“Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero

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“Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero
© Lo Sguardo - rivista di filosofia - ISSN: 2036-6558
N. 13, 2013 (III) - Gli strumenti del potere. Dal principe all’archeologo
Interviste/1
“Due. La macchina della teologia
politica e il posto del pensiero”:
riflessioni sotto forma di dialogo su
filosofia, teologia, economia.
Intervista a Roberto Esposito
a cura di Antonio Lucci
At the core of this interview is the last publication of Roberto Esposito, titled “Due. La
macchina della teologia politica e il posto del pensiero”. Starting from the book, the
discussion focuses on the topics of economic and political theology; the relationship between
this book ant Esposito’s previous work; the inclusion of “Due” in the Italian philosophical
discussion as well as in the international debate on the problems arising from debt theme.
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Il Suo ultimo testo Due. La macchina della teologia politica e il posto
del pensiero (Einaudi) si inserisce in maniera importante nel dibattito
filosofico sulla teologia politica e sulla teologia economica, che sembra
rivivere negli ultimi anni, in Italia, ma anche nel resto del mondo culturale
europeo, una nuova giovinezza.
Praticamente in contemporanea all’uscita del Suo testo, Massimo
Cacciari dà alle stampe per I tipi Adelphi Il potere che frena, sul concetto
di katechon. Nel 2012 escono il testo Simon Critchley The Faith of the
Faithless (Verso), quello di Elettra Stimilli Il debito del vivente (Quodlibet).
Nel 2011 esce in traduzione italiana (per l’editore Mimesis), con il titolo
Il capitalismo divino un’importante conversazione tenutasi quattro anni
prima a Karlsruhe tra alcuni dei più importanti pensatori viventi dell’area
tedesca: tra cui Peter Sloterdijk, Thomas Macho, Boris Groys, Peter Weibel.
Come interpreta questa rinascita dell’interesse per il tema della teologia
politica? Quali secondo Lei le cause?
In realtà questo interesse non si è mai veramente interrotto. Anche
se si tiene presente il solo dibattito filosofico italiano, larga parte dei libri
significativi – da Potere e secolarizzazione di Marramao a Il regno e la
gloria di Agamben, ai libri su fede e sapere di Vattimo, a vari interventi
di Tronti – tornano tutti, esplicitamente o meno, sulla questione della
teologia politica. Oggi la ripresa sempre più forte del tema è stata favorita
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dalla recrudescenza del terrorismo islamico e dal riesplodere delle guerre di
religione. Ma nulla di veramente importante – come la relazione tra l’America
e l’Europa, il rapporto tra i monoteismi e dunque il senso complessivo della
globalizzazione – è senza rapporto con la questione della teologia politica.
Naturalmente, quando ci si riferisce a questo concetto, bisogna precisare
sempre cosa si intende: la legittimazione religiosa del potere, la forza politica
della religione, l’influsso del teologico sul politico, secondo la tesi di Schmitt
o quello del politico sul teologico, secondo l’interpretazione di Assmann,
per non parlare delle varie teologie della liberazione latino-americane.
Personalmente ho dato al paradigma di teologia politica un significato
che, senza ignorare gli altri, presuppone una interpretazione diversa della
categoria.
Questo Suo ultimo lavoro viene dopo un testo come Pensiero
Vivente, dedicato a quella che sempre più sta assumendo contorni definiti
sotto l’etichetta di Italian Theory, a cui sembra però apparentemente
poco collegato, e quasi a dieci anni dall’ultimo volume della “trilogia”
Communitas, Immunitas, Bios.
Malgrado la distanza temporale le ultime battute di Due sembrano
richiamare all’attualità la proposta comunitaria (con relativo pendant
immunitario).
Come situa questo Suo ultimo testo all’interno del suo percorso
filosofico?
Pensiero vivente non si situa all’interno della mia produzione come
un segmento della stessa linea. Non costituisce un passaggio interno al
mio ragionamento complessivo. Esso è stato piuttosto un passo laterale,
un ritorno ai miei primi autori – in particolare Machiavelli e Vico. E anche
l’individuazione di una sorta di ‘canone’ della nostra tradizione filosofica
italiana, teso a spiegare l’interesse che alcuni autori italiani contemporanei
stanno riscuotendo recentemente all’estero. Due si collega certo alla
dialettica tra communitas e immunitas, ma soprattutto al volume intitolato
Terza persona, dove inizio ad elaborare quella decostruzione della categoria
di persona da una prospettiva impersonale che poi ho proseguito in
quest’ultimo libro. Il passaggio in più che faccio in questo, rispetto a Terza
persona, riguarda il fatto che non cerco l’impersonale al di fuori del pensiero,
cioè nella falda vitale inconscia, ma nello stesso pensiero, secondo una linea
interpretativa che prende le mosse dalla esegesi araba di Aristotele da parte
di Averroè e prosegue in Bruno e Spinoza, fino ad Nietzsche, Bergson e
Deleuze. Per costoro impersonale non è soltanto ciò che precede il pensiero,
ma, in vario modo, il pensiero stesso.
Nel suo testo – dichiaratamente sulla teologia politica – trova
grande spazio il problema della teologia economica, che Lei non ritiene in
contrapposizione alla prima, ma ad essa consustanziale. Ciononostante le
parti dedicate alla teologia economica sono (fosse anche solo nominalmente,
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vista la loro designazione come excursus) minoritarie rispetto a quelle
dedicate alla teologia politica. Potrebbe chiarirci qual è il rapporto – nel
Suo orizzonte di pensiero – tra teologia politica e teologia economica?
Intanto va detto che, come sempre accade, nella composizione dei libri
e nella proporzione tra gli argomenti, incide anche la competenza dell’autore.
E io non conosco le dottrine economiche quanto quelle politiche. Ma il
punto su cui ho cercato di battere è la coincidenza, entro certi limiti, delle
due teologie. O quantomeno il loro costante rapporto. Ciò vale sia sul piano
storico-lessicale, a partire dalla categoria, insieme teologica e politica, di
oikonomia, sia sul piano degli effetti storici: un certo tipo di organizzazione
del lavoro, o il rapporto tra le classe, ha un significato economico, ma
anche, evidentemente, politico. Un riferimento decisivo, sulla questione
dell’economia teologica, è naturalmente il testo di Benjamin sul capitalismo.
In esso è detto non solo che il capitalismo è diventato la nostra religione,
ma anche che è una religione che, anziché purificare, colpevolizza. Ciò è
provato dal rapporto semanticamente vincolante tra debito e colpa, termini
che in tedesco si traducono entrambi con Schuld. Una volta fissato questo
parallelismo, o meglio questo intreccio costante, tra teologia economica
e teologia politica, va detto che nella stagione moderna e contemporanea
tale nesso si sbilancia sempre più verso l’economia. Il primato attuale
dell’economia è significativo di questa tendenza. Anche in questo caso,
tuttavia, esso passa sempre per una esplicita, o implicita, opzione politica.
Anche quella della spoliticizzazione è in fondo una scelta politica.
L’appendice conclusiva del suo libro è dedicata al problema del
debito. In evidente congiuntura con la crisi economica internazionale
negli ultimi anni sono proliferate le analisi a sfondo filosofico di questo
tema: dalla già citata Stimilli a Maurizio Lazzarato per quanto riguarda
gli italiani, bastino i nomi eccellenti di Marcel Hénaff, David Graeber e
Thomas Macho a titolo di esempio per quanto riguarda il panorama
internazionale. Lei sembra proporre la tesi che il «Debito Sovrano» sia
il risultato ultimo della «macchinazione» teologico-politica che struttura
dall’interno il pensiero occidentale, e che sia necessaria una svolta verso
un pensiero «dell’impersonale» e della «communitas» per poter superare
l’impasse di fronte a cui l’attuale crisi economica ci pone.
Potrebbe indicarci secondo lei quali potrebbero essere delle ricadute
politiche di un ripensamento in chiave «impersonale» del problema del
debito?
Guardi, è sempre difficile, e oltre un certo punto anche arbitrario,
voler indicare le ricadute politiche di un testo di filosofia. Filosofia e politica
viaggiano su binari paralleli, che si influenzano, ma non sul tempo breve. La
filosofia ha la possibilità di rivolgersi al passato in termini di genealogia o al
futuro in termini di prefigurazione. La politica guarda la presente, è stretta
da vincoli che la filosofia non ha. Per questo è difficile rispondere a quel che
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mi chiede. Soprattutto in rapporto alla categoria di impersonale. Essa nasce
in chiave critico-decostruttiva del paradigma di persona, al centro di tutti i
riferimenti apologetici contemporanei, ma legata ad una storia, semantica
e concettuale, di cui quasi sempre si ignora il significato escludente. Il
punto di vista dell’impersonale è quello del rifiuto delle soglie escludenti,
sia all’interno del genere umano che all’interno del singolo individuo,
appunto tra una parte pienamente personale, superiore, ed una inferiore,
di carattere animale. Quanto al problema del debito, la sua estensione
globale praticamente a tutti noi apre una possibilità di reazione, di rifiuto e
di capovolgimento dei rapporti di forza tra i tanti indebitati e i pochissimi
creditori che un tempo non esisteva.
La prima parte del Suo testo è dedicata a una profonda riflessione su
Heidegger. In particolare sui temi del Gestell e della macchinazione, che
diventano fondamentali nell’economia del Suo lavoro. Nel 2007 Giorgio
Agamben pubblica in Italia Il regno e la gloria, un’opera ponderosa che
cerca di risalire all’origine teologica del problema dell’economia, dove
avanza anch’egli la possibilità di interpretare il dispositivo economico nei
termini del Gestell heideggeriano.
Tra fine 2011 e inizi del 2012 compaiono, dello stesso Agamben,
due testi come Altissima Povertà e Opus Dei, che mettono al centro delle
proprie argomentazioni i problemi della comunità, dell’economia e del
loro rapporto con l’ordine del teologico.
Malgrado queste e molte altre tematiche comuni tra questi testi e la
Sua ultima opera, sembra che i percorsi suo e di Agamben possano essere
caratterizzati dall’espressione “divergenze parallele”: pur marciando su
binari paralleli, non si toccano.
Qual è la Sua opinione sulla posizione di Giorgio Agamben sulla
teologia economica?
Ho grande stima del lavoro filosofico di Agamben. In Pensiero vivente
in particolare ricostruisco l’itinerario concettuale de Il Regno e la gloria.
Tuttavia la mia prospettiva è diversa dalla sua. Egli si situa all’interno di
quella tradizione teologico-politica che io cerco di decostruire. Perfino
la categoria di ‘profanazione’, che egli usa, presuppone il riferimento al
concetto di sacro, per quanto in senso negativo.
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