In nome del popolo (e delle sue divisioni).

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In nome del popolo (e delle sue divisioni).
Kaiak. A Philosophical Journey, 1 (2014): Sottosuoli
In nome del popolo (e delle sue divisioni).
Cartografie dei sottosuoli e delle utopie giudiziarie
di Gianvito Brindisi
Scena da Délits flagrants di Raymond Depardon
Abstract: This article aims to discuss the sense and the value of the social cartographies of justice starting from what
could be defined the schizoanalysis of judicial power of Félix Guattari. Beginning from the preface of Guattari in the
Chronique des flagrants délits of Christian Hennion, contextualizing it, analyzing it in its specific framework and discussing it through a confrontation with other theoretical implants that have the same critical tonality, the article examines different typologies of judicial undergrounds and an utopic perspective as an answer to them. In this way, it makes
the guattarian schizoanalysis an important component of a more general cartographical method that aims to analyze the
strengths that act in judgments and to disclose their overall social and aesthetical depth, related to the individual and
collective sensibility. Therefore, the principal thesis is that the critic of the politics of judgment – namely of the state
and the changes of social sensibility (political, juridical and moral) – is extremely important in the problematization of
the forms of experience.
Il problema non è tanto quello dell’obbedienza dei giudici a ciò che il potere dice:
è piuttosto quello della loro conformità a ciò che il potere tace.
Michel Foucault, Maniere di giustizia
1. Dei sottosuoli giudiziari
Nella pratica della giustizia la protezione offerta al giudice dalla sua indipendenza non è sempre
tale da evitare che si dispieghino talvolta nel suo spazio d’azione zone d’ombra che, sotto il manto
dell’ufficialità, rimangono paradossalmente invisibili. È su questi sottosuoli giudiziari che vorremmo svolgere qualche considerazione, discutendone uno in particolare, superbamente descritto in un
testo poco noto di Félix Guattari, Application de la loi1, che indirizza la sua critica sul piano particolare di una forma di giustizia poliziesca degli anni Settanta e su quello generale del sadismo in cui
può incorrere chi è chiamato, nelle nostre società, a fare la partizione tra il bene e il male e i loro
omologhi, e che può ben essere interpretato come una sorta di abbozzo di schizoanalisi del potere
giudiziario. Proveremo dunque, innanzitutto, a contestualizzarlo nonché ad analizzarlo nella sua
specifica impostazione, per discuterlo poi ricorrendo anche ad altri riferimenti accomunati da un
medesimo tenore critico, in quanto volti a sottolineare l’utilità di una critica di quelle che si potrebbero definire politiche del giudizio, nel loro spessore sociale e nel loro tenore estetico; ciò, però,
non senza delineare preliminarmente, nelle sue linee generali, il tema di fondo.
1
Tradotto in italiano nel presente numero di “Kaiak. A Philosophical Journey”, e citato tra parentesi nel testo. Tutte le
altre traduzioni di testi in francese sono nostre.
Data di pubblicazione: 30.05.2015
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Se il potere poliziesco, adottando uno sguardo relativo esclusivamente all’uso della forza, deriva
il suo effetto terrificante dalla possibilità in esso insita di usare la violenza in modo arbitrario e irresponsabile, il potere giudiziario consegue il medesimo effetto per la sua facoltà di determinare irresponsabilmente il senso dell’essere di un qualcosa. Entrambi, certo, sono talora mossi dalla volontà
di essere esonerati dalla responsabilità del ‘fare il male al fine di instaurare il bene’, come nei casi
in cui la polizia vorrebbe raggiungere la velocità del male liberandosi delle procedure, o in quelli
naturalmente più rari in cui il processo assume esplicitamente un tenore politico o rivoluzionario.
La differenza, però, è che se subire la violenza di una mera forza lascia spazio alla possibilità che la
sofferenza faccia segno in direzione dell’innocenza, una condanna ha dalla sua la potenza simbolica
dell’eterno (Dio o la società) e non lascia in alcun modo spazio alla sofferenza di significare
l’innocenza2. Come voleva François Tricaud, nell’accusa è infatti iscritta in potenza un’attribuzione
di indegnità ontologica3, così che non sia raro che il processo funzioni come arma simbolica di condanna (ad esempio nei processi ‘politici’), o che sia usato o invocato spietatamente da chi si rappresenti innocente o vittima per purificare una società corrotta (così nei processi contro la politica), o
ancora che si preferisca essere puniti piuttosto che giudicati (come esemplificato da Coppola in Apocalypse now nelle parole fatte pronunciare alla forse solo apparente amoralità di Kurtz – che voleva appunto farla finita con il giudizio: «uccidetemi, ma non chiamatemi assassino»), o infine che
si voglia essere giudicati per acquisire paradossalmente un surplus di innocenza (come nel caso di
Gesù Cristo nella lettura di Pascal).
Essendo registrata nell’ordine simbolico della società, in un ordine che trascende cioè le esistenze individuali, sarebbe la colpa a sopravviverci. Nessuno meglio di Salvatore Satta ha saputo restituire questa potenza simbolica, coniugando alla natura divina del giudizio il suo rovescio diabolico,
in forza del quale nulla sta a cuore agli uomini più della vita «del criminale o del supposto criminale
che essi vogliono sopprimere attraverso il giudizio», e «nulla più li delude come il giustiziando che
previene il giudizio col suicidio», perché «nulla gli uomini aborriscono come il giudizio […]. Ciascuno è intimamente innocente: e il vero innocente non è colui che viene assolto, bensì colui che
passa nella vita senza giudizio. Ma ne aborriscono per la stessa ragione per la quale a loro volta vogliono giudicare»4.
In fondo, è proprio nella percezione della sua potenza che risiede l’intima e più profonda ragione
dell’ossessione di tanta letteratura per il processo e per le sue patologie, dalla smania di giudicare
(Aristofane) alle anime plumbee dei giudici e alle loro insufficienze morali (Racine, Rabelais), astuzie (Hugo), ingiustizie (Dumas), parzialità (Kleist), indecifrabilità (Kafka) e corruzione (Sciascia). Le critiche mosse alla giustizia non hanno tuttavia sempre vita facile, ciò che vale in particolare per l’Italia, dove il livello dello scontro tra politica e magistratura, com’è (più o meno) noto, è
ad altissimo tenore ideologico, svolgendosi su un terreno scivoloso che rischia di assegnare necessariamente all’una o all’altra delle posizioni massimaliste che si contendono il senso comune, o nel
migliore dei casi di condannare all’irrilevanza, altre prese di posizione critica. Si adottano così retoriche che fanno della magistratura un oggetto esclusivo di lode o di biasimo, per cui o la si critica, e
allora si è complici dei criminali e della corruzione generale del sistema o si rischia comunque di
esserne strumentalizzati, o la si esalta, e allora si è giustizialisti e a favore del governo dei giudici e
si è tacciati di ritenere che solo la giustizia possa salvare la politica o impedire alla democrazia di
‘suicidarsi’. Si tratta, chiaramente, di opzioni discutibili, che pregiudicano però la possibilità di una
visione differente5, rigorosa e spregiudicata a un tempo, dei problemi connessi al ruolo della giustizia nella società, e più in generale del significato e del valore politico dell’esercizio del giudizio.
2
In senso simile a quanto scrive Albert Camus in La caduta, trad. it. di S. Morando, Bompiani, Milano 2001, su cui cfr.
P. Audi, Qui témoignera pour nous? Albert Camus face à lui-même, Verdier, Lagrasse 2013, pp. 189-228.
3
F. Tricaud, L’accusation. Recherches sur les figures de l’agression éthique, Dalloz, Paris 2001, p. 189.
4
S. Satta, Il mistero del processo, Adelphi, Milano 1994, pp. 26-27.
5
Visione che pure da più parti è stata portata avanti: oltre al già citato Satta, di cui si veda anche il romanzo Il giorno
del giudizio, Adelphi, Milano 1979, si ricordi almeno un volume del 1967 di F. Cordero, Gli Osservanti. Fenomenologia delle norme, riedito nel 2008 per i tipi di Aragno. Di Cordero si veda altresì Criminalia. Nascita dei sistemi penali,
Laterza, Roma-Bari 1986.
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Come Michel Foucault sosteneva, «è quando sono sature di ciò che accade sul versante del crimine che le persone accettano di non sapere quel che accade sul versante di una giustizia che viene
resa nel loro nome»6 – sebbene mancasse di rilevare che a loro volta le accuse alla giustizia sono
spesso strumentalizzate al fine di occultare la corruzione dilagante7. Quanto questo sia vero lo dimostra in modo esemplare, ancora una volta, il caso italiano, così saturo non solo dal punto di vista
del crimine, ma anche del potere e delle sue logiche occulte, da essere ossessionato dalla figura del
Principe8: ragione, questa, per cui ad esempio la cinematografia giudiziaria italiana non ha pressoché mai ragionato, a differenza di quella americana, sulle logiche del giudizio, affrontando piuttosto
il tema dal punto di vista del potere, soprattutto negli anni Settanta. Tale impronta di questa peculiare stagione del cinema giudiziario italiano è d’altronde consonante con un’altra intuizione di Foucault, il quale faceva notare come lo stato italiano non si sia mai costituito come stato di polizia nel
senso moderno del termine, restando sempre uno stato di diplomazia, diviso tra le varie potenze sociali che di volta in volta si contendono le sensibilità, per così dire, dei cittadini9.
Ad ogni modo, con le sue analisi dei sottosuoli dell’apparato giudiziario, nella prospettiva delle
logiche disciplinari e dei loro effetti sul giudizio in relazione alle forme di esistenza 10, Foucault ha
cercato di mettere in luce il modo in cui essi esercitano la loro influenza sulle nostre forme di esperienza, sul nostro ritenerci lesi da o responsabili di qualcuno o qualcosa. Ora, poiché ogni postura
soggettiva opera all’interno di un quadro d’esperienza che è già sempre organizzato e lavorato in
una data modalità, e poiché i modi in cui una società organizza l’esercizio del giudizio non sono
sempre evidenti – così che anzi spesso sfugga sia la loro razionalità complessiva, sia il loro effetto
sulle soggettività –, l’analisi deve mostrare quanto non è solitamente oggetto di percezione e tuttavia determina le percezioni stesse, ciò che vale anche per quelle di un giudice, determinate da una
serie di fattori che agiscono sul suo modo di giudizio, e che fa sì, come voleva Jean Carbonnier, che
i giudici vengano «giudicati dai loro giudizi, perché il giudizio esprime il giudice»11.
Tra queste non e-videnze vanno annoverati almeno tre tipi di sottosuoli giudiziari: quelli su cui il
nostro sguardo potrebbe posarsi immediatamente, senza che ciò però, per una qualche ragione, accada; quelli che sono invece inaccessibili non tanto come una legge trascendente, quanto piuttosto
come le stanze in cui si decidono gli atti che avranno semmai come giustificazione e velo quella
stessa legge; quelli dislocati nelle profondità psichiche del giudice. Nel primo caso, se distogliamo
lo sguardo è perché, tutto sommato, gli eventi che si rappresentano sulla scena offerta ai nostri occhi
sembrano non riguardarci né poterci riguardare, essendo essa deputata ad accogliere chi, per provenienza o destino, le appartiene di diritto: scarti e rifiuti sociali, la povera umanità delinquente, bestiale e ignorante. Nel secondo caso, al contrario, ci troviamo di fronte a un mondo che si nasconde
per definizione, quello delle ragnatele del potere, che si fa scudo della garanzia di poter usare il potere irresponsabilmente, ossia impunemente, e nel quale taluni (quegli stessi che strumentalizzano le
accuse alla giustizia) arrivano anche a riconoscere delle virtuose e sagge necessità e opzioni realpolitiche, se non addirittura un’autentica arte dell’esercizio del potere, un’artistica trasgressione
della legge e della morale da parte di chi di queste è il custode12. Il terzo caso, infine, è quello di un
mondo nel quale la sola speleologia psicoanalitica o sociologica può condurci, il mondo delle iden6
M. Foucault, Le poster de l’ennemi public n° 1, in Dits et écrits, 1976-1988, II, Gallimard, Paris 2001, p. 256.
Esemplare, al riguardo, Perché si uccide un magistrato (1975), di Damiano Damiani.
8
Cfr. S. Lodato, R. Scarpinato, Il ritorno del Principe. La criminalità dei potenti in Italia, Chiarelettere, Milano 2008.
9
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), trad. it. di P. Napoli, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 228-229.
10
Cfr. Id., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, trad. it. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1995, p. 242 e 280. Al
riguardo, mi sia consentito rinviare a G. Brindisi, Potere e giudizio. Giurisdizione e veridizione nella genealogia di Michel Foucault, Editoriale Scientifica, Napoli 2010.
11
J. Carbonnier, Flexible droit. Textes pour une sociologie sans rigueur, Librairie Générale de Droit et de Jurisprudence, Paris 1979, p. 322 (corsivo nostro).
12
L’origine di questa attitudine va ricercata nella sofistica antica. Al riguardo si veda G. Carillo, Underworld. La legge
dell’ombra tra Antifonte e Platone, in G.M. Labriola (a cura di), Filosofia Diritto Politica. Scritti in onore di Francesco
M. De Sanctis, Editoriale Scientifica, Napoli 2014, pp. 213-236.
7
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tificazioni e delle disposizioni psicosociali del giudice, delle canalizzazioni della libido giudiziaria,
che possono sfociare, tra l’altro, tanto in una sostanziale identificazione con la legge sadica, quanto
nel disagio di chi non riesce ad adeguarsi alle norme implicite che governano la pratica della giustizia al di sotto dei valori dichiarati e vi determinano specifiche forme di solidarietà.
Siamo con ciò, dunque e rispettivamente, di lato, alle spalle e all’interno: tre tipologie del sottosuolo, queste, di ciascuna delle quali, attingendo alla pluralità di problematizzazioni che l’hanno interessata, proveremo ora ad assumere una forma di espressione differente, procedendo dalla terza di
esse per arrivare infine alla prima, che costituisce d’altronde l’oggetto specifico del nostro discorso.
Si situa all’interno, per cominciare il giudice tratteggiato da Edgar Lee Masters nei Sonetti di
Spoon River, Elah Lively – dal quale De André ha tratto la sua famosa Un giudice – che ripiega sul
risentimento e sulla rivalsa adottando una postura sadica in nome della rivincita sulla società che lo
ha umiliato, fondando cioè il suo il desiderio e il suo piacere di giudicare sul tentativo di liberarsi
dal debito rovesciando l’accusa sugli altri, in modo simile a quanto avviene, sebbene su un altro piano, nel Riccardo III di Shakespeare. Ma si situa qui, nella prospettiva più storicizzante delle modalità in cui si esperisce e patisce il giudizio e dell’ethos giudiziario, anche il disagio giudiziario, specificamente psicosociale, restituito dall’inchiesta sociologica svolta all’inizio degli anni Novanta da
Pierre Bourdieu e dalla sua équipe in La miseria del mondo. Remi Lenoir, in particolare, ha raccolto
un’interessantissima intervista a un giudice che mette in discorso quello che definisce il disagio della Giustizia, offrendo l’autoritratto di un giudice incapace di vivere la riconversione delle sue disposizioni personali alla luce dei valori professionali, essendo la pratica giudiziaria governata in realtà
da altre norme non scritte, come i rapporti corporativi e strategici con la polizia o il carrierismo13,
una sorta di Super-Io sotterraneo, come lo chiamerebbe Žižek14.
Alle spalle troviamo invece un classico del teatro italiano, Corruzione al Palazzo di Giustizia di
Ugo Betti, che, nel denunciare la corruzione come male oscuro della democrazia attraverso la descrizione degli intrighi e dei labirinti del Palazzaccio, sostiene al tempo stesso l’impotenza
dell’ingiusto che alla fine, dopo essersi vista garantita l’impunità (o forse per questo…), è colto dalla necessità di autodenunciarsi e quindi confessa, per un ardente bisogno di punizione. Motivo platonico e psicoanalitico, questo, che non apparterrà alla trasposizione televisiva di Corruzione di
Maurizio Aliprandi (1975), adattata come sarà al clima degli anni Settanta, ma che può essere ritrovato in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, che con Ugo Pirro ha costruito un esemplare rovescio speculare dell’Edipo re sofocleo.
E veniamo, infine, di lato, dove si colloca appunto Application de la loi, la prefazione di Guattari
a un lavoro di Christian Hennion15, cronista giudiziario di Libération, che ha in comune con Corruzione il fatto di derivare da vicende cronachistiche e di superarle in direzione di un più di senso in
relazione all’attualità, ma che a differenza dell’opera di Betti pone l’enfasi sulla superficialità
dell’esercizio del giudizio, sul piacere di giudicare e sui suoi bassifondi psichici. Se Corruzione,
scritta nel 1944 e andata in scena nel ’49, si proponeva di rendere conto dell’«epurazione degli uomini che […] erano ritenuti responsabili delle colpe del regime fascista»16, Guattari scrive il suo testo a partire da un lavoro volto a indagare la realtà concreta dell’istituzione, registrazione bruta del
reale17 ottenuta trascrivendo circa 80 udienze di casi di delitti flagranti nel tribunale di Parigi. Ciò
che queste udienze concretizzano è una giustizia differenziale che tratta casi delle classi povere, con
la funzione ideologica, sostiene Hennion, di «presentare tutti gli individui la cui situazione è un sintomo della crisi economica e sociale (disoccupati, senzatetto, marginali, lavoratori emigrati, giovani
13
Cfr. P. Bourdieu et al., La miseria del mondo, ed. it. a cura di A. Petrillo e C. Tarantino, trad. it. di P. Di Vittorio,
Mimesis, Milano 2015, pp. 325-346.
14
Cfr. S. Žižek, Il Grande Altro. Nazionalismo, godimento, cultura di massa, a cura di M. Senaldi, Feltrinelli, Milano
1999, p. 52.
15
C. Hennion, Chronique des flagrants délits, Éditions Stock, Paris 1976.
16
Cfr. G. Antonucci, Introduzione, in U. Betti, Corruzione al Palazzo di Giustizia, Newton, Roma 1993, pp. 13-14.
17
Così J.-C. Barreau, in C. Hennion, op. cit., p. 19: «È la commedia umana che si svolge sotto i nostri occhi con le sue
miserie e il suo essere patetico; è soprattutto la commedia giudiziaria con la sua buffoneria involontaria e la sua assurdità quotidiana».
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etc.) come dei delinquenti, vale a dire come degli individui pericolosi per l’ordine sociale», e di
«creare un sistema di bando all’interno del tessuto sociale e dei ghetti in cui si andranno a trovare
tutti i capri espiatori necessari»18; ed è altresì una giustizia non di rado usata per reprimere le manifestazioni politiche di dissenso. La stessa flagranza dei casi, d’altronde, è assai spesso discutibile,
considerato che molti arresti sono eseguiti dopo il fatto e solo sulla base di testimonianze.
Questi processi per delitti flagranti sono tali da non richiedere o non meritare l’allestimento di
grandi apparati scenici. Come rileva Guattari, siamo piuttosto nel retrobottega della giustizia, di una
giustizia di classe che senza troppi fronzoli, attraverso un’istruttoria della polizia, una procedura ridotto al minimo e una totale assenza dei diritti della difesa, fa impudicamente sfoggio della sua libido giudiziaria. Questa giustizia, sostiene Guattari, suscita un sentimento di rivolta e di fascinazione
pornografica a un tempo. Di rivolta, perché si tratta di un arbitrio contro un impotente: l’istruttoria,
come dicevamo, è svolta infatti dalla polizia, e il giudice si limita a distribuire mesi di prigione e a
dispensare valutazioni di ordine morale e raccomandazioni paternalistiche in modo superficiale e
irriverente, ciò che rende perfettamente percepibile l’esistenza di un razzismo di fondo, di pregiudizi reazionari, ma soprattutto di un piacere perverso di sancire l’inferiorità dell’inferiore, al punto da
condurre Guattari a chiedersi quale «quale sorta di ‘delega di piacere’ abbiamo loro tacitamente accordato perché le cose possano andare in questo modo» (p. 2). Ma accanto al sentimento di rivolta,
lo abbiamo anticipato, vi è da registrare anche una fascinazione, poiché in questa giustizia il nostro
inconscio trova un godimento voyeuristico, un piacere micro-fascista che è il prodotto
dell’identificazione con la macchina repressiva, che soddisfa appunto dei piaceri tra i più segreti
della nostra intimità, i nostri impulsi sadici e vendicativi. Tale perversione giudiziaria è protetta e
permessa anche dallo spazio giudiziario, che ha la funzione di isolare e distanziare giudicato e giudicante, nonché dalle complicità corporative che legano taluni protagonisti della scena e che sono
del tutto incomprensibili per gli imputati. In altri termini, la qualità rituale del contesto e le norme
non scritte che lo governano hanno lo scopo di riprodurre una distanza sociale, e hanno un carattere
sacrificale, persino etologico, sostiene Guattari.
E dunque, se le conquiste del diritto moderno, dalla presunzione d’innocenza ai diritti della difesa, sono riservate ai crimini delle classi medie e alte o comunque a quelli spettacolari, e se le cacce
all’uomo nei confronti dei criminali ‘importanti’ arrivano a riequilibrare l’economia nevrotica dei
nostri impulsi vendicativi, questi delitti flagranti ci mettono di fronte a un contesto patologico di
perversione: l’effetto sorpresa, la rapidità procedurale e lo spaesamento fanno emergere le figure
degli imputati come non appartenenti a questo mondo, macchiati da una presunzione di colpevolezza che discende, più che dall’agire, dall’essere in un certo modo (immigrato, senza domicilio fisso
etc.). Si legga, a titolo di esempio, una delle trascrizioni di Hennion:
Giudice: Mohamed, lei non lavora? – Mohamed: Sì, il mio avvocato ha la mia busta paga. – Giudice: Ma ne ha solo
una! – Avvocato: È pagato bisettimanalmente, questa è quella delle ultime due settimane. Non va certo in giro con le
buste paga di quattro anni fa. – Giudice: Gli si rimprovera di aver rubato un pezzo di prosciutto e una salsiccia a danno
di una commerciante. Lui riconosce i fatti. – Avvocato: Aveva dei problemi e delle difficoltà… – Giudice: Questo non
giustifica che si vada a infastidire i commercianti. D’altronde, misconosce le leggi essenziali del Corano. – Pubblico
ministero: Preferisco non avanzare alcuna richiesta per un pezzo di prosciutto e una salsiccia. – Avvocato: Se si trova
qui, è per aver dato della puttana alla commerciante… Lei ha chiamato la polizia. – Giudice: Arriverà il giorno in cui
minaccerà un commerciante con un’arma. – Avvocato: Non aveva alcuna arma con sé, che io sappia. – Deliberazione:
Un mese con la condizionale.
Per un pezzo di prosciutto e una salsiccia – danno riparato (la commerciante ha recuperato la merce) – Mohamed è
stato trattenuto per 48 ore in un commissariato, poi in carcere. La polizia (sei o sette agenti) ha scritto un verbale di una
trentina di pagine. La sezione della procura presso la sede della polizia, con a capo il sostituto procuratore della Repubblica, ha confermato il mandato d’arresto, accusato e poi deferito Mohamed. Tre magistrati, un procuratore e
un’udienza hanno portato a termine tutto questo brillante lavoro. Zola, Kafka! A voi la scelta 19!
18
C. Hennion, op. cit., p. 187. In Libération. La biographie, Éditions de la Découverte, Paris 2003, p. 260, Jean Guisnel
sostiene che Hennion ha portato alla luce i «bassifondi della giustizia in cui i diritti della difesa sono calpestati, in cui i
magistrati infliggono una giustizia di altri tempi a degli imputati senza difesa, sconvolti, schiacciati dal sistema».
19
In C. Hennion, op. cit., pp. 117-118.
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Ma a fronte di ciò, nel domandarsi se sarà mai possibile liberarsi della politica di individualizzazione della responsabilità e di colpevolizzazione patogena, e della costituzione di ambienti sociali e
repressivi, Guattari non fa sconti neanche all’idea alternativa della costituzione di una presa in carico dei soggetti da parte di una tecnocrazia invadente, ritenendo piuttosto che «alla responsabilizzazione individuale e alla presa in carico esclusiva dei corpi specializzati o di equipe medico-sociali
dovrà sostituirsi una presa in carico collettiva risultante da un altro modo di organizzazione della
società» (p. 3).
2. Del senso della cartografia giudiziaria tra Foucault e Guattari
Il testo di Guattari si iscrive senz’altro in quella ricca e diversificata tradizione di critica del giudizio che è stata elaborata, attraverso Nietzsche e in misura minore Kant, nella Francia del Novecento, e che da Sartre arriva a Deleuze passando per Artaud, Camus, Foucault, Bourdieu, Lyotard,
Derrida, Nancy: una linea di pensiero invero assente in Italia, dove un ruolo di forte critica nei confronti dei meccanismi giudiziari e polizieschi è stato portato avanti non tanto dalla filosofia, quanto
dalla letteratura, dal cinema e dal teatro – dai già citati Betti e Petri, e ancora da Gadda, Sciascia,
Damiani etc. –, nonché dagli stessi giuristi, a partire da Satta, Cordero, e fino a Luigi Ferrajoli.
Di Deleuze in particolare, che di Guattari era intimo amico, e che con lui ha scritto opere chiave
della filosofia del Novecento, sono noti l’amore (concettuale) per la giurisprudenza 20 e la passione
che riversava contro il giudizio e le sue trascendenze, animata quest’ultima dalla convinzione che
sia la prassi assoggettante del giudizio a determinare l’illusione vissuta del senso di una soggettività, iscrivendone il desiderio nell’ordine della mancanza e del debito infinito 21. Meno noto, invece, è
che anche Félix Guattari ha avuto il suo bel dire contro un certo esercizio della giustizia, come mostra ad esempio Application de la loi, scritto nel suo periodo di maggiore attivismo nell’ambito dei
movimenti sociali, un anno dopo la pubblicazione del volume su Kafka firmato con Deleuze e un
anno prima che Guattari redigesse quel suo famoso appello in difesa di Klaus Croissant che avrebbe
messo in crisi il rapporto di Deleuze con Foucault, che rifiutò di firmarlo ritenendolo troppo compiacente verso la RAF22.
Richiamiamo Foucault non solo perché il suo fantasma aleggia fortemente in questo testo, ma
anche per il suo grandioso lavoro di cartografia giudiziaria, Sorvegliare e punire, che precede di un
anno la pubblicazione del testo di Hennion – che lo richiama oltretutto in più luoghi – e che a sua
volta si iscrive in un percorso di critica della giustizia molto prolifico nella Francia del tempo, un
percorso di cui Foucault è stato protagonista anche con il suo lavoro al GIP, al Collège de France,
con i dibattiti, le conferenze e diversi scritti ‘minori’, ivi comprese numerose prefazioni a testi di
critica giudiziaria. Tutto ciò rende estremamente interessante un confronto tra le attitudini critiche
di Guattari e di Foucault, dal quale crediamo possano emergere in molto chiaro tanto le ragioni della loro diversità di impostazione, quanto dei possibili elementi di compatibilità su di un piano di sostanziale affinità cartografica, per così dire, volta a dare visibilità alle forze agenti nel presente.
Il testo di Hennion presenta una netta impostazione foucaultiana, procedendo a trascrivere lo
svolgimento delle udienze senza sovra-interpretarle, secondo un disegno molto prossimo
all’archivio giudiziario, e volto a rivelare il funzionamento superficiale, immanente, dei discorsi e
del potere. L’effetto conseguito è la restituzione di una serie di esistenze destinate allo scontro con
il potere, di vite situate al medesimo grado di infimità di quelle su cui Foucault, di lì a breve, avrebbe gettato un po’ di luce scrivendo una prefazione per una raccolta di lettres de cachet, e che sebbene non vi sia poi confluita rimane uno dei suoi testi più evocativi: La vita degli uomini infami.
Rilanciando la lezione foucaultiana, che negli archivi giudiziari era in grado di leggere un sistema di razionalità e un rapporto di potere a un tempo pragmatico e drammatico – considerati gli ef20
Cfr. G. Deleuze, Abecedario, a cura di C. Parnet, DeriveApprodi, Roma 2014, lettera G (gauche).
Su questo aspetto della critica deleuziana del giudizio rinviamo a G. Brindisi, Elementi per una genealogia della
“dottrina del giudizio” a partire da Deleuze, in “Magazzino di filosofia”, 16 (2005), pp. 67-114.
22
Cfr. F. Dosse, Gilles Deleuze, Félix Guattari. Biographie croisée, Éditions La Découverte, Paris 2009, p. 374.
21
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fetti soggettivi –, Arlette Farge ha giustamente sostenuto che in un archivio giudiziario è leggibile
un quadro nel quale le parole vibrano di intensità più che di verità. Nell’archivio, in altri termini,
non può rintracciarsi la verità empirica dei rapporti, ma la razionalità strategica del modo in cui gli
uomini si sono rapportati al potere. E difatti Foucault ha sempre usato gli archivi non certo per estrarne dati statistici, bensì per comprendere come un discorso si articolasse di fronte a un potere,
come la parola fosse sintomo di un sistema di razionalità complesso – ossia non solo giuridico – da
cui era governata e prodotta. Richiamando ancora Farge: «Dietro le parole che figurano sui processi
verbali, è possibile leggere la configurazione nella quale ciascuno tenta di posizionarsi di fronte a
un potere costringente, nella quale ciascuno articola, con successo o meno, la sua vita di fronte a
quella del gruppo sociale e in rapporto alle autorità. Per questo si appropria, in modo riuscito o meno, del vocabolario dominante, e tenta simultaneamente di farsi l’eco intelligibile di ciò che può
permettere di renderlo innocente o il meno colpevole possibile». In tal senso il discorso, che dica il
vero o il falso, è sempre vero nella misura in cui mostra degli elementi di reale che, «attraverso la
loro apparizione in un tempo storico dato, producono senso»23.
Proviamo ora ad assumere lo spazio del giudizio come una forma di eterotopia, ossia come uno
spazio in cui trova rappresentazione una pluralità di spazi differenzialmente funzionali e produttivi
di determinate forme di soggettività. Il tribunale, semplificando al massimo, sarebbe una sorta di eterotopia di restaurazione rispetto alle lacerazioni dell’ordinario, nella quale il soggetto, in rottura
con il proprio tempo tradizionale, è condotto mediante una procedura rituale di fronte a ciò che ha
fatto o a ciò che egli è, e in seguito punito o purificato attraverso la manifestazione della verità. Ebbene, un’immagine irenica della spazialità giudiziaria potrebbe condurre a pensare a essa come a un
luogo in cui il mondo supera il conflitto e ritrova la sua perfezione simbolica. Ma il giudizio è un
gesto complesso, composto da forze che si muovono in spazi laterali e di cui va indagata la genesi
al fine di comprendere le soggettività giusdicenti e giudicate e di coinvolgerle in un possibile divenire. E così, se per il tramite di discorsività varie e in funzione delle partizioni a cui obbediscono, i
giudizi concretizzano una certa oggettivazione del soggetto – che potrà essere rappresentato ora
come immobile nel tempo, mosso da un’astorica pulsione o da un istinto criminale, ora al contrario
come suscettibile di trasformazione –, un analogo registro sarà realizzato, al livello rappresentativo
e operativo, attraverso l’organizzazione degli spazi e l’attraversamento delle loro soglie. Quando si
pensi difatti allo spazio dei delitti flagranti, per come restituito da Hennion, come a un sottosuolo
giudiziario, esso apparirà strutturato eterocronicamente in modo duplice, in quanto caratterizzato da
un lato (in ragione della prova diretta del fatto) da una riduzione del tempo, e dall’altro (in ragione
del suo concretizzare una giustizia differenziale) dalla cancellazione della temporalità delle vite degli imputati. Eterotopia dell’istante o del fermo-immagine, la flagranza (del delitto ardente, secondo
il suo etimo, ossia ancora caldo, nonché colto nel suo splendore), che già di per sé costituisce
l’utopia dell’indagine – diretta a ripresentare il crimine come se fosse presente –, realizza anche il
sogno del poliziesco e del giudiziario, ovvero quello di raggiungere la velocità del male. L’utopia
giudiziaria della restaurazione dell’ordine del mondo trova così la sua verità nel suo complementare
bassofondo paranoico.
I casi analizzati da Hennion mostrano l’unione delle due forme di violenza, poliziesca e giudiziaria, richiamate in apertura, e dunque di quelle due linee che le teorie del diritto moderne avrebbero
voluto separate: polizia e giustizia, ossia, nei termini di Luigi Ferrajoli, ragion di stato e garantismo.
Come ha sostenuto Franco Cordero, gli «istituti giudiziari nascono da un lungo e imperfetto esorcismo sull’imperium merum. Sopravvive qualche residuo demonico al lento sviluppo dalle provocationes ad populum alle moderne macchine penalistiche, sebbene vigano importanti garanzie»24. Dove queste garanzie – che sono appunto quelle del diritto penale moderno – scompaiono, ecco allora
che risorge il meccanismo sacrificale, l’imperium merum. E nonostante nei casi in esame questa unione tra polizia e giustizia non si situi al livello del diritto politico in senso stretto, orientato cioè
contro finalità eversive o terroristiche – benché utilizzato anche contro le manifestazioni di dissenso
23
24
Cfr. A. Farge, Le goûte de l’archive, Éditions du Seuil, Paris 1989, p. 39.
F. Cordero, Criminalia…, cit., p. 95.
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–, ciò non vuol dire che essa non abbia tenore politico. Non si tratta certo, infatti, di un diritto di eccezione volto a difendere lo status quo di diritto attraverso la sospensione delle sue regole 25, ma un
certo esercizio di ragion di stato è comunque presente.
Sarebbe interessante al riguardo soffermarsi su come una ragion di stato, o meglio, una ragione
governamentale ricorra anche nel più infimo giudizio, ma non vi è lo spazio per farlo in questa sede.
Si ricordi però, almeno, che per Foucault il diritto penale moderno è sin dall’inizio intrecciato con le
esigenze di difesa sociale, al punto da poter essere letto tramite la griglia di intelligibilità della
‘guerra civile’26, al di là di quella che Carl Schmitt definiva giurisdizione del nemico, situazione esplicita ed eccezionale. Anche se un sociologo come Carbonnier ha sostenuto, non del tutto a torto,
che si potrebbe imputare alla magistratura di nutrire dei pregiudizi nei confronti di una categoria sociale solo qualora, a fronte di una serie piuttosto ampia di casi oggettivamente comparabili, le corrispondenti decisioni risultassero variare in ragione della provenienza sociale degli imputati 27, va rilevata comunque la parzialità di questa impostazione, che tiene in scarsa considerazione quella che
Foucault ha definito differenziazione degli illegalismi, la quale gioca un ruolo di prim’ordine anche
nei suoi riflessi sulle percezioni soggettive. Basti pensare che i crimini finanziari, che Foucault qualificava come illegalismi dei diritti, non erano neanche percepiti come reati pericolosi, né venivano
ricompresi dalle teorie criminologiche, e che al contrario i crimini sui beni, per quanto lievi, erano
considerati fisiologicamente legati alla natura di chi li commetteva, necessariamente criminale: questione di potere, certo, ma anche di percezione, nella misura in cui produce la credenza nella naturale tendenza al crimine delle classi popolari.
Ora, Guattari – che stranamente non cita mai Foucault nella sua prefazione – legge l’archivio
giudiziario non interrogandosi sul suo spessore storico o sulla strategia del discorso, o ancora
sull’articolazione dello spazio, ma sul versante inconscio del potere e sui termini etologici dello
scontro tra le vite e il potere. Ciò che Guattari aggiunge all’impostazione foucaultiana risiede nel
trarne le conseguenze al livello inconscio, rubricando il diritto poliziesco nel registro del piacere
micro-fascista di tenere qualcuno alla propria mercé, e riconoscendo nell’intero apparato repressivo
(giudiziario, poliziesco, penitenziario) un unico concatenamento collettivo di desiderio che influisce
sulle soggettività inducendole a identificarsi con la macchina repressiva. Sia Foucault che Guattari
ci permettono di assumere il processo e il gesto che ne rappresenta l’unità, il giudizio, come scomponibile nelle sue parti costitutive, in una diversa ma complementare politicità.
Questa attenzione per le soggettività giudicanti e per quelle oggetto di giudizio, per le categorie
del giudizio e per il loro complessivo valore politico, ci consente un’ultima riflessione. Nella prefazione di Guattari al suo sguardo diagnostico si accompagna una forma di critica della giustizia molto prossima e in qualche modo complice rispetto ai soggetti sottoposti al giudizio, laddove egli auspica, per l’esattezza, una trasformazione rivoluzionaria globale della società. Un’analoga impostazione, complice e utopica, è testimoniata anche dal suo solo altro testo di nostra conoscenza che riguardi questioni giudiziarie, la pièce L’Affaire du sac de chez Lancel, scritta nel 1979 e tutt’oggi inedita28. Si tratta di una sceneggiatura militante e di protesta composta da Guattari in reazione
all’arresto di uno dei suoi migliori amici, il regista François Pain, che ha lavorato per anni alla clinica di La Borde e realizzato numerosi film su esperienze di psichiatria alternativa. François Dosse
ricorda al riguardo che nel corso della manifestazione degli operai del settore siderurgico del 23
marzo 1979 Pain venne fotografato, in mezzo a persone col volto coperto, con in mano una borsa
della boutique Lancel lanciatagli da alcuni autonomi che avevano fracassato le vetrine del Boulevard tra République e Opéra. Pubblicata il giorno seguente in prima pagina su un giornale di estrema destra, Minute, dopo sei mesi la foto fu utilizzata dalla polizia per arrestare Pain, colpendo così
25
L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 869.
M. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France. 1972-1973, a cura di B.E. Harcourt, Gallimard/Seuil,
Paris 2012, pp. 23-39.
27
J. Carbonnier, op. cit., pp. 326-327.
28
Consultabile presso gli archivi dell’IMEC (Institut Mémoires de l’éditions contemporaine).
26
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indirettamente anche Guattari per il suo appoggio ai movimenti di lotta italiani29. Come riportato da
Flore Garcin-Marrou, fu allora che Guattari scrisse il suo testo, per denunciare appunto le assurdità
della macchina giudiziaria, rappresentando un giudice che alla fine si piega alla protesta mentre il
tribunale intero canta e balla una danza popolare tenendosi per mano30. Si tratta di un’opera molto
interessante ai fini del nostro discorso, sia perché ha ad oggetto un caso sottoposto alla giurisdizione
dei tribunali dei delitti flagranti – benché forzatamente, considerato che la foto incriminata non costituiva certo una prova del fatto che Pain avesse rubato la borsa o rotto le vetrine –, i quali erano
aditi in vista della repressione delle manifestazioni politiche di dissenso, sia perché testimonia
l’inclinazione di Guattari verso una certa retorica decisamente militante e a tratti utopica che è assente in Foucault. Quest’ultimo, infatti, oltre ad aver affrontato tali problematiche su una pluralità di
piani articolati storicamente, nel suo lavoro di prefatore mostra uno sguardo più ‘realista’ e assai
meno utopico, ritenendo che le lotte possano effettuare delle modifiche parziali e provvisorie, ma
non cancellare d’un tratto le strutture sociali per affidarle a reti autogestite, e non prestando quindi
alcuna fede al modello Stato cattivo/società buona.
L’attitudine militante di Guattari non è però senza ragione, come è vero che nella sua impostazione l’inconscio non è (solo) rappresentativo, ma semiotico, ciò che pone un problema di geologia
più che di rappresentazione. Un modo di giudizio comporta quindi per Guattari l’investimento di
una determinata parte della stratificazione inconscia che ha un valore immediatamente politico e sociale, considerata la rilevanza politico-sociale dei problemi di desiderio. Per questa ragione, come è
chiarito al termine della prefazione, il fatto che «i problemi posti dai tribunali dei ‘delitti flagranti’
non riguardino che un settore marginale della popolazione non deve farci perdere di vista
l’importanza delle poste in gioco sociali e delle mutazioni di sensibilità di cui essi costituiscono una
sorta di lastra sensibile. Con questo libro una nuova minoranza alla quale, fino ad allora, era stata
negata ogni presa di parola pubblica, si dà un primo mezzo di collegamento con l’insieme delle altre
lotte minoritarie che stanno diventando oggi il luogo di ricostituzione di un vero movimento rivoluzionario» (p. 2). Come a dire che criticare equivale a mutare sensibilità, a smuovere il terreno e a
produrre nuovo desiderio.
In conclusione di questo confronto, crediamo che una indubbia comunanza d’intendimento tra i
lavori di Foucault e di Guattari possa riconoscersi nella convinzione propria di entrambi che
nell’indagine dei modi di giudizio e dei partages giudiziari ne va dei nostri modi di essere, delle categorie che ordinano la nostra esperienza, dei nostri ritornelli e dunque delle nostre politiche percettive e delle nostre forme esistenziali. Tale rapporto tra forme giudiziarie e forme di soggettività, con
il suo complessivo tenore politico, era d’altronde costitutivo della critica del giudizio di marca francese di cui si è detto, per la quale si potrebbe sostenere che il giudizio è un luogo popolato da forze
di varia natura di cui vanno comprese la genesi, la funzione, la qualità. Basti pensare a Bourdieu,
che iscrive la giustizia nelle lotte per la classificazione, ossia per la definizione della realtà, di modo
che è proprio dall’essere mal classificata che una nuova minoranza può articolare il suo linguaggio
nello spazio pubblico31. Parlando dei casi di Hennion come di una lastra sensibile, sulla quale è
29
Per una ricostruzione integrale della vicenda, dei suoi presupposti e dei suoi strascichi politici, cfr. F. Dosse, op. cit.,
pp. 355-358, dove sono altresì ricordati i contatti di Pain con gli ambienti di lotta italiani e il suo contributo ai primi esperimenti di radio libere in Francia. Per i fatti di cui sopra, Pain fu imputato per violazione della legge anti-casseur e
sottoposto a carcerazione preventiva per quattro mesi. Guattari promosse una forte campagna di contestazione della carcerazione preventiva, che in taluni casi, come quello di Pain appunto, consentiva al giudice di tenere in custodia
l’imputato fino a sei mesi prima dell’inizio del procedimento. Quanto alla tesi secondo la quale con il trattamento riservato a Pain si volle colpire Guattari, essa non è affatto infondata. Nei mesi successivi, infatti, la clinica psichiatrica di
La Borde fu perquisita col pretesto che avesse dato ospitalità a Jacques Mesrine, il cosiddetto “nemico pubblico n. 1”, in
occasione del sequestro Lelièvre, e tutte le agende di Guattari furono esaminate. Su “Le Nouvel Observateur” di lunedì
3 dicembre 1979, in un articolo intitolato Docteur, je vois de flics partout, Delfeil de Ton scrive: «Se Pain è in prigione
[…], è di certo perché è amico di Guattari. E se si potesse sbattere Guattari stesso in prigione, capo?» (p. 94). La perquisizione, dall’esito negativo, si svolse con le modalità previste per i casi di massima urgenza, sebbene in assenza di una
qualsiasi urgenza reale, considerato che Mesrine era morto e i suoi complici in prigione.
30
Cfr. F. Garcin-Marrou, Portrait de Félix Guattari en auteur dramatique, in “Chimères”, 2 (2012), pp. 141-142.
31
P. Bourdieu, Lezione sulla lezione, trad. it. di C.A. Bonadies, Marietti, Genova 1991, pp. 12-13.
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dunque impressa la formazione della nostra sensibilità, Guattari mostra di intendere la critica delle
forme di giudizio come un passo fondamentale per sperimentare nelle nostre forme di esistenza politica e giuridica, per affrontare non tanto e non solo la funzione della giustizia, ma la possibilità di
riorganizzare la nostra sensibilità o, per usare una locuzione cara a Jacques Rancière, di effettuare
una nuova partizione del sensibile.
3. Del nome del popolo tra delega di piacere e identificazione con la macchina repressiva
Confinate in un retromondo che non interessa ad alcuno, le udienze trascritte da Hennion sono
come fuori dallo spazio pubblico. Quel che risalta immediatamente è l’assenza di angoscia dei giudizi, la loro superficialità, l’assoluta mancanza di pathos con cui vengono resi. A cosa è dovuto tutto
questo? Senza dubbio alla ‘certezza’ della colpevolezza, trattandosi di flagranza, ma non sono senza
rilievo anche lo svolgimento della procedura e le complicità rituali, nonché infine il tipo di soggettività giudicata. Se sul primo aspetto Guattari non spende molte parole, al secondo e ancor più al terzo dedica invece delle interessanti riflessioni che vale la pena discutere e approfondire.
Ebbene, premesso che è la stessa legge che viene invocata (Application de la loi!) a funzionare
non già come argine alle possibili perversioni della sensibilità e della libertà del giudice, bensì al
contrario come fattore di irresponsabilizzazione del giudizio, l’intero svolgimento della procedura
costituisce per Guattari una sorta di strumentazione volta a produrre inferiorità – fisica, morale ed
estetica –, secondo un’impostazione in parte prossima a quella che di lì a qualche anno mostrerà
Antoine Garapon. Per quest’ultimo il rituale giudiziario si configura come una cerimonia degradante che istituzionalizza le procedure di inferiorizzazione dell’accusato attraverso la sua spoliazione
simbolica e in funzione di uno schema di presunzione di colpevolezza 32, costringendolo a un dislivello simbolico e conoscitivo, e tuttavia permette una messa a distanza della violenza e garantisce
uno spazio di giustizia in cui il giudice è libero dalle influenze ingannatrici dei sensi. Si tratta insomma di un sadismo necessario, se non altro perché, offrendo «lo spettacolo terrifico, ma anche
catartico, della crudeltà»33, il rito mette in scena la pulsione da cui a un tempo ci protegge, esorcizzando la nostra aggressività. L’affinità di Guattari rispetto a una simile impostazione può attenere
esclusivamente ai processi altamente simbolizzati. E sebbene le udienze trascritte da Hennion vadano in direzione del porno, come fuori scena, svolgendosi in un rito ridotto ai minimi termini – ciò da
cui deriva appunto la fascinazione pornografica di cui parla Guattari –, il rito è pur sempre presente,
come lo sono le complicità rituali degli agenti sulla scena. Per questo Guattari lo paragona a un rituale di sottomissione, non lamentando tanto la riduzione del rito ai minimi termini, bensì piuttosto
l’assenza di una vera istruttoria e dei diritti di difesa degli imputati. Non è nella riduzione del rito,
insomma, che va ricercata l’origine di giudizi tanto paternalistici e istintivi, ma nelle classificazioni
prodotte da normatività altre che esso integra34. L’aspetto simbolico del processo può fungere cioè
da garanzia per le cosiddette classificazioni legittime, ossia – nei termini di Bourdieu – per i principî di visione e di divisione del mondo prodotti dai rapporti di assoggettamento nella società – il che
poi significa, per dirla con Foucault, che l’elemento simbolico apre sì uno spazio riflessivo, e tuttavia porta con sé l’indifferenza rispetto ai saperi che determinano le materie soggettive punibili 35.
Ma l’aspetto più interessante delle tesi di Guattari è l’uso che fa dei concetti – sia psicoanalitici
che propri della teoria giuridico-politica moderna – di delega e di consenso, probabilmente per la
32
A. Garapon, Del giudicare. Saggio sul rituale giudiziario, ed. it. a cura di D. Bifulco, Cortina, Milano 2007, p. 95.
Ivi, p. 187.
34
Pur rappresentandosi come autosufficiente simbolicamente, il processo funziona, come ha mostrato Kafka, come una
macchina: «K si accorgerà che, se la legge resta inconoscibile, non è perché si sia ritirata nella sua stessa trascendenza,
ma semplicemente perché è svuotata di ogni interiorità; è sempre nell’ufficio accanto, o dietro quella porta, all’infinito
(lo si capiva già dal primo capitolo del Processo, in cui tutto si svolgeva nella ‘stanza accanto’). Infine, non è la legge
che si enuncia in virtù delle esigenze della sua finta trascendenza, è quasi l’opposto, è l’enunciato, è l’enunciazione a far
legge, in nome di un potere immanente di colui che enuncia» (G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, trad. it. di A. Serra, Quodlibet, Macerata 1996, p. 80).
35
Per un’analisi del lavoro di Garapon rinvio al mio Forme e problemi della giustizia (In margine a uno scritto di Antoine Garapon), in “Questione Giustizia”, 4 (2008), pp. 151-163.
33
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loro capacità di illuminare le formazioni di desiderio paranoiche. Dell’eccesso di sadismo che si esprime in queste udienze Guattari non ritiene infatti responsabili i soli giudici. Pur stigmatizzandone
l’attitudine perversa, a suo giudizio «non si può imputare una responsabilità esclusiva all’apparato
giudiziario di un sistema di segregazione che presuppone il consenso, a gradi diversi, di ciascuno di
noi» (p. 1), ed è per questa ragione che arriva a chiedersi quale «sorta di ‘delega di piacere’ abbiamo loro [ai giudici] tacitamente accordato perché le cose possano andare in questo modo» (p. 2).
Rispetto a un simile andamento – egli afferma – possiamo identificarci o provare repulsione, due
territorialità psichiche dalle conseguenze opposte. Della seconda parleremo al termine del nostro discorso, ma ora è sulla prima che vogliamo rivolgere la nostra attenzione.
Premesso che il piacere di cui si parla è quello micro-fascista di tenere qualcuno alla propria
mercé – che «può esprimersi tanto attraverso una violenza diretta – strappare le ali a una mosca, violentare una donna – quanto attraverso una violenza legale – argomentare sovranamente in un rapporto di forze irreversibilmente dissimmetrico – o attraverso una violenza inconscia – soggiogare un
individuo attraverso un’immagine e una minaccia che sfuggono alla sua comprensione» (p. 3) –, e
che il fascismo è per Guattari e Deleuze, «un micro-buco nero, che vale per se stesso e comunica
con gli altri, prima di risuonare in un gran buco nero centrale generalizzato»36, ossia un fenomeno e
un concetto micro-politico, relativo a un corpo sociale canceroso, a un desiderio che desidera la
propria repressione, ciò apre un discorso interessante sulla rappresentatività nel giudizio giuridico.
Com’è noto, parte della teoria del diritto tende spesso a pensare al potere dei giudici in opposizione alla democrazia rappresentativa, mentre tra quanti cercano al contrario di giustificarne la
compatibilità si sostiene talvolta che i giudici siano essi stessi rappresentanti, benché non eletti –
conformemente alla teoria per la quale non sono i rappresentanti a esprimere la volontà generale,
ma piuttosto devono essere considerati rappresentanti tutti coloro che partecipano all’espressione
della volontà generale37 –, o che siano i rappresentanti del popolo costituente. In entrambi i casi la
fusione tra popolo e rappresentanza politica è scongiurata riconoscendo nella democrazia non tanto
il potere del popolo, quanto quello esercitato in suo nome. Ciò ha luogo ad esempio tramite una corte costituzionale (nonché, come ha sostenuto Pierre Rosanvallon, mediante i giudici ordinari e le autorità di regolazione)38, col presupposto dell’esistenza di due popoli – così Marcel Gauchet – l’uno
perpetuo, titolare della sovranità e rappresentato dalla costituzione, e l’altro attuale, ossia il mero
corpo elettorale che del primo è rappresentante temporaneo39.
Tornando a Guattari, allorché egli parla del consenso di ciascuno di noi, consenso a nostro giudizio va inteso etimologicamente, nella sua radice sensibile, relativa a una sensibilità comune. Lo
stesso concetto di delega di piacere, d’altronde, rinvia a un piacere inconscio. Ma la questione interessante è un’altra. Parlando del consenso di ciascuno di noi e di delega, Guattari individua in una
delega dal basso l’autorizzazione a giudicare, riconoscendo in un certo senso la rappresentatività
del giudizio, la possibilità che esso sia popolato da forze che gli conferiscono il suo senso. E ciò apre la questione della rappresentanza all’interno del giudizio al livello della partizione del sensibile,
poiché il fatto che Guattari ponga un problema di soglie percettive discende, crediamo, dalla sussistenza nel giudizio di un tenore psicodrammatico che riguarda la sensibilità collettiva: il che sta a
significare che è possibile decifrare la battaglia che si conduce in nome della conquista di una sensibilità comune e della costruzione di uno spazio pubblico, attraverso rapporti di forza e procedure
di esclusione e di inferiorizzazione di un popolo contro un altro.
Ci è data così la possibilità di analizzare la politicità della giustizia allargandone il quadro oltre
la giustizia costituzionale, ma soprattutto oltre i tribunali rivoluzionari, la giustizia totalitaria o i tri36
G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, a cura di M. Guareschi, trad. it. di G. Passerone, Castelvecchi, Roma 2006, p. 321.
37
M. Troper, Le gouvernement des juges, mode d’emploi, Presses de l’Université Laval, Quebec City 2006, p. 35.
38
P. Rosanvallon, La démocratie inachevée. Histoire de la souveraineté du peuple en France, Gallimard, Paris 2000, p.
407.
39
Cfr. M. Gauchet, La Révolution des pouvoirs. La souveraineté, le peuple et la représentation. 1789-1799, Gallimard,
Paris 1995, p. 45.
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bunali internazionali – forme piuttosto esplicite di giustizia dei vincitori. Se la giustizia costituzionale rappresenta la sovranità del popolo perpetuo, l’esercizio ordinario della giurisdizione ha esattamente il compito di dividere e di effettuare partizioni istituendo popoli, o meglio, istituendo il popolo nelle sue divisioni, ovvero dividendolo. È in questo quadro che si può vedere quale popolo sia
espresso in un giudizio e quali siano i godimenti inconsci e le identificazioni che esso produce. Si
giudica dunque in nome del popolo, ma anche delle sue divisioni, e ancora in funzione di chi al popolo neanche appartiene. E così come si può pensare a un popolo attuale e a un popolo perpetuo, allo stesso modo si può presupporre l’esistenza di un popolo sotterraneo, ai margini, o addirittura del
tutto escluso dallo spazio pubblico, come nel caso dei migranti. Ma se questo è vero, allora è possibile sostenere che è sempre un popolo a giudicare in nome del popolo, ciò che può avere
un’attitudine inclusiva ma anche escludente, allorché esso giudichi contro i suoi scarti sociali, lasciando che siano oggetto delle misure di polizia o che abbiano comunque minori garanzie. Insomma, il popolo in quanto tale non esiste, ed è nel suo nome che chi lo rappresenta dandogli esistenza
e ricevendone in cambio una legittimazione viene a essere abitato da una sostanza maggioritaria.
Ora, per Guattari ogni insieme sociale produce delle forme di soggettività selezionando i suoi elementi in modo paranoico o schizofrenico. Nelle udienze riportate da Hennion vediamo una delle
varie forme della prima modalità. Non vi è infatti un potere che per perpetuarsi offre un capro espiatorio alla folla, bensì, al contrario, il quotidiano lavorio giudicante – un incubo ricorrente
(anch’esso un rito, coazione a ripetere) – verso coloro che collettivamente sono pensati come già
destinati e che per questo rappresentano una minaccia immaginaria funzionale a costituire una soggettività paranoica del gruppo.
In un certo qual modo Guattari sostiene che il nostro legame sociale, oltre a limitare fortemente
l’emergenza di nuovi concatenamenti desideranti, autorizza a reprimerli un potere opprimente con il
quale ci identifichiamo. E poiché nella filosofia guattariana il ritornello ha la funzione di scongiurare l’angoscia e dare un ritmo al tempo, abitarlo e territorializzarlo40, il nostro fuggire con lo sguardo
questi sottosuoli giudiziari, così come la nostra identificazione con la macchina repressiva, costituisce una sorta di ritornello esistenziale impoverito che impedisce la formazione di nuovi territori esistenziali soggettivi e collettivi. È esattamente il caso di un giudice che, per il tramite della sua identificazione in relazione al fantasma del popolo, disconosca del tutto la storicità del suo ruolo, annullando paranoicamente e ideologicamente la soggettività dei giudicati.
Non sbaglieremo, crediamo, nell’individuare l’origine ultima di queste tesi di Guattari in Elias
Canetti, che in Massa e potere sosteneva che il generico piacere di condannare ha come sua condizione di possibilità la partizione tra superiori e inferiori (che a posteriori enuncia la superiorità dei
valori dei primi), e che l’operazione di classificazione non è mai interamente pacifica, conferendo la
sentenza densità di gruppo alla massa amorfa, origine questa della contrapposizione tra gruppi e potenziali mute ostili41.
Per approfondire però il discorso di Guattari, è chiaro che il piacere di giudicare deriva nel nostro
caso dalla strutturazione paranoica di un gruppo che si definisce in funzione di un altro al quale non
è concessa storia, e di cui si pretende quindi di sapere tutto. Deriva da qui la totale assenza di angoscia nell’espressione di sentenze che sono emanate non contro esistenze giuridiche, ma contro esistenze naturali: giudicare un miserabile che la polizia ha fabbricato come delinquente non produce
in fondo alcun senso di colpa, poiché equivale a convalidare un giudizio che il destino ha già pronunciato, in conformità all’ordine delle cose. La partizione storica degli illegalismi produce così
una differenza ontologica che ha effetti sui soggetti e sulle loro percezioni, inducendoli a rappresentarsi il giudizio come mosso da una conformità al destino sociale, ciò che vale tanto per i giudizi
40
Cfr. F. Guattari, Le temps des ritournelles, in Id., L’inconscient machinique, Recherche, Paris 1979, pp. 109-153.
Cfr. E. Canetti, Massa e potere, trad. it. di F. Jesi, Adelphi, Milano 2006, pp. 358-359. Il rinvio potrebbe invero essere esteso, in quanto per Canetti il piacere di esprimere una sentenza negativa è tanto più grande quanto più rapido, proprio come nel caso dei delitti flagranti. Lo stesso si potrebbe sostenere in relazione al parallelo tra rito e rituale di sottomissione, «faccia a faccia animale» a cui l’imputato può sfuggire solo mostrando di non essere un nemico.
41
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ferrei e sarcastici emessi contro i soggetti marginali (e all’occorrenza contro i gruppi politici indesiderati), sia per quelli duttili e indulgenti pronunciati per lo più contro i benestanti42.
In questi giudizi, insomma, l’infelicità è trasformata in colpa, cioè in destino. Proprio come voleva Benjamin, per il quale il destino è il «contesto colpevole di ciò che vive», e proprio perché il
giudice «può vedere destino dove vuole»43, si sente esonerato dalla responsabilità del giudizio, in
quanto sta giudicando chi, in qualche modo, non può avere storia. Si spiega così non solo l’assenza
di angoscia, ma anche il piacere di inferiorizzare proprio del giudice, il quale non può sentire la sofferenza del sofferente se non altro perché non è quello il soggetto, il popolo a cui deve rendere conto. A mostrarlo con tutta evidenza è altresì la rete di solidarietà e complicità linguistiche e rituali
che si innesca tra gli attori della procedura nei confronti del malcapitato che, restandone escluso, testimonia a sua insaputa di come l’appartenenza a un circolo di potere (autorizzato, lo si ricordi, da
una delega di piacere) si riveli essere una via della salvezza, venendo eternizzata in un circolo da
cui si trae un più-di-piacere. Un micro-fascismo burocratico, questo, che forse in Italia solo Gadda –
«Verbale, invito, mandato, rapporto, archivio giudizziario, archivio politico, stanza numero due
numero tre numero quattro, tavolo e sedia, calamaro e penna-bona de ciuccià’»44 – e Petri – «Di
fronte a me che rappresento il potere […], la legge […], tutte le leggi, quelle conosciute e quelle
sconosciute, l’indiziato ritorna un po’ bambino, e io divento il padre, il modello inattaccabile, la mia
faccia diventa quella di Dio, della coscienza»45 – sono riusciti a restituire nella sua miseria psicosociale, giuridica e politica.
Scene da Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, di Elio Petri
Non vi è dubbio che questa perversione che fa della legge e del diritto uno strumento di godimento inconscio del male si risolve in un’identificazione con la legge volta a meglio pervertirla e
messa in atto da devoti dell’ordine costituito nonché certamente, non vi è da dubitarne, da buoni padri di famiglia. E sebbene un simile piacere perverso sia tale da dipendere non solo dal vissuto psichico del singolo, ma da un preciso contesto storico-sociale, risulta difficile dire se esso dipenda
dalla perversione del sistema o se ogni sistema produca delle identificazioni perverse allorché vi si
aderisca totalmente. È chiaro che la violenza della schizoanalisi guattariana del potere di giudicare
vorrebbe che il narcisismo mortifero del potere sentisse su di sé il peso della sua impotenza. Checché se ne pensi, allorché Guattari si domanda se sarà possibile sfuggire a questa logica, anziché
pensare a dei meccanismi istituzionali che creino delle forme di angoscia nell’esercizio del potere
generando l’insicurezza di esercitarlo, ha in mente una trasformazione globale della società e della
42
In senso contrario, si pensi al film di Dino Risi, dal titolo assai significativo ai fini del nostro discorso, In nome del
popolo italiano, uscito nel ’71, e nel quale è rappresentato un magistrato che, pur di colpire un’intera classe sociale corrotta, non esita a condannare un capitalista innocente.
43
W. Benjamin, Angelus novus, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1995, p. 35.
44
C.E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, in Id., Opere. Romanzi e racconti, II, Garzanti, Milano 1989,
p. 412. Al riguardo si veda R. Marra, La cognizione del delitto. Reato e «macchina della giustizia» nel «Pasticciaccio»
di Gadda, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, 1 (2010), pp. 157-183, nonché Id. (a cura di), Diritto e
castigo. Immagini della giustizia penale: Goethe, Manzoni, Fontane, Gadda, Il Mulino, Bologna 2013.
45
Da Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), da cui si ricordi anche: «L’uso della libertà, che tende
a fare di qualsiasi cittadino un giudice, che ci impedisce di espletare liberamente le nostre sacrosante funzioni».
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giustizia che ci resta da vedere, e nella quale nuove forme di soggettivazione andrebbero ad articolarsi con diverse esigenze sociali, o in termini psicoanalitici con nuovi ideali dell’io.
4. Dal sottosuolo all’utopia
A partire dalla repulsione prodotta dall’esercizio del giudizio di cui sopra, Guattari auspica una
nuova divisione sociale del lavoro che cancelli il dispotismo perverso delle burocrazie di ogni sorta.
Una prospettiva utopica, questa, come da lui stesso ammesso, perché legata a una trasformazione
difficilmente concepibile del campo sociale, e al contempo pericolosa, in quanto comporta che si
preferisca essere giudicati da professionisti piuttosto che rimettersi al populismo dei portieri e degli
autisti di taxi. Ciò, però, solo fino a quando il popolo sarà lavorato dalle rappresentazioni repressive
del potere, ossia fino a quando i movimenti di sinistra non cercheranno di realizzare una presa in carico diretta dei problemi di desiderio e della vita quotidiana.
Guattari propone insomma una sorta di scioglimento del giudiziario nel sociale – nondimeno riconoscendo che resta così irrisolto il problema della protezione delle persone, del versante paranoico cioè del progetto giuridico-politico moderno –, postulando una collettivizzazione del giudizio
che si fonda su una collettivizzazione della responsabilità, a partire dall’essere dei soggetti prodotto
di ambienti sociali repressivi. Ebbene, se è già ingiusto ridurre all’individualità una responsabilità
collettiva, un intrico causale complesso o una costruzione desiderante – il che vale ovviamente anche per le perversioni giudiziarie –, una tale impostazione non elimina il problema del giudizio nei
confronti del godimento del male46 (linee di fuga convertite in linee di morte), senza contare il fatto
che risulta difficile, cancellando la responsabilità soggettiva, evitare di cadere nelle pieghe medicoscientifiche. Per Guattari, tuttavia, non si tratterebbe di andare in direzione dell’eziologia, quanto
piuttosto di creare qualcosa a partire dalle ramificazioni sociali e politiche che determinano il desiderio. Quel che ha in mente sono nuovi sistemi comunitari autogestiti che non giudichino qualcuno
come responsabile di atti delittuosi o anormali, ma esplorino le «molteplici ramificazioni sociali e
politiche che egli mette in gioco per mobilitarle» (p. 4). Il modello, in questo senso, è probabilmente
il suo lavoro presso la clinica di La Borde, dove Guattari costituiva appunto delle famiglie artificiali
definite unità di presa in carico e aventi l’obiettivo di «catturare l’immaginario dei pazienti come
quello dei membri del personale della clinica staccandoli dai ripiegamenti familiari-edipici che induce la relazione classica tra malato e medico»47.
Al di là di questa prospettiva utopica di collettivizzazione del giudizio (che non fa i conti con i
suoi connessi rischi aristofaneschi), ci si può però chiedere se sia possibile svolgere qualche riflessione sul rapporto tra giurisprudenza e movimenti sociali, e se sia cioè possibile immaginare –
all’opposto di Salvatore Satta – l’utopia di un giudizio rivoluzionario e privo di trascendenza. Assunta la ben nota parentela tra i concetti della psicoanalisi e quelli giuridici, è il rifiuto della schizoanalisi di adottare la postura ermeneutico-poliziesca della psicoanalisi a renderle difficile pensare a
una strutturazione alternativa di un processo. Contro una concezione dell’inconscio come regno privo della possibilità di un non-luogo-a-procedere, la psichiatria istituzionale ambisce non a ritrovare
il senso del disagio ma, al contrario, a produrre qualcosa a partire da esso. E allo stesso modo, la
giurisprudenza non dovrebbe interpretare, bensì sperimentare. Si tratterebbe, insomma, di un’utopia
di immanenza48, in quanto Guattari, e con lui Deleuze, auspicano una giurisprudenza creativa completamente infondata, vale a dire sganciata da qualsiasi fondamento veritativo e dunque insuscettibile di trasformarsi in sapere.
46
Ovvero il problema del giudizio nei confronti di chi, per identificazione con la legge o con la normatività superegoica
dell’ordine informale, del male ha goduto. Ciò che comporterebbe l’eliminazione, con la responsabilità soggettiva, anche della questione della libertà, per dirla con la Arendt (per cui cfr. Responsabilità e giudizio, a cura di J. Kohn, trad. it.
di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2003, pp. 16-17). Su questi temi si veda F. Ciaramelli, Lo spazio simbolico della democrazia, Città Aperta Edizioni, Troina 2003, pp. 113-141.
47
In F. Dosse, op. cit., p. 234.
48
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia, trad. it. di A. De Lorenzis, Einaudi, Torino 1996, p. 93.
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Ora, poiché un modo di giudicare si fonda per Guattari su una delega ricevuta dal basso, una siffatta giurisprudenza sarà possibile solo quando i gruppi minoritari riusciranno a trasformarsi in
gruppi soggetto: in altri termini, un giudizio sarà ‘rivoluzionario’, portando a un massimo di connessioni, allorché troverà già nel sociale, allo stato di virtualità giuridica, quanto esso procederà poi
a enunciare, trasformando un’esigenza di giustizia in diritto (per quanto sia difficile, aggiungeremmo, che in un quadro sociale reazionario il giudice non tenda a sublimare gli interessi di fatto del
gruppo maggioritario). Con una postura che appartiene anche a Deleuze49, Guattari aspira a una giurisprudenza che sia una sorta di patchwork prodotto a partire dalle lotte minoritarie presenti nella
società, un costrutto normativo derivante dall’eterogeneità del sociale. Un giudizio quindi non sarà
maggioritario allorché non parlerà nella lingua maggioritaria, ma comporrà dialetti, le forze costituenti della società. In assenza di un fondamento ‘oggettivo’ del giudizio che non sia relativo ai saperi e alle lotte minoritarie, si tratterebbe di far giocare di contro all’oggettività del senso la creazione artistica della sfera normativa.
Il suo ideale, insomma, è quello di una giurisprudenza sperimentale che raccolga l’esperienza
giuridica in concreto e ne accompagni lo sviluppo senza incasellarla nelle griglie dell’esperienza
giuridica pregressa e in una direzione che sia quella della loro integrazione in un’unità formale50.
Una giurisprudenza che rivendichi il suo carattere politico non – come avrebbe detto Deleuze –
piantando gli elementi di un popolo futuro, né ovviamente sanzionando in modo immaginario le
segmentarietà del popolo presente, ma selezionando nella realtà le forze che rimandano non ai rigori
dell’organizzazione, bensì alla vita, in un rovesciamento radicale dell’antropologia gehleniana.
Ma a questo punto, più che quello di delega, sarebbe opportuno utilizzare il concetto di sperimentazione, che presuppone infatti di esistere nel proprio campo sociale come uno straniero, esattamente come nella sperimentazione letteraria per Deleuze e Guattari. Una giurisprudenza trasversale, al pari di una pratica artistica, dovrà fare dunque appello a un popolo, ma non potrà mai crearlo o
presupporlo: senza poter essere delegata di un popolo esistente, dovrà cioè esprimere la parola di un
popolo a venire, destituendo tanto la verticalità della legge quanto quella dei valori sociali reattivi.
E tuttavia, crediamo, in questa prospettiva che nella sua utopia nulla dice però riguardo a una
strutturazione concreta di una giurisprudenza che si vorrebbe critica e clinica, non vi è alcuna garanzia contro il rischio che essa si ponga al servizio delle forze maggioritarie e che avalli pratiche
micro-fasciste, anziché contribuire all’aumento delle possibilità di concatenamenti desideranti, o
all’ampliamento del tessuto relazionale della società, per dirla con Foucault. Difatti, nella diversità
delle componenti di soggettivazione che ci attraversano è sempre possibile che il territorio esistenziale attrattore che ci strappa dal caos percettivo sensibile e significante, ossia il ritornello, sia regressivo, ciò che oltretutto è suscettibile di essere verificato solo a posteriori.
Anche in assenza di un ancoraggio trascendente, la produzione giurisprudenziale del diritto potrebbe insomma cedere al versante regressivo e, anziché produrre connessioni rivoluzionarie, troncarle o rinchiuderle nelle proprie forme di identità impedendone il divenire. Il giudizio può impregnarsi di ideologia e di arbitrio anche in assenza di una sottomissione totale alla legge. Sia il formalismo che l’antiformalismo, per restare nell’orbita giudiziaria, possono prestarsi a derive fascisteggianti, attraverso un’identificazione con la macchina statale o con un gruppo sociale che fondi il
buon diritto dei giudici a giudicare e consenta loro di non angosciarsi del potere che esercitano, ne-
49
Cfr. L. De Sutter, Deleuze e la pratica del diritto, trad. it. di L. Rustighi, Ombre Corte, Verona 2011, nonché la Postfazione di S. Chignola, ivi, pp. 99-103. Si veda al riguardo A. Amendola, Deleuze e il diritto: la critica della Legge,
verso una clinica delle istituzioni, in “Rivista critica del diritto privato”, vol. XXXI, 3 (2013), pp. 493-500.
50
Si tratterebbe di un compito molto simile a quello che F. Ewald assegnava alla giurisprudenza del diritto sociale, ossia
quello di snaturare l’uomo, proprio secondo il Rousseau dell’Emilio delle buone istituzioni (F. Ewald, L’État providence, Grasset, Paris 1986, p. 579). Abbandonato il riferimento a una qualunque natura o fondamento, la giurisprudenza di
diritto sociale – che Ewald autonomizzava e che Deleuze riteneva essenziale per restaurare la filosofia del diritto (cfr.
G. Deleuze, Pourparler, trad. it. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2000, p. 223) – esprimerebbe giudizi in grado di
cogliere le esperienze inedite nella società e favorirebbe nuovi modi di esistenza, giudizi entro i quali la differenza non
sarebbe rappresentata e così ridotta (a una forma d’identità), bensì prodotta.
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gandogli la possibilità di ascoltare le grida di dolore del mondo e accordandogli anzi quella di trasformarle in colpa.
Se ciò rende problematica l’utopia giudiziaria guattariana, non intacca però la sua esigenza di
adottare uno sguardo critico verso le politiche del giudizio e i modi in cui esse contribuiscono a
produrre processi di assoggettamento e di soggettivazione. E in questa prospettiva, l’analisi dei sottosuoli giudiziari rimane fondamentale per analizzare le forze e le forme in cui ci muoviamo e per
agirle, anziché esserne agiti. Lavori come quello di Hennion51 danno la possibilità a quanti subiscono la violenza del giudizio approssimativo dei tribunali di assumere una parola pubblica per denunciare l’alienazione in cui una simile pratica rischia di condurli. Se può accadere infatti che nelle vite
insista un sistema di forze coattive che, introiettate, le spinge ad accettare con rassegnazione il proprio destino, nella difficoltà quando non addirittura nell’incapacità di pensarsi in una possibile configurazione alternativa della soggettività, ebbene, per il tramite dello svelamento del sottosuolo queste vite minoritarie possono più facilmente prendere coscienza di sé e articolare un discorso che insieme ad altri potrebbe modificare quella application de la loi paternalisticamente interpretata e destinalmente impiegata: come a dire, in termini guattariani, che in un contesto di lotta il pensiero può
modificare le componenti semiotiche del giudizio in vista di una pratica non fascista dello stesso.
In definitiva, ci sembra che questo testo di Guattari mostri bene come le funzioni giudiziarie costituiscano una posta in gioco dei processi di soggettivazione, come riguardino i mutamenti di sensibilità politica, giuridica e morale, e come pertanto una loro critica sia d’importanza cruciale nella
discussione e nella ridefinizione dei quadri dell’esperienza. E considerata la valenza psicodrammatica del giudizio, una filosofia critica della giustizia dovrebbe rappresentare un osservatorio permanente del giudizio, potendo essa avere, al pari della dogmatica giuridica, un’attitudine performativa
e pragmatica. D’altronde, se l’esercizio sociale del giudizio, come ha mostrato Rosanvallon, è divenuto fondamentale nelle nostre democrazie d’imputazione52, altrettanto fondamentale rimane
l’esigenza contraria di ‘giudicare’ i giudici. Anche la contro-democrazia, ossia la sfera del giudizio,
in quanto potere ha bisogno di un’istituzione contro-giudicante che critichi i giudici attraverso i loro
stessi giudizi, per richiamare Carbonnier, essendo il giudizio, in altri termini, sempre pre-giudicato
dalla posizione rivestita nell’ordine simbolico dal soggetto che lo emana. Purché tale critica dei
concatenamenti sociali e delle forme di soggettività giudicanti eviti di incrociare forme di populismo anti-giudiziario o, peggio ancora, di sicofantia verso l’esercizio del giudizio, e sia al tempo
stesso una clinica che decifri le forze in atto e faccia delle sofferenze e dei disagi il suo fondamento
‘oggettivo’.
51
Nello specifico, con riferimento cioè al trattamento dei casi di flagranza di reato in Francia (attualmente denominati
affaires de comparution immédiate), essi sono ancora caratterizzati da un giudizio fondato su una conoscenza sommaria, dalla presenza di inesperti avvocati d’ufficio e da una durata massima di un’ora, e possono svolgersi talvolta anche
di notte. Lo testimonia il film di Raymond Depardon del 1994, Délits flagrants, nelle cui procedure ritroviamo inoltre,
sebbene in misura molto minore rispetto a quelle di Hennion, l’attitudine paternalistica e la distanza linguistica e comunicativa tra le parti, ma soprattutto l’alternarsi delle figure professionali che prendono in carico l’imputato – dalla polizia al pubblico ministero, all’assistente sociale, allo psicologo, al medico legale e infine al giudice. E tuttavia non va
sottovalutato l’effetto prodotto dall’essere sottoposti allo sguardo. Basti la testimonianza del giudice Jean-Yves Montfort, che ha trattato per anni questi casi: «Guardando questo film ho notato che quei magistrati non erano mai stati tanto
buoni quanto lo erano sotto l’occhio della cinepresa di Raymond Depardon. Presso l’ottava sezione della procura di Parigi c’è un’atmosfera da commissariato di polizia, i casi scorrono veloci, e non si è sempre particolarmente amabili. Lì,
invece, cosa eccezionale, l’amabilità era la regola, la pedagogia, la spiegazione della procedura, ci si prendeva il tempo
necessario per ciascun caso. Non ho potuto fare a meno di pensare che quel giorno era decisamente benedetto per le
persone condotte presso la procura di Parigi» (in Justice, éthique et dignité, a cura di S. Gaboriau, H. Pauliat, Pulim,
Limoges 2006, p. 322). Secondo quanto ricordato da Christian Guéry, stante il divieto di filmare udienze di qualsiasi
tribunale, a meno che non fossero storicamente rilevanti, Depardon ha dovuto comunque attendere anni per ottenere le
autorizzazioni necessarie per il suo film; sempre da Guéry apprendiamo inoltre che a distanza di quindici anni da quando era stata girata la pellicola di Depardon i casi giudicati in modo accelerato sono aumentati del 30%, e che costituiscono ad oggi circa il 75% del contenzioso generale (C. Guery, Justice à l’écran, Puf, Paris 2007, p. 263). Di Depardon
si vedano altresì Dixième chambre, instants d’audience (2004), dove sono trattati anche casi relativi ai delitti flagranti, e
Faits divers (1983), che segue le vicende quotidiane di un commissariato di polizia.
52
P. Rosanvallon, La contre-démocratie. La politique à l’âge de la défiance, Éditions du Seuil, Paris 2006, p. 306.
Data di pubblicazione: 30.05.2015