La prima relazione, quindi, quella di spostamento, differisce dalle altre due, perché non ha
a che fare con una relazione fra, ma può essere anche una relazione di. Questo vuol dire che la
prima relazione può assumere più vettori delle altre due (‘a’ va da ‘b’, oppure ‘b’ va da ‘a’,
oppure ‘a’ e ‘b’ vanno da un’altra parte); mentre, per quanto riguarda il passaggio del turno,
esso può avvenire solo in un senso alla volta7; per quanto riguarda, infine, l’offerta, sarebbero
possibili anche due direzioni di offerta allo stesso momento, come nello scambio di doni.
In questa prospettiva, “il ‘santo’ in casa” poteva essere concepito come la correlazione fra
queste relazioni, il loro succedersi: in genere l’inizio della cerimonia di passaggio era dato da
uno spostamento dei nuovi festaroli, che si recavano a casa dei vecchi festaroli; a questo
seguiva, in genere, l’offerta di qualcosa da parte dei vecchi festaroli ai loro ospiti. Quindi, in
genere ci si recava insieme in chiesa, si effettuava il passaggio di turno, si andava a casa dei
festaroli nuovi, dove questa volta toccava a loro offrire, e quindi, alla fine, i vecchi festaroli
tornavano alla loro casa, con il che ognuno era tornato alla situazione di partenza – la propria
casa – ed era avvenuta la consegna, cioè c’era stato il passaggio di turno.
I punti di maggiore variazione erano costituiti dal numero dei turnanti in azione: nel caso
di un sistema di designazione attraverso prenotazione, erano in ballo in genere soltanto le due
serie di designati; nel caso di una confraternita, invece, generalmente era tutta la confraternita
a muoversi, cioè non solo i nuovi designati, ma l’intero insieme dei partecipanti; un altro
punto di variazione era il luogo del passaggio, che poteva essere la chiesa – con regia o meno
del parroco – oppure direttamente la casa dei nuovi festaroli.
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In questa prospettiva di modellizzazione, il passaggio del turno poteva essere costituito effettivamente dal
passaggio di una statuina o di un qualsiasi altro oggetto, oppure semplicemente dal passaggio della responsabilità
della festa, con una generalità in grado di ricomprendere diverse situazioni etnografiche.
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Naturalmente, una volta che si sia definito il turno come qualcosa di non condivisibile contemporaneamente da
più individui.
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Ho provato a descrivere queste relazioni attraverso la notazione proposta (i punti e virgola
fungono da separatori temporali):
3) S<b,a>; O<a,b>; T<a,b>; S<(b,a)b>; O<b,a>; S<a,a>8
3) indica che la serie di turnanti ‘b’ (i nuovi festaroli) si reca da ‘a’ (i vecchie festaroli); segue
l’offerta da parte di ‘a’ nei confronti di ‘b’; il passaggio del turno da ‘a’ verso ‘b’; lo
spostamento di ‘a’ e ‘b’ a casa di ‘b’; l’offerta di ‘b’ verso ‘a’; il ritorno di ‘a’.
All’inizio e alla fine della sequenza ci sono relazioni di spostamento, che segnano l’avvio e
la fine del ‘gioco’. La prima relazione di offerta ha un vettore inverso alla relazione di
spostamento che la precede e uguale alla relazione di passaggio di turno che la segue; la
seconda offerta è il converso della prima, quindi va nello stesso senso della prima relazione di
spostamento e in senso inverso alla relazione di passaggio di turno. La cosa è più semplice di
quanto possa sembrare, se si considera che il primo spostamento conduce a casa di ‘a’ e il
secondo a casa di ‘b’, così che il vettore dell’offerta –o dell’ospitalità – è inverso al vettore
dello spostamento: insomma se si va a casa mia offro io, se andiamo a casa tua offri tu.
A questo punto, è possibile costituire altre sequenze di relazioni o fissare delle limitazioni
al ‘gioco’, delle regole alla sintassi, tali che il ‘sistema’ sia in grado di processare e
correggere, in base ai criteri che gli vengono dati, le sequenze giudicate scorrette: così, ad
esempio, si può stabilire che non siano ammesse sequenze di spostamento a vettore inverso
degli stessi partecipanti senza che intervenga una relazione di offerta o di spostamento: in
questo senso, possono essere ulteriormente distinte le due classi di relazioni (Spostamento da
una parte, Offerta e Turno dall’altra): si può anche nominarle come R1 e R2 e definire il santo
in casa come una sequenza
4) R1; R2; R1.
A questo punto, introducendo una sequenza come
5) R1; R1; R2; R1
il sistema la giudica errata e può adottare due processi alternativi di correzione: o inserisce
una R2 dopo R1 o elimina R1. L’inserimento di una prestazione o di una trasmissione di turno
(R2) corrisponde a un aumento della ritualità o a una situazione di ricchezza, tale che vengono
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I problemi di notazione sono molti, e accenno soltanto ad uno: ‘a’ e ‘b’, evidentemente, non indicano soltanto i
gruppi, ma anche i luoghi in cui si recano i gruppi. Piuttosto che inserire altri simboli per distinguere fra luoghi e
gruppi, ho preferito affidare alla sintassi la specificazione, intendendo che l’elemento in seconda posizione
indica anche il luogo del gruppo dove ci si reca: così, S<a,b> indica che è il gruppo ‘a’ che si reca dal gruppo
‘b’, e viceversa; ugualmente, S<(a,b)> indica che entrambi i gruppi si recano da ‘b’. Ugualmente, non ho
considerato la variabile chiesa, in cui in genere ci si reca per il passaggio di turno, quantomeno per i giorni della
festa, mentre non ci si reca in chiesa quando il passaggio avviene all’interno del gruppo di più festaroli che
condividono il possesso temporaneo della statuina durante l’anno. Ringrazio la mia amica Teresa Numerico per
alcuni suggerimenti in merito.
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moltiplicate le offerte; mentre la situazione di eliminazione degli spostamenti è evidentemente
una soluzione più austera.
In questo senso, l’apparente insensibilità al contesto del modello sembra poter fornire la
possibilità di reinserire la valenza della situazione e la ‘decisionalità’ insita nel tipo di scelta
adottata: il che porta a scorgere l’aspetto decisionale e, quindi, una valenza politica del tipo di
organizzazione.
In sintesi, siamo di fronte a un modello di alternanza fra ‘giocatori’ i quali, a loro volta,
costituiscono sequenze alternate di azioni: poi, per il contesto, e per l’interazione, bisogna
‘sporcarsi le mani’ – o i modelli – con l’etnografia. Come a ‘Belpaese’, per S. Antonio abate,
nove anni fa, quando mi trovai a far parte di una ‘piccola commedia goffmaniana’.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
2. il microscopio
il ‘santo’ in macchina
una piccola commedia goffmaniana
Autori, personaggi, interpreti
S. Antonio abate
santo eremita dei primi secoli cristiani, impersonato dalla statuina di S.
Antonio abate, detta ‘il santo’, argentata e pesante, secondo quanto dicono gli
altri personaggi, cinque chili e ottocento; durante lo spettacolo staziona silente
nell’altare a forma di stella in casa di Francesco, il ‘festarolo’, ovvero colui
che l’ha tenuta in casa un anno. Verrà portata in processione poche ore dopo,
quindi tornerà al suo posto; la sera stessa, verrà portata nuovamente in chiesa,
ma dopo cambierà casa, andando dai ‘nuovi’ festaroli, Roberto e sua moglie
Francesca, i quali la terranno un altro anno, per darla poi ad altri festaroli
l’anno successivo, e così via. Oggi è la sua festa.
Francesco
‘vecchio’ festarolo di S. Antonio abate, padrone di casa, cinquantenne e più,
proprietario di una macelleria a ‘Belpaese’
Iaio
figlio di Francesco, è colui che porterà in processione la statuina di S. Antonio
abate, quindici anni circa, studente
Arianna
‘padrona’ di casa, e quindi ‘festarola’, sorella di Francesco, (e zia di Iaio),
circa cinquantenne, casalinga
Fabietto
marito di Arianna (cognato di Francesco, zio di Iaio) presidente della banda di
‘Belpaese’, porterà in processione uno dei due ceri a fianco della statuina,
cinquantenne e più, impiegato
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Luigi
marito della persona che ha allestito l’altare, Lina (cugina di Arianna e
Francesco), porterà in processione uno dei due ceri a fianco della statuina,
circa quarantenne, autista.
Pierluca
figlio di Arianna e Fabietto (nipote di Francesco, cugino di Iaio) già musicista
nella banda di ‘Belpaese’, ventenne e più, studente.
Roberto
‘nuovo’ festarolo di S. Antonio abate, cinquantenne e più
Francesca
sua moglie, ‘nuova’ festarola, circa cinquantenne, casalinga
Laura
con Roberto e Francesca, quarantenne e più, casalinga
videocamera videocomare
scena ‘Belpaese’, nell’area della Sabina, a circa 50 km. da Roma e circa 30 km. da Rieti, il
giorno della festa di S. Antonio abate, domenica 16 gennaio 1994, verso le dieci e mezzo di
mattina. casa di Francesco. PIOVE.
legenda
il simbolo di
{testo fra parentesi graffa} indica
[testo preceduto da parentesi quadra
((testo fra due parentesi))
xxx
[…]
=
()
(2 sec.), (0,8), ecc.
TESTO MAIUSCOLO
°testo fra due tondini°
?
!
,
.
testo sottolineato
:
•
scena prima
glossa di chi scrive
parlato in sovrapposizione
parlato di dubbia trascrizione
parlato non compreso
parlato non trascritto
interruzione
allacciamento senza pausa fra due
parlanti
pausa breve senza indicazioni di
durata
pausa con indicazione di durata
parlato con volume più alto
parlato con volume più basso
tono interrogativo
tono esclamativo
tono ascendente
tono discendente
enfasi
allungamento vocalico (di durata
proporzionale al numero dei puntini)
evidenziazione della riga per l’analisi
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Roberto, sua moglie, Laura, Francesco, Pierluca, Iaio, nella sala della casa di Roberto.
Sulla parete antistante la porta un altare a forma di stella in cui si trova la statua di S. Antonio
abate. Sul tavolo della sala è imbandito un rinfresco e i presenti, chi più chi meno, ne stanno
usufruendo.
{si approssimano le voci di chi sta entrando in casa. Roberto si gira verso l’entrata}
Francesco {fuori campo} mo’ siete entrati forza= {ridendo}
Roberto =buongiorno ch’ha’ fatto A[nna?
Arianna [buongio[rno
{entrano Arianna e Pierluca. Arianna bacia i presenti, Pierluca gira dietro di loro, passa vicino
al divano armeggiando con la sciarpa}
Francesca [come mai co’ u fiato’?
Roberto come mai tieni u fiato’?
{si baciano Arianna e Roberto}
Arianna xxx ((senti)) {ansimando}
Laura COM’È TIENI U FIATO’ A’?
Arianna [((ho fatto ‘no sforzu))
{si baciano Arianna e Laura}
Francesca [xxx?
Arianna [eh? xxx
Laura NO NO EMU FATTU9 {rivolta verso Francesco}
Arianna che S. Antonio m’ha dato una forza Dio bono che=
{si baciano Francesca ed Arianna}
Francesca =embeh certo
Arianna che n’ho fa[tto?
Francesco [che che che stai a di’?
Laura LA XXX GIÀ EMU FATTO=
Arianna =senti mo’ cominciate a- a- a- Luci’ i biscotti- {invitandoli a prendere il rinfresco}
Laura EMMO FATTU. ( ) EMMO FATTU °nu’°= {muovendo la mano sinistra}
Arianna =SENTI MO’ È STATO UN CASINO PERCHÉ PREPARA’ DI SOTTO POI
PORTARE IN SALA MUSICA=
Francesca =eh eh eh
SE BAGNENO LA DIVISA NO?
primo accenno alla pioggia
• Francesca COME’È SE BAGNÉNNO ‘A DIVISA NO?
Arianna {gesto di aprire le mani e scuotere la testa}
• Francesca se bàgneno ‘e cose=
• Roberto =allora ‘n processio’ ‘n ce ve’=
• Francesca =ma n’insisti eh si’ calabrese {ridendo}
• Arianna eh?
• Roberto perché ‘n processio’‘n ce vie’ ?
• Francesca [(( calabrese
• Arianna [{quando insiste quando insiste} mica ce se combatte tanto facile all’a
incolla::’ ‘a robba così ha’ visto tu?
Francesca E:::H
9
NO NO ABBIAMO FATTO
11
Arianna xxx
Francesca CASINU LUCI’ EH
()
• Francesco embeh mo’ è allargato un po’ ma allora pioviccicava sa’
Arianna eh perché pure se so’ allarmati troppo co’ Silvana no,
Francesca [e scì
Arianna [iss’ ha fatt’il capello10 {si porta verso Francesca, allargando il fazzoletto per
soffiarsi il naso}
Francesca {ride}
• Roberto [va be’ ma ( ) scusa
• Pierluca [VA BE’ PERÒ N’È GIUSTO
• Roberto {passando dietro Arianna e portandosi vicino a Francesco} scu- scusa eh
{mano sinistra a tulipano11 mossa avanti e indietro} ( ) {in coincidenza con la pausa
mano sinistra sospesa nel punto più alto della corsa} allora mo’ se piove quando
scappemo12 dalla chiesa, ( ) allora se fe- issi13 se fermano alla chiesa {muovendo il
braccio destro con l’indice puntato verso la propria sinistra e ruotando il proprio corpo
verso sinistra} e noi facemo la processione che vor di’ {riportando l’indice verso
destra e ruotando il proprio corpo verso destra rivolgendosi verso le donne che erano
alle sue spalle}?=
• Pierluca={avanzando lievemente} va be’ però n’è giusto che se fracicano14 porelli
eh::=
• Roberto =°eh porelli eh°=
‘u santu dentr’a macchina nun va be’
il veto di Roberto
Arianna =allora {ha detto} al monumento15 mo’ ce mettemo sopra ‘e machine {tirando il
fiatone}
(0,7)
Francesco embeh a S. Antonio glie facemo fa’ pure ‘na scarrozzata
Arianna [embeh
Francesca [ah co- e fino al monumento co’ ‘a machina?
Arianna [co’ ‘a machina eh
Francesco [beh non ((ci vengo io))
• Francesca beh va be’ noi venimmo a pedi [se non piove °questo° {muove la spalla
destra e fa una smorfia}
• Roberto [no a pedi A::: ‘u santu dentru alla machina nun va be’ eh?
• (2 sec.)
• Laura eh che fa paurisce? {ride}
• Roberto no e- e- io sempre c((om))’ho inteso de di’, {piegandosi velocemente sulle
ginocchia e portando verso di sé le mani con le palme alzate in avanti; poi nella fase
10
iss’= lei o questa; ha fatt’il capello = è andata dal parrucchiere
«Raccolte a tulipano le cinque dita della mano destra, altalenò quel fiore nella ipotiposi digito-interrogativa
tanto in uso presso gli Apuli». Gadda (1999 (1957): 45). Mi piace ringraziare Cecilia Emiliozzi per la
segnalazione della citazione: che aprirebbe il problema della maggiore efficacia descrittiva fra un approccio
letterario e uno ‘scientifico’.
12
usciamo
13
loro
14
fradiciano
15
A causa della pioggia, la banda non era venuta sotto casa del festarolo, ma aspettava i festaroli al monumento
ai caduti, distante quasi un chilometro dall’abitazione di Francesco.
11
12
•
•
•
•
•
alta del gesto chiude fra loro le punte di indice e pollice e tende le altre dita} che ‘u
santu dentr’a macchina, ( ) {inizio movimento in orizzontale delle mani} nun va be’
{fine movimento orizzontale}. mo’
{Laura} [sì vabbe’ mo’
Iaio ((ho)) capito {passando attraverso la sala}
Roberto non è che::
{Pierluca esce dalla sala passando davanti a Roberto}
Roberto mo’ non lo so io ho inteso de di’ poi {sorridendo e girandosi}
eh ‘A BANDIERA! – che ora è? – già le pile non funzionano
dal veto di Roberto all’arrivo di Fabietto e Luigi
Arianna eh ‘A BANDIERA! {spostandosi verso la porta della sala; poi si ferma} ecco16 tocca
caccia’ amore che la piji tu che lu monellu17 non è venuto dunque che ora è? {guardando
l’orologio tenendo sollevato l’avambraccio sinistro – si trova adesso alla sinistra di Roberto,
che si è spostato – anche Francesca e Laura si sono spostate e avvicinate al fondo della sala}
Pierluca {guardando l’orologio tenendo sollevato l’avambraccio sinistro} ce manca ce
man[ca
Roberto {guardando l’orologio tenendo sollevato l’avambraccio sinistro} [so’ le nove e
mezzo le dieci e mezzo
Arianna le dieci e mezzo ce vo’ mezz’ora a pedi a i::::’
Roberto e pure co- convene scappa’ sa’ {girandosi e scuotendo la testa verso Pierluca,
continuando a scuotere la testa dopo aver finito di parlare}
Pierluca [va be’ ‘n ce sta né papà18
Laura [E SE SE XXX DENTR’A MACHINA?
Roberto {si gira velocemente verso Laura}
Pierluca né papà e né Luigi ce sta
(0,8)
Arianna ma Luigi mo’ ‘ddo’ è ito?
Pierluca e sta su sta
Arianna ma io allora chi c’xxx
Roberto magari xxx {indicando la donna o le donne alla propria destra, scherzando; sua
moglie avanza al suo fianco}
Arianna già le pile non funzionano si so’ si so’ dannate a [montalle e remontalle le pile
scariche erano montate {girandosi verso il divano dove sono i ceri con le pile; si girano anche
Roberto, Francesca e Laura, tutti orientati verso il divano; Francesco avanza e Pierluca esce
dalla sala, per rientrare subito dopo}
Pierluca {esce dalla stanza}
Francesco [{avvicinandosi al divano} se::: se consumano co’ du’ minuti ma viva la faccia
delle candele almeno le appicciavi
Roberto {annuendo e spostandosi verso Francesco, poi fermandosi e rigirandosi verso il
divano} le appicciavi e le smorzavi19
Pierluca {rientra in stanza}
Francesca {spostandosi con Laura verso il divano} ma perché so’ nove le candele?
Arianna no EH::: perché chille che faceste voi erano troppo grosse allora
16
qui
bambino
18
Felicetto
19
le accendevi e le spegnevi
17
13
[…]
{Arianna si gira ed esce dalla sala}
{fuori dalla sala} Pierluca gli telefoniamo a papa’?
Francesco vedi un po’ se no
Francesca xxx li portavano l’ommini maturi prima poi certo poi portavano i mone:lli, li
portavano i monelli quelli pesavano
[…]
Si parla del peso della statuina. Francesco dice che l’hanno pesata ieri sera e che pesa cinque
chili e ottocento; Laura si avvicina all’altare e prende la tavoletta che serve a portare la
statuina; si parla della tavoletta, di chi l’ha fatta e di chi l’ha prestata a Ernesta (la madre di
Lina). Francesco dice che a Iaio la statuina gli sbatteva al mento. Si parla di come portare la
statuina.
[…]
piove?
arriva Fabietto e viene accolto con richieste di informazioni meteorologiche
Pierluca eccolo
Roberto ecco xxx Fabietto
Francesca: uno arriva eh
Roberto: ‘u presidente arrriva mo’ {sorridendo verso Francesca e Laura, togliendosi gli
occhiali e girandosi verso la porta}
Francesca: UNO ARRIVA VA’
• Pierluca: {sulla soglia al padre} piove?
• Fabietto: eh non piove? ( ) {pulendosi le scarpe sullo zerbino} mannaggia ar core
{entra nella sala}
(2,5 sec.)
Roberto: ciao
Fabietto: buongiorno si[gnori
• Francesca: [PIOVE FELICE’?
• Fabietto: eh no casca l’acqua {entra nella sala, dà la mano a Roberto e forse, fuori
campo, a Laura)
• (7,5 sec.)
[Arianna {fuori campo}allora ecco
• Francesco: senti ‘n po’ l’ombrelle pe’ voi ‘e tenete?
• Fabietto: e io n’ombrella grossa ce ‘o tengu una de quelle
• Francesco: eh una tocca a pijalla perché una co’ la mano la potete regge l’ombrella io
se copro Iaio
• (Arianna sec.)
• Fabietto: e: io::
• Arianna se(nti)
• Fabietto posso coprillo pure io a Iaio tenendo xxx l’ombrello grosso
Arianna: allora ecco rencartemo così scusete eh {va al tavolo a reincartare i dolci}
Francesca: [FAI FAI
Laura [FAI FAI
Roberto: [fai fai Arianna ‘n te preoccupa’
Arianna [xxx ‘n ce revenemo
14
Roberto [‘n te preoccupa’ che [xxx
Francesco: [‘n ce revenemo? ce revenemo appena finita ‘a messa
Fabietto: ((la prima cosa)) o a processione o no ecco tocca revenicce
Laura: e ‘u santo ce l’ha da reporta’
Francesca: {ridendo} oh poi se volete veni’ direttamente su da noi {allargando le braccia} ce
mettemo tutti assieme
Laura: embeh
Francesca: noi du’ maccaroni l’emmo fatti
{risate}
Arianna: noi mancu du’ maccaroni avemo fatti [xxx
Francesca: e poi sapessi {avvicinandosi a Arianna:}
Laura [xxx ‘NA COSA
Francesca e poi poi sapessi co’ che l’emo fatti
Arianna: cui turdi no?
Francesca: ah ha’ capito {ritornando alla propria posizione}
{risate }
Arianna: invece noi emo fatto i cannelloni co’ xxx arrostu perché dico io non gliela faccio a
[falle
Fabietto: [no e tanto poi alle tre e mezza se [rista
Arianna: [più poi alle tre e mezza dovemo sta ecco ce potemo mette ‘n capo::: de:: ‘n se po’
allora ecco
voi ‘vete fatto piove
arriva Luigi
Roberto {si volta verso l’ingresso della sala e della casa}
• Luigi: volevi fa’ piove {entrando nella casa e nella sala}
• {risatine}
• Roberto: voi ‘vete fatto piove {ridacchia}
Arianna: {uscendo dalla stanza} MO’ L’OMBRELLA CH’ERA ‘NFILATA ECCO?
Luigi: esso l’ho messa ecco
Arianna: addov’ella?
Roberto [xxxx
Francesco: l’ho messa loco ‘n cima ecco {uscendo dalla sala}
• Fabietto: ma poi maddima’ pioveva poi a ‘n certo momento s’è rischiarato e invece
niente
Luigi {passa dall’altra parte a fianco a Fabietto}
Roberto beh si vede che è finita:: prima xxx
Fabietto e invece gniente a:::
‘ddo’ vai co’ sta corsa?
Fabietto contesta a sua moglie e a suo figlio l’eccessiva fretta
Arianna: all’a su che se no::
• Fabietto: su che? ‘ddo’ vai co’ sta corsa? (1 sec.) pe’ mettese in macchina arriva’ dal
monumento a qua so’ ci- du’ minuti
()
• Francesco: ma- ma mo’ repiove mo’?
• Fabietto: eh no casca [l’acqua
• Luigi: [eh pioviccica
Laura: eh invece la bandiera xxx?
Fabietto: la bandiera ‘n se porta
15
(0,5)
Pierluca: come non la porti va be’ ma su
Luigi: già ce sta Patrizio
Fabietto: e beh ‘a prendesse Patrizio
Arianna: E SE S’ENFONNA ‘A BANDIERA?
Laura: e se l’asciugano
Fabietto: mo ‘a smontemo ‘a smontemo e- e poi la remontemo
Pierluca: la metti dentro a ‘a macchina che smo::nti
Luigi: pure de fori [xxx]
Fabietto: embeh la porti::: giù col coso
(1 sec.)
Iaio {arriva tra Fabietto e Arianna, col fiatone}
Laura: ecco Iaio=
• Francesca: =che è pronto va’
• Pierluca: dai ‘nnamo via su=
• Arianna: =e aspetta s’ha da mette i guanti [((’sto monellu {aprendo le mani e
avanzando verso l’altare con le palme aperte}
Luigi {si gira verso l’altare e prende i guanti di Iaio}
• Fabietto: [NO:: ma è inutile ddo’ vai co’ sta corsa Pierluca?
• Arianna {fermandosi, toccandosi l’occhio destro con la mano destra}
• Luigi: basta ‘n quarto pe’ parti’ da ‘u monumento:: che ce metti? {prendendo i guanti
in mano}
Iaio {portandosi vicino a Luigi
Fabietto: se ci vediamo lì {alza la manica e guarda l’orologio}
Luigi [xxx vo’ piove’ che ce metti [a arriva’ lì {armeggiando con i guanti in modo da aprirli}
• Fabietto: comunque pe’ anda’ al monumento du’ minuti {fa con le dita il gesto di
“due”} rimangono che ce vo’? {riaggiustandosi la manica sinistra}
• Luigi {a Iaio, infilandogli i guanti} ficca °qua°
(1 sec.)
coso Roberto ha detto che n’ ‘ce se po’mette ne’ ‘a machina
Francesco svela a Fabietto e Luigi il veto di Roberto
• Francesco: coso Roberto ha detto che n’ ‘ce se po’ mette ne’ ‘a machina
Fabietto: perché?
Francesca {ride}
Laura {ride}
• Roberto [io ho detto
• Arianna: [S. Antonio
• Roberto [che nella macchina veramente,
• Arianna [>MO’ C’HA MESSO IL PALLINO CHE ‘N CE SE PO’ METTE N’ ‘A
MACHINA
• E NOI N’ CE’ ‘O METTEMO<
• Fabietto: >‘N CE’ ‘O METTEMO E ALLORA IEMMO VIA CHE TE DEVO DI’<
• Roberto: NO NO ‘O EH {avanzandosi} MICA CH’HA’ DA DA’ [RETTA A ME EH
IO VE ‘O DETTO COM’HO INTESO
• Arianna: [NO NO NO NO GNIENTE! A PEDI! perché [{girandosi verso la
Francesca; e l’Laura e gesticolando con gesti netti} xxx FORZA!
Francesca [E SE CE BAGNEMO CE RASCIUGHEMO SU
Iaio: NO OH TUTTI SEMO ITI A PEDI MO’ [xxx
16
Fabietto: [e allora ‘ndiamo a pedi dai! [vabbe’ io pensavo che
Arianna [XXX FORZA!
Laura {uscendo dalla sala}andiamo
Roberto: tutto come ho sentito de di’ che ‘u santu dentro a:::[:: ‘a machina nun va be’
Arianna [DIFATTI XXX CASA!
Francesco: ALLORA ALLORA::: quanno se- quann’ ‘e fioccava? +che pe’ S. Antonio o ‘a
neve o fanga [xxx
Arianna: [OH! E ALLORA E INFATTI S’È FATTA PURE FESTA IN PIAZZA [CO’
TUTTA ‘A NEVE ‘E COSE
questa è tradizione
i presenti attestano alla videocamera che si tratta di vera tradizione
• Pierluca questa è tradizione eh {verso la videocamera} filma filma
Arianna: {verso la videocamera} SÌ TRADIZIONE VERAMENTE O PIOVE O NEVICA SE
DEVE PORTA’ ‘L SANTO!
THE END
e allora sia ‘nnamo
finisce la piccola commedia e i presenti si incamminano
Fabietto e allora sia ‘nnamo
Arianna ecco
{Luigi prende la statuina, Roberto la bandiera e tutti escono}
Una piccola commedia goffmaniana nella Sabina. Possibile grazie alla videocomare –
inizialmente un errore di battitura per videocamera, ma poi l’errore mi ha convinto: è proprio
una videocomare – che anni dopo, grazie alla sua propensione per il pettegolezzo, ancora
ricorda questo piccolo rischio di crisi o questo rischio di piccola crisi. Piccola mica tanto
piccola, poi. In genere, la pioggia impedisce gli spettacoli, qui li mette in scena:
effettivamente, il rischio era proprio che la pioggia “impedisse lo spettacolo” o che si dovesse
fare “sotto il tendone”, cioè in macchina. Così, perlomeno, si erano messi d’accordo fra loro
Arianna, Francesco, Luigi, insomma il gruppo dei ‘vecchi’ festaroli, senza troppe
preoccupazioni (Francesco: “embeh a S. Antonio glie facemo fa’ pure ‘na scarrozzata”). Ma è
in agguato l’ortodossia di Roberto: “no a pedi A::: ‘u santu dentru alla machina nun va be’ ”,
l’integralismo che si sovrappone al ‘riformismo’, alla politica dei ‘piccoli passi’ di sua
moglie: “beh va be’ noi venimmo a pedi”.
E tutto è da rifare. Almeno: non necessariamente, quantomeno in teoria si poteva andare
anche in due modalità diverse in paese, chi a piedi e chi in macchina: e questo, evidentemente,
è un primo punto di riflessione: di fatto, le modalità attraverso cui si arriva a una ‘soluzione’
della crisi, del conflitto sembrano dare per scontato che non si possa uscire di casa in due
modi e in due gruppi diversi, separandosi fra vecchi e nuovi festaroli, come aveva proposto
Francesca. Naturalmente, è lecito nutrire dubbi sul fatto che fosse una proposta effettiva e non
soltanto un sottile modo di ‘sabotaggio’ della decisione che (le) era stata appena comunicata,
quella cioè di portare il ‘santo’ in macchina. Di fatto, probabilmente una soluzione di
separazione fra i due gruppi sarebbe equivalsa a una tanto più tacita quanto più esplicita
17
azione di ‘rottura’ nei confronti del vecchio gruppo e, automaticamente, come una ‘denuncia’
della loro ‘pigrizia’ o del loro minore impegno: sai le chiacchiere, in paese!
Del resto, l’ipotesi di separazione è subito affossata dall’intervento di Roberto, il quale,
certo, ‘entra’ bruscamente, sfruttando proprio il turno di parola precedente della moglie, nel
senso di aggancio a quello che ella aveva detto e di un ingresso in sovrapposizione che
diventa interruzione: passando, insomma attraverso la ‘breccia’ appena aperta e lanciando una
‘granata’ cui seguono due secondi di attonita pausa (la pausa più lunga, fino a quel momento).
Un’osservazione critica, quella di Roberto, in qualche modo in linea e in sviluppo con la sua
critica precedente all’esigenza della banda – di non bagnarsi – espressa a Francesco, contra
l’opposizione di Pierluca: “issi se fermano alla chiesa e noi facemo la processione che vor di’?
”. Anche in questo caso, con un certo lavorio necessario per guadagnarsi il turno di parola (to
get the floor), che si esplica sia nel tentativo ripetuto di ingresso sul piano della
conversazione, sia con lo spostamento fisico con cui si porta, passando dietro Arianna, vicino
a Francesco. Entrata brusca, quindi quella di Roberto, tanto più in quanto ospite in casa
d’altri. Un’entrata che forse si avvantaggia della situazione interna al ‘fronte’ dei ‘vecchi’
festaroli: mancano Fabietto e Luigi; forse, chi veramente potrebbe avere qualcosa di contrario
e sostenibile da dire è Arianna – due volte in coma, sofferente di cuore (“come mai co’ u’
fiato’ A’?”; “che S. Antonio m’ha dato una forza Dio bono che / che n’ho fatto?”). Di fatto, il
gruppo “vecchi-festaroli” non risponde subito, se non si vuole considerare una risposta
implicita, un ri-posizionamento il chiedere l’ora di Arianna, che avvia un processo di
(ri)calcolo del tempo necessario per arrivare al monumento a piedi, e che vede Roberto
approfittare di quello che sembra (rac)cogliere come un implicito assenso alla sua
intransigenza per mettere in campo la “proposta indecente” di muoversi subito (“convene
scappa’ sa’ ”), boicottata però senza appello da Pierluca, il quale in questo caso sorvola
giustamente sulle difficoltà del rispetto e dell’età: troppo evidente il rischio di offesa degli
assenti (Fabietto e Luigi) e la necessaria incongruenza anche con l’ipotesi di fondo, di ciò che
si ‘deve’ fare: se non si può portare il santo in macchina, sicuramente non si può andare in
processione senza le persone che portano i ceri. Probabilmente Arianna ha già deciso, e forse
anche Pierluca, quando dice se telefonare a papà (“gli telefoniamo a papa’?”). Forse, molto
probabilmente, si sono parlati fuori dalla sala, al riparo dall’occhio-orecchio della
videocomare, e hanno pensato di dover dare adito all’ortodossia; oppure la richiesta di
telefonare può essere un ipotesi di informazione sull’insubordinazione. Mentre le comodità
hanno contagiato velocemente Laura, che rilancia sull’andare in macchina, forse al momento
sbagliato, fatto sta che il suo turno è in sovrapposizione con Pierluca, ma non viene né
reiterato da lei, né recepito da altri: Roberto no di certo, che si volta appena verso di lei, ma
neanche Pierluca, in quel momento trionfante rispetto alla fretta di Roberto, impossibilitata ad
avere corso (“né papà né Luigi”).
Coscienza sporca? Evitamento del conflitto aperto rispetto all’ospite? Nessuno si oppone
frontalmente alla critica di Roberto, a parte la battuta di Laura (“che fa paurisce? ”) che, in
18
qualche modo, oltre a una presa di distanza, può essere vista anche come un ricucimento fra
parola e silenzio che offre, tra l’altro, la possibilità a Roberto di spiegare le sue ragioni;
nessuno obietta nel merito, e al suo intervento fa seguito la pausa fino ad allora più lunga di
tutta la registrazione, altrimenti contrassegnata da continue sovrapposizioni e ‘allacciamenti’:
due secondi, tanti quando ci sono sei persone che fino allora si sono parlate l’una sull’altra.
Chi prende il tizzone che scotta, chi si prende la briga di parlare dopo la replica di
Roberto? Arianna si ricorda – guarda caso – della bandiera, e del fatto che bisogna prenderla,
perché c’è un “monellu” che non è venuto. In qualche modo, passando al grave registro degli
analisti, si possono dare almeno due possibilità: una è quella di considerare quello che segue
come la formazione di una lunghissima sequenza incassata, una coppia ‘non adiacente’
(Goffman 1981) che trova il suo compimento soltanto dopo il ritorno di Fabietto e Luigi, in
quel “perché?” di risposta di Fabietto, quando l’obiezione di Roberto gli viene replicata (o
riportata, che naturalmente non è lo stesso) da Francesco, il quale decide evidentemente che
non si può più tergiversare sullo scioglimento della tensione, sul potenziale conflitto che si
potrebbe delineare tra Fabietto e il ‘clan’ dei ‘vecchi’ per tutte le reprimende di Fabietto sulla
fretta; e Francesco affaccia, un po’ timidamente, il “coso Roberto ha detto che n’ ‘ce se
po’mette ne’ ‘a machina”: “coso Roberto” non è evidentemente troppo gentile, quantomeno in
teoria, eppure sembra non stonare: di fatto, Francesco riprende l’attenuazione di Roberto della
propria responsabilità, della diminuzione del proprio nome – “evviva S. Antonio!” si grida
quando viene estratto il proprio nome come festaroli in segno di accettazione della nomina;
“evviva S. Antonio!” quando il prete, dal pulpito, ringrazia i festaroli per quello che hanno
fatto per la festa; né certo si va al ‘rinfresco’, ma a ‘far visita’ al santo – e “coso” allora forse
non è qualcosa di maleducato, ma qualcosa che va in direzione di una nuova condizione cui si
è avuto accesso in absentia di chi parla (Fabietto) e non si rende conto che, se tutti mostrano
fretta di uscire, se Arianna mette i guanti a Iaio – e ci riesce a mettere i guanti, coadiuvata
proprio da Luigi che continua a dire che non c’è fretta, se Pierluca fa per andare, se Arianna
dice di andare – qualche ragione ci sarà: c’è, insomma, una situazione pregressa che lui non
conosce. Tutto sommato, insomma, la cosa poteva anche andare liscia, senza bisogno di
nuove spiegazioni e infatti guarda caso appena Fabietto mette piede dentro casa neanche gli
chiedono come sta, ma piuttosto se piove; e glielo ripetono, anche i suoi, proprio dopo che lui
ha stigmatizzato la fretta inutile di andare: perché certo, se non piovesse…il problema sarebbe
risolto. Dopo la ‘bomba’ di Roberto, insomma, si presta attenzione alla pioggia, oggetto di
diversi turni. Anche prima, naturalmente, si è parlato della pioggia, ma serviva a sparlare di
qualcuna che era andata dal parrucchiere e che teneva un po’ troppo al capello (ho fondati
motivi per ritenere che si trattasse della ex-moglie di Francesco); dopo l’exploit di Roberto
parlare di pioggia ha anche la valenza di ricordare, fino alla risoluzione, il ‘casino’
interazionale in cui ci si trova, con Roberto-talibano che non ne vuol sapere di macchine e
altre diavolerie occidentali e il fronte dei nuovi festaroli che rischia di spaccarsi quando
torneranno Fabietto e Luigi, rimasti evidentemente alle vecchie condizioni già pattuite della
19
“scarrozzata” di S. Antonio. Rischio, quindi, di passare per ‘traditori’ di un’impostazione
condivisa, di cambiare il gioco mentre uno si è alzato dal tavolo, qualcosa di non simpatico.
In questo senso, l’altra possibilità interpretativa, quella di un tacito assenso da parte di
Arianna & Co. al qui presente Roberto, attuata attraverso una manovra diversiva (bandieraora-candele e, soprattutto, con il “che ora è?” che avvia il calcolo del tempo necessario per
muoversi a piedi) mostra il punto debole nell’idea-rischio di sminuire, di fronte a ‘terzi’,
quanto stabilito in precedenza con il marito e con Luigi (il quale, giova ricordare, è il marito
della persona che ha preparato l’altare, facendo, evidentemente, un favore): il rischio di
frattura è quindi interno anche alla coppia, e avrebbe potuto dare adito a un risentimento che,
proprio perché interno alla coppia, avrebbe potuto essere espresso in pubblico più
agevolmente di una sconfessione della linea Robertesca: in termini meno bizantini, Fabietto
poteva incazzarsi.
E poteva farlo con Arianna (la moglie), o con Pierluca (il figlio), senza per questo dover
passare per scortese rispetto a Roberto. Possibiilità meno facilmente attuabile, naturalmente,
nei confronti di Francesco (il cognato) che, guarda caso, è il primo a parlare, subito rinforzato
dalla sorella: la quale, se vogliamo, in questo senso parla da sorella, da moglie, da madre, da
padrona di casa, da un sacco di cose, insomma: è la persona più al centro delle relazioni. E fa
un capolavoro: “ci ha messo il pallino”, non necessariamente, quindi, qualcosa che
effettivamente non va, ergo una sconfessione della inopinata decisione precedente, ma un
tarlo, un qualcosa che impedisce di fare qualcos’altro anche se eventualmente giusto.
Ora, mi sembra difficile, da un punto di vista cognitivo, sostenere che gli attori sociali in
frazioni di secondo facciano – facciamo – questo tipo di ragionamenti e calcoli: piuttosto, vien
da pensare al rifuto della teoria dell’inferenza griceana (Grice 1993) propugnato da Sperber e
Wilson (1986) o a una ‘ragion pratica’ o a una ‘pratica della ragione’ incorporata, nel senso in
cui l’ha mostrato Dieu-Bourdieu (1980). E vien da pensare, allora, che questo tipo di
interazioni (e di analisi) appartengano in pieno – e in piano, altro errore di battitura accolto –
al dominio della pratica delle relazioni o alle relazioni della pratica, per proseguire nel
groviglio dei chiasmi, da cui invece vorrebbero essere espunte per reato di lesa
contestualizzazione della storicità dei rapporti pregressi, come asserito in Risposte (Bourdieu
1992). Storicità, invece, del comportamento di Roberto, e del suo alter ego, della di lui moglie
Francesca, quando il loro balletto costituisce il ‘gioco – e il giogo – linguistico’ da praticare
per i prossimi minuti: nella rispettiva differenza di exis corporale che così ben si accorda con
quella di gender (Bourdieu 1990).
Detto questo, torniamo al conflitto, potenzialmente non da ridere, per il ‘piccolo golpe’ che
si è attuato, in assenza di Fabietto e Luigi, da parte di Roberto & Co., cioè da parte di ospiti:
che sono ospiti non solo in casa, ma anche in una cerimonia: la parte che seguirà di
processione è un corteo che si avvia in chiesa, ma in cui i nuovi festaroli non hanno alcun
ruolo ufficiale: il passaggio di consegne avverrà la sera, dopo la messa delle sei. La loro è una
‘visita al santo’, probabilmente, in qualche modo ‘dovuta’ come compartecipazione alla festa
20
e alle modalità di festeggiamento dei loro immediati predecessori, ma non c’è un ruolo per
loro – anche se magari poteva essere offensivo il non visitare, e questo pure è un ruolo. Ed
ecco perché, a fianco di Francesco, ‘scende in campo’ – ahinoi abusata metafora – subito
Arianna, in sovrapposizione con Roberto: gli ha messo il pallino in testa che il santo in
macchina non va bene, “e noi non ce lo mettemo”, come dire “marito mio attento, sto
tagliando la testa al toro: sto usando il plurale”, plurale che evidentemente si riferisce non
tanto – e non solo – alla coppia coniugale ma all’ensemble del gruppo ‘vecchi festaroli’:
Roberto ci ha fatto cambiare idea, ci ha messo il pallino e noi abbiamo dovuto cambiare
schieramento: ubi major….
Mettere il pallino, la pulce nell’orecchio: qualcosa non va bene nel nostro atteggiamento.
C’è una possibile incompatibilità fra la devozione e il santo. Non è Roberto che non vuole, è
Roberto che ha detto che non si può: slittamento, come chiunque vede, di tutta importanza. E
Roberto, dal canto suo, sminuisce sé stesso (“non è che…perlomeno così ho inteso”) per farsi
‘portavoce’ – se no, che piccola commedia goffmaniana sarebbe?: portavoce, macchina
fonica, autore, ecc.: v. Le forme del parlare (Goffman 1987).
‘Sminuisce’ sé stesso? Per lui, con lui, in lui, parla il Coro, coloro che non sono qui: è il
ricorso all’impersonale, al deontico. Non è un fatto di gusto personale, ergo non disputandum
est. “Perlomeno così ho inteso de di’ ”. Più che un avvertimento: non è, signori, una terra
incognita, è una questione che so già dibattuta, su cui la giurisprudenza si è già espressa, c’è
qualche precedente da citare: vogliamo cavillare sull’esatta citazione in quel frangente non
disponibile? Meno che mai, asserire che è tutto inventato?
Difficile rendere per scritto la videocomare, ma le notazioni di postura corporale, per
quanto sgraziate, rendono il Roberto “che s’è ritto: dalla cintola in su” l’è tutto un gesticolare
netto in casa d’altri a rinforzo di posizioni opposte a quelle di chi ospita, condotta alquanto
inusuale. Il che, fra l’altro, rinforza il carattere – e la caratura – dell’intervento, mosso
evidentemente da esigenze Superiori se si trasgredisce così le bon ton. Gesticolare netto e
retto: le mani che, prima messe in avanti in coincidenza del “com’ho inteso de di’” – non si
dice forse “mettere le mani avanti”? – come a sviare la responsabilità autoriale di quanto sta
per seguire, prendono l’andamento della sentenza netta enunciata e completata con il “nun va
be’” finale: non ho responsabilità per la sentenza di condanna netta che ho inteso dire a
riguardo. Che fareste, continuereste nel rischio di empietà, in un qualcosa che si nutre di
intenti devozionali?
Purtroppo non ho informazioni su Laura, era chiaro che era appartenente al gruppo di
Roberto (“è lei che dice “emmo fattu” ad Arianna quando li invita a profittare del rinfresco) e
in genere in queste occasioni si portano sorelle, comari, parenti. Il suo impertinente ma anche
scherzoso-attenuatorio “che fa, paurisce?” fa da ponte e comunque, recepisce, almeno
apparentemente, l’empia proposta a quattroruote che poi rilancia anche dopo. Ma, in ogni
caso, attenua la potenziale offesa, il ‘face-threatening act’ (Brown e Levinson 1987; Strecker
1988) very hard di Roberto, cui permette una replica in un turno che, dopo la micidiale presa
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di posizione (“no a pedi:”), inizia con un “no” che evidentemente non è da intendere come
risposta semantica, ma piuttosto come una classica “marca del discorso” (Stame 1994) seguito
da tre e- e- e-, insomma con una certa difficoltà a proseguire sulla linea precedente, fino
all’aureo soccorso dell’impersonale, magister dei contesti pubblici e politici (Duranti 1994).
Ma poi è proprio vero che a rispondere è soltanto Arianna con il cambio-pista della
bandiera? Il primo ad aprire il balletto di risposta-spostamento è proprio il piccolo Iaio, che
tutto sommato è quello che la vede lunga: “capito”, quasi fosse l’Azzeccagarbugli al cospetto
di chi si è tagliato inutilmente il ciuffo. “Capito”, non si sa cosa, non si sa neanche se si
riferisca al conflitto, ma suona bene. E mentre parla prende, attraversa la sala ed esce. Il
secondo, ad uscire, è Pierluca. La videocomare ne mostra una smorfia fissa sul fisso, quasi un
sorriso tirato, difficilmente decifrabile – del resto, perché la spietatezza analitica dovrebbe
spingersi a de-cifrare un sorriso? Da lì in poi, è tutto un balletto di spostamenti: Arianna
resipiscente della bandiera accenna un’uscita dalla sala, poi si ferma, Francesca e Laura si
portano vicino al divano quando Arianna lancia il terzo salvagente delle pile dei ceri (il
secondo era quello dell’ora, con tre persone ferme con l’avambraccio sinistro levato a
guardare l’ora, quasi fosse una questione di secondi e non una sintonizzazione del
comportamento, in cui ognuno riprende il gesto e le parole dell’altro. Ma è un salvagente che
rischia di bucarsi ed affondare quasi subito perché rilancia forse troppo presto il tizzone che
ancora scotta, e Roberto ‘toppa’ in pieno con l’indicazione di uscire, senza aspettare “né papà
né Luigi”. A tutto c’è un limite, e certo non si può anteporre il santo a piedi al non aspettare
papà e Luigi. E infatti non replica subito, anzi prova a buttarla in scherzo ma qui purtroppo la
videocomare, un po’ sorda come si conviene alle vecchie pettegole, non ce la fa a riferire cosa
ha detto. Si vede solo Roberto che accenna scherzosamente verso Laura, forse riprendendo in
chiave di scherzo il di lei tentativo di farsi dare un passaggio dal santo in macchina).
Salvagente perché di fatto previene e impedisce un ipotetico spaccamento di due fronti, dopo
il potenziale conflitto Roberto / Pierluca “convene-scappa’ / né papà né Luigi”. Poi uscirà
Arianna, quando ormai si parla delle candele e la ‘pacificazione’ è avviata. In sala resta
Francesco, come padrone di casa – qualità vicaria, evidentemente, rispetto agli ospiti, in grado
di passare da Arianna a Francesco a Pierluca, ma non all’infinito – a parlare della tavoletta per
portare il santo. E Pierluca chiede se sia il caso di chiamare “papà”. Poi uscirà anche
Francesco, richiamato da Arianna che cerca l’ “ombrella”. Niente di strano, sia chiaro, o di
eccezionale, nel fatto che, in una situazione di preparativi, i padroni di casa-festaroli entrano
ed escano, cerchino per casa ombrelli, ecc. Ma è sicuro che, dopo il sasso lanciato da Roberto,
parecchie mani si nascondono e c’è un continuo spostamento di posizioni, anche interne alla
sala, che, guarda caso, porta a una compattazione del gruppo dei nuovi festaroli ospiti:
Francesca e Laura si avvicinano, Laura dice qualcosa all’orecchio di Francesca – non si fa –
Francesco si avvicina anche lui al divano e anche lui lancia un salvagente anzi addirittura una
zattera con il suo “viva la faccia delle candele almeno le appicciavi” – hanno una faccia le
candele? – che guarda caso ‘guarda indietro’, verso qualcosa che tutto sommato può essere
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considerato nella stessa direzione di rifiuto della tecnologia in cui va l’incompatibilità “santo /
macchina”. Salvagente-zattera che viene ripreso e rilanciato da Roberto (“le appicciavi e le
smorzavi”); e che fa seguito sempre al tema lanciato da Arianna, sulle pile che non vanno.
Anche Francesca parla delle candele del passato, del fatto che le portassero gli uomini e che
erano “de figura”, come cosa passata – mentre Fabietto e Luigi, evidentemente, le portano
ancora. E poi, si parla della tavoletta e del peso della statuina. C’ero anch’io il giorno prima
quando l’hanno pesata, e c’era soprattutto anche la videocomare, ma non posso aprire un’altra
finestra. Insomma, anche questo della tavoletta e del peso della statuina è un argomento mica
male che poi insomma siamo sempre là, candele, tavoletta, statuina stiamo sempre a parlare
del santo e dei suoi accessori ma almeno non della pioggia e non si litiga anzi. Fin quando
arriva Fabietto, e poi Luigi e allora non si può più cincischiare. Arianna inizia a reincartare –
“fai Arianna fai”, tanto sono sempre operazioni che permettono di avvantaggiarsi, magari si
va a piedi davvero “fai Arianna fai” tanto è qualcosa che va fatto. “Scusete” mica che non
voglio più darvi da mangiare, è che magari andiamo in ogni caso tocca reincartare “fai
Arianna fai”. Tanto “ecco tocca revenicce” beh io non l’ho capita cioè non ho capito che vuol
dire, sembra una di quelle cose che si sanno e quindi che motivo c’era di dirlo, è chiaro che
dopo la messa si tornava, e forse è soltanto un pour parler di Fabietto, ancora ignaro del veto.
E ci si aggancia, però, Francesca, che prende e invita scherzosamente a mangiare i maccaroni
coi “turdi”. Arianna invece dice che non ha fatto niente e mica è tanto vero, ci sono stato
anche io a pranzo quella volta, quando cadde la nonna Ernesta e batté la testa e grazie a S.
Antonio non si fa niente e dopo un quarto d’ora riprende a mangiare i cannelloni come se
nient fuss. Insomma dice che non valeva la pena di fare qualcosa se poi alle tre e mezza
bisogna stare là cioè dovevano distribuire le pagnottelle in piazza: era un extra che avevano
preparato stante che erano macellai Francesco e anche il cugino Sirio e stante anche il fatto
che abitano sulla piazza alle tre e mezzo hanno organizzato una distribuzione di pagnottelle
con la porchetta ma questo è un altro discorso fatto sta che Arianna ce lo mette come dire –
ma qui sono maligno – noi rinunciamo a mangiare per bene perché abbiamo pensato per gli
altri.
Insomma e poi c’è poco da dire dopo l’entrata difensiva di Francesco ed Arianna il gioco è
chiuso subito, Fabietto forse non tanto felice in quel momento dice solo che “iemmo via che
te devo di’” e lì chiaramente Roberto una volta visto che la sua linea è passata senza colpo
ferire perché non ha dovuto riaprire bocca ma ci hanno pensato Francesco ed Arianna, gran
signori. Ma del resto che doveva fare Roberto? L’unica cosa plausibile e possibile era che la
sua linea fosse stata interiorizzata dal gruppo dei ‘vecchi’ festaroli, altrimenti beh sarebbe
stato troppo dover risostenere una duplice battaglia non solo contra Fabietto e Luigi ma anche
contro gli altri non convinti, insomma se loro erano d’accordo spettava a loro dirlo a Fabietto
e Luigi: certo aspettano un po’ prima di parlare, prima vedono se fila tutto liscio, se per caso
si può provare ad accellarelare i tempi, zitti zitti ma Fabietto riprende tutti per la fretta e allora
tocca intervenire. Insomma sarebbe stato bello pesante se avesse dovuto riparlare Roberto, per
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lui e per gli altri, in particolare per chi già aveva sentito la sua opinione. E appunto Roberto
una volta che la linea è passata naturalmente mette un altro po’ di mani avanti e non è lui, è
come ha sentito dire e via con tutto il repertorio se non fosse che stavolta scattano i
collegamenti che amalgamano il diktat con la ‘tradizione’: e Arianna parte con “NO NO A
PEDI, con tanto di gesti netti e girandosi verso le donne; Iaio si aggancia “no oh tutti semo iti
a pedi mo’” e a Fabietto non resta che una frase monca “e ‘ndiamo a pedi io pensavo che”,
interrotto da Roberto che riafferma la sua litania cui rincara prima Arianna con un “infatti”
che sanziona tutto e poi Francesco con la sua incertezza espressiva, con quella rincorsa dell’
allora::: allungato e la ripetizione del “quanno quanno” fino alla parziale citazione “fioccava
pe’ S. Antonio o ‘a neve o fanga” che poi sarebbe “S. Antonio co’ la barba bianca o neve o
fanga” come dire che non è strano che intorno al 17 gennaio il tempo non sia dei migliori, e
dopo la giurisprudenza teoretica arrivano le citazioni esatte delle sentenze: Arianna (“oh
allora e infatti s’è fatta pure festa in piazza [co’ tutta ‘a neve ‘e cose”). Insomma, certo che il
problema c’è anche per la grande espansione negli ultimi anni di ‘Belpaese’ nella campagna,
‘Belpaese’ una volta ristretta nel borgo o poco più.
E, visto che c’è la videocomare con tanto di videocompare, ce se ne ricorda e arrivano le
prime osservazioni rivolte esplicitamente alla macchina da presa e il richiamo – poteva
mancare? – alla tradizione di Pierluca “questa è tradizione eh filma poi {rivolto verso la
videocomare}” e di Arianna “sì tradizione veramente o piove o nevica se deve porta’ ‘l santo”
che aprono la strada a “la messa è finita”: “e allora sia ‘nnamo”.
3. il cannocchiale e il microscopio
Ho costruito e affiancato due modi diversi di guardare a uno stesso ‘oggetto’, a uno stesso
‘terreno’ – è veramente una stessa cosa, quella guardata da occhi diversi? È lo stesso
‘terreno’, quello da cui trae spunto il modello e quello a cui si riferisce l’analisi
dell’interazione? La modellizzazione, soltanto accennata, evidenzia le caratteristiche
‘sistemiche’ dell’organizzazione, proponendo una scrittura delle ‘regole’ che ne vengono
desunte, ma non è in grado di scorgere il come dell’azione. L’analisi dell’interazione, invece,
non può dare conto del ‘sistema’, ma mostra ‘nel vivo’ come queste ‘regole’ vengono seguite
agite e praticate20, se non la loro ‘creazione’ o, se si vuole, il dubbio sulla loro stessa esistenza
in un caso di crisi della procedura come quello riportato – ritengo peraltro possibile cogliere
una processualità inerente al ‘farsi’ della socia(bi)lità e al possibile ‘scarto’ dalla ‘norma’21
anche in altri contesti, a seconda di quanto si possa o voglia avvicinare lo sguardo.
Due approcci diversi, in apparenza forse giudicabili soltanto complementari, se non
divergenti o addirittura inconciliabili. Fra il cannocchiale della modellizzazione e il
20
Posso soltanto rinviare ai diversi articoli sul rapporto fra definizione delle ‘regole’ e pratica sociale, fra
Wittgenstein e Bourdieu, nel testo edito da Richard Shusterman (1999): Shusterman (1999a), Bouveresse (1999)
e, in particolare, Charles Taylor (1999).
21
Questo mi sembra, fra l’altro, una possibile lettura della concezione di “ruse” di Michel de Certeau (1980).
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microscopio dell’interazione, insomma, più un’alternativa che una convergenza, come sembra
normale per strumentazioni diverse.
Tuttavia, un primo tratto comune è il linguaggio ‘tecnico’: le procedure di descrizione che
costituiscono una ‘presa di distanza’ in grado di ‘filtrare’ l’esperienza sottraendola al
linguaggio comune e costituendola quindi in ‘secondo grado’. A ben guardare, poi, un’altra
caratteristica comune è l’organizzazione a turni: colta nel modello come (pre)condizione
comune alle diverse forme rituali, e insita nell’interazione come principio guida
dell’organizzazione della conversazione, secondo la pionieristica intuizione di Sacks,
Schegloff, Jefferson (1974), alla base dell’analisi conversazionale. In questo senso, entrambe
le ‘descrizioni’ hanno a che fare con una stessa modalità di auto-nomia, nel senso etimologico
del termine, di costruzione normativa da parte di una comunità.
Una modalità, questa dell’alternanza – antecedente logico della reciprocità – alla base del
vivere-in-società, nella sua implicita – e talvolta esplicita – retorica egalitaria (Torre 1995)
affermata negli statuti delle confraternite così come nelle pratiche di assegnazione,
distribuzione e circolazione di un bene: costitutiva della dimensione politica e, quindi,
paradossalmente difficile da cogliere e da isolare in quanto principio organizzatore, proprio
per la sua pervasività e apparente neutralità: rispetto a questo, non sembra allora strano che il
filo comune tra il ‘micro’ dell’interazione e il ‘macro’ del modello si costituisca lungo la
‘diversità’ del linguaggio necessaria all’analisi per collocarsi ‘fuori’ da procedure fondanti la
quotidianità e alla base anche dell’ ‘educazione’, così spesso incentrata sul rispetto dei turni
(“aspetta il tuo turno”, “prima ai grandi”), nei confronti di quelli che sono spesso i
protagonisti del ‘santo in casa’, i bambini.
In questa direzione, allora, pensare quanto precede nei termini di una riproduzione, situata
al cuore della pratica sociale, di modalità di conferma dell’invalso, della orté dòxa, equivale
al previo riconoscimento del potere come modalità immanente di (inter)relazione e non come
un re cui “si debba ancora tagliare la testa” - come diceva Foucault (1978) ne La volontà di
sapere – inscritto nel linguaggio corporale e nel lavorio conversazionale attraverso cui si
mediano le opzioni, a monte della scelta di una morfologia organizzativa – sia essa,
nuovamente, riferita a turni e prenotazioni o a dinamiche di conversazione, non tanto nella
particolarità storica e individuale della scelta stessa, quanto, nuovamente, nelle modalità
negoziali attraverso cui essa viene proposta, sostenuta e accettata: nell’idea stessa – e nella
pratica, in primo luogo – che to get the floor nella conversazione equivalga all’avveramento di
un ordine e non, nuovamente, a una scelta di auto-nomia ormai storicamente tacita(ta) nelle
sue ragioni costitutive, nel ‘giogo linguistico’ della “rilevanza condizionale” che crea e da cui
deriva; equivale a scorgere un riflesso del potere nella capacità di mobilitare un mondo
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‘morale’22 in agguato e nel suo apparente opposto, di prendersene gioco ‘scarrozzando’ i
‘santi’.
Insomma, politica in scelte morfologiche apparentemente neutrali di alternanza nella
ripartizione di un bene e in retoriche quotidiane attraverso cui si compongono rischi di
frattura, non dissimili, in un ordine diverso di agibilità, dal rito cui si riferiscono: il filo
comune della retorica lega il comportamento, gestuale, di spostamento fisico e verbale dei
protagonisti alle regole del ‘giogo’ e agli orizzonti egalitari tracciati dai modelli descrittivi
dell’analista: alla fine, il cannocchiale del modello e il microscopio dell’interazione fissano lo
stesso oggetto, le forme assunte storicamente dal materiale che li costituisce.
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Debbo a Laura Sterponi e alla sua tesi di dottorato (Sterponi 2002) la sottolineatura dell’aspetto morale insito
nell’interazione – presente, naturalmente, quantomeno in Goffman e in Foucault (se consideriamo il ruolo delle
strutture architettoniche nella costruzione del potere dell’interazione)..
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