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ISBN:9788898392162
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paola
omnium Romae
matronarum
exemplum
beatrice
girotti
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COMMUNICATING
CULTURAL HERITAGE
Bologna 2014
La pubblicazione è finanziata con fondi di ricerca
dell’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna (RFO)
assegnati ad Antono Baldini, Giovanni Brizzi e Patrizia Tabaroni.
beatrice girotti
paola
omnium Romae
matronarum
exemplum
7 Introduzione
9
15
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23
27
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32
Capitolo I. Paola, moglie e madre
I.1. Paola, cristiana e vedova.
I.2. Vedove e diaconesse: un clero femminile?
I.3. Paola e Gerolamo: la pressione sociale
I.4. Non solo contro Paola. Gerolamo mendax
I.5. La questione delle seconde nozze
I.6. La Conversione dell’aristocrazia senatoria: un inizio
al femminile?
I.7. Paola modello di cultus
40 45
45
47
51
Capitolo II. Modelli di donne a confronto
II.1. Paola, Lea e Fabia Aconia Paolina
II.2. Fabia Aconia Paolina
II.3. L’epitaffio di Pretestato
65 Capitolo III. Paola, le figlie, la scelta definitiva
III.1. Il matrimonio e la verginità
65 III.2. La lettera 22 a Eustochio
67 79 87
87
95
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III.3. Paola, una buona madre?
Capitolo IV. Caratteri di un’intellettuale cristiana
IV.1. L’ingenium di Paola
IV.2. La cultura e le “donnette”
IV.3. La lettera 46: Paola e Eustochio a Marcella
109 Capitolo V. Le scelte più estreme: povertà assoluta e monachesimo
115 V.1. Paola, la monaca cristiana
129 V.2. La vita della monaca
135
140
143
152
Capitolo VI. Lasciare tutto: pellegrinaggio e vita monastica
VI.1. L’ultimo passo verso la vita perfetta: il monastero
VI.2. L’Epitaffio di Paola
VI.3. Paola e Gerolamo
157 Capitolo VII. Conclusioni
165 Appendice
166 L’epistolario di Gerolamo a Paola
171 Indice delle fonti antiche
179 Bibliografia
Questo studio è in parte maturato all’interno del progetto “Ricerche
sulle autorità civili, militari ed ecclesiastiche della tarda antichità” del
Dipartimento di Storia Culture Civiltà (DISCI) dell’Università di
Bologna (2013-2014).
Desidero esprimere la mia riconoscenza alla Professoressa Francesca
Cenerini, per avere incoraggiato questa mia ricerca.
Un grande ringraziamento va ai Professori Gianni Brizzi e Patrizia
Tabaroni, per avere sostenuto la pubblicazione di questo lavoro.
Sono grata inoltre ai Professori Carlo Alberto Magnani e Valerio Neri
per la revisione paziente e attenta e i numerosi consigli.
Un grazie speciale va al Professor Antonio Baldini, maestro e amico, per
la quotidiana presenza nonostante la forzata assenza.
Introduzione
In uno studio del 2013 della ricercatrice americana Hiroko Kawanami (Lancaster University)1, si sottolinea come, in ambito buddista, nella
società attuale si trovino ragazze che entrano a fare parte dell’ordine
delle vergini prima della pubertà, e donne vedove, quindi un tempo
sposate e madri, che scelgono di diventare monache. Rinunciano così
alla famiglia, all’amore, alle comodità. Le prime, le vergini, occupano
posizioni di responsabilità culturale, studiano i testi religiosi e diventano prima dei trent’anni insegnanti rispettate. Verso la fine della loro
vita si dedicano alla meditazione. Le vedove, invece, appena diventate
monache, si dedicano subito alla meditazione. Nella società sarebbero
classificate come “vecchie” ed emarginate. Per loro, diventare monache
rappresenta un modo per sfuggire agli abusi e a vite troppo pesanti; a
volte serve per migliorare economicamente la loro condizione. La loro
vita è segnata da ferrea disciplina, castità, digiuni. Grazie alla loro scelta,
in particolare le vedove monache di una certa levatura realizzano opere
fondamentali, come ad esempio orfanotrofi e centri per malati, o ancora
Kawanami H., Renunciation and Empowerment of Buddhist Nuns in Myanmar-Burma. Building A Community of Female Faithful.
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scuole femminili per altre monache, e lottano costantemente per migliorare l’istruzione delle giovani donne e per colmare le differenze sociali.
Questo accade oggi, in una società in cui le donne si trovano ancora ad
un gradino inferiore. Per loro diventare monache è un onore, un privilegio, e corrisponde a un certo prestigio sociale.
Nel 384 d.C., una donna, una vedova, Paola, operò una scelta, a Roma
e poi a Betlemme, tanto estrema quanto quella descritta dalla studiosa
americana. Lei e le donne del suo circolo non agirono per difficoltà economiche: forse anche per loro la vita ascetica, sicuramente unita a una
buona dose di vera fede, fu un modo di liberarsi da una diversa “clausura”
e di trovare più o meno consapevolmente un ruolo femminile che oggi,
anche se in ambienti di fede differenti, pare un sistema di emancipazione
ancora attuale.
Capitolo I
Paola, moglie e madre
Le notizie che ci sono pervenute circa Paola derivano quasi esclusivamente dalle lettere di San Gerolamo. Paola apparteneva a una famiglia
“senatoria”, all’alta aristocrazia romana. Nata nel 347, durante il regno
di Costantino II, all’età di quindici anni sposò un aristocratico del suo
rango, Tossozio, probabilmente pagano. Non si trattò, almeno sembra,
di un matrimonio misto, cioè tra una cristiana e un pagana, perché la
conversione di Paola avvenne dopo la vedovanza. Gerolamo riferisce che
Paola apparteneva ad una delle famiglie più aristocratiche di Roma, dato
che sua madre discendeva dagli Scipioni e dai Gracchi e il padre da Agamennone. A parte quello che ci viene riportato da Gerolamo, non troviamo nessuna attestazione relativamente ad origini così prestigiose.
Non sappiamo nulla del padre di lei, Rogatus, né abbiamo informazioni
riguardo a Tossozio: la sua assenza dai Fasti dovrebbe fare dubitare. Si
pensa che Tossozio fosse fratello del conosciuto Iulio Festo Imetio: per
contrasto, di lui abbiamo molte più informazioni, come ad esempio che
fu proconsole d’Africa tra il 366 e il 368 [PLRE I, 447]. Imetio fu fervente pagano e marito della nobile Pretestata, quasi sicuramente parente
dell’avversario di Gerolamo Vettio Agorio Pretestato [PLRE I, 721].
Hickey ritiene, per esempio, che, dato che negli uffici della cancelleria
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non è attestato il padre di Paola, allora si debba pensare che la famiglia di
Paola, benché ricca, non fosse stata poi così nobile. Probabilmente l’esagerazione riguardo all’albero genealogico di Paola va attribuito a Gerolamo, che, in un’altra lettera, la 130, ci dichiara candidamente di conoscere i meccanismi della retorica: «È uno dei canoni della retorica
quello di far bella la persona di cui si tesse l’elogio presentandone gli avi
e gli antenati con tutti i fregi della nobiltà. Lo scopo è di compensare,con
la fecondità delle radici, la sterilità dei rami, e nel caso non ci siano frutti da cogliere, permetterti almeno di ammirarne il tronco»1. Il passo è
estrapolato, in questo caso, dal suo contesto generale, quindi non significa che Gerolamo abbia volutamente mentito rispetto alle nobili origini
di Paola; ma da un confronto, per esempio, con un’altra genealogia, presente in questa epistola, notiamo come sia diversa l’esposizione del santo
in un caso di discendenza certa, in questo caso dagli Anicii: Gerolamo
qui, infatti, non ha bisogno di scomodare antenati quali Scipione e i
Gracchi e Agamennone, ma si limita ad elencare alcuni illustri nomi del
recente passato. Dobbiamo però escludere che la ricchezza della famiglia
di Paola non fosse reale, in quanto è ripresa anche nella lettera 22, a Eustochio: «È vero, tu sei nata da nobile stirpe, sei abituata a vivere in mezzo alla delicatezza e tra le piume»2 e un’ulteriore testimonianza ci viene
data dai legami matrimoniali contratti da lei e dai suoi figli con esponenti di famiglie dell’alta aristocrazia. Interessante pare il giudizio, a questo
proposito, che considera il silenzio pressoché assoluto delle fonti su Paola motivato dal fatto che essa non avesse legami così stretti con le élites
dell’aristocrazia [Consolino 1986]: in questo caso però dovremmo allora
pensare che Gerolamo usi Paola solo come capro espiatorio per la sua
polemica contro i pagani e per la divulgazione del suo messaggio cristiano, e questo, a mio avviso, significa ridurre notevolmente l’impor-
Hier., Ep., 130,3: rhetorum disciplina est abauis et atauis et omni retro nobilitate ornare,
quem laudes, ut ramorum sterilitatem radix fecunda conpenset et, quod in fructu non teneas,
mireris in trunco.
1
Hier., Ep., 22,11: quodsi uolueris respondere te nobili stirpe generatam, semper in deliciis,
semper in plumis [...].
2
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo I. Paola, moglie e madre
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tanza del valore dell’epistolario di Gerolamo, che va comunque letto con
spirito critico e con attenzione riguardo alla molteplicità delle notizie
che da esso sono fornite. La nobiltà di stirpe poteva celare in sé un aspetto negativo, quello della propagazione del nomen, questione legata al
problema della fecondità e del matrimonio. Paola, almeno nella prima
fase della sua vita, obbedisce alla legge classica relativa alla figura femminile, cioè diventa madre, dando eredi (un erede maschio e quattro
femmine) al marito Tossozio. Nel 364 nasce Blesilla, nel 366 Paolina,
nel 368 Eustochio, nel 370 Rufina e nel 372 un maschio, chiamato,
come il padre, Tossozio. La morale dell’antico era caratterizzata infatti
dall’esigenza del pater familias e di conseguenza della società, di avere
figli. L’ammonimento al rifiuto delle seconde nozze faticava a propagarsi anche per questo motivo, e nello stesso modo anche i precetti di verginità della donna che declinava anche il primo matrimonio, diciamo
per unirsi in sacramento al vero sposo, cioè Cristo, creavano non pochi
problemi alla mentalità tradizionale. Non va inoltre dimenticato che il
cristianesimo aveva portato un’altra novità nel matrimonio cristiano,
quello della scelta della continenza, della castità tra i coniugi. Questa
poteva essere scelta, con l’accordo di entrambi gli sposi, subito dopo
avere avuto figli oppure, addirittura, e questo era l’aspetto più preoccupante per i pagani, prima di averne. In questo senso, era più comprensibile per la morale tradizionale la scelta della verginità rispetto a un matrimonio nella continenza sessuale. Nel caso di Paola, la scelta di
continenza avviene dopo la morte del marito, e non sappiamo se questa
scelta avvenisse perché tra i due coniugi non vi era accordo sulla continenza, o se questa non fosse neppure stata presa in considerazione. Un
passo dell’epistola 108 però fa supporre qualcosa in proposito; dice infatti Gerolamo che Paola, dopo la nascita del figlio maschio, Tossozio, smise di fare figli, dando così l’impressione, continua Gerolamo, che negli
anni del matrimonio essa si fosse sottomessa al dovere coniugale e avesse obbedito alla richiesta del marito di avere degli eredi maschi: «Essendo
dunque nata la nostra Paola da tali antenati, è lodata per la fecondità e
pudicizia, prima dal marito, poi dai familiari, e dalla testimonianza di
tutta la Città, avendo partoriti cinque figli: Blesilla, per la morte della
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quale in Roma la consolai, Paolina che lasciò erede delle sue fondazioni
e delle sue sostanze Pammacchio, uomo ammirevole, a cui per la morte
di quella mandai un mio libricino, Eustochia, la quale ora nei luoghi
santi è preziosa collana della verginità e della Chiesa, Rufina, la cui prematura morte abbatté l’animo pietoso della madre: e infine Tossozio,
dopo il quale cessò di partorire; affinché si intendesse che quella per
lungo tempo volle non dar opera all’uso del matrimonio, ma per soddisfare il desiderio del marito, che desiderava un figlio maschio, partorì
figliuoli»3. Gerolamo ci informa quindi che Paola smise di fare figli, ma
non arriva a dirci che da quel momento scelse la continenza, cosa a mio
avviso da escludere, dato che, se fosse stata una scelta praticata e Gerolamo ne fosse stato a conoscenza, non avrebbe certo trascurato di omettere un elogio di tale portata. Tra l’altro, Gerolamo parla del desiderio di
Tossozio di avere figli maschi, usando il plurale [mares liberos] e non
possiamo certo escludere che i due coniugi non avessero quantomeno
tentato di avere altri figli. Lo sforzo, così come ci appare dalla testimonianza di Gerolamo, di Paola, premiato con un figlio maschio, era considerato la normalità per l’antichità: alla sposa infatti si dava rispetto in
base alla sua fertilità, e lo stesso Gerolamo, poco prima di dire che Paola
aveva smesso di procreare, afferma che lei guadagnò, grazie alla sua fecondità e al suo pudore, la stima del marito [Ep., 108,4: orta maioribus et
fecunditate ac pudicitia probata primum uiro, dein propinquis et totius urbis
testimonio, cum quinque liberos edidisset]. Tra tutte le donne sposate che
sono in corrispondenza epistolare con Gerolamo e sulle quali abbiamo
informazioni, nessuna fu senza figli o perlomeno non tentò di averne.
Solo Marcella non ebbe figli: perse il marito appena sette mesi dopo la
Hier., Ep., 108, 4: his, inquam, orta maioribus et fecunditate ac pudicitia probata primum
uiro, dein propinquis et totius urbis testimonio, cum quinque liberos edidisset - blesillam,
super cuius morte eam romae consolatus sum, paulinam, quae sanctum et admirabilem uirum et propositi et rerum suarum pammachium reliquit heredem, ad quem super obitu eius
paruum libellum edidimus, eustochium, quae nunc in sanctis locis uirginitatis et ecclesiae
monile pretiosissimum est, rufinam, quae inmaturo funere pium matris animum consternauit,
et toxotium, post quem parere desiuit, ut intellegeres eam non diu seruire uoluisse officio
coniugali, sed mariti desiderio, qui mares optabat liberos, oboedisse.
3
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo I. Paola, moglie e madre
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celebrazione delle nozze, e rifiutò un secondo matrimonio, rivelandosi
come si può evincere come modello per Paola. La figlia di Paola, Paolina, secondo Gerolamo, malgrado numerosi parti non portati a termine,
non si disperò affatto di non essere riuscita ad avere figli, avendo fatto
comunque esperienza diretta della propria fecondità [Ep., 66,3]4; Eustochio fu l’unica figlia di Paola che non si sposò, avendo scelto la verginità perpetua; Laeta, la nuora di Paola, ebbe dal matrimonio con Tossozio
una sola figlia, Paola iunior. Per ciò che sappiamo dalla lettera 66, gli
sforzi fatti dalla figlia di Paola, Paolina, per diventare madre, avevano una
loro ragione se inseriti all’interno dell’ambiente aristocratico: la moglie
era infatti rispettata per la sua fecondità, onorata nelle steli e negli elogi
funerari. L’organizzazione patriarcale tradizionale voleva figli, o un figlio maschio: Paola e le nobildonne di Gerolamo appartengono a
quell’aristocrazia nella quale il lignaggio, la fortuna della famiglia, i matrimoni e la fecondità rivestono un’importanza primordiale. Paola, dunque, dedica al marito, finché è in vita, la piena libertà in materia di sessualità, assicurandogli ancora, in un certo senso, la piena autorità data
dal suo essere uomo, essendo soprattutto la donna a manifestare il suo
desiderio di continenza. Dunque, o Paola non aveva ottenuto l’accordo
del marito, e scelse la castità solo dopo la sua morte, o non aveva avuto
modo di pensare a questa possibilità. In effetti, questa seconda opzione
mi pare più plausibile: le pressioni della società erano tali, soprattutto
nelle alte sfere dell’aristocrazia, che la maggior parte delle donne o non
era a conoscenza di tale possibilità, o meglio, taceva il proprio desiderio,
attendendo delle circostanze più favorevoli. Nel caso di Paola, la repentina conversione avvenuta all’indomani della morte del marito ci fa pensare che non avesse avuto la possibilità di dedicarsi alla fede finché era
legata al vincolo matrimoniale. Non abbiamo motivo di ritenere che il
matrimonio di Paola non fosse felice. Certamente possiamo affermare
che si trattò di un matrimonio breve: a 32 anni Paola è vedova. Continua
Hier., Ep., 66,3: dum que crebris abortiis et experta fecunditate conceptuum non desperat
liberos et socrus auiditatem mariti que tristitiam praeponit inbecillitati suae, passa est aliquid
de rachelis exemplo et pro filio doloris ac dexterae uirum desiderii sui peperit heredem.
4
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a dedicarsi alla famiglia, ma nello stesso tempo volge la sua attenzione
anche verso impegni religiosi e caritativi. La sua casa accoglie incontri,
riunioni di preghiera e di approfondimento della dottrina cristiana, diventa gradualmente il punto di incontro in cui si organizzano iniziative
per i poveri e assume la connotazione di centro monastico, che acquista
vivacità quando Paola invita agli incontri il dalmata Gerolamo, giunto
nel 382 a Roma insieme a due vescovi d’Oriente. In gioventù Gerolamo
ha studiato a Roma; è stato poi in Germania e ad Aquileia, e per alcuni
anni infine è vissuto in Oriente, e si caratterizza come asceta e studioso
insieme. A Roma diventa collaboratore del papa Damaso. Sempre a
Roma, Gerolamo si impegna a diffondere l’ascetismo tra gli aristocratici.
Riscuote molto successo tra le nobildonne, cosa che deve avere sorpreso
e dato origine a pettegolezzi maliziosi, originati forse dal clero romano,
dal quale egli aveva preso notevolmente le distanze. Paola e l’amica Marcella, che pare sapessero il greco, cominciarono gradualmente a rappresentare un nucleo di un gruppo di donne entusiaste della lettura e dello
studio della Bibbia, che affascinarono Gerolamo e lo convinsero a occuparsi della loro direzione spirituale. Il Santo è un divulgatore appassionato degli ideali ascetici, ha una preparazione culturale di raro spessore.
Il suo ascendente è forte specialmente nella cerchia di Paola, alla quale
comunica la sua passione per le Sacre Scritture. Tale assiduità non sempre fu vista favorevolmente. A parte i più banali pettegolezzi, Palladio,
nella sua Storia Lausiaca, pur elogiando Paola, non manca di tratteggiare in termini negativi il rapporto di amicizia tra Gerolamo e Paola: «[...]
donna nobilissima per vita spirituale. A lei fu di ostacolo un certo Girolamo, proveniente dalla Dalmazia. Paola era in grado di volare più in alto
di tutte per le sue eccezionali doti, ma quell’uomo la ostacolò con la sua
gelosia, dopo averla attirata alla meta che si proponeva»5. È da ricordare
però che il testo di questo capitolo di Palladio è stato oggetto di studio
riguardo alla sua autenticità: il giudizio di Palladio riguardo a Paola è
invece confermato da un altro passo della sua stessa Storia, in cui viene
5
Palladio, Hist. Laus., 42,2, (trad. M. Barchiesi).
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo I. Paola, moglie e madre
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riportata la profezia del santo uomo Posidonio di Tebe, con cui Palladio
ha vissuto per un anno a Betlemme6 [Consolino 2006].
I.1. Paola, cristiana e vedova
«Una vedova che ha smesso di piacere al proprio marito e che, con i termini dell’Apostolo, è una vera vedova, non ha bisogno di niente, tranne
che della perseveranza». Questo è quello che viene detto da Gerolamo,
nella sua Epistola 547. La stessa frase, un po’meno articolata, viene scritta in un’altra lettera: una vedova, sciolta dal vincolo coniugale, non ha
bisogno d’altro che di perseverare8. Questo giudizio deriva a Gerolamo
da un illustre predecessore, Tertulliano: Gerolamo riprende due sentenze
che Tertulliano infatti esprime nei suoi Ad uxorem e De exortatione castitatis9. Queste affermazioni di Gerolamo trovano altresì riscontro nella
definizione del rapporto che intercorre tra seconde nozze e vedovanza,
di cui Paola diventa modello ed esempio.
Paola rappresenta una delle donne più vicine a Gerolamo, e quando
Gerolamo arriva a Roma, nel 382, è proprio lei, insieme a Marcella, che
lo accoglie e lo invita all’interno di uno o due circoli di donne cristiane
molto devote. Donne che avevano abbracciato, alcune molti anni prima, altre, come Paola, solo da poco tempo, un modello di vita ascetica,
creato sulla base degli ideali e delle pratiche dei famosi Padri dell’Egitto:
«Venne il giorno che le necessità della Chiesa mi condussero a Roma
6
Palladio, Hist. Laus., 36, 6.
Hier., Ep., 54,7, denominata “De viduitate servanda” alla vedova romana Furia: frustra obtenditur adulescentia et aetas puellaris adseritur; uidua, quae marito placere desiuit et
iuxta apostolum uere uidua est, nihil habet necessarium nisi perseuerantiam.
7
Hier., Ep., 38,3: uidua, quae soluta est uinculo maritali, nihil necesse habet nisi perseuerare.
8
Tertulliano, Ad ux., I, 4,8; De exortatione cast. La frase, leggermente modificata, è
presente nell’epistolario di Gerolamo, oltre che in Ep., 38,3 e in Ep., 54,7, in Ep. 79,7
[Micaelli 1979].
9
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insieme ai santi vescovi Paolino ed Epifanio (uno governava la chiesa di
Antiochia in Siria, e l’altro quella di Salamina di Cipro). Io, per modestia,
evitavo gli sguardi di queste nobili donne, ma essa seppe farci così bene
- proprio secondo l’espressione dell’Apostolo: «in modo opportuno e
importuno», che riuscì a vincere abilmente il mio riserbo» [Ep., 127,7]10.
Paola rappresentava appunto uno dei leader di questi gruppi, insieme a
Marcella. Entrambe vedove, da quello che sappiamo la prima a entrare
in stretto contatto con Gerolamo fu proprio Paola, che ospitava in casa
sua persone illustri. Scrive infatti Gerolamo nella sua lettera 108 (lettera
ricchissima di dettagli biografici riguardanti Paola): «il suo rango e la
sua così nobile famiglia le valevano le visite e le frequentazioni. Meritava
gli onori, ma cercava di evitare i voti di coloro che la lodavano»11. Noi
siamo a conoscenza del fatto che i gruppi organizzati da Paola a Roma
erano gruppi di vedove, e questo ci porta a interrogarci sull’esistenza,
a Roma essenzialmente, di un fenomeno che pareva in crescita. Che
proporzioni avevano questi gruppi di vedove? La scelta di non risposarsi
era un fenomeno isolato o comune nel IV secolo? L’incoraggiamento
a Paola e al suo circolo da parte di Gerolamo ha un solo obiettivo: fare
sì che le vedove non si risposino. Paola è vedova dal 380, e, dall’epistola
108, sappiamo che visse nel santo proposito per cinque anni a Roma
[uixit in sancto proposito romae annis quinque, bethleem annis uiginti]12 e
per venti a Gerusalemme, e sappiamo anche che la sua conversione avvenne dopo la morte del marito. Il passo dell’epistola in cui Gerolamo
parla della conversione di Paola è curioso: dice infatti l’autore che dopo
che il marito morì, Paola pianse fino quasi alla morte, poi si convertì al
Signore, al punto che le parve quasi avere desiderato la morte di Toxotius [postquam uir mortuus est, ita eum planxit, ut prope ipsa moreretur, ita
Hier., Ep., 127,7: et uerecunde nobilium feminarum oculos declinarem, ita egit secundum apostolum inportune, oportune, ut pudorem meum sua superaret industria.
10
Hier., Ep., 108,6: nec diu potuit excelsi apud saeculum generis et nobilissimae familiae
uisitationes et frequentiam sustinere. maerebat honore suo et ora laudantium declinare ac
fugere festinabat.
11
12
Hier., Ep., 108,34.
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo I. Paola, moglie e madre
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se conuertit ad domini seruitutem, ut mortem eius uideretur optasse]13. A un
lettore moderno questa descrizione di Paola può sembrare quantomeno
ingenua: Paola sembra quasi avere deciso per consolazione, o per non
morire lei stessa, di trovare rifugio nella fede cristiana, che appare, dal
testo di Gerolamo, almeno in questo senso, accogliere per consolare e
dare rimedio a dolori insopportabili.
Già Marcella aveva dato il buon esempio: «Data la sua età, l’antichità
del casato, la sua singolare bellezza fisica (pregio che d’ordinario piace
moltissimo agli uomini) e la purezza dei suoi costumi, Cereale, nome illustre fra quello dei consoli, chiedeva con grande insistenza la sua mano.
Carico d’anni com’era, le prometteva le sue ricchezze, con l’intenzione
di trasmettergliele mediante un atto di donazione non come a moglie,
ma come a figlia. C’era inoltre Albina, sua madre, che desiderava ardentemente un così magnifico aiuto per la vedovanza di lei e per la sua
famiglia. Ma essa rispose: Se volessi risposarmi, e non bramassi consacrarmi alla castità perpetua, quello che cercherei sarebbe un marito, non
un’eredità»14.
La concezione dei padri del IV-V secolo riguardo alla donna è stata da
più studiosi definita nelle sue linee generali nel senso di due ruoli possibili: quello classico di moglie madre, però rivisitato in senso cristiano,
e quello di vergine. A metà tra questi due ruoli fondamentali si trova la
donna vedova, rappresentata perfettamente da Paola e dall’amica Marcella. Il ruolo di Paola è quello quindi di una donna che, già sposata, rinuncia a un secondo matrimonio e in qualche modo torna a scegliere la
verginità. Un tale quadro, proprio per il suo carattere di rigidità, non può
non fare riflettere, a mio avviso, riguardo a quanto la figura della donna
avesse subito un’involuzione e un sostanziale arretramento. Tra l’altro, la
ripetitività che si riscontra nei testi dei Padri della Chiesa del IV secolo
13
Hier., Ep., 108, 5.
Hier., Ep., 127,2: cum que eam cerealis [...] polliceretur diuitias et non quasi in uxorem
sed quasi in filiam uellet donationem transfundere albina que mater tam clarum praesidium
uiduitati domus ultro appeteret, illa respondit: “si uellem nubere et non aeternae me cuperem
pudicitiae dedicare, utique maritum quaererem, non hereditatem”.
14
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riguardo a questi argomenti e alle indicazioni ad essi correlate suona
come un po’ retorica, e potrebbe tradire il bisogno di rinsaldare principi
che venivano sentiti come vetusti e non erano forse così indiscutibili e
condivisi, o praticati nella realtà [Thraede 1972; Moreschini 1988; Nazzaro 1983-1984]. In realtà, ai tempi di Paola non esisteva ancora propriamente una vera regola per le vergini e le vedove: non esistevano dei
precetti scritti, o dei repertori, o perlomeno Gerolamo non li menziona
in nessuna delle sue lettere alla vedova Paola e alle altre. Bisogna aspettare il 420 d.C. per avere una regola scritta: Agostino ne formula infatti
una nella sua lettera 211. Tale lettera, in cui troviamo discussi una serie
di precetti indirizzati alle donne, è, in tutti i casi, la prima testimonianza
di un fenomeno per cui, negli anni successivi, assistiamo a un prolificarsi
del genere: Cassiano, che fonda due monasteri, uno per uomini e uno
per donne, scrive infatti le Istituzioni Cenobitiche [Verheijen 1974-1975]
e Cesario redige una regola per il monastero di Arles [Mac Carthy 1960].
Si potrebbe forse pensare che Gerolamo avesse redatto una regola per le
monache, ma in tutti i casi questa non ci è pervenuta. Ancora, un’ipotesi
è che questa “regola di vergini e vedove” sia un’allusione di Gerolamo ad
alcune lettere che Atanasio inviò ad alcune vergini: nel suo discorso sulla verginità, Atanasio infatti propone un quadro generale che contiene
tutti i precetti monastici [Laurence 1997, 21]. Qualcuno ha ipotizzato
che sia stata la stessa Paola a redigere invece una regola scritta all’interno del monastero da lei fondato [Laurence 1997, 47], ma l’ipotesi è
quantomeno non dimostrabile. Vero è che Paola inizia a gestire la sua
comunità di vedove all’interno della sua casa, e successivamente fonda
un vero e proprio monastero. La nascita e l’evoluzione del modo di vita
vedovile presso i membri dell’aristocrazia senatoria romana, in particolare presso le donne di questa aristocrazia, è ben inserita in un momento
cronologico singolare. Le conversioni e le manifestazioni di religiosità
non sono uguali per tutte: possiamo infatti riconoscervi un’evoluzione
legata a delle circostanze personali, geografiche e anche storiche. La
nascita di questo movimento femminile di vedove, che possono anche
dedicarsi al monachesimo, si indica in Roma: non sappiamo esattamente
in che modo, ma comincia a prendere rapidamente forma, una forma
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capitolo I. Paola, moglie e madre
19
che permette anche la conciliazione con i modi di vita tradizionali di
queste donne aristocratiche. Per Paola indubbiamente l’amica Marcella e Gerolamo furono due fonti di ispirazione alla conversione, prima
solo religiosa, e poi all’ideale ascetico. Gerolamo parla di vero e proprio
proposito cristiano da parte di Paola: id est de proposito christiano15: dopo
aver creduto in Cristo, dice Gerolamo, dopo aver ricevuto l’olio con cui
ci ha unti e che portiamo ancora in noi, non ci è permesso d’uscire dal
tempio, cioè dalla vita cristiana intrapresa; non dobbiamo tornarcene
fuori, raggomitolarci, cioè, nell’incredulità dei pagani. Dobbiamo invece vivere nell’interiorità di noi stessi e attuare la volontà del Signore.
I.2. Vedove e diaconesse: un clero femminile?
Come si diceva, all’epistola 24,1, Gerolamo usa l’espressione secondo ordine castitatis16. Il nesso, tradotto letteralmente, significa ordine di
castità. La formula può destare alcuni problemi di interpretazione e di
riflessione, dato che, ad una prima lettura, non può che fare pensare che
ai tempi di Paola e Gerolamo esistesse una sorta di ordine, di regolamento, che portasse a inquadrare le donne in categorie comportamentali ben delineate, quantomeno dai cristiani. È testimonianza almeno di
Tertulliano e Origene che nella seconda metà del II secolo e in parte del
III, le vedove tendessero a rappresentare una sorta di categoria speciale,
con funzioni caratteristiche. Anche Tertulliano sembra volere esprimere
il concetto attraverso l’esistenza di un vero e proprio ordine17 [Gryson
Hier., Ep., 39,4: certe, postquam credimus in christo et oleo unctionis eius accepto illum
portamus in nobis, non debemus exire de templo, id est de proposito christiano, non foras
egredi, incredulitati uidelicet gentilium commisceri, sed esse semper intrinsecus, uoluntati
domini ministrare.
15
Hier., Ep., 24,1: nemo reprehendat, quod in epistulis aliquos aut laudamus aut carpimus, cum et in arguendis malis sit correptio ceterorum et in optimis praedicandis bonorum ad
uirtutem studia concitentur.
16
Tert., De virg. Vel., 9,2, CCL 2, 1219, 15-16; De exort. cast., 13,4, SC 319, 116, 35; Ad
ux., I,7,4, SC 273, 116 ; Origene, Comm, Giov., 32,12,7, 131, GCS 10, 444, 16, 20-21.
17
20
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1974; Gramaglia 1984, pp. 208-209]. La questione femminile, e il suo
ruolo all’interno della Chiesa e per la Chiesa, rientra in un discorso complesso che inizia con il primo Cristianesimo e che ai giorni nostri non
ha ancora trovato compimento. Per capire la profondità del rinnovamento provocato dal circolo creato da Paola ci viene in aiuto una parte
di normativa gallica a noi pervenuta. La vicenda di Paola, come ci è
raccontata dalle lettere in questione, può, proprio perché viene da una
fonte rinomata come Gerolamo, essere considerata come vicenda privilegiata e assolutamente storica, disgiunta cioè dall’ermeneutica biblica
e teologica. La normativa gallica posteriore a Paola ha un ruolo preciso
nella definizione e limitazione degli spazi istituzionali da riservare alle
donne attivamente impegnate nelle comunità cristiane d’Occidente e
può fare capire meglio il valore eccezionale dell’eroina geronimiana. La
presenza, in alcune fonti dei Concili gallici tra il IV e il VI secolo, di
alcune diaconesse evoca l’ipotesi, non remota, che alcune donne, insignite di una qualche forma di clericatura fossero presenti nelle comunità. Qualificare i ruoli di queste diaconesse è impresa ardua, forse, più che
a una vera e propria istituzione, è più semplice pensare a un tentativo di
istituzionalizzazione, operato a più riprese da una minoranza destinata
però a rimanere tale [Martimort 1982]. Si sa che esse vennero, a un certo
punto, assimilate alle vedove [Gryson 1974]; anche se l’ipotesi appare
riduttiva, è plausibile. A un occhio attento però non può sfuggire un
aspetto fondamentale: le donne come Paola e Marcella dovevano essere
in qualche modo fatte rientrare in una categoria. L’assimilarle alle diaconesse, anche se i due concetti non coincidevano, significa che anche
dai contemporanei vi era un’esigenza di controllare gli spazi occupati da donne. Secondo quanto decretato, in un certo punto temporale
l’impegno di vedovanza permanente doveva essere assunto addirittura in
presenza di un vescovo, in privato nel secretarium, e doveva essere manifestato pubblicamente dall’uso di un abito distintivo, imposto alle vedove
professe dallo stesso vescovo. Chi viola tale viduitatis servandae professionem meriterà, insieme a chi avrà attentato alla castità (intesa come
nuova verginità) di costoro, un’adeguata punizione: queste sono infatti
esattamente le parole che si trovano nei Concilia Gallica per esempio
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capitolo I. Paola, moglie e madre
21
[CCHL 148, 85]18. È infatti da questo periodo che le vedove indossano
una tenuta particolare: già in Gerolamo vi sono i primi segni di questa
sorta di precetti, ma in ambiente gallico dal IV secolo il tutto pare essere
codificato in modo preciso. Il modo di ufficializzare lo stato vedovile alla
presenza del vescovo, con una cerimonia apparentemente privata, può
fare pensare che per le vedove non fosse prevista una benedizione pubblica particolare, quasi un’ordinazione. Si può inoltre pensare che alcune,
ma non tutte, le vedove, aspirassero al diaconato, come riconoscimento
visibile del loro grande operato. Questo non fu il caso di Paola, che però
è fuori dubbio che avesse in mente un progetto ambizioso e che avesse
operato, con la figlia e con l’aiuto di Gerolamo, per compierlo, creando
un monastero. A quello che risulta dal nostro corpo di informazioni,
Paola e le vedove che le si riunirono intorno svolgevano mansioni in
gran parte coincidenti con quelle delle diaconesse orientali: probabilmente ne rappresentavano il corrispettivo occidentale a fronte dell’assenza di vere diaconesse, o della loro non tollerata presenza in occidente.
Nell’ambiente che la circonda Paola, nel cuore dell’Occidente, dà il via
alla registrazione di un fenomeno la cui esistenza, almeno a Roma, era
del tutto ignorato fino a tutto il III secolo. Alla fine del IV secolo l’Ambrosiaster (anonimo autore di un commentario sulle lettere di Paolo per
lungo tempo attribuito a Sant’Ambrogio) attribuisce ai Montanisti l’invenzione dell’istituto delle diaconesse, respingendolo, mentre Pelagio,
monaco e teologo del IV secolo, dimostra di conoscere il diaconato femminile orientale, ma lo ritiene tarda sopravvivenza dell’epoca apostolica
e afferma di non avere notizia di un’istituzione del genere in Occidente19
[Otranto 1991]. Certo è che diaconesse e vedove erano accomunate da
molte caratteristiche, prima fra tutte l’inviolabilità del voto di castità:
nel concilio di Arles (la fonte è il canone 46) si insiste infatti su questo
Viduitatis servandae professionem coram episcopo in secretario habitam imposta ab episcopo veste visuali indicandam. Raptorem vero valium vel ipsam talis professionis desertricem
merito esse damnandam.
18
Ambr., Ep. 1 ad Tim. 3,11, CSEL 81/3, 268; Pelagio, Ep. ad Rom. 16,1, PLS, 1, col
1178; Ep. ad Tim. 1,3, 11, PLS 1, col. 1351.
19
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aspetto espresso dalle vedove professe. Dobbiamo però considerare un
fatto importante: né in Occidente, né in Oriente, le vedove furono mai
incluse tra i membri del clero. I canoni che riguardano le vedove sono
cinque, e ci forniscono una sommaria definizione di ciò che le vedove
rappresentavano: tre richiamano i doveri di tutela, e relative modalità,
che i vari rappresentanti del clero e la Chiesa hanno nei loro confronti,
soprattutto se molto giovani, e anche verso altri membri della comunità
non ritenuti autosufficienti. Il canone 102 ricorda le responsabilità delle
vedove verso la Chiesa di appartenenza, che a loro provvede sul piano
economico e il canone 100 invece parla di vedove e vergini, secondo
un’assimilazione nota dei due concetti, adibite ad ministerium baptizandum mulierum: il compito di queste sarebbe quello quindi di istruire le
donne che si apprestano al battesimo. Alla luce di queste normative,
capire l’operato di Paola e la sua notevole autonomia nel creare un proprio circolo, e successivamente un ministero, è più semplice. Gerolamo
addirittura, nel descrivere l’operato di Paola, si spinge oltre, e, nella lettera 30 a lei indirizzata, si esprime in questo modo: «Saluta Blesilla ed
Eustochio, nostre giovani novizie. Saluta Feliciana, veramente felice per
la sua verginità di corpo e di anima. Saluta il gruppo delle vergini non
nominate e la chiesa che è in casa tua: per essa diffido di tutto, anche del
le cose che offrono sicurezza; ho timore infatti che il nemico vi semini
la zizzania»20. Il nesso Chiesa domestica va inteso nel senso di «comunità», come venivano chiamate al tempo dei primi cristiani [Rm, 16,5]:
Paola quindi era a capo di questa comunità già a Roma, a casa sua, e tra
l’altro, da questo passo si evince anche che la preoccupazione di Gerolamo per la comunità di Paola, che non doveva essere vista di buon occhio
dai pagani.
Hier., Ep., 30,14: saluta felicianen, uere carnis et spiritus uirginitate felicem; saluta
reliquum castitatis chorum et domesticam tuam ecclesiam...
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capitolo I. Paola, moglie e madre
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I.3. Paola e Gerolamo: la pressione sociale
Per il mondo cristiano, una donna benestante, vedova, che lasciava per
così dire i piaceri e i lussi terreni e si occupava di un gruppo di vedove,
anche se non era ammessa tra i ranghi del clero, era di notevole aiuto
alla Chiesa, se non altro perché la sgravava dall’impegno di occuparsi
di un gruppo di più donne, probabilmente non autosufficienti. Paola,
come già abbiamo avuto modo di evidenziare, rappresenta la summa
del modello ideale femminile cristiano: in lei infatti, anche se paradossalmente per un lettore moderno, si riuniscono i ruoli chiave di mulier,
mater, vidua e virgo (nell’accezione di vidua perpetua). È interessante notare come Gerolamo evidenzi tutti questi aspetti di Paola, puntando più
di una volta sul fatto che ha prediletto i ruoli di vidua-virgo a scapito di
quelli, pur non cancellabili, di mulier e mater. Gerolamo, nella lettera
22 alla figlia di Paola, Eustochio, tra l’altro, ha ben chiara la differenza
tra i concetti (divisa est mulier et virgo), e il suo legame con Paola pare
intensificarsi sempre di più man mano che la donna si evolve in senso cristiano, fino ad arrivare alla scelta dell’ideale ascetico, secondo gli
insegnamenti dell’amico-maestro. Paola può considerarsi quindi colei
che, insieme a Marcella, rappresenta la capostipite della categoria delle
vedove, organizzata secondo precisi dettami. La differenza di mentalità
con il mondo classico, quindi, nel quale seconde nozze e vedovanza non
hanno l’importanza che viene data loro dal IV secolo, appare evidente.
Ancora, se la vergine, come la figlia di Paola, Eustochio, si chiude in
un monastero, la vedova vive a contatto con la società e nella comunità
cristiana assume un ruolo definito da impegno di carità e preghiera.
La decisione di Paola di dedicarsi a questo ruolo deve avere assunto il
significato di un gesto forte, perché, almeno all’inizio, poneva il suo
essere donna in aperta opposizione con gli schemi tradizionali dell’élite
senatoria romana a cui apparteneva. Grazie a Paola si viene addirittura
a creare un carisma della viduitas, visto che il nome vidua è proprio
soltanto di donne di un certo ambiente, appartenenti ad un’élite ben precisa, che si distinguono per la loro condotta irreprensibile [Giannarelli
1980]. Paola vive certamente una situazione di conflitto: non possiamo
24
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considerare frutto dell’esagerazione letteraria geronimiana alcuni passi
in cui diventa topica la descrizione della fermezza con cui lei difende la
sua scelta e la sua vocazione. Gerolamo afferma infatti che vanno fatte
risalire all’invidia e all’astuzia di Satana le calunnie dette di Paola (ma
anche di Melania) a causa della loro scelta così rivoluzionaria21. Le cause
di tutte queste opposizioni, che a Paola venivano dall’esterno ma anche
dall’interno della sua famiglia o dalle amiche che non abbracciavano
la sua stessa causa, sono sicuramente riferibili al tentativo di impedire il
distacco e il sovvertimento di una tradizione che è garanzia di prestigio
e potere. Scrivendo a Principia, erede spirituale di Paola e Marcella, Gerolamo ritorna su temi che già ha affrontato con Paola e inveisce contro
la società che è ostile alla vedova che sceglie la castità. Gerolamo parla
di maldicenze e di calunnie, a Roma, per chi, essendo donna, oppone un
comportamento retto all’immoralità divenuta consuetudine. Gerolamo
è severo contro la Roma del suo tempo, ed emblematico appare il confronto di Marcella con le matrone aristocratiche, confronto da cui anche
Paola, in altre lettere, come quella consolatoria per la morte di Blesilla,
non potrà sottrarsi. Rappresentativi in questo senso sono due passi: nella
lettera a Principia questo il quadro che emerge riguardo alla scelta della
vedova Marcella, maestra di Paola: «In una città piena di maldicenza,
in una città ove il popolo un tempo era come l’universo, e ove la palma
dei vizi si acquistava calunniando i galantuomini e insozzando quanto
v’è di puro e di casto, è difficile non tirarsi addosso qualche calunnia da
parte di lingue maligne [...]. Chiama senza macchia, lungo la strada di
questo mondo, coloro che non sono stati macchiati da nessun vento di
impudiche dicerie; coloro che non hanno ascoltato nessun oltraggio
diretto contro il prossimo. Di essi il Salvatore dice nel Vangelo: «Sii benevolo (ossia: abbi buoni sentimenti) verso il tuo avversario mentre sei in
cammino con lui» [Mt 5,25]. Orbene, chi mai ha sentito dire qualcosa
di disgustoso nei confronti di questa donna e vi ha potuto dar credito? E
chi ha potuto prestarvi fede senza condannare piuttosto se stesso come
21
Hier., Ep., 44,4.
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maligno e infame? Il mondo pagano per la prima volta restò confuso di
fronte a una simile donna, poiché a tutti fu manifesto che cos’era effettivamente la vedovanza cristiana, ch’essa faceva risplendere con la sua
rettitudine interiore e col suo contegno. Le vedove pagane normalmente
si dipingono il volto col rossetto o con la biacca, vogliono spiccare nelle
loro vesti di seta brillante, avere gemme splendenti, portare collane d’oro
attorno al collo, appendere alle orecchie perforate perle preziosissime del
Mar Rosso e profumarsi di muschio; mostrano insomma la loro gioia
per essersi finalmente liberate dal dominio dei mariti e vanno in cerca
di altri cui poter comandare senza dovervi star sotto, come invece ha
disposto Dio. Così si scelgono dei poveri, che di marito sembrano non
avere altro che il nome, e devono sopportare senza lagnarsi d’avere dei
rivali; se poi borbottano, te li cacciano via su due piedi. La nostra vedova
indossava vestiti atti a proteggerla dal freddo e non tagliati apposta per
metterle a nudo le membra. L’oro non lo poteva sopportare, tanto che
si tolse dal dito anche l’anello; preferiva nasconderlo nel ventre dei poveri piuttosto che custodirlo negli scrigni. Non andava in nessun luogo
senza essere, accompagnata dalla madre, e mai ricevette in casa qualche
chierico o monaco (le necessità d’una grande famiglia ne esigevano talvolta la presenza) senza che ci fossero dei testimoni. Aveva sempre in sua
compagnia vergini e vedove, e solo se erano donne di provata serietà.
Sapeva bene che è dalla leggerezza delle domestiche che si giudicano
spesso i costumi delle padrone, e che quale una è, tale è la compagnia di
cui si diletta»22. La critica mossa da Gerolamo riguardo al conflitto tra
le vedove e l’ambiente era già stata messa in evidenza nella lettera 39,
a Paola. Non va dimenticato che la vidua cominciava ad assumere una
sua fisionomia con il Nuovo Testamento, e importantissimi sono alcuni
passi di Paolo, seguiti alla lettera da Paola, in cui si mette in rilievo il
Hier., Ep., 127,3: difficile est in maledica ciuitate et in urbe, in qua orbis quondam
populus fuit palma que uitiorum, si honestis detraherent et pura ac munda macularent, non
aliquam sinistri rumoris fabulam trahere [...] ab hac primum confusa gentilitas est, dum
omnibus patuit, quae esset uiduitas christiana, quam et conscientia et habitu promittebat [...]
nusquam sine matre, nullum clericorum et monachorum - quod amplae domus interdum
exigebat necessitas - uidit absque arbitris.
22
26
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pregio e il prestigio della vedovanza. È molto interessante la lettera ai
Corinzi [1,7,40], in cui viene stabilita la condizione di vedova nella scala
dei valori spirituali, subito dopo la verginità e prima del matrimonio. Di
grande effetto appare a mio avviso inoltre la lettera a Timoteo, 1,523. Da
quest’ultimo esempio biblico non solo capiamo come successivamente
Gerolamo riesca, attraverso l’esempio di Paola, a spiegare la superiorità della vedovanza rispetto al matrimonio, ma soprattutto troviamo
elencate una serie di doti che arriveranno poi a confluire in quello che
più avanti nel tempo può essere considerato un vero e proprio ordo viduarum, secondo la definizione data dal Grillet. Paola, come dicevamo,
sceglie di seguire non senza fatica questi precetti, e, da un’altra lettera di
Gerolamo, scritta ad Asella, infatti leggiamo quanto segue: «Oh, invidia,
destinata a divorare te stessa per prima! Scaltrezza di Satana, che senza
sosta dai guerra alla santità! Non esistevano altre donne a Roma che
potessero diventare la favola della città? Solo Paola e Melania, che hanno
innalzato la croce del Signore quale vessillo della loro fede, dopo aver
abbandonato con disprezzo le loro ricchezze e lasciati a se stessi i figli?».
Nella lettera viene lodata la povertà volontaria di Paola, il suo trascurarsi
nell’aspetto, i suoi digiuni e la sua pratica quotidiana di preghiera e lettura [Ep. 45,3-4].
Tim., 1,5: «Onora le vedove, quelle che sono veramente vedove; ma se una vedova
ha figli o nipoti, questi imparino prima a praticare la pietà verso quelli della propria
famiglia e a rendere il contraccambio ai loro genitori, poiché è gradito a Dio. Quella
poi veramente vedova e che sia rimasta sola, ha riposto la speranza in Dio e si consacra
all’orazione e alla preghiera giorno e notte; al contrario quella che si dà ai piaceri, anche se vive, è già morta [...]. Una vedova sia iscritta nel catalogo delle vedove quando
abbia non meno di sessant’anni, sia andata sposa una sola volta, abbia la testimonianza
di opere buone: abbia cioè allevato figli, praticato l’ospitalità, lavato i piedi ai santi, sia
venuta in soccorso agli afflitti, abbia esercitato ogni opera di bene. Le vedove più giovani non accettarle [...]. Se qualche donna credente ha con sé delle vedove, provveda
lei a loro e non ricada il peso sulla Chiesa, perché questa possa così venire incontro a
quelle che sono veramente vedove».
23
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I.4. Non solo contro Paola. Gerolamo mendax
In questa lettera, ancora, è importante da sottolineare, notiamo uno sfogo di Gerolamo contro le tante calunnie che sono mosse non solo a
Paola, ma anche a lui stesso. Il problema arriva a toccare persino aspetti
legati allo stesso rapporto personale che Paola e Gerolamo condividono:
«Io un mascalzone, io imbroglione e falso, io un bugiardo e un seduttore astuto come satana Con quelle persone, è vero, ho vissuto per tre
anni all’incirca. Un nutrito stuolo di vergini mi è stato attorno sovente.
Ad alcune di loro ho spiegato, con una certa frequenza, i Testi sacri, facendo del mio meglio. Questa scuola le aveva portate ad essere assidue,
l’assiduità alla familiarità, la familiarità alla confidenza. Parlino dunque
loro: hanno mai notato in me un atteggiamento non conveniente ad un
cristiano? Mi sono fatto pagare da qualcuno? I regali, piccoli o grandi
che fossero, non li ho forse guardati con diffidenza? È passato in mano
mia danaro sonante di qualche persona? Ho scantonato nel parlare?...
L’unico capo d’accusa è il mio sesso, e lo si tira in campo solo al momento in cui Paola è in partenza per Gerusalemme! Prima di conoscere
la casa di Paola, questa santa, tutti a Roma erano concordemente a mio
favore … Ma sono forse entrato in casa di qualche sgualdrina? Mi sono
lasciato trasportare dall’ambizione di avere abiti di seta, gemme sfolgoranti, faccia imbellettata, oro? Non c’era nessun’altra matrona romana
che potesse affascinarmi? Solo questa donna, dunque, che piangeva e
digiunava, squallida e trasandata nella pulizia, quasi accecata dal pianto, questa donna che spesso è stata sorpresa dal sole, dopo intere notti,
mentre ancora implorava la misericordia del Signore? Questa donna che
non cantava altro che Salmi, non parlava che di Vangelo, non aveva altri
piaceri che la continenza, altra vita che il digiuno? Nessun’altra poteva
soddisfarmi se non lei, che mai sono riuscito a veder mangiare… Eppure, non appena ho accennato - per quanto meritava la sua santità - a
venerarla, a onorarla, a tenerla in considerazione, di botto tutte le virtù
mi hanno abbandonato»24.
24
Hier., Ep., 45,2-3 (non riporto l’intero passo): ego probrosus, ego uersipellis et lubricus,
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Certe considerazioni negative che Gerolamo, a tratti nelle sue Lettere,
aveva fatto su se stesso, dettate evidentemente da un profondo senso di
nullità di fronte a Dio (vedi ad es. l’espressione usata poco prima «e rispetto ai miei peccati è ancora poca cosa»), erano state prese alla lettera
e avevano offerto lo spunto alla malignità degli avversari. La successiva
lettera che Gerolamo scriverà, la Lettera 46, sarà di ben sette anni più
tardi.
Questa malignità che i detrattori di Gerolamo usavano verteva soprattutto sulla familiarità dei rapporti tra Gerolamo e la comunità delle vergini e vedove che lui stesso dirigeva, e particolarmente sulla familiarità
con Paola. Gerolamo stesso è molto puntuale nel rispondere, nelle sue
Lettere, alle accuse, e non nega, come abbiamo avuto modo di leggere
nella lettera 45, di avere avuto una vita comune con Paola e le altre vedove. Gerolamo addirittura arriva a richiamare, per respingere nella lettera
ciò che i suoi avversari gli imputavano, e cioè una relazione, lui, uomo,
prima che sacerdote, con Paola. I termini usati da Gerolamo sono espliciti, parla infatti di sesso, di regali, di favori, e si sofferma soprattutto sul
suo rapporto con Paola, difendendosi in maniera singolare. Gerolamo,
procedendo per assurdo, afferma che in fondo la sua colpa non esiste,
non ha frequentato la casa di una sgualdrina. Ancora, della donna e amica in questa lettera non tende a tessere le lodi di cristiana, ma la descrive
come una donna poco attraente, pallida, distrutta dal pianto. Se proprio
fosse caduto nella tentazione, dice apertamente, probabilmente sarebbe
successo a causa di una matrona più attraente, non certo per Paola. È a
mio parere evidente che la strumentalizzazione di questa amicizia tra un
uomo di Chiesa e una donna sola, che viveva e avrebbe vissuto in stretto
ego mendax et satanae arte decipiens! quid est astutius, haec uel credidisse uel finxisse de
insontibus, an etiam de noxiis credere noluisse? [...] paene certe triennio cum eis uixi; multa
me uirginum crebro turba circumdedit; diuinos libros, ut potui, nonnullis saepe disserui; lectio
adsiduitatem, adsiduitas familiaritatem, familiaritas fiduciam fecerat [...] pecuniam cuius
accepi? munera uel parua uel magna non spreui? nihil mihi aliud obicitur nisi sexus meus,
et hoc numquam obicitur, nisi cum hierosolyma paula proficiscitur [...] nulla fuit romae alia
matronarum, quae meam posset domare mentem, nisi lugens atque ieiunans, squalens sordibus, fletibus paene caecata [...].
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contatto con lui, aveva fatto circolare voci poco rassicuranti. Lo studio
del Cavallera pare accertare tra l’altro, e la cosa mi pare molto probabile, che le accuse venivano mosse da parte del clero di Roma, ed anzi
che siano state accuse ufficiali. Queste avrebbero portato ad un processo
canonico ai danni di Gerolamo. Forse non vi è stato un documento
ufficiale (scritto) di condanna, ma un consiglio a Gerolamo di lasciare
immediatamente Roma. Gerolamo promette e parte, non senza aver prima buttato giù questa lettera ad Asella, come protesta della sua completa
innocenza e con un’accusa per lo più a gruppi di donne, cristiane, definite bigotte, che non sapevano fare altro che parlare male di lui e Paola:
«Se fossero dei pagani, quelli che hanno da ridire sulla loro condotta, se
fossero dei Giudei, avrei almeno la soddisfazione di non essere gradito
a queste persone che schifano anche Cristo. Ma no, sono proprio delle
cristiane - proprio l’assurdo! - che invece di curarsi della loro famiglia,
invece di darsi pensiero della trave che hanno negli occhi, vanno alla
ricerca della pagliuzza negli occhi altrui! Vogliono ridurre a brandelli
il santo ideale di vita altrui; e pensano che serva di rimedio alla propria
condanna il fatto che nessuno sia santo [...] abbia motivo di parlar male,
che i dannati si contino a schiere e i peccatori a legioni. A te piace fare
il bagno ogni giorno, un altro ritiene una macchia questa toeletta [...]
Tu trovi soddisfazione fra branchi di spensierati burloni, mentre Paola e Melania fra coloro che piangono. Ebbene: dimostreranno d’essere
sciocche e vecchie bigotte, loro che sono persuase della resurrezione dei
corpi: ma che te ne importa? È la tua vita, invece, che a noi fa ribrezzo!
Tu, per il bene tuo, cerca di star grasso; io sono contento d’essere scarno
e pallido. Tu giudichi infelice chi vive come noi ma noi ti riteniamo ben
più disgraziato»25.
Hier., Ep., 45, 4-5 (non riporto il testo integrale): o inuidia primum mordax tui! o
satanae calliditas semper sancta persequens! nullae aliae romanae urbi fabulam praebuerunt,
nisi paula et melanium, quae contemptis facultatibus pignoribus que desertis crucem domini
quasi quoddam pietatis leuauere uexillum [...] si gentiles hanc uitam carperent, si iudaei,
haberem solacium non placendi eis, quibus displicet christus; nunc uero - pro nefas! - nomine
christianae praetermissa domum suarum cura et proprii oculi trabe neglecta in alieno festucam quaerunt. lacerant sanctum propositum et remedium poenae suae arbitrantur, si nemo sit
25
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I.5. La questione delle seconde nozze
Come già si diceva, Paola è donna eccezionale, e Gerolamo non manca
di ricordarlo a lei stessa ma anche ai lettori del suo Epistolario, in quanto, insieme a Marcella e altre, appartiene a famiglie di grande nobiltà
e ricchezza, quasi tutte di rango, o per meglio dire, di ceto, senatorio.
Paola segna una sorta di rivoluzione intraprendendo la vita religiosa, dà
un nuovo esempio. Per Paola, come abbiamo potuto notare da alcuni
passi di Gerolamo, era stato difficile conciliare l’appartenenza alla cristianità con gli impegni legati alla nobilitas, che coinvolge anche i rapporti, complicati, tra Senato romano ancora in parte pagano, e legato ad
antiche tradizioni classiche, e Chiesa. Già abbiamo messo in evidenza,
ma preme ricordarlo, quanto l’elemento femminile sia di conforto alla
religione cristiana per entrare in una cerchia chiusa al nuovo come quella dell’élite senatoria romana. L’equilibrio classico viene a vacillare, dato
che le donne, mogli, si avvicinano sempre più al cristianesimo mentre
i loro mariti, che spesso ricoprono cariche pubbliche, seguono i culti
pagani («se solo gli uomini riuscissero ad imitare le grandi scelte delle
donne!» afferma Gerolamo nella sua lettera alla vedova Furia, a 54,2). È
stata messa in evidenza da più studiosi la duplicità dell’eccezionalità di
Paola: con lei e con Marcella nasce infatti la figura della vidua, con le
caratteristiche delineate, e nasce, questa è la novità, a Roma. La novità
sta proprio in questi circoli romani di cui Paola si fa co-fondatrice: nelle
aree periferiche la donna che compie la scelta cristiana si delinea come
virgo o come mater [Giannarelli 1980]. Paola porterà al massimo livello
la categoria della vidua, caratterizzandola attraverso la sua cultura, i suoi
viaggi, il suo pellegrinaggio e la sua libertà, che la porta a rigettare la
sua vita passata, che obbediva a regole comportamentali a cui le matrone si erano sempre assoggettate. Questa è la vera rivoluzione messa in
atto da Paola: più che Marcella, che si limita, nonostante il carattere già
innovativo della sua scelta, a organizzare una cerchia di vedove cristiane
all’interno della sua casa, Paola dà alla sua scelta, più o meno consapesanctus, si omnibus detrahatur, si turba sit pereuntium, multitudo peccantium.
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo I. Paola, moglie e madre
31
volmente, anche un’accezione politica, e Gerolamo è molto astuto a
sottolineare questo aspetto in alcune sue corrispondenze con l’amica.
Paola infatti rinuncia a tutto un mondo: «si doleva dell’onore a lei fatto,
e procurava di schivare e fuggire il sentirsi da altri lodare. Essendo poi
andati a Roma, in esecuzione dei comandi dell’imperatore, i vescovi
dell’Oriente e dell’Occidente, per certi dissensi delle loro chiese, ella qui
vide gli ammirabili uomini e vescovi di Cristo, Paolino vescovo della città di Antiochia ed Epifanio di Salamina e di Cipro, ora chiamata
Costanza. Di questi ebbe Epifanio ospite in casa sua, e Paolino, che in
altra casa alloggiava, per la sua umanità lo tenne come uno della propria famiglia. Accesa dalle virtù di questi, andava sempre pensando di
abbandonare la patria, nulla ricordandosi della casa, dei figliuoli, della
famiglia, dei poderi, né tantomeno di alcuna altra cosa al mondo. Anzi,
se dire si può, sola e senza compagnia ardentemente bramava di andare
nell’eremo degli Antonio e dei Paolo» [108,6,1]. Come si diceva, Paola
costituisce oltre che un esempio, anche una sorta di summa quasi paradossale: il credo cristiano la celebra come santa, dopo le vicende che
hanno caratterizzato la sua vita post-matrimoniale. Ma non va dimenticato che Paola, prima di essere vedova perpetua, è stata moglie e madre,
e madre lo è sempre rimasta, anche quando ha rinunciato ad un secondo
matrimonio e si è ritirata a vita ascetica. Il problema della viduatatis cristiana si trova in un equilibrio molto delicato con la problematica legata
alle seconde nozze, tema trattato in più riprese non solo da Gerolamo,
ma da tutti i Padri della Chiesa. Gerolamo trova una sorta di spiegazione
dottrinale per Paola, che sfuma almeno un po’ la decisione così austera
della santa: la morte di Tossozio offre a Paola la chance di potere lasciare, ma non letteralmente abbandonare (cosa che parrebbe eticamente
negativa) la famiglia. La morte del marito diventa così per Paola e per le
vedove un avvenimento provvidenziale, che libera la donna dalla sottomissione, questa sì, negativa, del matrimonio, e le dona la possibilità di
sciogliersi dai legami con la vita terrena. La prospettiva delineata è evidente: la via della perfezione intrapresa da Paola trova il suo culmine nel
cedimento al mondo e nella sua testimonianza di incontinenza; ancora,
come in Giovanni Crisostomo le seconde nozze sono considerate un
32
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tradimento nei confronti del primo marito e possono creare disagio nei
figli, così in Gerolamo, lettere 54 e 123, ritroviamo gli stessi temi. Gerolamo parla di guerra domestica e lotte intestine nella famiglia e tra i figli
di primo e secondo letto; sottolinea come il secondo marito sarà geloso
della memoria del primo, e chiederà alla moglie di amare di meno i figli
del primo marito. Se la donna si rifiuterà di amare di meno i primi figli,
il secondo marito penserà che lei ami ancora il loro padre. Il pericolo
delle seconde nozze è duplice per la donna: se si risposa sarà costretta a
sacrificare l’amore dei suoi figli oppure passerà, se il nuovo marito ha lui
stesso dei figli, per matrigna26. La differenza principale consiste nel fatto
che per Giovanni Crisostomo la donna non si deve risposare per rispetto
alla memoria del marito, mentre per Gerolamo il secondo matrimonio
non deve avvenire per rispetto al santo proposito, quello della castità.
In questo senso quindi Paola, come esempio di vedova, perseverando
nella vedovanza e nella castità ritroverà il marito nella vita ultraterrena.
Alla Lettera 123 Gerolamo fornisce il suo pensiero definitivo: «Dunque
il vincolo del matrimonio trova la sua risoluzione nella vedovanza». La
frase non può non fare correre il pensiero all’analoga espressione riportata all’inizio di questo capitolo: la perseverantia della vera vedova. Paola
accoglie in pieno questi insegnamenti.
I.6. La Conversione dell’aristocrazia senatoria:
un inizio al femminile?
Grazie ad una serie piuttosto cospicua di testimonianze, possiamo affermare con certezza che il numero delle donne cristiane sia stato per un
certo periodo preponderante rispetto a quello degli uomini: all’inizio del
IV secolo, notizia tramandata dal Canone 15 del sinodo di Elvira, le
giovani cristiane avevano difficoltà, dato il loro numero elevato, a trova-
Hier., Ep., 54,15: lo stesso è detto anche da Sant’Ambrogio, De Viduitate, 88, c.
262 A-B.
26
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo I. Paola, moglie e madre
33
re un marito cristiano, e proprio per questo venivano date in matrimonio ai pagani. Dato che questo tipo di matrimonio non esisteva o non è
documentato per il giudaismo, il fenomeno è frutto della predicazione e
della forza attrattiva del cristianesimo. Flavia Domitilla, moglie, o, secondo la notizia meno attendibile, di Eusebio di Cesarea, nipote del
console del 95, Flavio Clemente, e parente di Domiziano, viene relegata
in un’isola a causa della sua fede27: non è un caso che scrivendo l’elogio
di funebre di Paola Gerolamo citi questa nobildonna: «Paola… condotta all’isola di Ponza, già nobilitata dall’esilio di Flavia Domitilla, illustrissima donna, sotto l’impero di Domiziano, per la confessione della fede di
Cristo, e qui scorgendo le cellette dove essa aveva tollerato il suo lungo
martirio, avendo prese le ali della fede, desiderava vedere Gerusalemme e
gli altri luoghi santi». Ancora, la concubina di Commodo, Marcia, secondo la testimonianza di Cassio Dione protegge i cristiani28. Da Tertulliano sappiamo ancora che, alla fine del II secolo, la moglie del governatore della Cappadocia è cristiana; sempre da Tertulliano viene
registrata la notizia che donne illustrissime, matrone appartenenti alla
stessa classe sociale del proconsole d’Africa, sono cristiane: quindi già
nel 210 circa, è segnalata l’esistenza di una conversione di un certo tipo
di aristocrazia. Nella metà del III secolo, la notizia ci è consegnata da
Origene, donne nobili e distinte hanno accolto il messaggio cristiano29;
da Cipriano siamo invece informati del fatto che esisteva un editto
dell’imperatore Valeriano, del 258, in cui venivano condannate all’esilio
e alla confisca dei beni matrone cristiane30. Che il cristianesimo abbia
posto le sue basi non solo tra le masse, ma in un certo ambiente femminile è ancora dimostrato dal fatto che Eusebio, autore cristiano, afferma
ad esempio che alla fine del III secolo, prima della famosa persecuzione
di Diocleziano, nel palazzo imperiale «c’erano mogli, figli e domestici»
27
Dio, 67,14,1-2, Boissevain, p. 281; Eusebio, HE, III 18,4, GCS 9, p. 232, 8-11.
28
Dio, 74, 4,7, Boissevain, III, p. 285.
29
Origene, Contra Celsum, III, 9, SC 136, p. 30, 15-16.
30
Cipriano, Ep., 80,1,2, CSEL 3, p. 840, 1-2.
34
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che professavano più o meno liberamente il cristianesimo31. Il ruolo
eminente dell’origine sociale si riassume sostanzialmente all’interno di
tre categorie: il nome, la ricchezza e la cultura; queste trovano eco in
una frase espressa da Gerolamo, nella sua lettera 66,4 a Pammachio, in
cui sostiene che i cristiani, diventati monaci, sono sapientes, potentes, nobiles32. Roma, dice infatti Gerolamo, ora conosce una nuova realtà, prima infatti erano rari i sapienti, i potenti, i cristiani della nobiltà: oggi
sono numerosi i monaci sapienti, potenti, nobili. Tra il 350 e il 360 Marcella, Albina (sua madre) e Asella, la sorella, decisero di professare il
proposito dei monaci, e si ritirarono sul loro palazzo dell’Aventino. Marcella aveva tra i suoi antenati, a dire di Gerolamo, consoli e prefetti del
pretorio, ed era, grazie alla parentela con Pammachio, legata alla gens
Furia, come del resto lo era Paola. Sappiamo inoltre che, dopo essere
rimasta vedova, aveva rifiutato la proposta di matrimonio di Nerazio
Cereale, membro della potente famiglia dei Nerazi, legati alla dinastia
costantiniana e poi anche a quella di Valentiniano I [Ep. 127,1; Chausson 2007; Lizzi Testa 2004]; la madre di Marcella, Albina, si pensa fosse
figlia di Ceonio Rufo Albino e sorella di Volusiano Lampadio. Il nome
del marito di Albina è ignoto, ma era un discendente di Claudio Marcello. Asella, che riteniamo molto vicina a Marcella, anche se non sorella,
secondo quanto ci fa capire Gerolamo33, nel 384 aveva cinquant’anni, si
era votata ad una vita di reclusione ad appena dodici anni, secondo
quanto ci dice Gerolamo, raccontando in maniera forse un po’esagerata
che la scelta di Asella era già stata vista in sogno dal padre di lei: «Non ti
dirò che doveva ancor nascere, e già veniva benedetta nel seno materno;
che suo padre la vide in sogno, vergine, sotto una specie di campana di
31
Eusebio, HE, VIII, 14,17, GCS 9, p. 786.
Vedi la prima lettera ai Corinzi di San Paolo [1 Cor. 1,26-31], dove si trovano esattamente questi tre termini.
32
Hier., Ep., 45,7 saluta matrem albinam sorores que marcellas: qui si allude ad una
parentela spirituale tra le due, che dovevano avere più o meno la stessa età. Albina,
madre di Marcella, era la madre spirituale di Asella [vedi anche Ep., 32,2] e di tutta la
comunità dell’Aventino. Gerolamo stesso si considera più volte suo figlio spirituale.
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capitolo I. Paola, moglie e madre
35
cristallo brillante, più duro di qualunque specchio; che vestita ancora di
abiti infantili, non appena superati i dieci anni, si consacrò all’onore di
gloria che avrà nella beatitudine futura». La scelta di Asella era stata di
votarsi spontaneamente alla castità perpetua, virtù che in paradiso gode
di un’aureola speciale. Come si evince da queste testimonianze, tutti gli
elementi femminili di queste gentes, quindi, risposero in maniera attiva
alla predicazione del cristianesimo, anche se si ritiene che si trattasse pur
sempre di un gruppo numericamente ristretto. Anche se non note come
Paola o Marcella, molte di queste donne hanno lasciato qualche traccia
nelle fonti. È possibile pensare addirittura che alcune, come Indicia, una
vergine veronese di cui ci parla Ambrogio in una sua lettera, trascorse
molti anni nella casa romana di Marcellina, che aveva rapporti con il
gruppo romano di Paola. Marcellina forse era addirittura la sorella di
Ambrogio, e viene citata anche da Gerolamo [Ep., 45,7], insieme ad
una Felicita: «Saluta Albina, nostra madre, le due Marcelle nostre sorelle, nonché Marcellina e la santa Felicita». Paola subisce una trasformazione e, secondo ciò che ci dice Gerolamo nel suo epitaffio, era «Accesa
dalle virtù di questi (Paolino vescovo della città di Antiochia ed Epifanio
di Salamina di Cipro) andava sempre pensando di abbandonare la patria». Un’altra tra le corrispondenti di Gerolamo che merita menzione
perché appartenente ad una grande famiglia è Demetriade: la madre e la
nonna avrebbero accolto la sua decisione di farsi monaca, rinunciando
alle nozze, con molta gioia, almeno secondo quanto raccontato da Gerolamo [Ep., 130,4-5]: «Nulla temeva di più che offendere sua nonna e
sua madre. Il loro esempio le era di eccitamento, ma la loro volontà e i
loro sentimenti la spaventavano. Non è che dispiacesse loro il «santo proposito» ma dato l’impegno notevole ch’esso richiede, non osavano desiderarlo e ricercarlo34 [...]. Indossa una rozza tunica, si ricopre con un
mantello ancor più grossolano, e all’improvviso, quando meno ci se l’a-
Hier., Ep., 130,4 quarum cum incitaretur exemplo, uoluntate et studiis terrebatur, non
quo displiceret eis sanctum propositum, sed quod pro rei magnitudine optare id et appetere
non auderent: Questa frase di Gerolamo fa dunque pensare che ci fosse quantomeno
un certo sconcerto all’interno di questo ambiente, nei confronti del «santo proposito».
34
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spetta, si butta ai piedi della nonna; non ha che lacrime e singhiozzi per
farle capire quello che vuoi essere. La santa e nobile donna resta impietrita quando vede addosso alla nipote un abito estraneo al suo guardaroba. La madre è lì, in piedi, attonita per la gioia. Nessuna delle due donne
riesce a capacitarsi che sia proprio vero quello che personalmente desideravano si realizzasse. La voce si soffoca loro in gola, il volto si arrossa
e poi si sbianca, vengono prese da timore e da gioia; è tutto un alternarsi di sentimenti vari». Questo passo può apparire carico di tono epico e
di piaggeria, seguendo i leciti dubbi espressi dalla Consolino [1986],
ma, se vogliamo dare credito a Gerolamo, anche Demetriade, come Eustochio per Paola e Tossozio, non era figlia unica; la decisione di non
sposarsi non avrebbe inficiato la propagazione del nome di famiglia: era
perciò possibile che la sua scelta, benché estrema, non avesse suscitato
troppi contrasti in famiglia. Ancora, Gerolamo continua affermando
che, dopo la pubblicità della sua decisione, la madre e la nonna fecero a
gara per coprire di baci la nipote e la figlia; e lacrime di gioia solcavano
i loro volti, dato che vedevano nella sua decisione il compimento dei
loro desideri e si rallegravano del fatto che questa vergine, con la sua
consacrazione alla verginità, avrebbe accresciuto la nobiltà della già nobile famiglia. Demetriade aveva secondo Gerolamo trovato il modo di
tenere alto il prestigio del loro albero genealogico e di alleviare il dolore
per la città di Roma incenerita. Dobbiamo tenere presente che la lettera
è datata al 414; Paola è morta nel 404. Sono già passati diversi anni, e
forse Gerolamo non sente più come necessario esprimere la polemica
che si trova invece nelle lettere che riguardano le scelte di Paola, di Blesilla e anche di Eustochio. Nel caso di Paola tutto è stato evidentemente
più complicato. Esponente, come già accennato, di una grande famiglia
senatoria romana, Paola partecipa attivamente a quel particolare fenomeno che dagli studiosi moderni è stato definito ruolo dell’aristocrazia
femminile nella conversione dei congiunti pagani. Paola, nella prima
fase della sua conversione all’ideale di vita perfetta e ascetica, dimora nel
suo palazzo, o nella sua casa. Con il tempo, come altre vedove, trasforma
il suo palazzo, o una delle sue ricche dimore, cittadine o suburbane, in
un vero e proprio monastero. Ovviamente, la trasformazione coinvolge
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capitolo I. Paola, moglie e madre
37
tutta una serie di aspetti legati al suo essere donna, come per esempio
l’abbandonare, come avremo modo di approfondire, le abitudini ai lussi
e all’eleganza. Incanalandosi verso un nuovo ideale di vita, Paola abbandona i valori tradizionali del suo milieu d’appartenenza. Non è chiaro se
la scelta che compie, anche estrema, sia fatta per decisione autonoma o
se risponda a una serie di regole e precetti che i Padri della Chiesa cercano di tramandare. La cosa certa è che dai suoi gesti dalle sue decisioni,
si delinea un nuovo modo, tutto al femminile, di vivere la fede. Non si
sa se Gerolamo, o altri, le hanno chiesto di abbandonare nella totalità la
sua vita passata, non è chiaro, se non bastasse, ciò che faceva a Roma.
Senza dubbio Paola è esempio di santità, ma anche modello pratico, e ci
consente, attraverso ciò che ci dice Gerolamo, di parlare un po’più nel
dettaglio di questo fenomeno di conversione inizialmente tutto femminile. La matrona cristiana, devota, era già stata descritta da Tertulliano
come colei che ospita i confratelli/consorelle nella fede, gira e opera tra
i più poveri, va nelle carceri. Il fatto che le donne si riunissero insieme
in una casa non deve stupire: esse erano legate da stretti vincoli di sangue, di parentela, di amicizia che erano una caratteristica costante della
tarda aristocrazia senatoria romana, e tenute insieme già da questi vincoli, ora sono unite da qualcosa di più spirituale. È Paola che tiene unite
le donne del suo gruppo, e Gerolamo non manca di evidenziare come
essa fosse eccellente nell’assicurarsi che i rapporti tra le donne del suo
circolo funzionassero, come del resto fece nel suo monastero [Ep.,
108,20: «Quelle che tra loro avevano qualche discordia, le riconciliava
con il suo piacevolissimo parlare»]. I conflitti tra i precetti dell’ascetismo
cristiano e i privilegi della sua origine sociale, uniti alle esigenze che
questa origine comportava, non impedirono quindi a Paola di convertirsi (e di fare convertire altre donne). I membri maschili di queste grandi
famiglie del IV secolo erano ancora, per la maggior parte, dei pagani: la
loro reazione nei confronti dell’adozione di una modalità di vita così
lontana dalle loro tradizioni non dovette essere moderata. Come si evince dagli stemmata delle famiglie Aemilia e Caeonia, Paola e Marcella
sono esponenti di grandi casate nobiliari, Laeta appartiene alla gens Caeonia, insieme, oltre che a Marcella, ad Albina e a Melania iunior. Il ma-
38
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trimonio di Tossozio e Laeta unisce le due grandi famiglie. Il marito di
Paola, Tossozio, appartiene alla famiglia Iulia. Queste grandi casate (insieme alle casate Furia e Anicia, da cui provengono due corrispondenti
di Gerolamo, la vedova Furia e Demetriade) sono travolte dalla nuova
ventata portata dal cristianesimo e dal monachesimo: le implicazioni
sono tantissime, si pensi per esempio solo al fatto che la religione cristiana prevede l’umiltà e la povertà: che fine faranno le ricchezze di queste
famiglie, private piano piano anche di eredi e per di più escluse da possibili nuove alleanze matrimoniali? Leggendo le lettere di Gerolamo, è
grazie a Marcella che «il mondo pagano per la prima volta restò confuso
di fronte a una simile donna, poiché a tutti fu manifesto che cos’era effettivamente la vedovanza cristiana, ch’essa faceva risplendere con la sua
rettitudine interiore e col suo contegno»35. Gerolamo, attraverso la formula della negazione, ci rende edotti della stessa provenienza e dello
stesso sforzo contro la tradizione fatto da Marcella, che richiama in tutto e per tutto ciò che fece poi Paola, anche se il destino e la via a cui
arrivarono al cristianesimo fu differente: «Non starò quindi ad illustrarne
il nobile casato, la gloria d’un antico sangue, la genealogia che ramifica
fra senatori e prefetti del Pretorio. Non esalterò in lei nessun pregio che
non sia strettamente personale, ma per questo tanto più eccellente in
quanto, avendo disprezzato le ricchezze e il suo stato altolocato, lei ha
acquistato in nobiltà proprio per la sua povertà e per la sua umiltà». Data
la progressione della religione cristiana nel IV secolo, dobbiamo ritenere
che la frequenza dei matrimoni misti, anche tra donne già cristiane e
pagani, fosse ormai molto elevata, e dobbiamo altresì ritenere che molti
mariti pagani, dovessero lasciare una discreta libertà di culto alle proprie
mogli: una testimonianza ci viene proprio dalla famiglia di Paola. Tossozio iunior, il figlio di Paola, sposa infatti Laeta, una aristocratica cristiana; Tossozio si convertì molto tardi, ma noi sappiamo che Paola iunior, la loro figlia, fu votata dalla madre alla verginità fin dal momento
della sua nascita: «Tu sei nata da un matrimonio misto, da te e dal mio
35
Hier., Ep., 127,3.
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capitolo I. Paola, moglie e madre
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Tossozio ha visto la luce Paola. E chi l’avrebbe creduto, che la nipote del
Pontefice Albino sarebbe venuta al mondo per un voto della madre? Che
la sua lingua avrebbe cantato un alleluia, balbettato alla presenza del
nonno al colmo della gioia, e che questi, per quanto decrepito, avrebbe
allevato sulle sue ginocchia una vergine di Cristo?36». Anche in questa
lettera l’intento di Gerolamo è di combattere contro i residui pagani del
tempo, ancora presenti nella famiglia, ormai allargata, di Paola. Il consuocero di Paola, infatti, Albino, era reticente al cristianesimo, così come
lo era stato il figlio di Paola, Tossozio, e Gerolamo non manca di sottolineare questi aspetti in maniera piuttosto severa: «Sono del parere che
perfino Giove in persona avrebbe potuto credere in Cristo se avesse avuto una parentela come questa. Ma sì! Albino può ben sputare addosso e
mettere in ridicolo la mia lettera, può ben gridare a tutti che io sono o
uno sciocco o un pazzoide! Anche suo genero, prima di convertirsi, faceva così! Cristiani si diventa, non si nasce»37. Mentre Tossozio iunior,
marito di Laeta, pare che non avesse ricevuto il battesimo da piccolo,
probabilmente per le condizioni poste da Tossozio alla moglie Paola
(quindi le figlie avrebbero seguito la religione della madre, i figli quella
del padre) aveva concesso la possibilità alla moglie di professare la fede
cristiana, così non era stato per il padre di Laeta, Albino, a quanto pare
recalcitrante.
Hier., Ep., 107,1: tu es nata de inpari matrimonio: de te et toxotio meo paula generata
est. quis hoc crederet, ut albini pontificis neptis de repromissione matris nasceretur, ut praesente et gaudente auo paruulae adhuc lingua balbuttiens alleluia resonaret et uirginem christi in
suo gremio nutriret et senex?
36
Hier., Ep., 107,1. La chiusa di questa citazione, è interessante notarlo, deriva a
Gerolamo dall’Apologeticum di Tertulliano [Apologeticum, 18.4]: fiunt, non nascuntur
christiani.
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I.7. Paola modello di cultus
Paola, degno modello da imitare, non fa eccezione nemmeno per la sua
bellezza e per le sue scelte nell’abbigliamento, nell’acconciatura e nel
trucco. Nella lettera 30, a lei indirizzata, Paola si sente dire che non esiste
un cibo, non esiste un miele più gradevole della conoscenza della sapienza di Dio. Paola deve scoprire i piani del Creatore, essere istruita con
gli insegnamenti del Signore. Gli altri, dice Gerolamo, si tengano pure
le loro ricchezze, bevano in calici preziosi, risplendano in abiti di seta,
godano del favore popolare, e non diano pur fondo alle proprie sostanze!
La gioia di Paola e di Gerolamo deve stare nel meditare giorno e notte la
legge del Signore [30,13]. Il testo, estrapolato dal suo contesto generale,
è piuttosto eloquente e significativo circa l’atteggiamento che la donna
cristiana deve seguire: il santo proposito cristiano non può andare di
pari passo con gli abiti di seta e sfarzosi delle matrone e con la vita insulsa dell’aristocrazia: è chiaro che questo passo, da solo, non costituisce
tutta la complessa problematica che vi è sottesa. Indubbiamente Paola
non si sottrae agli insegnamenti dei Padri e prosegue come modello la
veemente polemica contro il lusso e l’eleganza femminile che era stata
grande parte già dell’opera di Tertulliano [Brown 1961, Mattioli 1983,
Neri 2004, Cameron].
In diverse lettere Gerolamo ci dà informazioni riguardo a come si deve
comportare una vera cristiana e una vera vedova, anche in materia di
abbigliamento, e già, in alcuni passi riportati, ne abbiamo intravisto un
accenno. Nella sua lettera 38, per esempio, scritta a Marcella, Gerolamo riprende alcuni di questi temi, applicandoli alla vita decorosa che
dovrebbe fare una vedova: «A te non vanno i cibi grossolani? Eppure
niente è più grossolano delle locuste [cibi displicent uiliores: nihil uilius est
locustis]! Agli occhi dei cristiani dovrebbero piuttosto essere di scandalo
quelle donne che si dipingono le labbra e gli occhi di rosso vivo o di non
so quali belletti. La loro faccia impiastricciata e ributtante per esagerata
bianchezza è una contraffazione di idoli [38,3: illae christianos oculos
potius scandalizent, quae purpurisso et quibusdam fucis ora oculos que depingunt, quarum facies gypseae et nimio candore deformes idola mentiuntur].
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Quando per caso spunta una lacrima imprevista, questa scende lungo
il solco che si scava. Neppure il numero degli anni riesce a convincerle
che sono piuttosto anzianotte. Si acconciano il capo con capelli altrui
e sulle vecchie grinze cercano di rifarsi una giovinezza ormai passata.
E proprio loro, poi, di fronte ad una sequela di nipoti, si atteggiano a
timide verginelle! Una donna cristiana si deve vergognare di alterare la
sua bellezza naturale e di acconciarsi il corpo per farsi desiderare! Chi fa
questo non può piacere a Cristo: è l’Apostolo che lo dice». L’aggettivo
grossolano, che deve avere quindi un’accezione estremamente negativa
(con diversi sinonimi latini, in questo caso vilior), tra l’altro, è usato da
Gerolamo in più occasioni, anche se non riferito solo ai cibi (per esempio in riferimento alle vesti della vergine Asella, a 24,3)38.
Ancora, in questa lettera [38,4], viene sottolineata la differenza tra la
vedova cristiana e la donna prima della conversione, attraverso una serie
di esempi a contrasto sottolineati dall’incalzare di Gerolamo con locuzioni temporali: «Qualche tempo fa la nostra vedova s’attardava alquanto
nella toeletta, e tutto il giorno, davanti allo specchio, cercava quale vezzo
le mancasse. Ora dice con piena fiducia: «Noi tutti che a viso scoperto
riflettiamo come in uno specchio lo splendore del Signore, veniamo
trasformati a sua stessa immagine, a misura che opera in noi lo Spirito
del Signore».
Prima di diventare cristiana, sottolinea Gerolamo, le schiavette (ancillulae, termine dispregiativo) le aggiustavano i capelli, stringendo quella
testa innocente con cartocci increspati. Ora, da cristiana appunto, sa
che il suo capo, senza acconciature, ha solo bisogno d’essere velato. A
quel tempo le sembravano rudi anche le soffici piume, e riusciva appena
a star coricata in letti sprimacciati. Ora, invece (ora che ha raggiunto
la cristianità) si alza svelta per la preghiera, intona con voce armoniosa
l’alleluia alle compagne e comincia lei per prima a lodare il suo Signore.
S’inginocchia sulla nuda terra. Lacrime frequenti lavano quel viso pri-
Gerolamo usa questo termine anche nella Lettera 46: forse questa predilezione per
l’aggettivo può fungere da spia della paternità geronimiana appunto della lettera 46.
Vedi infra.
38
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ma impiastricciato di cipria. Dopo la preghiera alza il canto dei Salmi.
La testa è stanca, le gambe vacillano; le palpebre, che si chiudono per il
sonno, fanno fatica a riposare per l’eccessivo fervore dell’anima. Indossa
una tunica scura: si sporcherà meno facilmente quando dorme a terra.
Calza zoccoli grossolani: il prezzo delle scarpe guarnite di oro lo può in
tal modo dare ai poveri. La cintura non è fregiata né di ori né di gemme;
è di lana, purissima nella sua semplicità, più adatta finalmente a tener
chiusi i vestiti che non ad aprirli.
Come si può ben notare, ci troviamo davanti a una vera e propria definizione di quello che deve essere il modello da seguire. Il tono è severo,
e apertamente Gerolamo definisce Satana gli avversari di Cristo: chi si
oppone, o non crede, è da paragonare ad uno scorpione tentatore con il
suo veleno, che richiama il veleno dall’albero proibito: questi scorpioni,
dice Gerolamo, vanno schiacciati, come con una scarpa (forse proprio
con gli zoccoli duri portati dalle vedove) attraverso l’utilizzo di un anatema. Di Paola (e di Melania senior), nella lettera 45,3 viene per esempio
detto che, dopo la conversione, fanno consistere la loro bellezza dentro
un sacco e nella cenere, con il digiuno e la vita grossolana; nel suo monastero, Paola impone l’assenza totale di vanità e esige la povertà degli
abiti: «facevano abiti o per se stesse o per le altre. Andavano tutte vestite
nella stessa maniera: usavano panno di lino solamente per asciugarsi le
mani» [108,20]. Ancora, a titolo di esempio, nell’epitaffio di Paola Gerolamo ci dice che l’amica non solo sottoponeva sé stessa a questa regola,
ma anche le vergini e vedove del suo monastero, dato che con frequenti
e replicati digiuni abbatteva gli assalti del senso nelle giovinette, preferendo che facesse loro male lo stomaco piuttosto che la mente. Se Paola
vedeva qualche ragazza del suo monastero più ornata del solito, con
fronte sdegnosa e con volto severo, rimproverava questo errore, dicendo
che la mondezza del corpo e degli abiti equivale all’immondezza dell’anima e che mai dalla bocca di una vergine deve uscire alcuna parola
oscena e lasciva, poiché con questi segni si manifesta l’animo libidinoso
e per mezzo dell’uomo esteriore si scoprono i vizi dell’uomo interiore.
Paola vestì il cilicio, ci dice ancora Gerolamo, per arrivare a raggiungere in pieno il santo proposito cristiano, per essere, una volta morta,
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo I. Paola, moglie e madre
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vestita di abiti puri e candidi, e per dire: «Hai stracciato il mio sacco
e mi hai vestita di allegrezza». Un aspetto dimesso e trascurato deve
quindi fare tutt’uno con una vita di penitenza, di sobrietà, di preghiera
incessante e continua, che sgorga da un cuore contrito per le proprie
colpe, lontano dagli occhi degli altri, in una solitudine tutta spirituale.
A volte Gerolamo appare quasi noioso e ripetitivo nel suo enunciare
quali siano le regole da seguire per una vergine o per una vedova, che
«Non ricerca l’apparenza o l’eleganza nel vestire; ma la sua mancanza di
ricercatezza è una vera eleganza» [Ep., 24,5: idem semper habitus, neglecta
mundities et inculta ueste cultus ipse sine cultu]. Secondo Gerolamo la vita
e i gusti delle matrone si valutano per lo più dai costumi delle loro donne di servizio e delle loro dame di compagnia, e critica quindi questo
atteggiamento. Paola non deve fare conto dell’attrattiva delle sue forme,
e quando cammina in pubblico non scopre il petto e il collo, e non si
toglie il mantello per mostrare il dorso, ma deve tenere il volto coperto e
camminare tenendo libero appena un occhio, tanto quanto è necessario
per scorgere la strada. Il pallore del volto della vedova in generale, e di
Paola in particolare (ma anche di Blesilla, stremata dai digiuni), fa rimarcare la sua continenza, e non sa di ostentazione, che, secondo Gerolamo,
è da condannare. Il parlare della vedova deve essere un parlare silenzioso,
e quando tace, la vedova è eloquente. In una città di lusso, di scostumatezza e di piaceri, dove vivere modestamente è un’umiliazione, solo col
tenore di vita tenuto da Paola ci si merita l’entusiasmo dei buoni. Paola,
e tutte le vedove che seguiranno queste norme comportamentali, non
andranno incontro, dice Gerolamo, neppure alle calunnie dei maligni.
Nella lettera 130, a Demetriade, nobile che sceglie la verginità, Gerolamo esalta la forza della giovane, dimostrata soprattutto nell’abbandonare
vecchie abitudini: «Eppure ciò che devo maggiormente elogiare nella
nostra vergine è proprio il fatto di averle disprezzate tutte quante; non
è stata a pensare che era nobile e provvista di grandi ricchezze, ma che
era una semplice creatura umana. Che forza d’animo incredibile! Fra
gioielli e seta, fra schiere di eunuchi e di schiave, fra l’adulazione e gli
ossequi d’una servitù schiamazzante, in mezzo a cibi prelibati che l’opulenza d’una ricca casa le metteva a disposizione, essa non ebbe fame che
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di pesanti digiuni, di vesti ruvide, e di cibo appena appena sufficiente»
[130,3]. Stimolata da queste riflessioni, Demetriade mette da parte ogni
cura del corpo e ogni vestito che sappia di mondo come altrettanti impedimenti al suo ideale di vita, e ripone negli scrigni le collane preziose,
le grosse perle valutate molto nel censo, e le gemme dai caldi riflessi;
indossa una rozza tunica, si ricopre con un mantello ancor più grossolano, e all’improvviso, quando meno ci se l’aspetta, si butta ai piedi della
nonna; non ha che lacrime e singhiozzi per farle capire quello che vuole
essere: l’esempio di Paola ha dato già i primi frutti, ma nonostante questo Gerolamo continua ad esortare le donne con i suoi precetti [130,17]:
«Scegliti come compagne donne serie, soprattutto vedove e vergini di
condotta esemplare, moderate nel parlare e di religiosa riservatezza».
Gerolamo esorta a stare alla larga dalle ragazze farfalline che si ornano
il capo, si lasciano ricadere i capelli sulla fronte, curano la morbidezza
della pelle, fanno uso di unguenti, portano maniche attillate, vesti senza
pieghe e scarpette ricamate; sono ragazze che si fanno belle del nome di
vergini per vendersi e dannarsi più facilmente.
Capitolo II
Modelli di donne a confronto
II.1. Paola, Lea e Fabia Aconia Paolina
Nel 384, Gerolamo scrive una lettera a Marcella circa la morte della
vedova Lea. Lo scopo di Gerolamo, di fatto, è quello di definire alcuni
concetti chiave del suo pensiero e non di informare e consolare Marcella, che, tra l’altro, al momento della morte di Lea, si trovava con
Gerolamo e aveva ricevuto con lui la notizia della perdita. Ecco cosa
dice Gerolamo: «Oggi, verso le nove [...] improvvisamente ci è stato
comunicato che l’anima santa di Lea aveva abbandonato il suo corpo. In
quell’istante ti ho vista impallidire, al punto che raramente, per non dire
mai, le anime, vinte da tale dolore, riescono a non spezzare il proprio
involucro fragile come l’argilla e volarsene via»1. Alla richiesta, retorica,
formulata da Marcella sul motivo per il quale Gerolamo voglia parlare
di quest’episodio, la risposta del santo è la seguente: «Ti rispondo con le
parole dell’Apostolo: importa molto e in ogni senso. Anzitutto perché
una gioia universale deve accompagnare colei che, vinto il demonio, ha
già ricevuto la corona della salvezza; inoltre voglio approfittare dell’occasione per esporre brevemente la sua vita; e voglio ancora mostrare
1
Hier., Ep., 23,1.
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come il console designato, dissipatasi ormai l’aura della sua fama mondana, è all’inferno [tertio, ut designatum consulem de suis saeculis detrahentes esse doceamus in tartaro]2». Anche qui, come avverrà nella lettera 39,
l’occasione della morte di una santa donna è utilizzata da Gerolamo per
scopi propagandistici e politici. La santità della vita e della morte di Lea
richiama, per contrasto, a Gerolamo, la morte d’una nota personalità
pagana. Questa personalità è il console Vettio Agorio Pretestato, designato console nel 384 per ricoprire la carica nell’anno seguente (questo riferimento, come vedremo in seguito, permette di datare la lettera).
Vettio Agorio Pretestato, tra l’altro, era stato uno dei pretendenti della
mano di Lea, che però, fedele alla vedovanza perpetua, aveva rifiutato le
seconde nozze. Se leggiamo il Salmo 72 capiamo subito come l’introduzione di Gerolamo non sia superflua o scolastica. Nel Salmo, infatti,
viene posto il problema della prosperità dei malvagi, di fronte alla quale
i buoni possono restare dubbiosi, quasi mancasse nel mondo la giustizia
e la provvidenza di Dio [Salmo 72, 11-12]. Risulta dunque evidente
l’intenzione di san Girolamo di confermare la soluzione del problema
posto dal Salmista (l’apparente situazione privilegiata dei malvagi in
confronto a quella dei buoni) con la sorte definitiva di Lea e di Vettio
Agorio Pretestato. Gerolamo infatti del resto ironizza ed evidenzia quello che definisce un vero e proprio scambio di sorti: «Quell’uomo che
pochi giorni fa era preceduto dalle insegne di tutte le più alte cariche;
quell’uomo che saliva la rocca capitolina quasi fosse un trionfatore che
avesse assoggettato i nemici; quell’uomo che il popolo romano accolse con un certo applauso e tripudio e per la cui morte tutta la città si
commosse, ora è abbandonato, spoglio di tutto. Non abita, no, la lattea
dimora del cielo, come pretende la moglie infelice, ma è sprofondato in
sordide tenebre. Lea, difesa dalla clausura di una sola cameretta, lei che
poteva sembrare povera e insignificante (la sua vita era ritenuta pazzia!),
ora se ne sta continuamente con Cristo»3. La novità impressionante che
2
Hier., Ep., 23,2.
Hier., Ep., 23,3: o rerum quanta mutatio! ille, quem ante paucos dies dignitatum omnium culmina praecedebant, qui, quasi de subiectis hostibus triumpharet, capitolinas ascendit
3
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo II. modelli di donne a confronto
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salta a mio avviso agli occhi è che Gerolamo, per denigrare un membro
importante del paganesimo, utilizza come modello di confronto non
un uomo politico cristiano, ma una donna, una vedova, della cerchia
di Paola e Marcella, e che, come Paola, ha dimostrato che non bisogna
curarsi delle cose terrene, e del potere in terra, ma bisogna pensare alle
cose eterne. In questo periodo, in cui lo scontro tra pagani e cristiani
era molto acceso, l’elemento femminile, grazie a Paola, aiutata in questo caso, nel progetto di Gerolamo, da Lea, diventa parte integrante di
un’aspra lotta che per gli storici fino a questo momento aveva coinvolto
evidentemente solo gli elementi maschili.
II.2. Fabia Aconia Paolina
Nella lettera 39, rispetto alla lettera 23, i modelli contrapposti invece
sono due donne, Paola e la moglie di Vettio Agorio Pretestato. Fabia
Aconia Paolina non era donna confinata ai compiti domestici, ma era
stata anzi partecipe delle iniziazioni ai misteri da parte del marito e della sua cultura teosofica. Paolina, benché matrona pagana, aveva saputo
realizzare, secondo un concetto di castità non cristiano, una spiritualità notevole all’interno del suo matrimonio, e aveva quindi dimostrato
la possibilità di conciliazione di una religiosità intensa con i compiti e
doveri della madre di famiglia. Vettio Agorio Pretestato era morto da
poco: Paolina, al funerale del marito, aveva fornito la prova di donna di
fede e di coraggio, esercitando un impatto forte sul pubblico presente.
Figlia di Fabio Aconio Catullino Filomazio, praefectus urbi nel 342-344
e console nel 349, Paolina sposò nel 344 Vettio Agorio Pretestato, un
importante funzionario imperiale e membro di diversi collegi pagani.
Paolina stessa venne iniziata ai misteri eleusini, ai misteri lernici di Dioniso e Demetra, oltre che al culto di Cerere, Ecate, di cui era ierofante,
arces, quem plausu quodam et tripudio populus romanus excepit, ad cuius interitum urbs
uniuersa commota est. nunc desolatus est, nudus, non in lacteo caeli palatio, ut uxor conmentitur infelix, sed in sordentibus tenebris continetur.
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della Magna Mater, come tauroboliata, e di Isis. Pretestato e Paolina
avevano una domus sull’Esquilino, a Roma, nella zona tra via Merulana
e via dell’Arco di San Vito, nei pressi dell’attuale Palazzo Brancaccio. I
giardini che circondavano l’abitazione, gli Horti Vettiani, si estendevano fino all’attuale stazione ferroviaria di Roma Termini. I ritrovamenti archeologici effettuati in quest’area hanno riportato alla luce diverse
evidenze riconducibili alla famiglia di Pretestato. Oltre ad alcuni tratti di
fistulae aquariae vi è la base di una statua recante la dedica a Celia Concordia, ultima o penultima sacerdotessa di Vesta. Clelia aveva innalzato
una statua a Pretestato dopo la sua morte: in cambio, Paolina le dedicò
a sua volta una statua, con la dedica: «Fabia Aconia Paolina erige questa statua a Celia Concordia, gran sacerdotessa delle Vestali, non solo
a testimonianza delle sue virtù, della sua castità e della sua devozione
agli dèi, ma anche come segno di ringraziamento per l’onore concesso
dalle Vestali a suo marito Pretestato, al quale hanno dedicato una statua
nel loro collegio» [CIL VI, 2145]. Sulla base di un monumento funebre
dedicato a Pretestato sono incisi il cursus honorum del marito di Paolina,
due dediche di Pretestato alla moglie e un poema di Paolina dedicato
al marito e al loro amore coniugale, forse una derivazione dell’orazione
funebre declamata da Paolina per il funerale del marito. Paolina morì
poco tempo dopo il marito. Fabia Aconia Paolina, figura di grande spessore, provoca una reazione, alquanto infastidita, di Gerolamo. Da parte
del pagano Simmaco, il problema fu sollevato perché la Vestale Massima
Celia Concordia aveva deciso di onorare il defunto Pretestato con la
statua a cui precedentemente ho fatto cenno: il progetto era stato caldeggiato da Paolina, mentre Simmaco imputava alle Vestali l’impossibilità di prendere tali iniziative, sia perché tributare onori a uomini non
era conveniente per una vergine, sia perché nessun pontefice aveva mai
ricevuto un tale omaggio dopo Numa. Con l’approvazione del Senato,
la statua di Pretestato venne eretta4. A differenza di Paola, relativamente
a Paolina siamo informati anche da altre fonti, oltre che da Gerolamo, e
4
CIL, VI, 2145; Consolino 2006.
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo II. modelli di donne a confronto
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ovviamente dal carme. Il componimento è piuttosto lungo, e non può
quindi essere riportato nella sua interezza, ma è bene ricordare i suoi
contenuti principali. Paolina, vedova, si propone quale erede del patrimonio ideale e politico del marito, e costituisce intorno alla sua memoria un alone di immortalità. Nella parte del carme che è dedicato dal
marito a Paolina, la donna è detta consapevole della verità e della castità,
sollecita nelle pratiche religiose, pudica, fedele, pura nella mente e nel
corpo, piacevole nell’abbigliamento. Ancora, è nutrimento del pudore,
vincolo della castità, ha pietà di madre e grazia coniugale.
La reazione di Gerolamo, a differenza di quella di Simmaco, è suscitata evidentemente da tutte queste doti di Paolina, pagana, che mettono
in cattiva luce le doti del modello geronimiano rappresentato da Paola. Ancora, Paolina suscita perplessità e rabbia in Gerolamo anche per
la forte e dichiarata fede pagana di Paolina dimostrata al funerale di
Pretestato, e la fede, soprattutto, da lei dimostrata nella sopravvivenza
ultraterrena del marito. Già nella lettera a Marcella, per la morte della
vedova Lea, Gerolamo aveva annunciato che il suo bersaglio, Pretestato,
da morto non era asceso agli astri come dichiarava la sua vedova, ma
era rimasto rinchiuso nelle tenebre. Gerolamo arriva a definire Paolina,
come abbiamo visto, vedova, moglie, infelice, infelix vidua [Cameron
2010]. La definizione deve certo essere scelta con cura, dato che Gerolamo non intende di fatto, per infelice, il significato che attribuiamo noi
all’aggettivo e cioè addolorata per la morte del marito, o inconsolabile.
La scelta di definirla infelice, che letteralmente si può tradurre dal termine latino con “sciagurata” (o meglio, “sventurata”), è per contrapporla
alle qualità della vedova Paola, felice perché vedova e felice, ottima, nella
sua scelta cristiana, secondo quindi una sfumatura più ampia dell’aggettivo. Ancora, l’infelice vedova è per Gerolamo la degna risposta ai termini usati nel carme di Pretestato, dove Paolina è definita felix coniunx,
moglie felice letteralmente. La scelta di questi termini ha influito anche
molto riguardo alla datazione della lettera a Marcella: dal contenuto
della lettera in effetti sembra molto chiaro che Pretestato fosse morto
poco prima: non si sa se il carme vero e proprio, CIL VI, 1779, sia stato
scritto immediatamente dopo la sua morte, e Gerolamo l’abbia letto, o
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se Gerolamo abbia solo sentito pronunciare l’elogio funebre da Paolina
al funerale di Pretestato. Si può pensare che Gerolamo avesse potuto
trovare qualche difficoltà a procurarselo, ma è molto probabile che fosse
stato ben informato del contenuto testuale.
Come si è notato poco fa, tra l’altro, Gerolamo a 23,3 si riferisce a Pretestato con le parole «designatum consulem», e non chiamandolo per nome.
Il fatto che sia designato, e non palmato, o consacrato, fa pensare che
sarebbe diventato console all’inizio dell’anno seguente e aiuta nel datare
la lettera. A mio avviso, è probabile che Gerolamo non abbia, al momento della redazione della lettera, visto il carme già scolpito: in questo caso,
allora, rimane da sottolineare la posizione di spicco di Paolina, una donna che pronunciava in pubblico un discorso funebre: per alcuni studiosi
moderni però anche quest’ipotesi è “inaccettabile” [Lambrechts 1955;
Khalos 2010; Consolino 2006]. Quello che mi pare da evidenziare più
di ogni cosa, al di là della modalità di come sia avvenuto questo funerale
per un romano aristocratico tanto in vista, è che gli elogi pronunciati da Paolina, o il suo discorso, contenessero una forte connotazione
di immortalità pagana, verso cui Gerolamo si sentì in dovere di reagire: Gerolamo in qualche modo era venuto a conoscenza del contenuto
del carme, magari proprio grazie a Paola. La nobile cristiana, infatti,
si chiamava proprio Pretestata: questo nome fa supporre una parentela
con Vettio Agorio; qualcuno ha anche ipotizzato che ne fosse la sorella
[PLRE 1, p. 721]. Se così fosse, appare ancora più stimolante la lettura
della lettera 39 a Paola, che viene rimproverata e messa a confronto con
una donna così tanto vicina a lei, che, se non fu la lettrice del carme
o l’autrice, ne fu senza dubbio l’ispiratrice. Paola e Paolina vengono a
rappresentare le due eroine di due credenze opposte: entrambe fedeli,
caste, modeste, esempio di religiosità femminile, racchiudono in loro
una grande contraddizione con queste doti, dato che hanno, coscientemente o meno, un ruolo attivissimo e di responsabilità, anche politiche.
Non è chiaro, a mio avviso, se queste responsabilità siano effettivamente
loro o se le due donne siano usate (da due uomini, Pretestato e Gerolamo) come strumento di propaganda: senza dubbio le due donne sono
unite da un destino che le fa ricordare come coloro che contribuiscono
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo II. modelli di donne a confronto
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al riconoscimento di uno spazio di azione femminile inusuale, e si connotano come due leader femminili che, in un certo senso, invadono lo
spazio pubblico tradizionalmente destinato agli uomini.
II.3. L’epitaffio di Pretestato
Nel fervore spirituale di questo carme, si coglie l’eco del turbamento
dell’epoca: Paolina lo ha superato con la sua scelta, che consisté nella
dedizione a un uomo, il quale aveva consumato le proprie forze in un’impresa chimerica, qual era quella di preservare un culto ormai disfatto, un
potere illusorio, cariche nominali, privilegi precari, un patrimonio culturale decrepito. Quell’uomo fu certamente il più nobile, il più pensoso assertore d’una tradizione così venerabile che discostarsene, per anni
ancora, parve a molti un’aberrazione o una diserzione. Paolina aggiunge inoltre un elemento che esalta la sua assoluta abnegazione, cioè il
sacrificio di sé per Roma e per il bene dello Stato, anteposti al dolore
della perdita del marito. Tuttavia mondo pagano e mondo cristiano si
contaminano, assumendo ciascuno caratteristiche dell’altro. E Paolina è
l’altra faccia di Paola che, vedova, mai risposata, è distrutta dal dolore per
la morte della figlia: scarmigliata, il volto pallido, sporca. Paola sembra
quantomeno obbedire più o meno inconsapevolmente alla legge interiore di tutte le correnti innovatrici, che portano alla superficie strati etnici
e sociali fino a quel momento ignorati o spregiati. Forze morali latenti o
sopite venivano mobilitate; in tempi di statalismo soffocante, di cariche
amministrative obbligatorie ed ereditarie le comunità cristiane aprivano
la porta al volontariato, affidavano mansioni di responsabilità agli umili.
Paolina viene sapientemente definita ultimamente come «anticonformista», almeno rispetto alla sua collega, pagana, Proba [Consolino 2006];
si può pensare che anche agli occhi di Gerolamo questa caratteristica
di diversità di Paolina fosse percepita, e costituisse un pericolo. È fuori
discussione che Fabia Aconia Paolina costituisse un modello di matrona
pagana di spessore, e, con le reazioni al funerale del marito, indubbia-
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mente suscita timore nel cristiano Gerolamo. L’epitaffio di Pretestato
testimonia un’unione, legata dalla comune fede al paganesimo, durata quarant’anni. Si tratta di tre componimenti incisi sui lati e sul retro
del cippo tombale di Pretestato, che oggi è ai Musei Capitolini. Nell’iscrizione troviamo riportate in prosa le cariche civili e quelle religiose
di Pretestato, le iniziazioni di Paolina, la durata del loro matrimonio
[Courtney 1995; Polara 2000; Brugisser 2000]. Nel testo più lungo è la
stessa Paolina che parla, rivolgendosi al marito, mentre negli altri testi,
più brevi, è Pretestato che parla alla e della moglie. Paolina afferma che
la cosa più gloriosa che ha avuto è stata non la nobiltà di stirpe, ma
l’essere degna di un tale marito, ed esalta quindi il suo ruolo di moglie.
Oltre alle doti di Pretestato, come la nobiltà di nascita, e tutto ciò che
ha fatto per il senato e per la moglie, quello che viene sottolineato da
Paolina è la loro condivisione spirituale, e soprattutto l’esperienza, condivisa come coppia, dei misteri religiosi. Un messaggio, quest’ultimo,
che al cristiano Gerolamo, che in qualche modo cercava di sminuire
il matrimonio, doveva certamente risultare fastidiosa. Non è certo un
caso che il rimprovero a Paola contenuto nella lettera 39 includa anche i
precetti comportamentali che una buona cristiana deve seguire nel caso
della morte del marito. Dice infatti Gerolamo: «Si tratta della morte del
marito? Piango per la sventura sopraggiunta; ma poiché così è piaciuto
al Signore, la sopporto senza turbamento d’anima. Ti viene tolto l’unico
figlio? È duro, sì, ma si può sopportare, poiché te lo toglie chi te l’aveva
dato. Se divento cieco, mi consolerà la lettura che qualche amico mi
farà. Se per di più la sordità delle orecchie mi rende impossibile l’udito,
divento invulnerabile ai vizi che vengono dall’esterno: non penserò ad
altro che al Signore. S’aggiunge a questi mali anche la miseria, il freddo,
la malattia, la nudità? Attenderò la morte che pone fine a tutto, e stimerò
breve la disgrazia cui succede una sorte migliore»5.
Paolina sottolinea nel carme come tutti l’abbiano invidiata perché moglie
e madre di un tal uomo, e ancora, sopra ogni cosa, la donna esprime il
5
Hier., Ep., 39,2.
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo II. modelli di donne a confronto
53
dolore che le comporta l’essere sopravissuta al marito. Questo non può
non richiamare alla mente ciò che invece ci fa intuire Gerolamo rispetto
a Paola, che la rappresenta quasi contenta per la morte del marito, che la
liberava dal vincolo matrimoniale e le permetteva di dedicarsi a ciò che
le era più caro, cioè la fede e la vita ascetica. Paolina esalta le supreme
funzioni del marito, maestro, padre, amante: con queste doti Pretestato
portò Paolina alla perfetta liberazione dalla paura della morte. Il marito,
e non un maestro, come nel caso di Paola, aveva avuto per questa donna la funzione di compagno, di tutore, di iniziatore al culto: in questo
ambito i due raggiungono quindi il massimo della funzione maritale nel
matrimonio ideale romano (pagano). Paolina, moglie e madre, è in perfetta comunione spirituale con il marito e con la divinità, ed è e rimane
unita al marito nella concordia, nella fedeltà. Paolina è, e Gerolamo lo
sa, moglie perfetta, ed esempio perfetto. L’unione di Paolina e Pretestato avviene secondo la pudicizia nobile tradizionale: amando il marito
con tutta sé stessa, rimanendo diligente, onorandolo, è la perfezione per
l’aristocrazia senatoria. Le virtù con le quali viene definita sono la pudicizia, la fedeltà e il senso religioso, la castità, la sua devozione e pietà di
madre, la sua modestia nell’essere figlia: Paolina pratica la dedizione, è
religiosissima, piena di grazia. Gerolamo vuole vedere tutte queste doti
risplendere in Paola, e gli aggettivi usati per Paolina non si discostano così tanto dalle doti che il cristiano Gerolamo descrive riguardo a
Paola come modello esemplare. L’esempio del matrimonio di Paolina e
Pretestato costituiva certamente per Gerolamo un problema: rispondeva
infatti in toto ai valori sociali di quell’aristocrazia senatoriale che lui con
tanta fatica, e con l’aiuto di Paola e delle nobildonne romane, cercava di
convertire al cristianesimo. Il fatto di proporre Paola come modello di
donna che lascia la famiglia proprio nel momento in cui una donna del
“partito” opposto viene così idealizzata, dovette certamente inasprire la
sua già forte vena polemica. Ancora, il matrimonio di questi due pagani
è sacro, unito dalla perfetta comunione dei loro due spiriti: non ha nessun tratto negativo, non vi è la pesantezza, o la fatica, o la sottomissione
della donna. È stato inoltre messo da più parti in evidenza come in
questo periodo tardo dell’impero romano si sentisse il bisogno, tra le alte
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sfere senatoriali, di un certo tipo di intimità: si è parlato di “mistica affettuosità” e di “retorica di unità coniugale” [Cooper 1992]. Era infatti una
norma che tra le file dell’aristocrazia si pubblicizzasse un grado elevato
di concordia maritale: più un marito era amato e amorevole in casa, più
era logico che potesse usare le stesse qualità anche nella politica; ancora, i mariti, senatori per lo più, erano occupati nelle attività politiche e
culturali, le donne erano spesso sole, e questo potrebbe essere uno dei
motivi, almeno a parere mio, per cui molte donne dell’aristocrazia volsero il loro sguardo al cristianesimo. Paolina e Paola svolgevano entrambe un ruolo fondamentale all’interno della loro cerchia. A mio avviso è
probabile che entrambe siano state utilizzate come strumento per una
propaganda sia politica che religiosa. Mi sembra di potere accogliere il
suggerimento riguardo al fatto che CIL VI, 1779 riveli una certa polemica circa la “questione femminile” [Polara 2000; Brown 2008]: come
Paolina riflette l’influenza, l’indipendenza, la cultura e la ricchezza di
un certo ambiente nella tarda antichità, così Paola riveste lo stesso ruolo
guida per le donne cristiane. Paola non deve più, per il ruolo che riveste,
rappresentare la concordia coniugale, ma deve dare esempio di fermezza
nella fede, di modestia, di convinzione religiosa. Non è certo un caso
che le lettere polemiche di Gerolamo contro Pretestato [23, 39] siano
scritte con un tono così perentorio, anche nei confronti dell’amica Paola.
Un altro problema investe le lettere di Gerolamo a Marcella e Paola e
l’epitaffio di Pretestato: in CIL VI 1779, infatti, mentre Paolina piange
e conforta sé stessa con grande dignità, afferma che dopo la sua morte
sarà sua di nuovo; questo punto, relativo all’immortalità, è quello che
tocca di più Gerolamo e lo mette soprattutto in difficoltà rispetto alla
reazione di Paola che non si dà pace rispetto alla morte della figlia, ma
anche di fronte all’esempio dato dalla vedova Lea, che sembrava estremo
rispetto al prestigio raggiunto invece da Pretestato e Paolina. Il componimento di Pretestato e Paolina è molto articolato e complesso, ed è
evidentemente frutto di un’operazione strumentale e ideologica. Nello
stesso modo, Paola diventa lo strumento di Gerolamo per rispondere a
queste espressioni politiche pagane, così sentite da Gerolamo.
Gerolamo deve combattere con un modello femminile, quello delineato
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo II. modelli di donne a confronto
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da Paolina, che sa assumersi responsabilità di rilievo pur senza rifiutare
lo stereotipo della matrona [Cenerini 2009, Giorcelli Bersani 2004]. La
certezza di una vita dopo la morte sorregge la sensazione di serenità che
traspare da Paolina.
Alle certezze religiose di Paolina contrapposte a quelle di Paola, Gerolamo si dedica completamente nella lettera, dalla forma (ma non dalla
sostanza) consolatoria, scritta per Paola in occasione della morte di Blesilla. La lettera è comunque la prima orazione funebre di Gerolamo.
Si diceva solo dalla forma consolatoria, dato che più che una consolatio
vera e propria, secondo quindi i dettami della tradizione, è una sorta
di rimprovero costante a Paola; Gerolamo coglie anche l’occasione per
interrogarsi sulla giustizia divina, riallacciandosi ad alcuni passi biblici
relativi al pianto e alla disperazione: «Oh, potesse qualcuno mutare la
mia testa in acqua e i miei occhi in una fonte di lacrime!» Non piango,
come Geremia, gli «uccisi del mio popolo»; non piango, come Gesù,
la sventura di Gerusalemme. Piango la santità, la bontà, l’innocenza, la
castità; piango tutte le virtù, venute meno tutte insieme con la morte
d’una sola persona»6. Da questo esordio, si potrebbe pensare, a torto, che
il tono di Gerolamo nei confronti di Paola sia di comprensione, di empatia nel dolore (peraltro in qualche passo dimostrata o accennata), ma in
realtà la parte di condivisione del dolore per la perdita di una donna nella
quale si concentravano tutte le doti richieste alla stessa Paola è ben poca
cosa.
Vediamo nel dettaglio ciò che ci dice Gerolamo: al primo paragrafo
della lettera, Gerolamo si felicita con Blesilla, solo idealmente dato che
è già morta, per avere rigettato i piaceri della vita mondana; Blesilla
viveva nella casa materna, a quanto pare da ciò che leggiamo in un’altra
lettera, la 30, a Paola [30,14], e partecipava attivamente alle attività della
Chiesa domestica. La parte iniziale della lettera, come si diceva, mostra
una sorta di condivisione del dolore di Paola per la morte della figlia:
Hier., Ep., 39,1: sed plorabo - sanctitatem, misericordiam, innocentiam, castitatem, plorabo omnes pariter in unius morte uirtutes, non quo lugenda sit illa, quae abiit, sed quod nobis
inpatientius sit dolendum, quod talem uidere desiuimus.
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Gerolamo infatti afferma che lacrime gli inondano il viso, i singhiozzi
gli troncano le parole, l’emozione gli frena la lingua, diventata quindi
incapace di articolare una sillaba «quando penso che quel fragile e santo
corpo veniva consumato da una febbre ardente, e, mentre la cerchia dei
parenti si stringeva attorno al letto». Gerolamo, nel dolore, si interroga,
come un uomo qualsiasi, riguardo alle scelte del Signore in merito alla
vita e alla morte: «Perché dei vecchi malvagi godono d’ogni sorta di
beni in questa vita? Perché un’adolescenza ingenua e una fanciullezza
innocente vengono stroncate sul fiore non ancora giunto a maturità?»
[39,1]. Proseguendo, nel paragrafo 4 della lettera 39, troviamo un altro
spunto decisamente interessante: la scelta, definita, del modo di vita di
Paola: quel propositum christianum a cui già si è fatto cenno, che viene
spiegato nel paragrafo successivo: «Anzi, finora ti ho parlato come se
mi fossi rivolto ad una cristiana qualunque [39,5: et adhuc sic locutus
sum, quasi unam de turbis conuenerim christianam]. Ora però, se penso
che hai rinunziato totalmente al mondo e che hai rifiutato e calpestato i
suoi allettamenti riempiendo ogni giornata di preghiera, di digiuno e di
letture; se penso che ad imitazione di Abramo desideri evadere dalla tua
terra e dalla tua parentela ed entrare - dopo aver abbandonato il popolo
caldeo e la Mesopotamia - nella Terra promessa; se penso che tu, prima
ancora di morire, ma già morta al mondo, hai distribuito ai poveri o
dato ai figli ogni tuo avere, mi stupisco che ti comporti così. Anzi, questi rimproveri li meriterebbero addirittura anche le persone del mondo,
se facessero come te». La conversione compiuta da Paola, completa, ha
presupposto un distacco completo dalla società e dai piaceri criticati
da Gerolamo (e che saranno criticati anche in altre lettere, compresa
la 46, come si è detto). Gerolamo ammonisce Paola, che a quanto pare
non si sta comportando come lui si aspettava, e non è un buon modello
di cristiana. I rimproveri di Gerolamo a Paola sono certamente rivolti
all’amica, ma Gerolamo si preoccupa anche di fare andare oltre il suo
messaggio: nessun cristiano, che ha compiuto una scelta così giusta,
deve comportarsi come Paola. Gerolamo cerca a tratti di moderare il suo
rimprovero, che effettivamente è piuttosto duro, e confessa il suo stesso
coinvolgimento nella morte della figlia di Paola, arrivando ad affermare
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo II. modelli di donne a confronto
57
che mentre vuole sconsigliare la madre dal pianto, è proprio lui stesso
a piangere: «Confesso la mia emozione: sono le lacrime a scrivere interamente queste memorie»; ma Gerolamo è fermo nel suo proposito, e
quindi piange non la perdita in sé, ma la santità, la bontà, l’innocenza,
la castità; piange quindi tutte le virtù, venute meno tutte insieme con la
morte d’una sola persona7. In effetti, il cristiano non deve piangere per
colei che se n’è andata; siamo noi a doverci rattristare, dice Gerolamo,
anche se s’infiltra una punta di sconforto, per non poter più avere davanti
agli occhi una creatura come lei, che raccoglie insieme tante virtù e può
solo aiutarci nel mantenere quindi vivo il proposito e la scelta compiuti.
Nella lettera scritta per la morte di Lea Gerolamo aveva cominciato già
con il mettere in guardia Principia, e tutti i fedeli: «ti metto in guardia
(e te ne scongiuro con lacrime e gemiti): finché su questa terra siamo
in corsa, non portiamoci addosso due tuniche (voglio dire: una doppia
fede); non appesantiamoci i piedi con scarpe di cuoio (intendo dire: con
opere morte); non ci curvi verso terra una bisaccia colma di ricchezze e
non appoggiamoci a un bastone quale è quello della potenza temporale». A Paola, nella lettera 39 continua a ricordare cosa distingue il bene
dal male, e le ricorda anche il suo ruolo, il suo compito di buona fedele.
Blesilla è morta ma bisogna gioire per questo, dato che si è comportata,
lei sì, da perfetta cristiana: «E chi può ricordare cogli occhi non bagnati
di lacrime questa giovinetta di vent’anni, che ha impugnato il vessillo
della croce, con una fede così ardente da rammaricarsi più della perdita
della verginità che della morte del marito? Chi può, senza singhiozzi, rievocare anche solo di scorcio l’assiduità nella preghiera, il candore
della conversazione, la tenace memoria, la profondità della sua mente?»
[39,1].
Ancora, dato che nell’epitaffio di Pretestato si ha l’affermazione che la
vedova ha l’illusione che suo marito stia andando in cielo, Gerolamo si
sente in dovere di controbattere. Il motivo è ovvio: anche la cristiana
Paola deve avere la certezza che ritroverà i suoi morti nella vita ultrater-
7
Hier., Ep., 39,1.
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rena, e Gerolamo non può fare sì che il messaggio dagli stessi contenuti
passi attraverso l’esempio di una nobile pagana come Paolina. A questo
punto la soluzione geronimiana raggiunge a mio avviso il suo culmine. Questo è il vero nucleo centrale del rimprovero a Paola, questo è
il punto in cui si racchiude il vero messaggio di Gerolamo. Lasciando
infatti parlare Cristo stesso, Gerolamo dice: « Se tu credessi che tua figlia
è viva, non rimpiangeresti certo che sia passata a miglior vita! Non è
questo il comando che vi ho dato per bocca del mio Apostolo: di non
rattristarvi per coloro che muoiono, come fanno invece i pagani? Non
arrossisci? In confronto, una donna pagana la vince su di te! Una a servizio del demonio è migliore di una al mio servizio! Quella, per lo meno,
crede che il marito infedele sia stato trasportato in cielo, mentre tu non
credi o non ti vuoi rassegnare che tua figlia viva con me!»8. Da notare è
che Gerolamo usa il termine ancella, serva, per delineare Fabia Aconia
Paolina come serva del diavolo, e per Paola, serva, dice Gerolamo, mia:
interessante quest’ultima parte, in cui Gerolamo non parla, per Paola,
di servitù al Divino, a Dio, ma a lui stesso, a Gerolamo. L’espressione
“ancella del diavolo”, come del resto l’espressione “moglie infelice”, a
cui abbiamo accennato poco fa, fa pensare ad una conoscenza diretta del
carme di Pretestato da parte di Gerolamo, dato che pare si possa trattare
di una “traduzione”, non letterale, secondo i precetti geroniamiani della
traduzione, di un’espressione [famulam divis] usata appunto nell’epitaffio
[CLE 111, 23; Cameron 2010]: le ipotesi di conoscenza diretta del carme da parte di Gerolamo, come già si è detto, non trovano concordi gli
studiosi [Consolino 2006] ma in tutti i casi a mio avviso è da evidenziare
questa particolare scelta di espressioni nel rivolgersi a Paola da parte del
suo maestro.
Blesilla, secondo Gerolamo, ha evidentemente trovato la felicità. In que-
Hier., Ep., 39,3: reuera, si saeculare desiderium et - quod deus a suis auertat - delicias
uitae istius cogitantem mors inmatura rapuisset, plangenda erat et omni lacrimarum fonte deflenda, nunc uero, cum propitio christo ante quattuor ferme menses secundo quodam modo se
propositi baptismo lauerit et ista deinceps uixerit, ut calcato mundo semper monasterium cogitarit, nonne uereris, ne tibi saluator dicat: ‘irasceris, paula, quia filia tua mea facta est filia?
8
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sto momento, tra lei, Paola e Paolina è Blesilla ad essere la vera felix. Sulla
bara, infatti, preceduta da un corteo di nobili, viene steso un drappo tessuto in oro. Gerolamo finge di fare parlare Blesilla, che pare sconcertata
dal lusso del proprio funerale, e non condivide affatto questa scelta. Dice
infatti Gerolamo che gli sembra di sentire, durante il rito funebre, proprio in quel momento, una voce che dal cielo gridava: «Non riconosco
questo vestito! Questo manto non mi appartiene: è un abbigliamento
di altri!». Blesilla, sottolinea Gerolamo, si è gettata alle spalle il vecchio
mondo, collocandolo «sotto i piedi» [39,3], e non ha sognato che la vita
monastica. Paola quindi deve esserne felice. Gerolamo evoca alla donna
un rimprovero, proveniente dal rischio di sentirsi sgridare dal Signore
stesso con queste parole: «Sei forse irritata perché tua figlia è diventata
figlia mia? Sei sdegnata per quanto ho deciso? Che scopo ha questa tua
ribellione fatta di lacrime, questa tua invidia verso di me, suo padrone?
Tu lo sai cosa penso di te e delle altre che stanno con te» [39,3]. A causa
del dispiacere, sottolinea ancora Gerolamo, e solo per questo, quindi,
ma non per ideali ascetici, Paola si astiene dal cibo, non per mortificazione religiosa. A Gerolamo questa forma di temperanza non piace, e
no risparmia nessuna critica all’amica distrutta dal dolore: «questi sono
i digiuni graditi al mio avversario! Un’anima che si separa dal corpo
contro la mia volontà non la prendo con me. Di tali martiri può vantarsi solo una sciocca filosofìa». Gerolamo afferma di comprendere Paola:
«Capisco le lacrime di una madre, ma c’è pure una misura nel dolore! Se
penso che sei sua madre, non ti rimprovero perché piangi; ma se ti penso
cristiana, anzi, monaca cristiana, questi titoli mi sembrano escludere
quello di madre»9. Il ragionamento di Gerolamo non permette dubbi a
Paola: è vero, la ferita è fresca; ma questo modo di trattarla, per quanto
possa essere delicato, più che guarirla la irrita. Paola non deve addolorarsi, deve pensare che non è una madre, ma una cristiana. L’affermazione
di Gerolamo è molto forte, perché pare dire che la scelta cristiana debba
escludere la maternità. Tra l’altro, Gerolamo invita Paola a ragionare,
Hier., Ep., 39,5: si parentem cogito, non reprehendo, quod plangis; si christianam et monacham christianam, istis nominibus mater excluditur.
9
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fornendole, come consolazione, esempi biblici a cui aggrapparsi e da cui
trarre esempio, e in particolare cita Noemi, che, pur privata dell’aiuto
dei suoi familiari, riuscì a trovare la via della perfezione cristiana, che
Gerolamo si augura per la discepola Paola: «Ma perché, allora, la ragione
non riesce a vincerla su ciò che anche il tempo mitigherà? Noemi, del
resto, fuggendo la carestia nella terra di Moab, perse il marito e i figli.
Priva dell’aiuto dei suoi, ebbe tuttavia sempre al suo fianco la forestiera
Rut. Sta’ a vedere quanto sia stato meritorio per lei l’aver dato conforto
all’abbandonata». Continuando con gli esempi di dolori e prove, Gerolamo arriva quasi a offendere Paola, affermando che l’amica è troppo
delicata, sottintendendo che non sta dando assolutamente prova positiva
della sua scelta religiosa: «Pensa alle prove passate da Giobbe, e t’accorgerai - tu che sei tanto delicata! - che lui ha dato prova di una pazienza
invincibile, quando tra le rovine della famiglia, il dolore delle piaghe,
i lutti senza numero ed in ultimo anche le perfide insinuazioni di sua
moglie, teneva gli occhi volti al cielo». Esaltando la pazienza di Giobbe, Gerolamo invoca e si augura per Paola anche il raggiungimento di
questa virtù. Paola deve avere risposto positivamente agli sproni geronimiani: nel suo epitaffio infatti Gerolamo esalterà la ritrovata dote della
pazienza e la forza della sopportazione delle dure prove da parte di Paola.
Gerolamo, ancora comunque teso ad incoraggiare Paola in questa difficile prova, le propone come modello una persona che non poteva non
essere conosciuta, almeno per la sua conversione che destò molto scalpore: «Melania, questa santa, autentico orgoglio dei cristiani del nostro
tempo (e il Signore dia pure a noi due, al giorno del giudizio, di avere
la sua sorte!), perse due figli in una sola volta, e questo successe quando
la salma del marito non s’era ancora fatta fredda, prima ancora della sua
inumazione. Ti sto per dire una cosa incredibile, ma autentica (e ne è
testimone Cristo!): era possibile non immaginarsi quella donna, diafana
in viso e i capelli scarmigliati, strapparsi le vesti e lacerarsi il petto come
una pazza? Ebbene: non pianse una sola lacrima, restò esternamente
impassibile, e gettatasi ai piedi di Cristo, come stringendoselo vivo, gli
disse sorridendo: «Signore, potrò mettermi a tuo servizio con maggior
impegno, ora che mi hai liberata da questo peso non lieve!». Pensi che il
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo II. modelli di donne a confronto
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dolore l’abbia vinta in seguito? Neppure per idea. Anzi, se non s’è data
pena per i figli, l’ha fatto con quell animo di cui ha dato prova più tardi, a proposito dell’unico figlio rimastole: gli lasciò interamente quanto
possedeva, e benché l’inverno fosse alle porte, si mise in mare alla volta di
Gerusalemme» [39,5]. San Gerolamo parla qui di santa Melania, dama
romana, figlia del console Marcellino, ritiratasi nella solitudine presso
Gerusalemme, dove morì nel 444 (non la si deve confondere con santa
Melania, figlia di Albina e nipote della precedente, morta prima di sua
madre a Gerusalemme nel 439)10. Qui dunque Gerolamo usa la lode a
Melania per incoraggiare Paola alla partenza per l’Oriente nonostante il
dolore per la perdita delle figlia; la partenza a quanto pare era già stata
decisa da Paola, che però aveva probabilmente rimandato a causa della
malattia della figlia; questo almeno quello che si può evincere dal paragrafo 3 della lettera: «È questa quella vita monastica che hai promesso
di abbracciare? Ti pareva di poter essere quasi più religiosa, solo perché
vestivi un abito diverso da quello delle altre matrone? Ma cotesta tua
anima che piange è degna di vestire di seta! Ti stai abbreviando la vita,
vai morendo; e pensi forse di sfuggire così un giudice crudele, come se
tu non dovessi cascare nelle mie mani!». È chiaro che Paola sembra avere
avuto molti cedimenti a causa della morte di Blesilla, e non sta portando
avanti con perseveranza la sua scelta.
Il tono di Gerolamo è molto polemico, non viene risparmiata infatti la
menzione delle accuse che a lui erano state fatte di avere traviato e portato alla perdizione, oltre che Paola la stessa Blesilla [39,6, con ripresa degli
stessi temi menzionati anche a 38,2-3]: «Mentre venivi allontanata, priva
di sensi dalla folla del corteo funebre, fra il popolo si andava bisbigliando: «Guarda! Non sta accadendo proprio quanto più volte abbiamo predetto? Piange la figlia perché è morta per i digiuni, senza averle dato dei
nipoti almeno da un secondo matrimonio! Cosa aspettiamo a cacciare
Quella, prima di partire per Gerusalemme, mise suo figlio Urbano sotto la tutela
del Pretore. Purtroppo Gerolamo, nella polemica contro Rufino e il monastero del
Monte degli Ulivi da lei fondato, non la tratterà più con le lodi incondizionate della
presente lettera [Hier., Ep., 123,3].
10
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da Roma questa genia detestabile di monaci, a lapidarli, ad affogarli nel
fiume? Ti hanno raggirato questa miserabile matrona che, quanto poco
abbia avuto intenzione di farsi monaca, lo sta a dire questo fatto: nessuna pagana ha mai versato tante lacrime sui propri figli!»11. Gerolamo si
rivolge ancora a Paola, e la ammonisce a pensare a quanta tristezza può
aver provato Cristo a questi discorsi: «Ti fai l’idea di quanto ha gongolato Satana? Lui ora non si da tregua per impossessarsi della tua anima e
ti intrappola con la scusa di un giusto dolore».
Nella sua foga letteraria Gerolamo arriva quindi a dare nuovamente sentimenti ed espressioni e parole umane non solo a Blesilla (che secondo
la sua ipotesi è in paradiso) ma ancora a Gesù stesso: «Per l’amore che
sempre mi hai dato, mamma, se io mi sono nutrita alle tue mammelle e
se dai tuoi insegnamenti sono stata educata, non essere gelosa della mia
gloria, non ti comportare in modo da trovarci poi separate per l’eternità! Mi pensi sola? Maria, la Madre del Signore, ha preso il tuo posto!
Qui incontro tante persone che prima mi erano sconosciute. E quanto
è migliore questa compagnia [...] Pensa (voglio aumentare la tua gioia!), il merito delle sue fatiche di lunghi anni io l’ho raggiunto in soli
tre mesi. Abbiamo ricevuto un’identica palma di castità! Mi compiangi
perché ho abbandonato il mondo? Ma sono io, piuttosto, che penso con
dolore alla vostra condizione; voi ancora ve ne state rinchiuse nel carcere
del mondo, voi siete ancora sul campo a combattere giorno per giorno,
mentre un po’ l’ira, un po’ l’avarizia, ora la sensualità, ora gli allettamenti dei più strani vizi vi portano passo dopo passo alla sconfitta! Se
vuoi davvero essere mia madre, cerca attentamente di piacere a Cristo.
Non posso riconoscere per madre una che non piace al mio Signore!»12.
Torna, ancora, la critica al mondo, che Paola dovrebbe avere lasciato e
Hier., Ep., 39,6: cum de media pompa funeris exanimem te referrent, hoc inter se populus mussitabat: ‘nonne illud est, quod saepius dicebamus? dolet filiam ieiuniis interfectam, quod non uel de secundo eius matrimonio tenuerit nepotes… matronam miserabilem
seduxerunt, quae quam monacha esse noluerit, hinc probatur, quod nulla gentilium ita suos
umquam filios fleuerit.
11
Hier., Ep., 39:7: si uis, ut mater mea sis, cura placere christo. non agnosco matrem meo
domino displicentem.
12
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di cui non dovrebbe più tenere conto; mondo pieno di vizi e di tentazioni, anche per lo stesso Gerolamo, che in chiusa arriva ad affermare che
Blesilla ora prega anche per lui, in cambio degli ammonimenti, delle
esortazioni e d’essersi tirato addosso l’ostilità dei parenti di Paola, pur
di salvarla da loro e da tutti. Quanto a Gerolamo, la consolazione per il
suo dolore personale è dato dal fatto di avere compiuto un giusto lavoro,
attraverso il suo insegnamento, con Blesilla: «il suo nome troverà posto
tra quelli di Paola ed Eustochio. Vivrà in eterno attraverso i miei libri.
Quanto a me [...] mi troverà sempre a colloquio con sua sorella, con
sua madre» [39,8]. Interessante è notare che Gerolamo non fa a meno
di inserire, nel novero delle elette, le ancora viventi Paola e Eustochio,
quasi a significare la sua certezza della loro raggiunta vita perfetta, prima
ancora che esse portino a compimento le loro esistenze. Blesilla in realtà,
a differenza di Paola e Eustochio, è ricordata solo per questa lettera, e per
la menzione che lo stesso Gerolamo fa di essa nella lettera 22, alla sorella
Eustochio, paragonando le due sorelle nella scelta di castità: «Tua sorella
Blesilla, maggiore di te per età, ma inferiore per ideale ascetico, è rimasta
vedova sette mesi dopo lo sposalizio. O infelice sorte degli uomini, così
ignari del futuro! Essa ha perduto, a un tempo, la corona della verginità
e le gioie del matrimonio. D’accordo; occupa ancora il secondo grado
della castità. Puoi però immaginarti che spina dev’essere per lei, in certi
momenti, vedere ogni giorno nella sorella quel bene che essa ha perduto, e sapere che la sua castità, tanto più difficile a conservarsi dopo aver
provato il piacere, otterrà una ricompensa minore! Non si perda d’animo però, e viva serena: il frutto, cento volte moltiplicato o solo sessanta,
viene da un unico seme: la castità»13. Nella stessa lettera 22 Gerolamo
esprime chiaramente un concetto che può essere d’aiuto a Paola i questa
difficile circostanza; cioè che i genitori sono felici delle scelte dei figli in
tema di verginità e continenza ed esortano loro stessi il distaccamento dal
mondo: «Ascolta, figlia mia, volgi a me il tuo sguardo e il tuo orecchio:
Hier., Ep., 22,15: et quamquam secundum pudicitiae gradum teneat, tamen quas illam
per momenta sustinere aestimas cruces spectantem cotidie in sorore, quod ipsa perdiderit, et,
cum difficilius experta careat uoluptate, minorem continentiae habere mercedem?
13
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dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre. Allora il Re s’invaghirà
della tua bellezza» (Gerolamo riporta le parole di un salmo, il 44,11-12:
come già si era verificato in Abramo che aveva lasciato la sua terra e i
suoi parenti, Dio, nel Salmo 44, invita l’anima ad abbandonare i Caldei
per andare ad abitare nella regione dei vivi)14. Il concetto è espresso
anche altrove; la famiglia può solo appoggiare, nessuno può ostacolare
una scelta di vita nel Signore: «Nessuno ti sia d’ostacolo: né la madre,
né la sorella, né un parente o il fratello. Il Signore ti considera tutta sua
[nemo sit, qui prohibeat, non mater, non soror, cognata, germanus; dominus
te necessariam habet]. Se vogliono opporsi, temano i flagelli di Faraone:
per non aver voluto che il popolo di Dio se n’andasse libero ad adorarlo,
gli piovvero addosso tutti quei mali che la Scrittura riporta» [22,24].
Nello stesso modo Paola dovrà essere felice non solo per la scelta della
figlia Blesilla, ma al massimo grado anche della sua morte, che la libera
dai mali del mondo. Il tema qui espresso può anche essere collegato alla
scelta fatta da Paola di lasciare tutto per trasferirsi nei luoghi Santi: si
ribadisce il concetto che secondo Gerolamo il suo non è un abbandono
nel senso negativo del termine, ma un distacco spiritualmente eccelso.
Hier., Ep., 22,1: audi, filia, et uide et inclina aurem tuam et obliuiscere populum tuum
et domum patris tui; et concupiscet rex decorem tuum.
14
Capitolo III
Paola, le figlie e la scelta definitiva
III.1. Il matrimonio e la verginità
La conversione al cristianesimo doveva essere stata, per Paola e per le
donne del suo circolo, una decisione piuttosto rischiosa: la scelta comportava una grande maturità e capacità decisionale, quantomeno nel
momento in cui essa veniva operata, e, in seguito, comportava e aveva
comportato, per Paola e la sua famiglia, un impegno pesante. La scelta di
Paola è decisamente più estrema rispetto alla scelta di conversione fatta
da donne ancora sposate: Paola deve conciliare gli impegni familiari,
che, però, non sono più quelli di occuparsi di un marito e dargli eredi;
donne invece che si convertivano, ma erano ancora sposate, si trovavano
di fronte ad una scelta non solo religiosa, ma sociale, che investiva tutti
i campi della famiglia. È per esempio il caso di Blesilla, che si converte
mentre è sposata, non vedova, e non ha ancora avuto figli; può essere il
caso di molte altre donne, che si sentivano inoltre gravate da un impegno spirituale di enorme portata, cioè quello di provare a convertire il
marito alla fede. Ancora, vi era la possibilità, per alcune coppie cristiane,
di orientare la propria vita coniugale alla castità, non intesa, come nel
caso di Paola, come una scelta legata al suo stato vedovile, ma intesa
come condizione permanente di vita coniugale. Non è un caso che alcu-
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ni studiosi abbiamo cominciato a parlare di una vera e propria “emancipazione femminile”, dato che sembra che per la donna si applichino,
come per l’uomo, libertà di scelta, autonomia, disponibilità per differenti
attività, tra le quali la scelta di una vita ascetica o l’assistenza agli indigenti [Aubert 1976; Ruether 1979; Mattioli 1983, 1987, 1992; Mazzucco 1989]. Da ricordare è che una condizione comune alle coppie che
intraprendono questa via è la spontaneità della scelta, unita alla condivisione di entrambi i coniugi. Piuttosto divulgato nelle lettere di Gerolamo a Paola e alla figlia Eustochio è il concetto di superiorità della castità, quella delle vergini, e delle vedove, con una rilevante predominanza
della castità verginale rispetto a quella vedovile: la castità infatti concede
una possibilità unica, quella di dedicarsi alla fede nel Signore (rimando
alla lettera 22 a Eustochio). Il tema della minore libertà per le donne
sposate è tema ricorrente nelle opere dei Padri della Chiesa. È arduo
fornire una visione omogenea di questo tema, dato che a seconda che ne
parli Gerolamo, o Ambrogio o, prima di loro, Tertulliano, le differenze
del genere letterario, l’impostazione metodica e le finalità possono essere
vincolanti. Ambrogio, per esempio, dedica quattro opere alla verginità e
uno alla vedovanza [De virginibus, De viduis, De virginitate, De instituzione virginis e Exhortatio virginitatis]. Gerolamo scrive, tra il 392 e il 395,
un’opera contro Gioviniano, teologo eretico che, dopo aver praticato
vita ascetica, si era schierato contro l’ascetismo cristiano. Gioviniano finì
per attirarsi in un sinodo romano [390] la condanna, confermata poi da
Sant’Ambrogio e ribadita appunto in questo scritto [Adversus Iovinianum] di San Gerolamo. Gioviniano non ammetteva differenza di meriti
tra i battezzati, vergini o sposati, asceti o no, in quanto le loro azioni, se
compiute in stato di grazia, sarebbero comunque sottratte, in virtù del
battesimo ricevuto, ad ogni influsso del demonio. La sua sembra quindi
una posizione polemica contro ogni forma di ascetismo.
La relazione dell’uomo e della donna, in tutti i casi, trova la sua massima espressione nella vita coniugale: con il matrimonio, i due coniugi
instaurano un rapporto di fiducia, affetto, fedeltà per tutta la loro esistenza: è naturale quindi che anche nell’opera di Gerolamo il matrimonio occupi un posto di particolare rilevanza. Si è da più parti sot-
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capitolo III. Paola, le figlie e la scelta definitiva
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tolineato come l’ideale di un’unione affettiva e spirituale tra i coniugi
non nasce con il cristianesimo, ma è già presente nella mentalità pagana
[Cantalamessa 1976; Uglione 1987]. Che cosa, dunque, porta di nuovo
il cristianesimo? Il matrimonio è visto in perenne riferimento al modello
Cristo-Chiesa: l’unione dei coniugi dovrebbe fornire una similitudine,
condividendo onori e dignità dell’alto paragone. Da questa prospettiva,
è facile scivolare, più o meno lentamente, verso quella tendenza di tutti i Padri della Chiesa, che è stata opportunamente definita «ipertrofia
dell’ideale ascetico della verginità» [Cantalamessa 1976]. Venendo a un
caso pratico, reale, nello specifico tornando a ciò che qui a noi più interessa, si può parlare dell’introduzione di una visione religiosa, spirituale,
che conferisce al matrimonio una risonanza del tutto nuova. Ma rimane
da sottolineare che, dall’evidenza particolare che pervade le lettere di
Gerolamo e con gli esempi delle scelte effettuate da Paola e dalla figlia
Eustochio, appare certo una visione non tradizionale, anche nel senso
di pagana, dell’unione coniugale, che viene in qualche modo messa in
secondo ordine rispetto a due nuove strade: una è quella della vedovanza (Paola), l’altra è quella della scelta di verginità perpetua (Eustochio).
L’ideale dell’ascesi e della verginità è un tema ormai noto ai tempi di
Paola e Gerolamo, ma nella lettera alla figlia di Paola emerge un concetto di superiorità della continenza verginale rispetto al matrimonio, che
deriva probabilmente, oltre che dalla tradizione latina, anche dai Padri
greci coevi e dall’insegnamento e influsso di Gregorio Nazianzeno (per
il rapporto tra i due rimando a Moreschini 1988].
III.2. La lettera 22 a Eustochio
Questa lettera si colloca nel contesto di una doppia campagna condotta
da Gerolamo: quella ascetica a Roma (anni 383-384), e quella relativa
alla verginità.
Riguardo alla verginità, Gerolamo si esprime in più lettere, non solo
ad Eustochio, che però ha posizione principale [22,15: «Tu sei stata la
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prima, fra le nobili giovanette romane, a far professione di verginità
- prima romanae urbis uirgo nobilis esse coepisti»], ma anche ad Asella,
Principia e Demetriade: queste sono le rappresentanti della vita perfetta
costituita dalla scelta di verginità cristiana. La figlia di Paola è il modello
che completa il ruolo esercitato dalla madre: come Paola risponde alla
vedovanza perpetua, così Eustochio risponde alla verginità perpetua, ed
entrambe obbediscono quindi ai precetti geronimiani. È curioso notare
come Paola, e la sua discendenza, Blesilla ed Eustochio, costituiscano
una piramide di valori legati tra loro. Tra questi valori e precetti, sia
Paola che Eustochio obbediscono in primo luogo a ciò che concerne
una scelta legata indissolubilmente alla sessualità. Madre e figlia si mettono così in risalto per la forza della loro scelta, e, insieme, si affidano a
Gerolamo quale loro guida e sorta di “controllore” spirituale. Nel 383
Gerolamo aveva scritto, e forse letto intorno ai gruppi di vedove riuniti
da Paola, il Contro Elvidio, chiamato anche Intorno alla verginità perpetua
di Maria. Nel 384, Gerolamo invia a Eustochio la lettera 22, chiamandolo “libretto”1, una sorta di opuscolo sulla conservazione della verginità, dove vengono elencate, non solo per Eustochio, ma anche per tutte le
giovani che hanno scelto questa via, le linee guida che mettono in risalto la supremazia della vergine cristiana. Gerolamo dichiara il suo intento: «Non intendo in questo momento intessere le lodi della verginità,
che tu conosci a fondo per esperienza, avendo abbracciato questo stato.
Neppure ho intenzione di elencare i fastidi del matrimonio: il seno che
ingrossa, il bimbo che vagisce, le rivali che ti fanno dannare, le faccende
domestiche che non lasciano un attimo di quiete, e tutti quei beni che
si credono sorgente di felicità, ma che pensa la morte a portar via. No,
perché anche le maritate hanno un posto nella Chiesa e nozze legittime
Secondo la mia traduzione di libellus di Hier., Ep., 22,2: nulla in hoc libello adulatio adulator quippe blandus inimicus est -, nulla erit rhetorici pompa sermonis, quae te iam inter
angelos statuat et beatitudine uirginitatis exposita mundum subiciat pedibus tuis. L’espressione è usata anche nell’Ep., 52,17: coegisti me, nepotiane carissime, lapidato iam uirginitatis libello, quem sanctae eustochiae romae scripseram, post annos decem rursus bethlem ora
reserare et confodiendum me linguis omnium prodere.
1
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo III. Paola, le figlie e la scelta definitiva
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e un letto senza macchia» [22,2]2. Nella sua “dichiarazione di intenti”,
come penso si possa definire questo passo, Gerolamo afferma quindi che
in questa lettera, che però si costituisce come opuscolo, secondo le sue
stesse parole, non troveranno posto né l’adulazione, né lo sfoggio retorico, miranti a porre attraverso la celebrazione della verginità il mondo
intero sotto i piedi di Eustochio [Nazzaro 1997; Adkin 2003]. Con la
categorica negazione di ogni ambizione stilistica normalmente, però,
gli autori tendono a ingannare più o meno velatamente i propri lettori,
e non è un caso che questa lettera sia stata definita un vero e proprio
capolavoro di retorica [Haghendahl 1958].
Gerolamo continua poi richiamandosi anche alla tematica, che vale
anche per Paola (e per le vedove) dell’allontanamento dal mondo e dai
lussi come dalla famiglia di origine: «Non basta che ti sia allontanata dalla patria, se poi non dimentichi il tuo popolo e la casa paterna;
non è sufficiente neppure aver disprezzato la carne, se non ti unisci agli
amplessi dello Sposo» [22,1]. L’impostazione di questa lettera, o trattato, quindi è di carattere pratico e ha uno scopo etico, sul modello
del maestro Tertulliano [Micaelli 1979]. Dopo avere scelto la verginità,
bisogna comunque conservarla, quindi stando attaccati all’Unico sposo,
cioè Cristo.
In questa lettera 22, a Eustochio, che, è bene ricordarlo, è la figlia che
rimane più legata a Paola e che con Gerolamo e la madre si reca in pellegrinaggio in Oriente, Gerolamo scrive un vero e proprio trattato sulla
verginità. I tratti principali sono i seguenti: dopo l’esordio, il riferimento
alle molestie delle nozze (secondo l’espressione di Gerolamo molestiae
nuptiarum]: questo tema non si presenta solo all’inizio della lettera, ma
ritorna diverse volte ai paragrafi 15, 18 e 22. La debolezza della carne è descritta ai paragrafi 3,4 e 5, in ampi paragrafi (che riporto nei
Hier., Ep., 22,2: ut ex ipso principio lectionis agnosceres non me nunc laudes uirginitatis esse dicturum, quam probasti optime, eam cum secuta es, nec enumeraturum molestias
nuptiarum, quomodo uterus intumescat, infans uagiat, cruciet paelex, domus cura sollicitet
et omnia, quae putantur bona, mors extrema praecidat - habent enim et maritatae ordinem
suum, honorabiles nuptias et cubile inmaculatum -, sed ut intellegeres tibi exeunti de sodoma
timendum esse loth uxoris exemplum.
2
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tratti essenziali), e fa riferimento al contrasto con ciò che viene espresso dall’apostolo Paolo tra carne e legge: «Non abbiamo da combattere
soltanto contro la carne e il sangue, ma contro i principati e le potestà
di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti del male, sparsi nell’aria.
Enormi battaglioni di nemici ci circondano, le forze avverse s’annidano
dovunque. E questa nostra fragile carne, destinata a diventar cenere ben
presto, deve combattere da sola contro un mucchio di avversari… Se
Paolo apostolo, vaso di elezione preparato per annunziare il Vangelo di
Cristo, sentendo il pungolo della carne e gli allettamenti dei vizi, tratta
duramente il suo corpo e lo rende schiavo, per non rimanere lui stesso
condannato dopo aver fatto da araldo agli altri; se, malgrado i suoi sforzi, scorge nelle sue membra un’altra legge che s’oppone a quella dello
spirito e lo sottomette alla legge del peccato; se, voglio dire, dopo aver
patito nudità, digiuni, fame, prigionie, supplizi, riflettendo su se stesso
esclama: “Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?”, come
puoi crederti sicura, tu?» [22,5].
Nella lettera Gerolamo parla a Eustochio del fatto che una vergine
caduta non può essere riportata alla condizione originaria, cioè Dio può
perdonarla, ma non salvarla, e Gerolamo ricorda le sue esperienze personali, quando credeva «davvero d’essere nel mezzo della vita gaudente di
Roma», per ammonire la giovane3. Interessanti appaiono inoltre alcune
espressioni, come quella del paragrafo 11: «È dunque vero che tutta la
potenza del demonio contro l’uomo s’annida nei fianchi, la sua forza
contro la donna nell’ombelico»4. La forza del Diavolo è nella sessualità.
Hier., Ep., 22,5 (esempio della vergine caduta); 22,7 (esperienze personali di Gerolamo): «Quante, quante volte, pur abitando in questo sconfinato deserto bruciato
da un sole torrido, in questa squallida di-mora offerta ai monaci, credevo davvero
d’essere nel mezzo della vita gaudente di Roma! Se, nonostante i miei sforzi, il sonno
mi assaliva improvviso, ammaccavo le ossa tutte slogate, steso sulla nuda terra…Non ti
parlo del cibo e della bevanda: nel deserto anche i malati usano acqua gelida; un piatto
caldo è una golosità! Io dunque, sì, proprio io che mi ero da solo inflitto una così dura
prigione per timore dell’inferno, senz’altra compagnia che belve e scorpioni, sovente
mi pareva di trovarmi tra fanciulle danzanti. Il volto era pallido per il digiuno, eppure,
in un corpo or mai avvizzito, il pensiero ardeva di desiderio…».
3
4
Hier., Ep., 22,11: omnis igitur aduersus uiros diaboli uirtus in lumbis est, omnis in um-
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capitolo III. Paola, le figlie e la scelta definitiva
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La frase è, a mio avviso, singolare, e appare inserita in un medaglione
in cui inizialmente si ricordano le origini aristocratiche di Eustochio:
«È vero, tu sei nata da nobile stirpe, sei abituata a vivere in mezzo alla
delicatezza e tra le piume; è un buon motivo, puoi dirmi, per non astenerti dal vino e dai cibi raffinati, per non vivere sacrificata secondo la
regola che ti propongo. Ma io ti ribatto: Vivi pure secondo la tua legge,
se non te la senti di seguire quella di Dio!». Si può forse pensare che in
questo passo si nasconda un collegamento, e una conseguente critica, a
quel mondo aristocratico di cui tanto polemicamente Gerolamo controbatte le accuse nei propri confronti. L’ipotesi trova conferma in altri
numerosi passi seguenti; essa infatti è permeata, nella sua stupefacente
lunghezza, di ammonimenti e precauzioni pratiche e concrete, non solo
morali. Gli avvenimenti che Gerolamo usa come esempi per Eustochio
e le vergini in generale sono tratti ancora una volta dall’osservazione
della città, Roma, che lo circonda e lo porta a formulare con sarcasmo e
ricca invettiva valutazioni sulla Roma del IV secolo [§§ 13-18]: «quante
vergini cadono ogni giorno [...]. Ne vedrai molte, già vedove ancor
prima di sposarsi, che tentano di nascondere la loro coscienza sporca
sotto una falsa veste: incedono a testa alta e a passo sicuro, fintanto che
non le tradisce il rigonfiamento del ventre o il vagito dei bimbi. Altre
pregustano i comodi della sterilità, e si rendono omicide evitando il
concepimento; parecchie, quando si scoprono incinte per rapporti peccaminosi, si rivolgono ai farmaci che provocano l’aborto… In pubblico
queste tizie passeggiano in modo da richiamar l’attenzione, e con mosse
furtive degli occhi si tirano dietro un codazzo di giovani corteggiatori».
E ancora: «Queste brave dame hanno l’abitudine di vantarsi perché il
marito è giudice o occupa qualche alta carica; l’ambizione le porta a
precipitarsi a gara dalla moglie dell’Imperatore per riverirla. Ti raccomando non solo di evitare la compagnia di quelle che si pavoneggiano
per i titoli onorifici del marito - le vedi circondate da una caterva di
eunuchi, e con vesti trapunte d’oro e d’argento -, ma di fuggire anche
bilico contra feminas fortitudo.
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quelle rimaste vedove per necessità. Non dovevano certo augurarsi la
morte del marito, ma potevano cogliere con gioia l’occasione di vivere
nella continenza [22,16: quas uiduas necessitas fecit, non quo mortem optare
debuerint maritorum, sed quo datam occasionem pudicitiae libenter arripere].
Al contrario, hanno mutato l’abito ma non il lusso sfrenato di prima».
In quest’ultimo passo, possiamo certo evidenziare un’allusione a Paola,
per salvarla da altre accuse: essa infatti, quasi rallegratasi per la morte
del marito, scelse la vita ascetica [108,5]5. Gerolamo sembra cercare di
diminuire l’intensità delle sue parole e, tra un ammonimento e l’altro,
di inserire la critica all’amica rendendola però più morbida. Ma il concetto è chiaro: nessuna donna deve certamente rallegrarsi per la perdita
del marito, ma l’esempio di Paola ancora una volta si rivela il vincente.
Invece di vivere come prima, essa ha scelto la via della conversione. Un
altro punto degno di rilievo è quello in cui Gerolamo parla, rispetto allo
stato di verginità, di consacrazione. Per la tua consacrazione [22,4]: è il
sanctum propositum, a indicare la consacrazione a Dio nello stato di verginità. Corrisponde circa poco alla professione religiosa. Il proposito è,
per Eustochio, il proposito della professione religiosa della verginità, che
è motivo di modestia e non di superbia (la modestia contro la superbia è,
non a caso, una delle doti più significative di Paola, esaltata da Gerolamo
nella Lettera 108 per la morte dell’amica). Non è chiaro come tradurre
questo passo, dato che, come si è detto, per le vedove rimane incertezza
anche in riferimento ad un ordine di vergini, inteso proprio come una
professione: si tratta a mio avviso, per la figlia di Paola, di un proposito privato. La vera vergine, come la vedova, deve essere corporalmente
e spiritualmente ferma nel suo proposito: «la verginità si può perdere
anche solo col pensiero. Sono appunto queste le vergini colpevoli, che
posseggono la verginità fisica, ma non quella del cuore; le vergini stolte,
che lo sposo esclude dal banchetto nuziale perché non hanno l’olio»
[22,5].
L’invettiva contro le altre è quindi vigorosa, Gerolamo violentemente
Hier., Ep., 108,5: postquam uir mortuus est, ita eum planxit, ut prope ipsa moreretur, ita
se conuertit ad domini seruitutem, ut mortem eius uideretur optasse.
5
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accusa di prostituzione le molte donne che non seguono alla lettera i
suoi insegnamenti, ed è consapevole della pesantezza delle sue parole: «Ora che ho rigettato e scacciato [explosis igitur et exterminatis] le
fanciulle che non vogliono essere vergini, ma solo apparirlo, il nostro
discorso sarà indirizzato tutto a te [22,15]. La scelta dei verbi, explodere
e exterminare, comporta il fare intendere la falsità di queste donne, che si
celano dietro l’apparenza e vanno tenute lontane. Poco prima, infatti, ha
scritto: «Indossare una veste d’un leggero color porpora, aver la benda
del capo allentata perché i capelli ricadano sulle spalle, portare sandali di
basso costo, una sciarpa svolazzante sulle spalle, maniche strette, aderenti
alle braccia, un’andatura stanca e dinoccolata: ecco in che cosa fanno consistere tutta la loro verginità! Trovino pure adulatori della stessa
genìa, e sotto il nome di vergini si prostituiscano a più alto prezzo!»
[22,13]. Come si vede, i temi sono quasi identici a quelli che nelle lettere
a Paola userà per il comportamento della vedova; nella lettera alla figlia
di Paola, infatti, si trovano mescolati insieme i vari concetti tanto cari a
Gerolamo: «Non andare alle riunioni delle matrone, non frequentare i
salotti mondani: non vorrei che tu assistessi frequentemente a spettacoli
già messi al bando per mantenerti vergine [...]. Una schiera di eunuchi
precede le loro morbide lettighe, e a vederle col rossetto sulle guance
e la faccia imbellettata, diresti che vanno a caccia di marito; altro che
averlo perso! Il loro palazzo rigurgita di corteggiatori e di convitati, e
perfino dei chierici, purtroppo, che dovrebbero essere maestri di dottrina
e incutere rispetto, baciano in fronte queste patronesse, e stendono la
mano non per benedirle, ma per ricevere il prezzo del loro saluto. Intanto, appena esse s’accorgono che i sacerdoti hanno bisogno della loro
protezione, si gonfiano d’orgoglio. E solo per il fatto che preferiscono
alla tirannia dei mariti, già provata, la libertà della vedovanza, godono il
nome di caste e di monache; e magari dopo una cena sontuosa sognano
ad occhi aperti i loro apostoli!» [22,16]. Ancora, il pensiero non può non
correre alle malignità di cui erano stati bersaglio Paola e Gerolamo: qui
Gerolamo non smentisce come ha fatto altrove, né accenna alle calunnie
in modo esplicito, ma il messaggio è chiaro: Paola fu una vera vedova, e
non certo una “patronessa” che si vantava di appoggiare e sostenere con
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le sue ricchezze chierici non degni di questo nome (categoria alla quale
ovviamente Gerolamo sa di non appartenere). Paola brillò per modestia,
e non si rigonfiò di orgoglio come queste matrone, e nello stesso modo
Gerolamo si distinse dai chierici qui criticati per rispettosità e perché
fu quello che il suo compito esigeva, cioè un maestro di dottrina per
l’amica. Gerolamo qui accenna anche alla castità monacale, criticando
chi vanta di seguirla, ma fa tutt’altro: già in un altro passo della lettera fa
un cenno alle monache, prese in giro da quelle che per lui sono le finte
vergini romane: «Se vedono un’altra vergine che ha l’aria triste e il volto
pallido, la chiamano disgraziata, monaca, manichea e via di seguito»
[22,13]6. È evidente che la vera monaca, la vera vergine doveva apparire
pallida e triste, concentrata nella preghiera, e suscitare riso nelle donne
di Roma qui criticate e dalle quali Eustochio si deve allontanare.
Non va dimenticato che la verginità era un concetto non nuovo per
i romani, intesi come quelli tradizionalmente pagani, e che la novità
del cristianesimo consisteva in un concetto diverso, in un intendere in
modo differente la verginità, che non doveva essere temporale (come per
esempio quella delle Vestali, criticate nell’Epistola 18 di Ambrogio7) o
fittizia. La verginità cristiana è non solo carnale, ma è soprattutto spirituale: Gerolamo lo dice anche a Paola, nella lettera 30 a lei indirizzata,
anche se è concentrato a trattare tutta un’altra tematica: «Saluta Feliciana, veramente felice per la sua verginità di corpo e di anima» [30,14].
Gerolamo arriva a catalogare anche i gradi della castità, che, secondo
il suo pensiero, sono tre: il primo, la verginità; il secondo, quello delle
vedove continenti; il terzo, delle donne sposate. Nella lettera 24, a Marcella, Gerolamo afferma di avere già parlato della castità nella vedovanza,
a proposito della vedova Lea: «Avant’ieri ti ho parlato un po’ di Lea, di
felice memoria. È stata proprio lei a crearmi uno scrupolo, facendo-
Hier., Ep., 22,13: et quam uiderint tristem atque pallentem, miseram et monacham et
manicheam uocant, et consequenter; tali enim proposito ieiunium heresis est.
6
In risposta a Simmaco, relativamente alla polemica sulla rimozione dell’altare della
Vittoria: Ambrogio, Ep. XVIII [Vera 1981].
7
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mi venire in mente che non dovevo passare sotto silenzio una vergine,
dato che abbiamo appena parlato del secondo grado di castità» [24,1].
Ancora, riprende il tema dei gradi di castità in relazione al discorso sul
matrimonio proprio mentre parla di verginità ad Eustochio, richiamandole alla mente la sorte della sorella Blesilla: «Già hai imparato a conoscere i fastidi del matrimonio e le ansie della vita coniugale da un caso
capitato nella tua stessa famiglia. Tua sorella Blesilla, maggiore di te per
età, ma inferiore per ideale ascetico, è rimasta vedova sette mesi dopo
lo sposalizio. O infelice sorte degli uomini, così ignari del futuro! Essa
ha perduto, a un tempo, la corona della verginità e le gioie del matrimonio. D’accordo; occupa ancora il secondo grado della castità. Puoi
però immaginarti che spina dev’essere per lei, in certi momenti, vedere
ogni giorno nella sorella quel bene che essa ha perduto, e sapere che la
sua castità, tanto più difficile a conservarsi dopo aver provato il piacere,
otterrà una ricompensa minore. Non si perda d’animo però, e viva serena: il frutto, cento volte moltiplicato o solo sessanta, viene da un unico
seme: la castità» [22,15].
In questo passo l’allusione di Gerolamo è alla parabola del Seminatore, riferita proprio ai gradi di castità [Mt 13, 3-23]. Il seme caduto in
buon terreno fruttifica ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta per uno.
In tutti i casi si tratta di un buon terreno. Delle tre percentuali la prima
è proprio delle vergini, la seconda delle vedove, la terza delle maritate.
Questa interpretazione, già formulata da sant’Ambrogio [De virginibus
I, 10, 60], è presentata da Gerolamo in modo più completo nella Lettera
59, 2, come pure nel suo Contra Iovinianum, I, 3; I, 40; II, 19; II, 35, a
cui la lettera si riferisce. Interessato a questo proposito si dimostra anche
Sant’Agostino, che, però, nel De sancta virginitate, 45, rigetta, non senza qualche esitazione, l’interpretazione allegorica dei tre numeri [vedi
anche Cipriano, De habitu virginum, 21]8. La discussione di Gerolamo
è però soprattutto orientata su una precisa contrapposizione, quella tra
nozze e verginità: «Qualcuno verrà fuori a dirmi: Tu osi denigrare il
8
Beatrice 1979; Moreschini 1988.
76
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matrimonio, che è stato benedetto dal Signore?». Rispondo subito: non
è denigrare le nozze, preferire ad esse la verginità! Nessuno qui intende
istituire un confronto fra un bene e un male. Le donne sposate siano fiere di trovarsi per dignità subito dopo le vergini. Dio ha detto: «Crescete,
moltiplicatevi e riempite la terra». Prolifichi e si moltiplichi colui che è
destinato a popolare la terra; la tua schiera è nei cieli» [22,19]9.
Gerolamo è chiaramente consapevole della polemica che il cristianesimo sta suscitando soprattutto in relazione ai matrimoni casti, ed è altresì
a conoscenza, e non lo nega, del fatto che molti genitori non erano felici
della scelta di verginità dei propri figli, dato che vedevano in questa scelta la fine del nome della loro famiglia. Astutamente Gerolamo complica
le cose: nega di inveire contro il matrimonio, anzi ne parla in senso positivo, ma per lui il matrimonio ha un grande compito, un fine spirituale:
«Lodo le nozze, lodo la vita matrimoniale, ma perché mi generano dei
vergini [laudo nuptias, laudo coniugium, sed quia mihi uirgines generant].
Perché, o madre, sei gelosa di tua figlia?» [22,20]. In questa chiusa, il
pensiero non può non correre a Paola e al marito Tossozio. Vero è che
gli altri loro figli si erano sposati, ma probabilmente anche per Eustochio il padre aveva riservato progetti ed alleanze matrimoniali. Ancora,
il pensiero corre ai rimproveri fatti a Paola nella lettera 39: la buona
cristiana, anche se madre, non deve pensare che la Chiesa, che Dio, le
ha rubato la figlia, sia nella scelta di vita da vergine, che nella morte. La
verginità, continua Gerolamo, non è un comando, perché, se così fosse,
sarebbe come eliminato il matrimonio, e poi sarebbe un’imposizione
troppo dura costringere a vivere contro natura. Quindi Gerolamo insiste
sul fatto che l’unione matrimoniale ha una sua ragione di essere [22,20],
ed è naturale, è un piano divino: esigere dagli uomini, dice infatti, una
vita da angeli, è in certo modo condannare il piano stesso della creazione. La differenza tra la moglie e la vergine, per Gerolamo, sta essenzial-
9 Hier., Ep., 22,19: dicat aliquis: et audes nuptiis detrahere, quae a domino benedictae
sunt? non est detrahere nuptiis, cum illis uirginitas antefertur. nemo malum bono conparat. glorientur et nuptae, cum a uirginibus sunt secundae. crescite, ait, et multiplicamini
et replete terram.
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mente nel fatto che colei che non è sposata pensa alle cose del Signore,
per essere santa di corpo e di spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo e come possa piacere al marito. Gerolamo
continua il suo discorso relativo a verginità e matrimonio affermando
che non ha interesse a trattare degli svantaggi che quest’ultimo porta,
ma, ammiccando al lettore, lo invita a leggere, se proprio vuole sapere
da quali molestie sia libera una vergine, e quali, invece, assedino una
moglie, il libro scritto da Tertulliano a un suo amico filosofo e gli altri
suoi trattati sulla verginità [De exhortatione castitatis, anno 208-211], o
anche il volume, definito da Gerolamo eccellente, del beato Cipriano
[De habitu virginum, anno 249], gli scritti di papa Damaso in versi e in
prosa su questo argomento e gli opuscoli che Ambrogio ha indirizzato
recentemente alla sorella, presentando come esempi di verginità le sante
Agnese, Maria, e la stessa Marcellina [De virginibus, ad Marcellinam sororem, libri tres, anno 377]10. La novità interessante riguardo alla contrapposizione nozze/verginità che troviamo nella lettera 22 è dovuta al fatto
che Gerolamo non ne fa una questione di merito, né di dignità; Gerolamo sposta la sua attenzione su un piano diverso. Il Santo infatti rileva
come ci sia differenza tra la condizione primordiale, anteriore al peccato
originale, e una condizione cronologicamente posteriore, non malvagia,
ma inferiore per dignità perché venuta in conseguenza al peccato. È stato correttamente rilevato [Moreschini 1988] come in questa lettera 22
si trovino due posizioni di Gerolamo: una prima, riguardante i primi
diciassette paragrafi, si rifà alla dottrina tradizionale sul matrimonio e
la verginità; la seconda, invece, serve a Gerolamo per aiutare Eustochio
non soltanto a conservare la verginità, ma a fare circolare il messaggio
più importante, e cioè che secondo lui bisogna ritornare alla condizione
originaria dell’uomo. In sostanza, l’interesse di Gerolamo per la verginità e per l’ideale ascetico tende in questa lettera a oltrepassare i confini
dell’esortazione morale, e porta il Santo a cercare (e trovare) una giustificazione della contrapposizione nozze/verginità ontologica, risalente al
10
Hier., Ep., 22,22.
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peccato originale. Nella prima parte, invece, quella che contiene per così
dire un messaggio più diretto, i precetti di Gerolamo a Eustochio sono
spesso gli stessi di Ambrogio, nei suoi precetti alle vergini, o la condanna dei lussi e degli ornamenti femminili da Ambrogio e Tertulliano.
Anche Tertulliano, inoltre, aveva parlato ampiamente riguardo a questi
temi, soprattutto sottolineando sarcasticamente i vantaggi che si trovano nella posizione di moglie ben accasata. Interessante è la sua ammissione che una forte motivazione a risposarsi, per la vedova sia la prospettiva di fare da padrona alla servitù altrui, adagiarsi sulle sostanze
altrui, farsi pagare da altri le spese dell’abbigliamento, dissipare denaro
senza che la propria borsa ne risenta11. Un’altra pagina significativa, su
cui poi fondano le basi i Padri della Chiesa a lui posteriori, è quella da
lui scritta nel libro Sulla monogamia. Un bel passo sull’unione spirituale
che vincola il cuore e la volontà degli sposi anche oltre la morte di uno
dei due fa parte degli argomenti per distogliere dalle seconde nozze:
tutto ciò che poi Gerolamo raccomanda alla sua allieva prediletta Paola.
Un altro problema è quello della sottomissione al marito, che è questione ampiamente dibattuta. La tradizione viene recuperata attraverso
testi esegetici, teologici e agiografici, discorsi normativi, prediche, trattati morali e pedagogici. Il fine, ci viene ricordato dalla storiografia, è
costruire un modello femminile funzionante nel presente e proiettabile
nel futuro, un modello di donna che, «segnata da naturale debolezza
intellettiva, dotata di un corpo fragile la cui vista può generare moti
di lussuria», deve essere «custodita», confinata nell’hortus conclusus del
chiostro o dello stato matrimoniale [Ferro, Benavides 1985; Zarri 1996].
Se nel mondo claustrale la custodia si esercita attraverso «proibizione e
controllo», all’interno della famiglia sono «protezione e possesso» che
regolano la vita della donna: anche nella civiltà europea tardomedievale
non meno di quanto avverrà nella prima Età moderna, il controllo si
esercita partendo prima di tutto dal corpo [Zarri 1996]. Se le donne
sono maritate e occupano quindi il gradino più basso nella scala della
11
Tertulliano, Ad uxorem, I, 4, 6, SC 273, p. 104,39-41.
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79
purezza, esse devono comunque ottemperare a quanto affermato nelle
Scritture – «Sarai sotto il potere del marito ed egli ti dominerà» [Genesi
III, 16] – dimostrando umiltà, mansuetudine, ubbidienza. Dove manca la presenza vigile del padre o del marito, la disciplina sarà necessariamente ancora più severa: la vita delle vedove deve muoversi entro
le coordinate dei digiuni, delle preghiere e degli atti di carità verso il
prossimo. Le prescrizioni insistono sulle: sobrietà nel cibo, modestia nel
gesto, parco uso della parola, abbandono del trucco e degli ornamenti,
restrizione negli spostamenti, limitato accesso al mondo della cultura e
del lavoro, operosità contro i vizi dell’ozio. Il tutto è finalizzato, come
sempre, alla custodia della castità. Ma, come dice Gerolamo, nella sua
lettera a Eustochio [22,6]: «Meglio assoggettarsi all’uomo nel matrimonio, camminando per la via piana, che tentare le vette e piombare negli
abissi dell’inferno». Il matrimonio, quindi, può forse preservare dalla
caduta delle vergini; può aiutare, ma il vero compito di una vergine è
resistere alle molte tentazioni, e la vergine sarà lodata per questo: «merita
lode e il titolo di beato chi smorza i pensieri perversi appena spuntano, e
li sbatte contro la roccia: e la roccia è Cristo» [22,6].
III.3. Paola, una buona madre?
La moglie, per compiere a fondo il suo dovere, deve divenire madre,
e realizzarsi interamente nell’ambito familiare, secondo una tradizione
ormai ai tempi di Paola consolidata: la madre cristiana è caratterizzata
da santa severità, sobrietà e pudicizia stando a una nota definizione consegnataci da Agostino nelle sue Confessioni12. In Paola queste caratteristiche si concretizzano tutte attivamente e, come rappresentante della
figura materna, accoglie anche in sé motivi letterari pagano-classici.
Sicuramente lo spazio dedicato alle madri nella letteratura cristiana tardo-latina è ampio, e naturalmente risente anche della nuova ispirazione
12
Agostino, IX,VIII,17 e IX,IX,19.
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religiosa. Nel caso di Paola, come in altri casi di vedove che rinunciano,
per così dire, alla famiglia per dedicarsi alla vita ascetica, il rapporto tra
la donna e i figli subisce un’evoluzione. Soprattutto con Eustochio, forse
per la sua scelta religiosa di votarsi alla verginità, il rapporto madre-figlia
è particolarmente intenso. Ma è un rapporto che, a mio avviso, supera l’affettività parentale: Eustochio diventa, per Paola, una compagna
di scelte di vocazione. Paola, vedova perfetta, da aristocratica cristiana
prima di ogni cosa ha dovuto essere esempio di moglie e madre perfetta, per eliminare tutte le immagini negative che evoca ancora nel IV
secolo la figura tradizionale della matrona. Paola è la risposta, quindi, in
chiave cristiana, a tutti i vizi che la donna nobile pagana incarna o ha
incarnato. Nel racconto, all’interno della lettera 108, della scelta di Paola
di abbandonare i figli per partire per il suo pellegrinaggio, Gerolamo
descrive molto abilmente i sentimenti contrastanti e la difficoltà della
scelta di Paola, che deve emergere comunque come esempio sempre
positivo: «andava sempre pensando di abbandonare la patria, nulla ricordandosi della casa, dei figliuoli, della famiglia, dei poderi, né tantomeno
di alcuna altra cosa al mondo [...]. Ella s’incammina al porto, accompagnata dal fratello e dai parenti, dai congiunti e, quel ch’è più di questi,
dai propri figlioli, desiderosi di vincere la clementissima loro madre con
affetto di pietà. Ma quella alzava gli occhi asciutti al cielo, superando con
l’amore di Dio l’amore che aveva per i suoi figlioli. Non conosceva di
essere madre, per dimostrare che era ancella di Cristo. Internamente si
sentiva però tormentata, e come se le interiora le fossero strappate, combatteva contro il proprio dolore, resa in questo più ammirabile, perché
vinceva un grande amore. Tra le mani dei nemici e la dura necessità della prigionia, nessuna cosa riesce più crudele che il dividere i genitori dai
figli. La sua grande fede sopportava una pena così grande contro le leggi
della natura, anzi il suo giulivo spirito la desiderava. E disprezzando l’amore verso i figli, con l’amore maggiore verso Dio, nella sola Eustochio,
compagna della sua liberazione e del suo viaggio, si riposava»13. Gero13 Hier., Ep., 108,6 (riporto solo i tratti salienti): non domus, non liberorum, non familiae, non possessionum, non alicuius rei, quae ad saeculum pertinet, memor sola - si dici
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo III. Paola, le figlie e la scelta definitiva
81
lamo tenta di sfumare ciò che può apparire increscioso, e cioè lasciare
i propri figli: «La nave intanto solcava il mare e, volgendo lo sguardo al
lido, tutti quanti navigavano con lei; ella altrove teneva rivolti gli occhi,
per non vedere quelli che senza tormento non poteva vedere. Confesso che nessuna donna ha giammai amato in tal modo i propri figli, ai
quali ella prima di partire donò tutti i suoi beni, diseredandosi in terra, per ritrovare l’eredità in cielo». Non va però dimenticato, in questa
drammatica descrizione della partenza di Paola, un aspetto importante:
Gerolamo è già partito, non assiste personalmente al distacco di Paola
dai suoi figli. Ma comunque, il quadro che ci consegna Gerolamo è
proprio questo. Paola è quindi ora già pronta per il lungo viaggio che la
porterà in Palestina, nella terra che vide il Salvatore. Qui la presenza del
Cristo era avvertita in modo del tutto particolare: come vicinanza non
solo spirituale, ma anche fisica. Già a quei tempi la Palestina era visitata
da numerosi cristiani e ivi si insediavano comunità monastiche in prevalenza maschili. Dalla pagina di Gerolamo emerge la malinconia dei
figli e dei parenti, ma, dato non trascurabile, in questa parte non appare
chiaro se essi furono contrari alla scelta da lei compiuta, cosa che mi
sembra però di potere escludere. Tenderei infatti a pensare che in questo caso non si debba dubitare troppo delle informazioni consegnate da
Gerolamo: impegnato come era ad esaltare le virtù della sua eroina, non
avrebbe trascurato di parlare della fierezza con la quale si sarebbe opposta
al parere contrario della famiglia.
Altra notizia importante è che attivo e imponente fu il contributo dato
da Paola per il rafforzamento ed il consolidamento di tali comunità di
cristiani, lontane dal mondo, ma note a tutto il mondo. Ancora, relativamente alla sua maternità, venuta a conoscenza tramite una lettera delle
gravissime infermità sostenute dai suoi figli e specialmente dal suo Tossozio, (da lei grandemente amato, dice Gerolamo), il santo trova il modo
per fare capire che, nonostante la scelta fatta, essa sia ancora legatissima
potest - et incomitata ad heremum antoniorum atque paulorum pergere gestiebat [...] nesciebat matrem, ut christi probaret ancillam. torquebantur uiscera et, quasi a suis membris distraheretur, cum dolore pugnabat in eo cunctis admirabilior, quod magnam uinceret caritatem.
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ai figli, ma abbia trovato la capacità di sopportare queste preoccupazioni
nella fede del Signore: «E avendo essa con la propria virtù adempiuto
quel detto: “Io mi sono turbata e non ho parlato”, proruppe in queste
parole: “Chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me”»14. Le
caratteristiche di Paola, la sua affettività, sono menzionate anche altrove
da Gerolamo. Nella lettera 107, per esempio, Gerolamo non perde occasione per rimettere in evidenza le virtù di Paola, che si caratterizza ora
anche come nonna eccezionale. È evidente che se Paola è nonna straordinaria, deve essere stata anche una genitrice straordinaria. Se Laeta
deciderà di mandare da Paola e Eustochio la figlia Paola iunior, questo
sarà solo un bene per la bambina. Retoricamente, Gerolamo immagina
che Laeta si preoccupi di come educare la figlia a Roma: «Come può
essere possibile che io, donna di mondo, tra un mare di gente, a Roma,
resti fedele a tutte queste norme?» [107,13]. La risposta di Gerolamo è
semplice: Laeta può non avere la forza di addossarsi una responsabilità
così grande: «non addossarti un peso che non riesci a portare. E allora,
dopo averla svezzata - come Isacco - dopo averla vestita - come Samuele, mandala da sua nonna e da sua zia. Affida questa gemma preziosissima alla grotta di Maria e mettila sulla cuna di Gesù che vagisce. Venga
nutrita nel monastero, se ne stia fra i cori delle vergini». Paola iunior deve
sapere e conoscere fin da subito «chi è quell’altra nonna che ha, e quale
zia! E sappia chi è quell’imperatore, qual è quell’esercito per i quali la
si alleva come una piccola recluta. È ad esse che deve tendere col desiderio, e minacciarti spesso di piantarti in asso per raggiungerle»15. Nel
programma di Gerolamo per la nipote di Paola, quindi, come primo
punto c’è il distacco dalla madre: l’allontanamento figli-genitori, quindi,
non deve apparire così negativo a Gerolamo. Come Paola ha lasciato i
suoi figli, così Laeta può concedere alla figlia di allontanarsi da lei. Paola
iunior non soffrirà per questo, anzi, ne troverà solo giovamento. Il Santo
ha anche il proposito dell’affidamento della piccola alla zia Eustochio;
14
Hier., Ep., 108,19.
15
Hier., Ep., 107, 5.
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capitolo III. Paola, le figlie e la scelta definitiva
83
facendo così di Paola iunior la compagna, la futura erede della sua santità: «È lei che deve guardare, è lei che deve amare, è su lei che fin dai
primi anni deve posare gli occhi con meraviglia dato che le sue parole,
il suo comportamento, il suo modo di camminare sono altrettante lezioni di virtù». Paola iunior non starà solo con Eustochio: starà anche in
grembo alla nonna «affinché essa possa ripetere nella nipote la riuscita
esperienza fatta sulla figlia; tanto più che la lunga pratica le ha insegnato
a nutrire, ad istruire, a preservare le vergini, la cui corona viene tessuta
ogni giorno dalla castità di valore» [107,13]16. Paola quindi avrà dal suo
monastero la possibilità di tornare a occuparsi di una parte della sua
famiglia, e Gerolamo è molto abile nel sottolineare come, nonostante la
lontananza dai figli, Paola sia comunque un ottimo modello e un’ottima
educatrice, che è riuscita a nutrire, istruire e preservare le vergini del suo
monastero. Da notare, a mio avviso, i verbi usati da Gerolamo: nutrire,
istruire e preservare: nutrire, docere, servare. Paola quindi nel monastero
ha fatto ciò che si chiede alla madre esemplare, ha compiuto e compie
quotidianamente, da monaca, i doveri di una vera madre cristiana, che
si prende cura dei molti figli, o figlie, che Dio le ha dato, non in senso
biologico, ma in senso spirituale. Paola non si è dunque macchiata di
abbandono dei figli, ha semplicemente usato le sue doti da cristiana per
un compito più grande, e, nel momento in cui si prepara ad accogliere
anche la nipote Paola iunior, è ancora una volta in grado di esaltare la
sua stirpe non solo grazie allo splendido lavoro fatto con Eustochio, ma
anche grazie alla piccola Paola iunior. Nella Lettera 107 questo concetto
è ben evidenziato; Gerolamo infatti chiude la sua epistola esaltando la
fortuna della bambina, rispondendo forse ancora una volta a tutti i suoi
oppositori: «la tua nobiltà è dovuta più alla santità, che in te ridonda per
le virtù della nonna e della zia, che al tuo casato! Che bello sarebbe se ti
capitasse la buona fortuna di vedere tua suocera e tua cognata, e in quei
Hier., Ep., 107,13: sit in gremio auiae, quae repetat in nepte, quidquid praemisit in
filia, quae longo usu didicit nutrire, docere, seruare uirgines, in cuius corona centenarii cotidie
numeri castitas texitur.
16
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piccoli corpi delicati scoprire delle anime straordinarie»17. Le vicende
storiche andarono però diversamente: è pressoché certo che Paola iunior
arrivò a Betlemme poco dopo il Sacco di Roma del 410, quindi quando
la nonna Paola era già morta. Il fatto che i genitori la mandarono dopo
il sacco di Roma può indurre a pensare che Tossozio iunior, forse, non
era così convinto di affidare la figlia a Paola e a Eustochio (forse risentito
per la scelta della madre?) o, piuttosto, non era completamente convinto
della scelta verginale a cui la figlia era stata votata. Probabilmente, il
sacco di Roma e la paura degli eventi storici lo indussero a mandare via
la figlia. È altresì possibile pensare che, nel 419, alla morte di Eustochio,
Paola iunior le succedesse nella guida del monastero, secondo una notizia dataci da Palladio [Storia Lausiaca, 41]. In un certo senso, la scelta di
Paola aveva coinvolto, a questo punto, ben tre generazioni.
Se, come si nota dalle lettere di Gerolamo, il legame di Paola nei confronti di Eustochio è a tratti più religioso che materno, Gerolamo tende a recuperare questo aspetto, che potrebbe essere visto negativamente
dai detrattori di Paola (e di lui stesso)18, attraverso Eustochio medesima.
Della figlia infatti spesso è sottolineato l’amore quasi viscerale e l’attaccamento alla madre: questa sua figlia si è sempre tenuta legata alla madre
e ha obbedito alla sua volontà, al punto che, senza di lei, mai è andata a
letto, mai è andata in giro, mai ha preso cibo. L’attaccamento alla madre
si spinge in Eustochio fino al desiderio di essere insieme unite nella
tomba: «In questo malore l’affetto filiale, sempre lodevole, di Eustochio
verso l’amata madre, sempre più fu da tutti lodato. Mentre essa a lato del
letto le sedeva, teneva il ventaglio, le sosteneva il capo, le poneva sotto il
guanciale, le stropicciava i piedi, le riscaldava con la mano lo stomaco, le
Hier., Ep., 107, 13: felix paula toxotii, quae per auiae amitae que uirtutes nobilior est
sanctitate quam genere! o si tibi contingeret uidere socrum et cognatam tuam et in paruis
corpusculis ingentes animos intueri! pro insita tibi pudicitia non ambigerem, quin praecederes
filiam et primam dei sententiam secunda euangelii lege mutares.
17
Il termine detrattori è usato dallo stesso Gerolamo: Ep., 108,17 : «E questo lo faccio
soprattutto perché i miei detrattori, i quali con dente canino sempre mi rodono, non
si persuadano che io finga e adorni con i colori di altri la cornacchia di Esopo». L’allusione, più o meno esplicita, è anche altrove, per esempio 45,2.
18
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rifaceva il letto, le preparava acqua calda, le poneva davanti il tovagliolo,
faceva i servizi di tutte le ministre prima di loro e se per sorte alcuna di
esse faceva qualche cosa, pensava che a lei fosse tolto l’eseguire ciò che
per obbligo le si doveva. Con quali preghiere, con quali lamenti e gemiti
andava avanti e indietro dal letto della madre alla grotta del Signore, per
non essere privata di così cara compagnia, per non restare in vita senza
di lei, per esserne portata nel medesimo feretro»19. Un’ultima considerazione mi rimane da fare riguardo al rapporto, evidentemente molto
intenso, di Paola con la figlia Eustochio. Delle figlie di Paola, Eustochio
è l’unica che si vota alla verginità prima di essere unita in matrimonio.
Tutte le altre, infatti, anche Blesilla stessa, prima della conversione, o
della scelta ascetica e di castità, sono state sposate, probabilmente in età
molto giovane. Se Paola, come pensiamo, è nata nel 347, e Blesilla nel
364 (dato che Gerolamo ci dice che ha vent’anni nel 384), possiamo
infatti ritenere che Blesilla si sia sposata intorno ai quindici anni (379?),
prima della morte del padre quindi. Paolina, la seconda figlia di Paola,
nacque intorno al 366, e si sposò prima dell’arrivo di Gerolamo nella
vita di Paola [Cavallera 1922; Laurence 1997]. Rufina, nata nel 370, nel
385 aveva quindi quindici anni: il suo matrimonio doveva essere già
stato quindi deciso, secondo le regole dell’epoca. Non è quindi chiaro
come mai Eustochio riuscì, per così dire, a sottrarsi al matrimonio. Nessuna affermazione di Gerolamo ci informa del fatto che essa fu votata
alla verginità, alla nascita, dalla madre: la cosa appare improbabile, dato
che Tossozio senior era ancora in vita. Eustochio decise per la vita virginale nel 379 (lettera 127,5: Marcella è la sua maestra spirituale), più o
meno in corrispondenza della conversione della madre alla vita perfetta
[108,5]. L’unico accenno di Gerolamo alla scelta di Eustochio si trova
nella lettera 107, del 400-401 al paragrafo 5. Il contesto, lo ricordo, è
ancora quello della scelta di Laeta per la figlia Paola iunior, votata alla
verginità da Laeta stessa. Dice Gerolamo: «Tempo fa Pretestata, donna
Hier., Ep., 108,29: uenerabilis uirgo filia eius eustochium quasi ablactata super matrem
suam abstrahi a parente non poterat: deosculari oculos, haerere uultui, totum corpus amplexari et se cum matre uelle sepeliri,
19
86
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di alta nobiltà, per ordine del marito Imezio, che è stato lo zio della vergine Eustochio, cambiò l’abbigliamento e la toletta di questa giovinetta;
fece fare la permanente a quei capelli che lei trascurava, nell’intento di
frustrare tanto la decisa vocazione della vergine, quanto il desiderio della
madre di lei [habitum eius cultum que mutauit et neglectum crinem undanti
gradu texuit uincere cupiens et uirginis propositum et matris desiderium]. E
cosa ti accade? Quella stessa notte, in sogno, vede un angelo che le viene
incontro con un aspetto terribile e che la minaccia di castighi. La investe con queste parole: «Sei tu che hai osato anteporre la volontà di tuo
marito a Cristo? Sei tu che hai osato manipolare con mani sacrileghe
il capo di una vergine di Dio? Ebbene, queste mani ti resteranno secche, e passati cinque mesi sarai trascinata all’inferno. E se malgrado ciò
persevererai in questa scelleratezza, ti vedrai mancare d’un colpo marito
e figli». Tutto si compì per filo e per punto. Non tardò molto che essi
morirono; e fu il segno che suggellava un pentimento troppo tardivo di
quella disgraziata». Il passo è di enorme importanza per diversi aspetti: il
primo, quello che riguarda la scelta di Eustochio. Qui Gerolamo allude
proprio al fatto che fosse stato un desiderio della madre Paola, e non soltanto una decisa vocazione della giovane. Questo è l’unico punto, a mia
conoscenza, in cui viene messo così in evidenza il ruolo preponderante
di Paola nella scelta di Eustochio, che quindi certamente subì l’influenza
della madre più di quanto noi siamo in grado di immaginare. Il secondo
punto importante riguarda la citazione di Pretestata: moglie di Imezio,
come ho già avuto occasione di sottolineare, si pensa che sia stata una
parente di Vezio Agorio Pretestato. Suo marito Imezio sarebbe da identificare con Giulio Pesto Imezio, vicarius urbis sotto i consoli Mamertino
e Nevitta, nel 362. Gerolamo scrive la lettera nel 400-401: è evidente
che la polemica politica contro Vettio Agorio Pretestato non si è ancora
fermata, data la menzione di Pretestata, parente di Paola, che cerca di
ostacolare la volontà di Eustochio e il desiderio di Paola.
Capitolo IV
Caratteri di un’intellettuale cristiana
IV.1. L’ingenium di Paola
«[...] Mi rispose, parlando in greco, che non provava nessun dolore, ma
che dentro di sé vedeva tutto calmo e tranquillo» [108,28]1.
«Non vi fu mai niente più docile del suo ingegno. A parlare era tarda,
veloce ad udire, memore di quel precetto della Scrittura: “Ascolta Israele
e taci”» [108,26].
La questione della cultura, anche femminile, all’interno del cristianesimo, è questione molto dibattuta. Nelle opere dei Padri della Chiesa spesso si può constatare l’importanza della lettura e dell’esegesi dei testi sacri
e dei testi sui quali si basa l’insegnamento ascetico: questi sono i testi su
cui si devono appoggiare gli adepti, uomini e donne, del santo proposito
cristiano (espressione ricorrente nelle lettere di Gerolamo a Paola e in
altre lettere). La nuova religione porta anche questa novità: non si tratta
Hier., Ep., 108,28: cum que a me interrogaretur, cur taceret, cur nollet respondere inclamanti, an doleret aliquid, graeco sermone respondit nihil se habere molestiae, sed omnia
quieta et tranquilla perspicere.
1
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più, come nel caso della religione tradizionale pagana, di una semplice
ritualità; il cristianesimo ha, come sua caratteristica essenziale, un contenuto storico e intellettuale. Bisogna quindi cominciare a conoscere Dio,
la storia dell’uomo, di Israele, di Cristo, della Chiesa; ancora, bisogna
conoscere e studiare la storia di Roma, il pensiero dei grandi storici. Un
ulteriore tratto esemplare a cui possiamo fare appartenere Paola, intesa
anche ma non solo come esempio di vedovanza, è proprio l’aspetto legato alla cultura. Gerolamo non manca di sottolineare la sua intelligenza e
la tendenza all’apprendimento. È stato brillantemente notato [Mazzucco
1989] come sia una caratteristica comune di tutta la biografia il mettere
in risalto queste capacità per la donna oggetto dell’elogio, ma come ciò
assuma in campo cristiano un significato eccezionale: sul piano letterario, si tratta infatti di un recupero della funzione del sapere per la donna,
in opposizione alla considerazione classica, tradizionale, che vede il ruolo
femminile come delineato da diverse caratteristiche negative e da almeno una responsabilità, cioè la corruzione dei costumi, da Sempronia in
avanti [Mazzucco 1989, Cenerini 2009]. La cultura e la vivacità intellettuale delle donne a cui e di cui scrive Gerolamo sono spesso elogiate
dallo stesso. Blesilla, la figlia di Paola, è bilingue e parla a quanto pare
senza inflessioni il greco e il latino: «Al sentirla parlare in greco, avresti
giurato che non sapeva il latino; se poi la conversazione si svolgeva nella
parlata di Roma, non vi sentivi il minimo accento forestiero. Dico di più:
non in pochi mesi, ma in pochi giorni aveva superato le difficoltà dell’ebraico (il grande Origene non è ammirato da tutta la Grecia proprio
per questo fatto?), tanto da gareggiare con sua madre nello studio e nel
canto dei Salmi» [Ep., 39,1]2. Blesilla fu cresciuta da Paola, che la formò
attraverso il suo insegnamento (a quel che leggiamo nella lettera 107,5):
dotata di uno spirito penetrante, di una grande memoria, parlando bene
sia il greco che il latino (come abbiamo letto nel passo della lettera 39)
si caratterizza anch’essa come figura femminile essenziale per Gerola-
Hier., Ep., 39,1: quis sine singultibus transeat orandi instantiam, nitorem linguae, memoriae tenacitatem, acumen ingenii? si graece audisses loquentem, latine eam nescire iurasses; si
in romanum sonum lingua se uerterat, nihil omnino peregrinus sermo redolebat.
2
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capitolo IV. caratteri di un’intellettuale cristiana
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mo. Il ritirarsi dallo studio del greco era un argomento sensibile per il
mondo romano del IV secolo, tranne per le famiglie aristocratiche del
IV secolo di Roma, di cui ovviamente Blesilla faceva parte. Essa continua quindi l’apprendimento dei classici, seguendo i precetti quintilianei.
In uguale modo la nipote di Paola, Paola iunior, deve studiare le lingue
greca e latina. Paola iunior, come si è già accennato, viene educata dallo
stesso Gerolamo, che stabilisce un vero e proprio programma per lei:
«Mi ero prefisso, dietro invito e per le preghiere della santa Marcella e
tue, di rivolgere quattro parole ad una madre, e cioè a te, per insegnarti il metodo con cui dovresti educare la nostra piccola Paola - questa
bambina che è stata consacrata a Cristo prima ancora di nascere, e che
prima ancora di concepirla in seno l’avevi posseduta nei tuoi desideri».
Paola iunior era stata votata alla verginità dalla madre Laeta, moglie di
Tossozio iunior. Questa pratica di votare i bambini a Dio prima ancora
che nascessero e che era ispirata dalla Bibbia (vedi l’esempio di Samuele)
durò in Occidente fin sotto Celestino III (1191-1198). Le obiezioni che
si facevano contro di essa erano parecchie già al tempo di San Gerolamo, e quindi Gerolamo e Paola furono anche additati come responsabili
di avere traviato pure Laeta e la piccola Paola [Labourt 1951]. Ogni
giorno, ci dice ancora Gerolamo, Paola deve recitare un determinato
brano della Scrittura, deve imparare la metrica greca, e subito dopo le
si dovrebbe insegnare il latino, perché «se non ci si allena fin dall’inizio,
quando la sua bocca è ancora modellabile, la lingua si deforma in una
fonetica esotica e l’idioma materno si inquina di flessioni straniere». Alla
preghiera Paola iunior e - è lecito pensarlo -, come lei Paola, Eustochio
e tutte le vergini del monastero, dovrà fare seguire la lettura, alla lettura
la preghiera. Il tempo, in questo modo, le sembrerà passare in un batter
d’occhio, dato che sarà occupata in numerose e varie attività.
Paola, Eustochio, Marcella, Fabiola non sono certo da meno e lo zelo
di tutte loro si spinge fino allo studio dell’ebraico e a un approccio che
potremmo definire quasi scientifico e filologico alle Sacre Scritture. Nella prima lettera all’amica Paola, la 30, Gerolamo spiega il Significato etimologico e mistico delle lettere dell’alfabeto ebraico. Queste le espressioni più significative riguardo all’ingenium di Paola, tese a sottolineare
90
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la sua intelligenza: «Con la tua meticolosa diligenza, mi hai domandato
che cosa stanno a significare le lettere ebraiche che si trovano inserite
nel Salmo che leggevamo»; «Hai pure insistito perché ti dessi il significato di ognuna di esse. So di avertelo spiegato. Ma questa lingua è così
esotica che la memoria non può ritenere quanto ho esposto»; «Desideri perciò che te ne faccia un breve schema; così, in qualche eventuale
incertezza, puoi rifarti della dimenticanza leggendotelo. È ora di esaudire la tua richiesta» [30,1-3]. E ancora, a guisa di dialogo tra persone di
pari cultura: «Riterresti possibile mettersi a leggere e collegare assieme le
parole di questa mia lettera, se prima non si conosce l’alfabeto?» [30,4].
L’interpretazione fornita da Gerolamo dell’alfabeto ebraico non ha alcuna esattezza filologica per quanto riguarda le etimologie proposte, dato
che, per gli antichi, le lettere dell’alfabeto, come pure le cifre, avevano
un significato morale e mistico. È evidente che Gerolamo utilizza la sua
epistola per evidenziare in primo luogo quanto Paola e le vedove del suo
circolo fossero interessate all’apprendimento [«Saluta il gruppo delle vergini non nominate e la chiesa che è in casa tua; da’ una copia di questa
lettera - se desidera averla - alla nostra Marcella, avida dei nostri lavori»,
30, 14], sia propagandare il suo messaggio cristiano che viene accennato
alla fine della lettera, a 30,13 [«Gli altri, si tengano pure le loro ricchezze,
bevano in calici preziosi, risplendano in abiti di seta, godano del favore
popolare, e - anche sperimentando ogni sorta di piacere - non diano pur
fondo alle proprie sostanze! La gioia nostra sta nel meditare giorno e
notte la legge del Signore, bussare a porte che non sono ancora aperte»],
con un veloce accenno anche alla tematica della verginità, come abbiamo già notato [30,14]. L’intelligenza e la cultura si manifestano quindi
attraverso la conoscenza dell’ebraico, unita a quella delle Sacre Scritture,
del latino e del greco [Neri 2014]. Il termine “ingenium”, inteso come
capacità di apprendimento, viene richiamato piuttosto spesso sia relativamente a Paola sia per le altre vedove: è quindi fuori discussione che
le doti intellettuali dell’amica e il suo amore per lo studio non fossero
almeno in parte reali [Turcan 1968]; la capacità di apprendimento di
Paola dovrebbe essere esempio per tutte le donne cristiane. La novità
rappresentata da Paola sta nel contrapporsi all’ideale femminile classi-
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capitolo IV. caratteri di un’intellettuale cristiana
91
co, che non prevedeva un’autonomia culturale elevata per la donna, ma
anzi, giudicava la cultura e l’insegnamento alle donne responsabili per la
corruzione dei costumi femminili. È però lecito mantenere un dubbio
relativamente alla cultura femminile e non solo. È interessante che Gerolamo, in un progetto di creazione di un modello, metta sul suo stesso
piano culturale Paola e altre donne, ma nella realtà questo può sembrare
piuttosto improbabile. Gerolamo stesso richiama come esempio staordinario di bilinguismo, non frequente nell’epoca, Pretestato. Se Pretestato
è così esaltato per questa sua caratteristica, dobbiamo forse ritenere che
il bilinguismo non fosse così frequente al tempo di Gerolamo [Neri
2014].Va inoltre sottolineato come i frequenti accenni alla cultura di
Paola e alla sua memoria, alla sua avidità di sapere, siano sempre relegati
all’ambito ristretto dei testi religiosi o legati alla religione. Nella casa di
Paola prima, e in seguito nel monastero, le vedove si riunivano, anche
in presenza di Gerolamo, solo per letture delle Sacre Scritture, e le lettere che ci sono rimaste ci danno conferma di questo: Paola e Marcella
chiedono, se prestiamo fede alla testimonianza di Gerolamo, che lui dia
loro spiegazioni dei testi biblici e risolva per loro problemi connessi alla
morale cristiana. Tra le lettere a Paola e Marcella, in cui Gerolamo pone
enfasi sulla cultura di entrambe, pare interessante porre rilievo all’attenta differenza che l’autore dà nella caratterizzazione delle due: Marcella
ha la tendenza a discutere relativamente ai significati dei testi, alla loro
interpretazione letterale, pare quasi dotata di un’intelligenza più vivace,
insiste così tanto, che vince tutte le riserve di Gerolamo [127,7], nei
confronti delle Divine Scritture mostra un ardore incredibile [127,4],
Paola invece segue di più alla lettera gli insegnamenti di Gerolamo
[108,26]3. Ancora, Paola è definita discepola, Marcella maestra: «Della
sua amicizia (cioè dell’amicizia di Marcella) godette la venerabile Paola
Hier., Ep., 108,26: il paragrafo 26 dell’epitaffio è quasi interamente dedicato all’ingenium di Paola. Vedi, per esempio, scripturas tenebat memoriter et, cum amaret historiam
et illud ueritatis diceret fundamentum, magis sequebatur intellegentiam spiritalem et hoc culmine aedificationem animae protegebat … sicubi haesitabam et nescire me ingenue confitebar,
nequaquam mihi uolebat adquiescere, sed iugi interrogatione cogebat, ut e multis ualidis que
sententiis, quae mihi uideretur probabilior, indicarem.
3
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[...] è facile valutare le qualità della maestra, quando tali sono le discepole» [127,5]4. Paola è lenta a prendere la parola, sempre disponibile ad
ascoltare, pare dotata di una curiosità meno audace, forse più adatta ad
un interessamento spirituale invece che ad uno intellettuale. Nonostante
queste caratteristiche, talvolta Paola si mostra dotata di acuta malizia,
soprattutto nel riconoscere l’eresia anche quando essa non è dichiarata:
nell’Epistola 108, a 23-25, infatti, Gerolamo ricorda, in forma di elogio
e ammirazione, un episodio in cui Paola si oppone alle teorie dell’origenismo: «Racconterò dunque con brevità come essa si tenne lontana
dai fangosi laghi degli eretici e li giudicò quali pagani. Un tale, furbo
e esperto nell’ingannare gli altri, dotto e saputello come esso si stimava
non sapendone cosa alcuna, cominciò a proporre a lei alcune questioni
e a dirle: “In che cosa ha peccato un bambino per cui debba essere preso
dal demonio? In quale età dobbiamo noi risorgere? Se in quella in cui
moriamo, dunque dopo la risurrezione vi sarà bisogno di balie. Se in età
diversa questa sarà non risurrezione dei morti ma cambiamento in altre
persone” [...]. Con tutti questi discorsi cercava di provare che le creature
razionali venivano ad unirsi ai corpi per certi vizi e antichi peccati e,
secondo la diversità dei meriti e dei peccati, erano generate con questa
o quella condizione, in modo che o godevano esse la sanità dei corpi
e le ricchezze e la nobiltà dei genitori, ovvero unendosi a carni infette
e collocate in casa di poveri, pagavano le pene degli antichi delitti ed
erano rinchiuse in questo mondo e nei corpi come in una prigione.
Ciò avendo inteso la pia donna e avendolo a me raccontato mi disse
anche chi era colui che così parlava [...]. Da quel giorno in poi cominciò
Paola a biasimare quell’uomo e tutti gli altri che seguivano la medesima
dottrina, in modo che pubblicamente li chiamava nemici del Signore. Io
ho detto queste cose non per confutare brevemente l’eresia a cui si deve
rispondere con molti volumi, ma per far conoscere la fede di così grande
donna, la quale volle essere piuttosto perpetuamente nemica di questi
Hier., Ep., 127,5: huius amicitiis fruita est paula uenerabilis, in huius nutrita cubiculo
eustochium, uirginitatis decus, ut facilis aestimatio sit, qualis magistra, ubi tales discipulae.
4
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capitolo IV. caratteri di un’intellettuale cristiana
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uomini piuttosto che con cattive amicizie provocare offesa a Dio»5.
Da evidenziare, a mio avviso, in questo passo, sono due elementi: il primo è un richiamo all’Epistola 127, al paragrafo 9, scritta a Marcella, in
cui Gerolamo ricorda un episodio simile anche riguardo all’amica di
Paola; Marcella si rende conto della ventata di origenismo che investe
Roma, anche in seguito alla traduzione del Perì Archôn (De Principiis)
di Origene da parte di Rufino, e sollecita l’intervento del Papa. Le due
donne, quindi, maestra e discepola, erano interessate, o Gerolamo intendeva farle passare come interessate, a questa problematica. Il secondo è il
commento finale di Gerolamo, a chiusura del passo che richiama la fede
e l’ingegno ma anche per mandare, con un artificio retorico, un messaggio forte contro gli eretici. Dice ancora Gerolamo di Paola, che non
vi fu mai niente di più docile del suo ingegno e del suo spirito [108,26]:
è probabile che quest’essere più docile di Paola e più incline a imparare
a memoria e a citare esempi biblici [108,26], nonché il fatto di essere dotata di una ferrea autodisciplina, contribuisca alla creazione di lei
come modello ideale di vedova aristocratica cristiana. Nell’elogio funebre che Gerolamo invia a Eustochio, riguardante la sua madre Paola, il
Santo loda anche questa santissima donna per avere, insieme alla figlia,
coltivato a tal punto lo studio delle Scritture, da conoscerle a fondo e
ricordarle a memoria. Ed aggiunge ancora, riferendosi a mio parere alla
lettera 30: «Rileverò questo dettaglio, che sembrerà forse incredibile ai
suoi emuli: ella volle imparare l’ebraico, che io stesso in parte studiai fin
dalla mia giovinezza al prezzo di molte fatiche e di molti sudori, e che
continuo ad approfondire con incessante lavoro per non dimenticarlo;
ella arrivò ad avere una tale padronanza di questa lingua, da cantare i
salmi in ebraico e da parlarlo senza il minimo accento latino. E questo si ripete ancora oggi nella sua santa figlia Eustochio» [108,26]. È
altrettanto vero che Gerolamo non tralascia di ricordare mai anche santa
Marcella, ugualmente versata nella scienza delle Scritture (come si è già
Hier., Ep., 108, 23: tangam ergo breuiter, quomodo hereticorum caenosos deuitauerit
lacus et eos instar habuerit ethnicorum … 108,25: et haec dixi, non ut breuiter heresim confutarem, cui multis uoluminibus respondendum est, sed ut fidem tantae feminae ostenderem.
5
94
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accennato, nell’epistola 127,7). A mio parere personale, era stata Marcella, tra le due donne, ad essere quella più acculturata: dovendo Paola
fungere da modello anche culturale, Gerolamo però non può slegare il
discorso da Marcella, che probabilmente insieme a lui aveva contribuito
ad elevare il livello culturale di Paola.
Paola spesso ci viene descritta anche attraverso una sorta di intelligenza
e curiosità per così dire emozionali, cioè attraverso la descrizione delle
sue emozioni (e attraverso quelle che di conseguenza suscita in Gerolamo). Questo avviene soprattutto durante il suo pellegrinaggio in terra
santa: Paola dimostra zelo nel vedere con i propri occhi ciò che ha letto
nelle Scritture, e cerca e ricerca i passi letti nella Bibbia [lettera 46,13].
Gerolamo condivide la sua stessa curiosità, e arriva a parlare addirittura
di fidei oculis, cioè degli occhi della fede di Paola: Paola è talmente piena dello spirito cristiano che questo emana dai suoi occhi [108,9-10].
Appare chiaro che Paola (come del resto Marcella, e Eustochio) rende
con il suo carattere e le sue scelte il paragone con le altre donne sue
contemporanee sbilanciato: molto convincente appare la definizione di
uno studioso geronimiano, Laurence, che definisce le altre donne delle «vaghe silhouettes» [Laurence 1997, 405]. In tutti i casi, da questo
momento in poi dobbiamo cominciare a pensare che le vedove delle
grandi casate abbiano assunto caratteristiche intellettuali legate a quella
che da noi moderni potrebbe sembrare un’attivazione di emancipazione femminile. Gerolamo ci testimonia la novità di un’esistenza di un
pubblico femminile di lettrici e non è un caso che dedichi a Paola e alla
figlia Eustochio, nel 386, le Lettere a San Paolo, e alla sola Paola, il suo
Commentario su Ezechiele «spesso a lei promesso»6. Per la formazione
culturale di Eustochio, Gerolamo le raccomanda uno studio incessante:
«leggi piuttosto assiduamente, apprendi il più possibile, il sonno ti sor-
Hier., in Ezechielem [CPL 0587], Prol.: finitis in esaia decem et octo explanationum
uoluminibus, ad hiezechiel, quod tibi et sanctae memoriae matri tuae paulae, o uirgo christi
eustochium, saepe pollicitus sum, transire cupiebam et extremam, ut dicitur, manum operi
imponere prophetali, et ecce mihi subito mors pammachii atque marcellae, romanae urbis
obsidio, multorum que fratrum et sororum dormitio nuntiata est.
6
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prenda con un libro in mano, e che la pagina sacra riceva il tuo capo
caduto per la fatica» [Ep., 22,17,2; e anche 22,29,2]. Armato da uno
spirito di pietà e di umiltà, Gerolamo invita allo studio costante della
Bibbia in diverse sue opere. Dapprima raccomanda instancabilmente a
tutti la lettura quotidiana della parola divina: «Liberiamo il nostro corpo
dal peccato, e l’anima nostra si aprirà alla saggezza; coltiviamo la nostra
intelligenza con la lettura dei Libri Santi, e la nostra anima vi trovi ogni
giorno il suo nutrimento» [In Tit., 3,9]. Anche altrove Gerolamo insiste su questo aspetto, per esempio nel suo commento all’Epistola agli
Efesini egli scrive: «Pertanto, noi dobbiamo con tutto l’ardore leggere
le Scritture, e meditare giorno e notte la legge del Signore; potremo
così, come abili cambiavalute, distinguere le monete buone da quelle
false» [Ad Eph., 4, 31]. Egli non esclude da questo obbligo comune le
matrone e le vergini. Alla matrona romana Laeta dà, fra gli altri, questi
consigli sull’educazione della figlia, Paola iunior, non solo nella lettera a
lei dedicata: «Assicurati che ella studi ogni giorno qualche passo della
Scrittura... Che invece dei gioielli e delle sete ami i Libri divini... Ella
dovrà dapprima imparare il Salterio, distrarsi con questi canti e attingere
una regola di vita dai Proverbi di Salomone. L’Ecclesiaste le insegnerà
a calpestare, sotto i piedi, i beni di questo mondo; Giobbe le darà un
modello di forza e di pazienza. Passerà poi ai Vangeli, che dovrà avere
sempre fra le mani. Dovrà assimilare avidamente gli Atti degli Apostoli
e le Epistole. Dopo avere arricchito di questi tesori il mistico scrigno
della sua anima, imparerà a memoria i Profeti, l’Eptateuco, i libri dei Re
e dei Paralipomeni, i volumi di Esdra e di Ester, per finire senza pericolo
col Cantico dei Cantici» [107,9,12].
IV.2. La cultura e le “donnette”
Dice Gerolamo a Eustochio: «Se tu non comprendi o hai dei dubbi su
qualche passo della Scrittura, interroga un uomo che si raccomandi per
la probità dei costumi, per la maturità degli anni e la buona fama di
96
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cui gode» [22,29]7. Qui Gerolamo, parlando a Eustochio, la invita allo
studio e alla comprensione delle scritture e, nello stesso tempo, sembra
polemizzare contro quei “falsi monaci” che si avvicinavano alle matrone
solo «per entrare nelle loro stanze» [22,28]8. Gerolamo, implicitamente,
si discosta da questi, in quanto si manifesta come istruttore, spirituale e
culturale, di Eustochio, così come lo è stato per Paola e così come lo sarà
per Paola iunior. Ma, ancora, il problema del livello della cultura di queste donne non è facilmente comprensibile. Eustochio non è abbastanza
colta da comprendere da sola ciò che legge? La madre, Paola, non l’aveva
istruita abbastanza? In diversi passi delle lettere, o altrove, troviamo cenni che talvolta ci fanno dubitare della cultura di Paola e della figlia, ma
altre volte, sulla base di ciò che ci viene consegnato dallo stesso Gerolamo, non capiamo esattamente quale fosse il grado di cultura delle due.
Degni di menzione a questo proposito sono le dediche o i passi in alcuni
Commenti di Gerolamo. Gerolamo compone il commento al libro di
Isaia tra il 408 e il 410 d.C. Pensato per un uditorio aristocratico e colto,
in particolare costituito forse proprio dal gruppo di donne cristiane di
alto lignaggio e di vita virtuosa conosciute nel suo soggiorno romano,
poi per le monache del monastero, lo scritto si presenta diviso in diciotto
libri: ogni libro espone, dopo il prologo, la spiegazione sistematica del
testo profetico, alternando l’esegesi letterale a quella spirituale. Il libro di
Isaia è dedicato ad Eustochio, ma ad 1,1 così si esprime: «[...] tu, Eustochio, vergine di Cristo, mi spingi a passare ad Isaia e rendere a te quello
che promisi alla tua santa madre Paola mentre era ancora in vita. Sebbene
io ricordi di avere fatto la stessa promessa anche al tuo dottissimo fratello
Pammachio, pur amandovi entrambi allo stesso modo, sei tu ad avere
la precedenza, perché mi sei vicina [...]. Io perciò, con il sostegno delle
tue preghiere, di te che giorno e notte mediti la legge di Dio e sei un
Hier., Ep., 22,29: si quid ignoras, si quid de scripturis dubitas, interroga eum, quem uita
commendat, excusat aetas, fama non reprobat, qui possit dicere: desponsaui enim uos uni uiro,
uirginem castam exhibere christo.
7
Hier., Ep., 22,28: sunt alii - de mei ordinis hominibus loquor -, qui ideo ad presbyterium
et diaconatum ambiunt, ut mulieres licentius uideant.
8
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tempio dello Spirito Santo [...] commenterò Isaia»9. Interessanti sono a
parere mio gli spunti che troviamo in questo breve prologo. Anzitutto la
conferma del lavoro incessante di Eustochio, a Betlemme, quindi vicino
a Gerolamo, ancora dopo la morte di Paola; inoltre, nonostante il libro
sia dedicato a Eustochio, che sostiene con le sue preghiere Gerolamo, il
richiamo a Paola, ormai morta, sembra essere ancora molto forte per il
Santo, che non può fare a meno di menzionarla. Paola in questo passo
appare come destinataria ideale dell’opera, ma, per ragioni ovvie, non
essendoci più, Gerolamo tramanda alla figlia questo onore, quale erede
ideale. Se Eustochio dopo, e Paola prima, erano però così attente alle
Sacre Scritture, questo fa pensare che la loro cultura non fosse così lieve
come talvolta può apparire dalle lettere. Vero è che la menzione delle
richieste di Paola e Eustochio potrebbe anche essere considerata un artificio retorico del Santo. Ma non va trascurato a mio avviso che, anche al
di fuori dell’Epistolario, Gerolamo citi Paola e la sua famiglia, dato che
in pochissime righe si parla di lei, della vergine Eustochio e perfino di
Pammachio, marito di Paolina. Indubbiamente il legame, anche culturale, di Paola e Gerolamo era intensificato da una qualità di Paola, cioè la
sua disponibilità ad ascoltare gli insegnamenti del maestro e di riuscire
a riversarli nel quotidiano. Paola riesce a rovesciare, ai suoi tempi, l’immagine classica della donna superficiale e, per noi moderni, riesce invece
ad abbattere quel giudizio di misoginia tante volte speso per Gerolamo10,
forse nato dalle sue frequenti espressioni, anche nelle lettere, con cui
chiama le donne mulierculae, cioè il dispregiativo donnette, o appartenenti al fragilior sexus. La scelta di Gerolamo di chiamare “donnette” le
matrone pagane dedite al lusso e ad altri vizi non deve essere casuale, il
Hier., In Isaiam 1,1: expletis longo uix tempore in duodecim prophetas uiginti explanationum libris et in danielem commentariis, cogis me, uirgo christi eustochium, transire ad
esaiam; et quod sanctae matri tuae paulae, dum uiueret, pollicitus sum, tibi reddere. quod
quidem et eruditissimo uiro fratri tuo pammachio promisisse me memini; cum que in affectu
par sis, uincis praesentia… unde orationum tuarum fultus auxilio, quae diebus ac noctibus in
dei lege meditaris et templum es spiritus sancti.
9
Non è questa la sede per approfondire la questione della presunta misoginia geronimiana: per l’ampia bibliografia Brown 2008 e Cain-Lössl 2009.
10
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termine deve servire per richiamare alla mente dei cristiani una aperta e
vigorosa polemica: alcuni scrittori pagani del II secolo, uno per tutti il
filosofo Celso, infatti, per denigrare la qualità della religione cristiana,
malignamente avevano affermato che essa reclutava i suoi adepti soprattutto tra le “donnette ricche”. Ancora, il filosofo Porfirio, nella seconda
metà del III secolo, nel suo trattato contro i cristiani ironizzava sul fatto
che molte “donnette ricche” erano state una preda facile e redditizia per
i missionari cristiani [Mazzucco 1989]11. Dall’epistolario di Gerolamo,
l’utilizzo del termine “donnette” sembra essere da cornice anche a un
certo tono, quasi sempre dispregiativo, nei confronti delle donne che
non appartengono al circolo di Paola e Marcella.
In effetti l’immagine che ne esce non è certo di quella di un adulatore delle donne, soprattutto quelle ricche, opulenti, che formavano l’alta
società romana del IV secolo d.C. Anche nelle opere più tarde, quelle
che seguono per intenderci la morte di Paola, la terminologia non cambia, e Gerolamo continua a fustigare l’orgoglio, l’avarizia e l’impudicizia
di queste donne frivole, di cui nelle lettere abbiamo un quadro molto
dettagliato. Nella lettera 22, 13, a Eustochio, Gerolamo condanna, come
già abbiamo avuto modo di leggere, la falsa vergine, vedova prima di
essere sposata: la chiusa del paragrafo è piuttosto decisa: «Trovino pure
adulatori della stessa genìa, e sotto il nome di vergini si prostituiscano a
più alto prezzo! Noi siamo ben lieti di non essere nelle grazie di siffatta
gente!». Gerolamo è consapevole che parlare di donne, e donnette, può
suscitare qualche perplessità (Ho vergogna di aggiungere il resto, perché
non si dica che faccio della satira, invece di dare utili ammonimenti),
quindi, ad esempio nella lettera accenna a questo fatto, quasi scusandosi: «Non vorrei aver l’aria di discorrere solo di donne. Fuggì anche gli
uomini che vedrai coperti di catene, con i capelli lunghi come le donne
la barba da caproni, il mantello nero, e i piedi nudi per soffrire il freddo.
Tutte queste stravaganze sono manifestazioni del demonio. Per tipi del
genere Roma ha pianto amaramente: tempo fa per Antimo, recentemen-
11
Porfirio, Fr. 4 Harnack [Hier., Tract. Ps. 81, CCL 78, 89, 231-232].
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99
te per Sofronio. Costoro entrano nelle case dei nobili, seducono le donnicciuole cariche di peccati, che stanno sempre ad imparare senza mai
poter giungere alla conoscenza della verità; simulano austerità e fingono
lunghi digiuni, che possono ben tirare alla lunga, dato che mangiano
furtivamente di notte»12. Gerolamo, accennando alla figlia di Paola di
guardarsi anche da certi uomini, non riesce però di fare a meno di sottolineare quanto le prede di questi siano, ancora una volta, le donnette.
Possiamo certamente constatare che le donne hanno avuto fin dall’inizio del cristianesimo una presenza nella cultura del nuovo credo di
tipo scolastico e intellettuale, e, come nel caso specifico di Paola, sono
diventate allieve e collaboratrici di grandi maestri. Nel suo Contro Rufino Gerolamo ci riporta una testimonianza di Eusebio: un discepolo di
Origene, Panfilo, che aveva tenuto, verso la fine del III secolo, una scuola
teologica a Cesarea in Palestina, affidava copie della Scrittura, che allestiva a questo scopo, non solo agli uomini, ma anche alle donne che
vedeva dedite alla lettura, perché le leggessero e le tenessero con loro13.
Ancora, a proposito di Origene, secondo una notizia che ci è pervenuta
da Eusebio, proprio per evitare sospetti su rapporti promiscui maestroallieve, il filosofo-teologo si sarebbe evirato14. Le due testimonianze, che
non sono isolate, ci rendono prova quindi di un fenomeno altamente
in espansione, che è quello della partecipazione delle donne cristiane
alla vita culturale. L’intelligenza e la capacità di apprendimento di Paola si manifestano attraverso tre temi topici; la Sacra Scrittura imparata
a memoria, la conoscenza dell’ebraico, la padronanza del latino e del
greco: «Conoscendo essa a memoria le divine Scritture, sebbene amasse
la storia, che da lei era chiamata fondamento della verità, pure assai più
Hier., Ep., 22,28: sed ne tantum uidear disputare de feminis, uiros quoque fuge, quos
uideris catenatos, quibus feminei contra apostolum crines, hircorum barba, nigrum pallium et
nudi in patientiam frigoris pedes [...] qui postquam nobilium introierint domos et deceperint
mulierculas oneratas peccatis, semper discentes et numquam ad scientiam ueritatis peruenientes, tristitiam simulant et quasi longa ieiunia furtiuis noctium cibis protrahunt; pudet reliqua
dicere, ne uidear inuehi potius quam monere.
12
13
Contra Ruf., I, 9, CCL 79, p. 8, 15-19.
14
Eus.,HE, VI, 8,2, GCS 9, p. 534, 20-22 [anche Mazzucco 1989, 12].
100
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seguiva il senso spirituale e con questo tetto copriva l’edificio dell’anima.
Finalmente, attendendo essa insieme con la figlia alla lettura dell’Antico
e del Nuovo Testamento, mi costrinse a farne loro esposizione. Il che io
per modestia ricusando di fare, nondimeno per le sue continue richieste,
presi ad insegnare loro ciò che io avevo imparato [...]. Se in qualche passo
io restavo sospeso e sinceramente confessavo di non comprenderlo, non
voleva a nessun costo concedermi tale affermazione, ma con le continue
domande mi sforzava a dire quale tra i molti e vari sensi mi sembrasse il
più probabile. Racconterò ancora un’altra cosa che forse agli emuli miei
sembrerà incredibile. Essa volle imparare la lingua ebraica, la quale io
da giovinetto in parte appresi con molta fatica e con gran sudore, e con infaticabile esercizio non l’abbandono per non essere da lei abbandonato.
E in tal modo la imparò che cantava salmi in ebraico e parlava in questa lingua con tanta proprietà di pronuncia senza la minima inflessione latina» [108,26]15. Una caratteristica che si delinea da questa descrizione
di Paola è quella del suo bilinguismo (che ha trasmesso, come abbiamo
potute già sottolineare, anche alla figlia Blesilla): questo poteva sicuramente caratterizzare la consuetudine per una donna appartenente ad una
grande casata romana, ma è un tratto a mio avviso indicativo anche del
fatto che questa presenza femminile in ambito cristiano fosse qualificato
soprattutto da caratteristiche intellettuali. Sono queste che propriamente
infatti vengono a costituire un elemento di estrema novità rispetto al
modello classico passato e sono queste che spesso esalta Gerolamo per
Paola: non deve quindi stupire l’eccezionalità del rapporto tra Gerolamo
e Paola, visto come un rapporto di scambio intellettuale, ma non deve
stupire altresì l’abitudine alle maldicenze degli avversari pagani di Gero Hier., Ep., 108,26: scripturas tenebat memoriter et, cum amaret historiam et illud ueritatis diceret fundamentum, magis sequebatur intellegentiam spiritalem et hoc culmine aedificationem animae protegebat. sicubi haesitabam et nescire me ingenue confitebar, nequaquam
mihi uolebat adquiescere, sed iugi interrogatione cogebat, ut e multis ualidis que sententiis,
quae mihi uideretur probabilior, indicarem. loquar et aliud, quod forsitan aemulis uideatur
incredulum: hebraeam linguam, quam ego ab adulescentia multo labore ac sudore ex parte
didici et infatigabili meditatione non desero, ne ipse ab ea deserar, discere uoluit et consecuta
est ita, ut psalmos hebraeice caneret et sermonem absque ulla latinae linguae proprietate
resonaret.
15
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capitolo IV. caratteri di un’intellettuale cristiana
101
lamo. Da un’analisi più approfondita, appare però chiaro che Paola e
Eustochio rappresentino comunque, tra le corrispondenti di Gerolamo,
le meno intellettuali, e, alla lettura più dettagliata delle opere di Gerolamo, si può pensare di dubitare delle lodi di queste doti culturali di Paola.
Il fatto che esistessero, è noto, delle aristocratiche colte, come Proba per
esempio, poetessa autrice di un centone cristiano oggetto degli strali di
Gerolamo, o come la pellegrina Egeria, non significa certo che tutte le
aristocratiche fossero estremamente colte.
IV.3. La lettera 46: Paola e Eustochio a Marcella
Il dubbio, relativo alla cultura di Paola (e di Eustochio), sorge alla luce
della presenza, all’interno dell’epistolario di Gerolamo, di una lettera, la
46, che è pervenuta come scritta dalle due a Marcella. Legittimo è chiedersi quanto fosse approfondita la cultura di Paola e Eustochio, dato che,
a titolo di esempio, possediamo una dedica di Gerolamo a entrambe della traduzione di parte delle omelie di Origene su Luca. In quest’ultima,
Gerolamo promette di terminare, appena gli sarà possibile, il lavoro:
«Allora potrete vedere, anzi, per vostro tramite, la lingua latina apprenderà quanto di buono finora ignorava e da ora comincerà a conoscere».
Dalla lettura, si evince, se l’interpretazione è corretta, che le due donne
avessero bisogno di una traduzione latina, in quanto non in grado di
leggere l’originale testo greco di Origene [Consolino 1986]16: è lecito
quindi pensare a un livello non elevato di cultura relativamente a Paola e
alla figlia. Per quanto riguardo la lettera 46, le domande che le due donne pongono a Gerolamo non sembrano essere così complicate da giustificare una cultura tanto approfondita: sarebbe comunque eccessivo
negare che Paola non avesse avuto un ruolo culturale di un certo rilievo.
Quest’epistola, tra l’altro, costituisce un unicum: se davvero è stata scritta
da Paola e Eustochio, e non da Gerolamo, è l’unica testimonianza scrit-
16
Vedi la traduzione di Gerolamo, Origenis in Evang. Lucae, PL 26, 220 A.
102
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ta, in forma epistolare, che ci rimane di Paola, dato che non possediamo,
come già notato, nessuna delle sue lettere inviate a Gerolamo. Un anonimo del VI secolo, pubblicato nell’edizione Feder, attribuisce la redazione di questa lettera a Gerolamo. Di questo parere anche Consolino.
Di fatto il IV secolo ci dà testimonianza di numerose opere epistolari
scritte da donne; alcune lettere, di cui siamo a conoscenza, non ci sono
pervenute; la lettera 46 si configura quindi come un caso molto raro. È
l’unica testimonianza scritta di Paola, se ne accettiamo la paternità. Paola, con la figlia Eustochio, è a Betlemme, e ha già compiuto il suo pellegrinaggio in Terra Santa. Propone, insieme alla figlia, all’amica Marcella, a Roma, di fare altrettanto. Paola dedica gran parte di questa lettera
alla descrizione di Gerusalemme, come città degna di essere visitata, e
riserva una piccola parte finale alla descrizione vera e propria del pellegrinaggio, che spera di potere rifare con l’amica Marcella. Come si diceva, la paternità è incerta: desta dubbio, a mio avviso, che non sia stata
conservata nessuna missiva di Paola, nessuna risposta a Gerolamo, e sia
invece a noi pervenuta questa epistola all’interno della raccolta delle lettere di Gerolamo. È presumibile dare ragione a chi crede che questa
lettera sia stata dettata da Gerolamo a Paola e Eustochio, e per questo
motivo sia consegnata a noi all’interno dell’epistolario in questione. È
innegabilmente da trattenere la «spinosità» della problematica [Mazzucco 2006, 36], e la difficoltà di giungere ad una soluzione certa, soprattutto in funzione di alcuni aspetti sottolineati per lo più da coloro che
ritengono Paola la vera autrice dell’epistola [Hinson 1997]. Il punto che
non convince propriamente e induce a pensare ad una falsa attribuzione
a Paola e Eustochio è quello relativo al tono della lettera. Molti sostengono che il carattere idillico e giocoso dell’epistola rispetto a quello
polemico e lamentoso delle altre lettere, che senza esitazione sono da
attribuire a Gerolamo, sia la prova del fatto che l’autrice, o meglio le
autrici, siano la madre Paola e la figlia Eustochio [Kelly 1975; Dronke
1986]. Ancora, altri sostengono i contrasti di argomentazioni e di valutazione del pellegrinaggio tra la lettera 46 e la lettera 58, del 395 [Maraval 1988]. A mio parere, è Gerolamo a tirare le fila di ciò che viene
detto nella lettera, ed è dunque lui a esaltare il valore bucolico di Bet-
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103
lemme; non a caso, è stata sottolineata anche l’ispirazione virgiliana della Lettera e i richiami ad alcuni passi delle Georgiche [De Vogué 1991;
2007]: benché donna di cultura ritengo difficile pensare a Paola così
attenta a scrivere una lettera con richiami letterari tanto eruditi. Ancora,
ulteriore prova a mio parere convincente relativamente alla redazione
geronimiana, è che alcuni temi sembrano coincidere con altri che Gerolamo ha già trattato in una precedente lettera a Marcella, la 43. In questa,
infatti, datata al 385, emerge una invettiva contro quella dissipata vita di
Roma che ha stomacato san Gerolamo, ed è altresì evidente il desiderio
di ritirarsi in luogo solitario per trovare una più continua e profonda
unione con Dio; Betlemme, dalla descrizione che affiora dalla lettera 46,
si configura come una di quelle città che può dare riparo da Roma,
secondo quanto espresso da una lettera precedente: «Mi pare il caso,
dunque, di rifugiarci al più presto in qualche solitario e nascosto angolino di campagna, come in un porto. Lì potremo nutrirci di cibi magari grossolani, ma genuini: pane ordinario, legumi annaffiati con le nostre
mani, latte [...], tutti prodotti campagnoli prelibati. Con un tal genere
di vita il sonno non riuscirà a distoglierci dalla preghiera e la sazietà non
ci farà ostacolo alla lettura. D’estate, sarà l’ombra di un albero ad offrirci
un nascondiglio; d’autunno, lo stesso clima temperato e un tappeto di
foglie ci indicheranno dove riposare; in primavera i campi sono smaltati di fiori: tra il cinguettio degli uccelli…Lascio a Roma i suoi tumulti»
[43,2, a Marcella]. Nei passi della lettera 46 [paragrafi 7-10] che riprendono questa tematica “anti-Roma”, ancora da sottolineare per rivendicare la paternità geronimiana, manca l’allusione ai cibi grossolani, ma i
temi sono gli stessi della lettera 45. Il termine grossolano, o espressioni
simili, erano già state usate da Gerolamo nella sua lettera a Marcella, la
38, quando, in polemica con i parenti di Blesilla, ma anche in polemica
allargata a tutti coloro che denigrano il cristianesimo e alcune di quelle
che dovrebbero essere le scelte di vita, anche ascetica, allude al fatto che
i cibi grossolani non piacciono alle matrone pagane. In questi tratti della lettera 46 [7-10] manca la polemica, ma interessante mi pare la ripresa di Gerolamo riguardo all’impossibilità di vivere a Roma. Inoltre, forse
altro indizio della paternità geronimiana della Lettera 46, Gerolamo
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stesso ci informa riguardo al suo rapporto costante (epistolare) con l’amica Marcella, rapporto intenso nonostante la lontananza: «Durante
questo tempo ci consolavamo della nostra lontananza mantenendo fra
noi un nutrito carteggio: ciò che era impossibile attuare con la presenza
fìsica ce lo procuravamo col pensiero. Era un incontrarsi continuo
mediante la posta; gareggiavamo nelle premure e ci prevenivamo nell’inviarci saluti. Non si perdeva poi molto, dato che si rimaneva uniti con
una lettera dopo l’altra» [127,8]17. Non c’è quindi motivo di ritenere che
non sia lui l’autore o il fautore di questa, ennesima, lettera a, o riguardo
a, Marcella. La lettera 46 contiene inoltre una testimonianza importante
[46,7-10], a prescindere da chi l’abbia scritta, e cioè il fatto che per la
vera fedele fosse necessario vedere con i propri occhi, e riconoscere dal
vivo, ciò che è stato letto nei libri Sacri. Il tema del vedere è un topos di
Gerolamo, soprattutto relativamente a Paola, e si ritroverà anche, in
effetti, nell’epitaffio, costituito dall’intensa lettera 108 [paragrafi 10 e 14
ad esempio]18. La Bibbia diventa il testo da conoscere per poi partire, e
dedicarsi alla forma compiuta di ascesi che è il pellegrinaggio, inteso da
Paola come vero e proprio viaggio, non solo quindi spirituale. Probabilmente proprio grazie a questa descrizione dal vivo i toni della Lettera 46
sono gioiosi: si può forse pensare che Gerolamo, volendo dare una testimonianza dell’intensa esperienza vissuta da Paola, detta la lettera, o la
scrive lui stesso attribuendola all’amica e incita Marcella, ma anche tutte le sue altre lettrici, a condividere l’esperienza del vedere, del toccare
con mano. In questa lettera evidentemente non c’è spazio per la polemica, anche politica, che pervade molte altre epistole e che contribuisce a
denotarle astiose: qui si lascia spazio alle emozioni e alla spiritualità di
Hier., Ep., 127,8 : interim absentiam nostri mutuis solabamur adloquiis et, quod carne
non poteramus, spiritu reddebamus. semper se obuiare epistulae, superare officiis, salutationibus praeuenire. non multum perdebat, quae iugibus sibi litteris iungebatur.
17
Hier., Ep., 108,10 : me audiente iurabat cernere se fidei oculis infantem pannis inuolutum uagientem in praesepe, deum magos adorantes, stellam fulgentem desuper, matrem
uirginem, nutricium sedulum, pastores nocte uenientes, ut uiderent uerbum, quod factum
erat; 108,14: per singulos sanctos christum se uidere credebat et, quidquid in illos contulerat,
contulisse in dominum laetabatur.
18
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo IV. caratteri di un’intellettuale cristiana
105
Paola, emozioni che comunque troviamo anche in altre epistole, talvolta congiunte a toni duri dettati dalla necessità di inviare un determinato
e importante messaggio. Il racconto erudito, pieno di nozioni etimologiche, esegetiche e filologiche può a mio avviso, per scelta autonoma di
Gerolamo, trovare spazio altrove: la mancanza di un certo tipo di erudizione non è a mio avviso vincolante nell’affermazione della paternità
della lettera a Paola. Un ulteriore aspetto sembra convincere, ancora, del
fatto che sia Gerolamo a dettare o scrivere la lettera 46: ai paragrafi 3 e
12, in particolare, Paola e Eustochio, rivolgendosi a quella che è la loro
maestra, con tono ironico scherzano sul modo confuso con cui citano i
passi Biblici a Marcella, e prevedono quelle che saranno le sue obiezioni:
«è probabile che tu ci critichi, perché non facciamo seguire i passi delle
letture in successione, ma così a caso, e li esponiamo anche in modo
confuso... [tacita forsitan mente reprehendas, cur non sequamur ordinem
scripturarum, sed passim et, ut quidquid obuiam uenerit, turbidus sermo perstringat]; tanto per citare qualche passo in modo ancora più disordinato...
leggi Giovanni... torna indietro, e leggi Geremia [lege apocalypsin iohannis et, quid de muliere purpurata et scripta in eius fronte blasphemia, septem
montibus, aquis et multis et babylonis cantetur exitu, contuere… ad hieremiam quoque regrediens scriptum pariter adtende]». Alla luce della lettura di
questi passi, ritengo più probabile che sia Gerolamo, in quanto maestro
di tutte, a potere definire la differenza di apprendimento delle sue discepole (come già evidenziato, Gerolamo afferma che Paola e Marcella avevano una diversa tipologia di apprendimento), e in questo caso spingersi fino a scherzarci sopra. Poco probabile mi pare invece attribuire uno
spirito così autoironico a Paola, della quale peraltro non conosciamo il
grado di consapevolezza relativamente alla propria cultura. Dice Gerolamo, nella sua lettera alla vergine romana Principia: «se i maschi si interessassero alla scrittura, non mi rivolgerei al sesso femminile»19. La situazione dello stato reale della cultura delle donne in questo periodo è poco
chiara: da un lato si riconosce loro una competenza che talvolta arriva
Hier., Ep. 65,1: si uiri de scripturis quaererent, mulieribus non liquerer. Ancora, per la
misoginia geronimiana “rivalutata” rimando alla bibliografia.
19
106
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fino a renderle per così dire “degne” di insegnare, dall’altro il fatto di
averle come interlocutrici si configura come una scelta resa necessaria
dal disinteresse maschile. La questione coinvolge, anche se non direttamente, la problematica della definizione del rapporto personale tra
Gerolamo e Paola. Un rapporto simile tra maestro e amica/allieva non
era raro a Roma: l’omologo di Gerolamo, Rufino, aveva infatti operato
una scelta simile a quella di Gerolamo: Rufino, forse anche più di Gerolamo, aveva fondato le basi del suo potere sull’appoggio dell’aristocrazia
romana, al femminile. Il ruolo di Paola, come quello di Marcella, non ha
quindi certamente coinvolto solo il suo essere discepola, ma ha assunto
nel tempo il carattere di collaborazione, anche agli studi e alle pubblicazioni di Gerolamo. Ma non deve passare inosservato un altro ruolo
importante che Paola ha ricoperto egregiamente, data la sua condizione
economica agiata, quello cioè di dare un aiuto economico e pratico a
Gerolamo. Dalle lettere che Gerolamo scrive all’amica, spesso si evince
un rapporto di scambio, di domande, di interrogativi complessi scaturiti nell’affrontare, da parte di Paola, argomenti specifici, e si può arrivare
a pensare a scambi di opinioni nel corso dell’elaborazione di teorie di
vario genere che si caratterizzano come veri e propri trattati di cristianesimo. Paola rappresenta, in un certo senso, un’eccezione femminile: trasferisce, avendone la possibilità economica, il suo gruppo femminile
dell’Aventino a Betlemme: diventa quindi maestra di Scritture, grazie al
suo amore intenso e vitale per la Bibbia, ma anche grazie al rapporto,
non solo epistolare, instaurato con Gerolamo, e figura altresì come dotata di una certa influenza sull’esegesi di Gerolamo nei commenti a lei
dedicati [Penna 1950].
Ancora a titolo di esempio per il tema della cultura femminile, ecco
in quali termini Gerolamo parla della scienza sacra a Paola: dimmi un
po’, — domanda Gerolamo alla sua allieva Paola — che vi è di più santo di questo mistero? Che cosa più attraente di questo piacere? Quale
alimento, quale miele più dolce di quello di conoscere i disegni di Dio,
d’essere ammesso nel suo santuario, di penetrare il pensiero del Creatore
e le parole del tuo Signore, che i dotti di questo mondo deridono e che
sono piene di sapienza spirituale? Lasciamo che gli altri godano delle
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo IV. caratteri di un’intellettuale cristiana
107
loro ricchezze, bevano in una coppa ornata di pietre preziose, indossino
sete splendenti, si cibino di plausi della folla, senza che la varietà dei
piaceri riesca ad esaurire i loro tesori: le nostre delizie consisteranno
invece nel meditare giorno e notte sulla legge del Signore, nel bussare
a una porta in attesa che s’apra, nel ricevere la mistica elemosina del
pane della Trinità, nel camminare, guidati dal Signore, sui flutti della
vita [Ep., 30,13]20. E ancora a Paola, e a sua figlia Eustochio, Gerolamo
scrive nel suo Commentario sull’epistola agli Efesini: «Se qualcosa vi è,
Paola ed Eustochio, che trattiene quaggiù nella saggezza e che in mezzo alle tribolazioni e ai turbini di questo mondo mantiene l’equilibrio
dell’anima, io credo che siano innanzi tutto la meditazione e la scienza
delle Scritture»21. Ed è ricorrendo ad esse, che Paola, ma anche Eustochio, e Blesilla, afflitte nell’intimo da profondi dolori e colpite (nel caso
particolare di Blesilla) nel corpo dalla malattia, potevano godere ancora
della consolazione della pace e della gioia del cuore: questa gioia per
Paola soprattutto non era limitata ad essere gustata in una vana oziosità,
ma in una reale attività, in quanto il frutto della sua carità e della sua
opera si trasformava in carità attiva al servizio della Chiesa di Dio. Paola,
e la figlia Eustochio, sembrano condividere, almeno da quello che traspare non dalle lettere, ma da altre opere di Gerolamo, la vita da esegeta
delle scritture del Santo. Madre e figlia sono descritte come coloro che
incitano Gerolamo a continuare costantemente nel suo lavoro di traduzione dei Vangeli e del Nuovo Testamento. Il lavoro per Gerolamo era
molto impegnativo, soprattutto se affiancato anche alla vita monacale e
di comunità nel monastero, e affiancato alle pratiche teologiche. Forse
è per questo motivo che Gerolamo ci dice, nella Prefazione ai Salmi,
La stessa domanda, espressa in termini diversi, viene fatta nella Lettera a Paolino,
«confratello, compagno ed amico» (che sono gli stessi aggettivi con cui potremmo descrivere Paola per Gerolamo): «Io ti chiedo, fratello carissimo: vivere in mezzo a questi
misteri, meditarli, null’altro conoscere e null’altro sapere, non ti sembra che tutto ciò
sia già il paradiso in terra?» [Hier., Ep., 53, 10, 1].
20
Hier., Ad Eph., prol., col.: 467; CPL 0591: si quidquam est, paula et eustochium, quod
in hac uita sapientem uirum teneat, et inter pressuras et turbines mundi aequo animo manere
persuadeat, id esse uel primum reor, meditationem et scientiam scripturarum.
21
108
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che incaricò Paola di aiutarlo a operare un lavoro di controllo su ciò
che aveva scritto, e che per fare ciò Paola, aiutata da Eustochio, doveva
conoscere tutta una serie di segni diacritici di cui possediamo i dettagli
proprio nella prefazione dell’opera. In effetti, il monastero di Paola non
era affatto lontano da quello di Gerolamo, e soprattutto dalla grotta dove
Gerolamo si era ricavato una sorta di studio privato. Possiamo quindi
pensare che la vicinanza servisse ad agevolare un confronto quotidiano, una collaborazione, anche su questo tipo di questioni, per così dire
“culturali”; se e quanto Paola lo avesse effettivamente aiutato nel lavoro
di traduzione e interpretazione dei testi biblici, però, rimane un mistero:
non possiamo essere certi che Paola fosse completamente in grado di
affrontare un lavoro così scrupoloso, attento e competente, e in tutti i
casi Gerolamo non è totalmente esplicito riguardo al tipo di aiuto che
l’amica gli ha realmente dato.
Capitolo V
Le scelte più estreme: povertà assoluta e
monachesimo
«Si è diseredata in terra, per trovarsi un’eredità in cielo» [108,6].
«Non c’è bisogno che ti raccomandi di non vantarti delle ricchezze che
possiedi, di non ostentare la nobiltà della tua origine, di non giudicarti
superiore agli altri. So quanto sei umile, so che puoi dire di tutto cuore:
«No, o Signore, non si esalta il mio cuore, non si alzano alteri i miei
occhi»; so che l’orgoglio, per cui cadde anche il diavolo, non alligna
assolutamente né in te né in tua madre» [22,27].
Come già segnalato, un motivo di carattere sociale che non può essere
trascurato in questa sede è quello legato alla ricchezza. Paola è una vedova ricca, e proveniva da una famiglia ricca. Tra il III e IV secolo siamo
comunque di fronte a un progressivo indebolimento economico anche
delle famiglie più influenti nell’impero; sul piano religioso, il cristianesimo viene in aiuto attraverso due espedienti: il primo è quello di affermare la necessità dei beni terreni e ricercare solo e soltanto quelli spirituali (si intende che non merita lode il possedere le ricchezze, ma lo
sprezzarle per Cristo: non insuperbire negli onori ma, per la fede di Dio
110
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averli in poca stima)1; il secondo è quello, principalmente dedicato alle
donne, dell’assistenza, da parte dei più ricchi, dei poveri e degli ammalati. Paola risponde in maniera positiva a entrambi questi due proponimenti, dettati dai Padri della Chiesa nelle loro opere e a lei e alle donne
della sua cerchia direttamente nelle lettere di Gerolamo: «Perché dunque
racconterò io che quasi tutte le ricchezze della sua illustre e nobile casa,
una volta ricchissima, furono dispensate ai poveri? Quale dei poveri,
morendo, non fu avvolto negli abiti suoi? Quale di quelli che giacevano
infermi, non fu sostentato dalle sue ricchezze» [108,16]. Il tema è complesso e molto studiato, e molto si è insistito sull’interesse per il patrimonio di vedove e vergini abbienti, che sta alla base sia dell’incoraggiamento della Chiesa, sia dell’opposizione dei parenti [Lizzi Testa 1989].
Paola non appartiene certamente a quel numeroso gruppo di vedove di
cui la Chiesa si deve occupare. Dell’esistenza di queste, abbiamo testimonianza dallo stesso Gerolamo, nella lettera a Geruchia [123,5]2: le
vere vedove sono quelle private di tutto l’aiuto della loro famiglia, che
non possono usare più le loro mani per lavorare, che la loro povertà debilita e che la loro età affatica. Conoscendo il grande numero di queste
vedove, Gerolamo raccomanda anche a una sua corrispondente, Furia,
di prendersi cura di loro [54,14]. Come si diceva, è consapevole che
Paola e le altre vedove a cui scrive non fanno parte di questi gruppi: non
si tratta, dice infatti, di scrivere a una vedova che è caduta in disgrazia
(come nel caso della Lettera a Salvina, 79,1). Paola, ancora, è più nobile
per santità; già potente per le sue ricchezze [108,1]; la sua casa è un
palazzo coperto di ori [108,1: Paola lo scambia poi con un vile tugurio]3;
1
Hier, Ep., 108, 16.
Hier., Ep., 123,5: (solo qualche tratto essenziale): nec sibi in eo annorum puellarium
debet uidua blandiri, quod non minus sexagenariae electionem praecipit …quibus imperat, ut
discant domum suam colere et remunerari parentes et sufficienter eis tribuere, ut non grauetur
ecclesia et possit certis uiduis ministrare, de quibus scriptum est: honora uiduas, quae uere
uiduae sunt, hoc est, quae omni suorum auxilio destitutae, quae manibus suis laborare non
possunt, quas paupertas debilitat aetas que conficit, quibus deus spes est et omne opus oratio.
2
Hier., Ep., 108,1: nobilis genere, sed multo nobilior sanctitate, potens quondam diuitiis,
sed nunc christi paupertate insignior, gracchorum stirps, suboles scipionum, pauli heres, cuius
3
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo V. Le scelte più estreme: povertà assoluta e monachesimo
111
a 39,5 Gerolamo in merito a Paola afferma che essa prima ancora di
morire, ma già morta al mondo, ha distribuito ai poveri o dato ai figli
ogni suo avere4. Tra le altre vedove corrispondenti di Gerolamo, egli
parla per esempio di una fortuna molto vasta di Fabiola; Demetriade è
invece una ricca vergine. Eustochio gestisce a quanto pare la sua dote,
amministrando il monastero di Paola. Di norma, le ricchezze di queste
matrone provenivano dalla famiglia d’origine e dal matrimonio; nel caso
di Paola, Gerolamo parla proprio di «fortuna paterna e materna distribuita poi ai poveri» [108,26]5; il passo ha come soggetto Eustochio, della
quale viene detto che è ben felice di non avere mai avuto a sua disposizione un soldo, ed è serena per la decisione della madre Paola di distribuire ai poveri. A quanto dice Gerolamo, le ricchezze di Paola si prosciugarono nell’opera di costruzione e di assistenza: negli ultimi anni di
vita essa cadde in miseria. Gerolamo affronta anche, all’interno della
lode che fa di Paola nel suo epitaffio, un problema che non era passato
inosservato a coloro che giudicavano negativamente l’eccessivo donare e
spogliarsi dei propri beni, in sfavore di sé stessi e della propria famiglia:
«Se fra tali e così grandi virtù vorrò celebrare la sua castità, sembrerà
cosa superflua. Perché anche a Roma, essendo una secolare, fu essa esempio a tutte le matrone. Si comportò in tal modo che le stesse lingue dei
maledici neppure osarono fingere cosa alcuna di pregiudizio al suo
decoro. Non si vide mai animo più clemente del suo, nessuno più cortese verso gli inferiori. Non desiderava la conversazione dei potenti.
uocabulum trahit, maeciae papiriae, matris africani, uera et germana progenies, romae praetulit bethlem et auro tecta fulgentia informis luti uilitate mutauit.
Hier., Ep., 39,5: nunc uero, cum sciam toto renuntiasse te mundo et abiectis calcatis que
deliciis orationi, ieiuniis, lectioni uacare cotidie, cum ad exemplum abraham cupias exire de
terra tua et de cognatione tua, ut chaldaeis et mesopotamia derelictis terram repromissionis
introeas, cum omnem substantiolam aut pauperibus dilargita sis aut filiis ante mortem mundo mortua dederis, miror te ea facere, quae si facerent ceterae, reprehensione dignae uiderentur.
4
Hier., Ep., 108,26: quod quidem usque hodie in sancta filia eius eustochio cernimus,
quae ita semper adhaesit matri et eius oboediuit imperiis, ut numquam absque ea cubaret,
numquam procederet, numquam cibum caperet, ne unum quidem nummum haberet potestatis
suae, sed et paternam et maternam substantiolam a matre distribui pauperibus laetaretur et
pietatem in parentem hereditatem maximum et diuitias crederet.
5
112
ISBN 9788898392162
Eppure, nonostante ciò, non disprezzava con fastidio i superbi e quelli
che aspiravano a un po’ di gloria. Se ai suoi sguardi si presentava un
povero, lo sostentava, se un ricco, lo esortava alle buone opere. La virtù
della liberalità era in lei senza limiti, al punto che non mancava di soccorrere chi ne aveva bisogno e a lei chiedeva denaro. Non di rado prendeva denari in prestito per restituire gli altri pur presi in prestito. Conviene che io qui confessi il mio errore. Essendo essa troppo liberale nel
donare, io osavo riprenderla, ricordandole quel detto dell’Apostolo:
donate sì, ma in modo che voi non dobbiate patire per questo, nel soccorrere gli altri». Gerolamo quindi ammoniva Paola e cercava di limitare
il suo donare eccessivo? «Io desideravo che essa fosse più cauta negli
affari di famiglia, ma essa, sempre più accesa di fede, con tutto lo spirito
si univa al Salvatore»6. Non sappiamo se queste sono solo parole retoriche di Gerolamo, dato che, mentre le pronuncia, Paola è già morta e ha
già gestito i propri beni secondo la sua coscienza. Tra l’altro, pochi paragrafi più avanti, Gerolamo sembra contraddirsi nel descrivere l’attività di
amministrazione ed elargizione dei beni operata da Paola: «È solita la
maggior parte delle matrone fare regali a certuni perché facciano pubbliche lodi e, usando con pochi molta liberalità, niente danno agli altri.
Di questo vizio era del tutto priva, poiché divideva i suoi denari con
ciascuno come ciascuno ne aveva bisogno, non potendo alcuno con
quelli darsi al lusso, ma solamente soccorrere alle sue necessità. Nessun
povero partì mai da lei senza avere ottenuto qualche elemosina. La qual
cosa da lei si otteneva non con la grandezza delle ricchezze, ma con la
prudenza nel dispensarle»7. Un’interpretazione recente [Cain 2009]
Hier., Ep., 108,15: ego cautior in re familiari esse cupiebam, sed illa ardentior fide tot
saluatori animo iungebatur et pauperem dominum pauper spiritu sequebatur reddens ei, quod
acceperat, pro ipso pauper effecta.
6
Hier., Ep., 108,16: solent pleraeque matronarum bucinatoribus suis dona conferre et in
paucos largitate profusa manum a ceteris retrahere: quo illa omnino carebat uitio; ita enim
singulis suam pecuniam diuidebat, ut singulis necessarium erat, non ad luxuriam, sed ad
necessitatem. nemo ab ea pauperum uacuus reuersus est, quod obtinebat non diuitiarum magnitudine, sed prudentia dispensandi illud semper replicans: beati misericordes, quoniam ipsi
misericordiam consequentur et: sicut aqua extinguit ignem, ita elemosyna peccata…
7
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo V. Le scelte più estreme: povertà assoluta e monachesimo
113
pone enfasi su questo aspetto di Paola relativo all’essere stata fin troppo
generosa: si potrebbe pensare che Gerolamo enfatizzi la povertà in cui
viene lasciata Eustochio per incitare i pellegrini e coloro che transitavano vicino al monastero di Paola a donare qualcosa. Seguendo questa
interpretazione, avrebbe un senso anche l’iscrizione sulle porte delle
Grotta, che Gerolamo fa incidere, e che contiene un monito al viandante, che sembra costretto a fermarsi, a leggere e riflettere: «Lo vedi, qui in
basso, questo piccolo sepolcro? È la dimora di Paola. Aveva abbandonato
il fratello, i congiunti, Roma, le ricchezze. Qui i magi hanno portato i
loro mistici doni per offrirli a Cristo». Forse Gerolamo vuole davvero
incitare il pellegrino a lasciare qualcosa in dono, in memoria di Paola.
Mi sembra difficile in tutti i casi negare una realtà, e cioè che Paola
lascia, alla sua morte, la figlia Eustochio in una condizione difficile nella gestione del suo monastero, gravato dai debiti. Il problema relativo
all’amministrazione del proprio patrimonio, che non doveva essere facile, non sembra almeno da quello che leggiamo a 108,30 turbare Paola:
«Quando le veniva portata notizia dei danni alle sue sostanze e intendeva la rovina di tutto il suo patrimonio, così parlava: “Che giova all’uomo
guadagnare tutto il mondo, se porta danno all’anima sua? O quale cambio darà l’uomo per l’anima sua?”. Diceva ancora: “Nuda sono uscita dal
ventre di mia madre e nuda ritornerò”. Come è piaciuto al Signore così
è accaduto. Sia benedetto il nome del Signore”». E ancora: «E povera di
spirito seguiva il povero Signore, rendendogli quanto da lui aveva ricevuto, diventata povera per lui. Ottenne finalmente quello che desiderava
e lasciò la figlia molto gravata dai debiti, i quali avendo ancora, essa
confida di poter soddisfare non già nelle proprie forze, ma nella misericordia [...]». In realtà, anche su questo aspetto della totale rovina del
patrimonio di Paola è lecito avere dubbi: vero è che alla morte di Paola,
Eustochio si trovò con debiti da pagare per la gestione del monastero8.
Hier., Ep., 108,15 (vedi nota 5) e 108,30: testis est iesus ne unum quidem nummum
ab ea filiae derelictum, sed, ut ante iam dixi, derelictum magnum aes alienum et - quod his
difficilius est - fratrum et sororum inmensam multitudinem, quos et sustentare arduum et
abicere inpium est.
8
114
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Ma nonostante gli accenni, non radi, di Gerolamo alle largizioni di Paola che avrebbero spogliato i suoi figli, non è possibile che questa “spogliazione” sia stata totale: è in effetti poco probabile che Albino, il padre
di Laeta, avrebbe fatto sposare la propria figlia a Tossozio se il suo patrimonio fosse stato ampiamente ridotto. A 108, 26, questo è quello che ci
dice Gerolamo: «Eustochio [...] non ebbe mai un solo spicciolo in suo
potere. Ma godeva che le poche sostanze che vi erano dei suoi genitori
fossero distribuite dalla madre ai poveri, saggiamente credendo che fosse
per lei una ben grande eredità e una non ordinaria ricchezza il filiale
rispetto verso la madre. Gesù è testimone che essa non lasciò neppure un
soldo alla figlia, ma come già ho accennato la lasciò gravata da molti
debiti e ciò che a questa è riuscito più gravoso è l’aver affidato alla sua
cura una innumerevole moltitudine di fratelli e sorelle in Cristo, nutrire
i quali è cosa molto difficile e abbandonarli è una empietà. Quale virtù
pertanto più ammirabile in lei di questa? Una donna di nobilissima
famiglia, una volta ricchissima, aveva con fede così grande donato ad
altri tutto il suo che quasi agli estremi della necessità si ridusse. Vantino
pure gli altri di aver dispensato le loro ricchezze ai poveri, di aver offerto
alla Chiesa, ad onore di Dio, i propri denari e di averle portato insieme
coi candelabri d’oro preziosi doni da quelli pendenti. Nessuno mai ha
dato di più ai poveri di colei che nulla ha riservato per sé. E essa perciò
ora gode quelle ricchezze e quei beni che mai occhio ha veduto né
orecchio udito né in umano pensiero sono mai venuti [...]. Tu intanto o
Eustochio vivi con certezza, poiché ti sei arricchita di una grande eredità. La parte che ti è toccata è il Signore e affinché tu sempre più sia
nella gioia ti dico che tua madre ha ricevuto la corona di un lungo
martirio»9. Si potrebbe forse pensare che l’unica eredità messa a disposizione dei poveri fosse la parte che toccava a Eustochio, che quindi, anche
non sposandosi, aveva comunque ereditato la propria dote. A conforto
di questa interpretazione mi pare possa essere utile un passo della lettera
130, a Demetriade, che operò, anni dopo, la medesima scelta di vergini-
9
Hier., Ep., 108,26 (vedi passo in nota 4).
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo V. Le scelte più estreme: povertà assoluta e monachesimo
115
tà. Dice infatti Gerolamo che esistono genitori disgraziati, cristiani
all’acqua di rose, che sogliono obbligare alla verginità le figlie deformi e
storpie, solo perché non trovano un genero del loro rango. È pure certo
che altri, leggiamo ancora, che si credono più religiosi, assegnano alle
figlie vergini una pensione minima, appena sufficiente per il loro nutrimento, mentre elargiscono tutto quanto il patrimonio ai figli d’ambo i
sessi che restano nel mondo. L’esempio è quello di un ricco prete in
questa città: ha lasciato nella povertà due sue figlie che si erano consacrate alla verginità, per provvedere con tutta l’abbondanza delle sue ricchezze al lusso e ai piaceri degli altri figli. E disgraziatamente, continua
ancora Gerolamo, hanno fatto altrettanto molte donne che pure s’erano
consacrate a Dio. Ma più è frequente, afferma Gerolamo in chiusa, e più
devono essere felici le nostre donne che non hanno seguito il cattivo
esempio nonostante venisse dalla maggioranza10. Anche qui, a mio
avviso, si deduce che la figlia che sceglieva questa strada poteva comunque contare sulla sua parte di eredità, cioè la sua dote non veniva ridistribuita agli altri figli, ma la vergine ne poteva disporre, come fece quindi
Eustochio.
V.1. Paola, la monaca cristiana
Il secolo in cui Paola vive è storicamente e ideologicamente complesso, ed è caratterizzato dal diffondersi in Occidente del fenomeno del
monachesimo e della definitiva affermazione della religione cristiana.
L’incontro con il primo monachesimo è per lo più rappresentato all’inizio nella forma del viaggio, di un percorso geografico, reale o fittizio,
compiuto da intellettuali o religiosi itineranti che ne trascrivono le tappe salienti in forma di diario di viaggio, visitandone gli insediamenti,
riportandone le impressioni, i fatti e i racconti riferiti da altri. Il motivo
del viaggio diventa così espressione di un viaggio interiore, l’illustrazio-
10
Hier., Ep., 130,6.
116
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ne interna di un’ascesi scandita da un incontro con persone che hanno
incontrato Cristo. Il modello monastico diviene per molti Padri una tappa fondamentale della loro piena conversione al cristianesimo, una sorta di indispensabile preparazione a successivi impegni. La ricezione del
paradigma monastico è, alla fine del IV secolo, ormai avvenuta: i monaci
sono una realtà integrata nell’universo cristiano del tempo, la letteratura
progressivamente si indirizza verso la redazione di regole monastiche e
al genere delle Vite. Sulla spiritualità dell’ambiente intorno a Gerolamo,
molto è stato scritto; soprattutto grazie alla testimonianza che Gerolamo
ci fornisce all’epistola 127: Marcella dunque, per prima, avrebbe espresso
la sua vocazione e altre donne della sua famiglia avrebbero seguito questa scelta ascetica. Anche se attribuiamo a Gerolamo un certo grado di
tendenziosità rispetto a ciò che ci racconta, è inconfutabile che in questi
anni la comunità cristiana romana si delineò come presa da un nuovo
fervore di spiritualità, che trovò il suo compimento nelle scelte, per così
dire estreme, di Paola e Eustochio. È comunque ancora una volta Paola
a rappresentare la realizzazione di ciò che Gerolamo vuole idealizzare, e
cioè la vita ascetica e monacale. Infatti, anche se nella lettera 127 appena
menzionata Gerolamo afferma che, già intorno a Marcella, si era creato
un circolo “ascetico”, la realtà storica ci impone di spostare sulla chiesa
domestica di Paola questa prima formazione. Nella lettera 127, infatti,
Gerolamo afferma, al paragrafo 5, che all’epoca a cui si sta riferendo,
e cioè il 340-342, con l’arrivo di Atanasio a Roma, la prima donna a
scegliere la professione monastica per influsso di Atanasio fu Marcella11.
Ma in questi anni Marcella poteva avere al massimo dieci anni, quindi
questa testimonianza è dubbia [Laurenz 1966; Hickey 1987; Krumeich
1998; Rocca 1998). Forse qui Gerolamo, che sta scrivendo, nel 412, l’elogio per la morte di Marcella, stravolge lievemente la realtà per fare della donna un modello tale e quale Paola. Marcella probabilmente iniziò il
Hier., Ep., 127,5: nulla eo tempore nobilium feminarum nouerat romae propositum
monachorum nec audebat propter rei nouitatem ignominiosum, ut tunc putabatur, et uile
in populis nomen adsumere. hanc multos post annos imitata est sophronia et aliae, quibus
rectissime illud ennianum aptari potest: utinam ne in nemore pelio.
11
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo V. Le scelte più estreme: povertà assoluta e monachesimo
117
suo percorso intorno al 355, da vedova. Nello stesso passo, inoltre, Gerolamo afferma anche che, in quegli anni, nessuna nobildonna romana
ancora conosceva l’ideale monastico e, per la novità della cosa, nessuna
aveva il coraggio di assumere un nome che la gente a quel tempo riteneva volgare. Nessuna, fino a Paola, qualche anno dopo. Probabilmente ai
tempi di Marcella, e di Asella, per esempio, già però si conosceva qualche forma di religiosità domestica, e qualche forma di “consacrazione”,
per esempio quella alla verginità. La scelta di Paola corrisponde ad una
netta distinzione tra l’isolamento effettivo e la solitudine spirituale. Paola
non solo obbedisce agli ideali ascetici a Roma, ma va oltre. La cesura è
forte e marcata: lasciando Roma per i luoghi santi, Paola lascia l’ascetismo familiare a favore del cenobitismo. Alla Chiesa domestica (domestica
Ecclesia, secondo l’espressione di Gerolamo a cui già ho accennato) viene sostituendosi il monastero: è qui che il santo proposito cristiano può
realizzarsi completamente, partendo con Paola e da Paola, che, modello
femminile, si caratterizza dunque pienamente non come una cristiana
delle masse (la turba christianorum disprezzata da Gerolamo).
In Paola l’amore per il Signore fa tutt’uno con l’amore per il prossimo,
conforme alla risposta di Gesù: Gerolamo ne fa un ritratto molto forte e ben delineato. «Dopo la morte del marito, in tal modo lo pianse,
ch’ella fu per morirne. In tal modo si diede al servizio del Signore,
che parve che ella avesse desiderato la sua morte. Perché dunque racconterò io che quasi tutte le ricchezze della sua illustre e nobile casa,
una volta ricchissima, furono dispensate ai poveri? A che fine starò a
parlare dell’animo suo, clementissimo verso tutti, e della bontà sua che
raggiungeva le persone stesse da lei non mai vedute? Quale dei poveri,
morendo, non fu avvolto negli abiti suoi? Quale di quelli che giacevano
infermi, non fu sostentato dalle sue ricchezze? Questa, con somma
attenzione in tutta la Città ricercandoli, stimava sentirne danno, se alcun
debole, e affamato, era nutrito dal cibo di un altro. Spogliava i figli, e
sgridandola per questo i parenti, diceva che lasciava loro maggior eredità, cioè la misericordia di Cristo. «Quale poteva essere il coronamento
di una simile esistenza se non la ricerca di una vita dedita completa-
118
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mente alla preghiera e alla meditazione della Parola di Dio?»12. Già si
erano diffuse nella Chiesa le comunità monastiche: Paola ne comprese l’importanza e il valore. Rimasta vedova il desiderio di siffatta vita
si insinuò nel suo cuore come un fuoco divorante ogni altro pensiero.
«Non poté però per lungo tempo sopportare le visite, e i ricevimenti
in massa della sua stirpe nel mondo gloriosa, e della sua nobilissima
famiglia»13. Quando, nell’inverno del 381-382, Gerolamo accompagna
a Roma il vescovo Paolino di Antiochia ed Epifanio di Cipro, Paola fu
«infiammata da queste virtù e manifestò un grande desiderio di raggiungere la Terra Santa». Fuori discussione rimane il fatto che l’influenza in questo momento più forte sulla scelta di Paola rimase quella di
Gerolamo, aiutato in questo anche dall’amica comune, Marcella. Dice
Gerolamo, a proposito di Marcella nel passo prima citato della lettera 127
[127,5]: «A quell’epoca nessuna delle nobildonne romane conosceva l’ideale monastico, e data la novità della cosa, nessuna aveva il coraggio di
assumere un nome che la gente a quel tempo riteneva infame e volgare.
Dalla bocca dei vescovi d’Alessandria, di papa Atanasio e poi di Pietro
[...] Marcella apprese la vita del beato Antonio, allora ancora vivente, l’esistenza dei monasteri di Pacomio nella Tebaide e la regola delle vergini
e delle vedove. Non si vergognò di professare quello che aveva capito
essere gradito a Cristo». E ancora, poco dopo, al paragrafo 8: «Nacquero
molti monasteri di vergini e divenne innumerevole la schiera dei monaci; il numero di coloro che si mettevano a servizio di Dio fu così alto,
che divenne motivo di vanto quello che prima era motivo di vergogna.
Il podere situato nella periferia di Roma vi serviva da monastero: avevate
scelto la campagna per starvene come in un deserto. Lunghi anni avete
trascorso così; tanto che, grazie al vostro esempio e al comportamento
di molte altre donne, abbiamo avuto la gioia di constatare che Roma
12
Hier., Ep., 108,5.
Hier., Ep., 108,5: [...] expoliabat filios et inter obiurgantes propinquos maiorem se eis
hereditatem christi misericordiam dimittere loquebatur. nec diu potuit excelsi apud saeculum
generis et nobilissimae familiae uisitationes et frequentiam sustinere.
13
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo V. Le scelte più estreme: povertà assoluta e monachesimo
119
era diventata un’altra Gerusalemme»14. Marcella aveva dato, da vedova,
quindi intorno al 355, un primo esempio a Paola. Questa, sua discepola,
l’aveva superata e si era recata fino a Betlemme. Il superamento di Paola,
come modello, è evidente. Chiunque sia l’autore della lettera 46, Paola,
o più probabilmente Gerolamo stesso, si adopera, da Betlemme, a provare a convincere anche Marcella a partire. Ma invano. La scelta di Paola
rimane, in questo periodo e in questo gruppo, un exemplum15.
Nei tre anni romani, quindi, e successivamente anche attraverso il rapporto epistolare tra Paola e Gerolamo, si arriva alla scelta per così dire
definitiva di Paola: il pellegrinaggio in terra Santa e la creazione di un
monastero femminile a fianco di quello maschile gestito da Gerolamo.
Gerolamo si può definire quindi, almeno nel caso di Paola, una sorta
di ispiratore, di un maestro di pensiero, e questa definizione può essere
applicata anche per tutte le matrone romane del circolo creato da Paola
e Marcella: queste donne evidentemente cercavano una guida in materia
di religione e di ascesi. Di nuovo, vorrei sottolineare un aspetto fondamentale in questa rivoluzione compiuta da Paola: ancora, al momento
della sua partenza e della sua successiva creazione del monastero, non
esistevano alcune regole precise. I due modelli di riferimento, maschili,
erano Antonio per l’eremitismo, e Pacomio, monaco egiziano, vissuto a
cavallo fra III e IV secolo, per il cenobitismo. Antonio d’Egitto (IV secolo), spesso definito come “Antonio il Grande”, è forse il più famoso di
tutti gli eremiti del periodo grazie alla biografia di Atanasio di Alessandria. Egli si circondò di numerosi discepoli nel deserto dell’Alto Egitto.
Da questi luoghi la pratica dell’eremitismo si diffuse in tutto l’Oriente,
Hier., Ep., 127,8: …multo que ita uixistis tempore, ut imitatione uestri et conuersatione
multarum gauderemus romam factam hierosolymam. crebra uirginum monasteria, monachorum innumerabilis multitudo, ut pro frequentia seruientium deo, quod prius ignominiae
fuerat, esset postea gloriae.
14
Usando un termine che Gerolamo stesso utilizza per Paola relativamente ad un
insieme di virtù, tra le quali la castità e l’umiltà. Vedi Hier., Ep., 108,15: si inter tales
tantas que uirtutes castitatem in illa uoluero praedicare, superfluus uidear. in qua etiam, cum
saecularis esset, omnium romae matronarum exemplum fuit; quae ita se gessit, ut numquam
de illa etiam maledicorum quicquam auderet fama confingere.
15
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in particolar modo con sant’Ilarione in Palestina e con san Gregorio
di Nazianzio e san Basilio in Cappadocia. Molti di questi gruppi vennero denominati Padri del Deserto. La parola eremita deriva dal latino
ĕrēmīta, latinizzazione del greco ἐρημίτης (erēmitēs), “del deserto”, che
a sua volta deriva dal ἔρημος (erēmos), che significa “deserto”, “disabitato”, perciò “abitante del deserto”. Un eremita è una persona che vive,
per sua scelta ed in una certa misura, in isolamento dalla società, spesso
in un luogo remoto. I cenobiti invece, (dal latino cenòbium, a sua volta
dal greco κοινός, “comune”, e βίος, “vita”) sono monaci cristiani le
cui prime comunità risalgono al IV secolo, e il cenobitismo è una forma comunitaria di monachesimo, praticata in monasteri (cenobi) sotto
la guida di un’autorità spirituale, secondo una disciplina fissata da una
regola. I cenobiti si differenziano dagli eremiti, in quanto praticavano
una vita comunitaria anziché solitaria. È a Paola, da poco scomparsa,
che Gerolamo dedica la sua Regola di Pacomio: la dedica è unita a quella
ad Eustochio, la sua venerabile figlia, che ebbe, secondo alcuni, un’influenza notevole su Paola nell’organizzare il monastero e nell’espansione
del fenomeno del monachesimo16 [De Clerq 1951]. L’opera è del 404, è
tradotta dallo stesso Gerolamo, e contiene tutti i precetti pacomiani sul
monachesimo e il cenobitismo. Prima di questo però, Gerolamo fa, nelle
sue lettere, allusione a diversi fenomeni, e, nel caso della stessa Paola, si
riferisce a lei definendola monaca, negli anni ancora romani. Nella già
discussa lettera 39, in occasione della morte di Blesilla, infatti Gerolamo
così rimprovera Paola: «Se penso che sei sua madre, non ti rimprovero
perché piangi; ma se ti penso cristiana, anzi, monaca cristiana, questi
Hier., Praef. In Pachomiana Lat.,1,11: itaque quia diu tacueram et dolorem meum silentio deuoraram, urgebant autem missi ad me ob hanc ipsam causam leontius presbyter et
ceteri cum eo fratres, accito notario, ut erant de aegyptiaca in graecam linguam uersa, nostro
sermone dictaui: ut et tantis uiris imperantibus, ne dicam rogantibus, oboedirem, et bono, ut
aiunt, auspicio longum silentium rumperem; reddens me pristinis studiis et sanctae feminae
refrigerans animam, quae monasteriorum semper amore flagrauit, et quod uisura erat in caelo
hic in terris meditata est; uenerabilis quoque uirgo christi, filia eius, eustochium haberet quod
sororibus agendum tribueret, nostri que fratres aegyptiorum, hoc est, tabennensium monachorum exempla sequerentur.
16
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titoli mi sembrano escludere quello di madre»17. Ci troviamo ancora in
un momento di passaggio, e anche qui il ruolo di Paola come precursore è fondamentale. A Roma, sappiamo da Gerolamo che la sua Chiesa
domestica comincia a convertire non solo le matrone, ma anche una
parte dei servi e del personale: «colla famigliola nella quale quelli che
erano ammessi dell’uno e dell’altro sesso, da schiavi e schiave, aveva
cambiati in fratelli e sorelle»18. Il passo è interessante, proprio alla luce di
un primo livello di conversione di massa: in casa di Paola comincia a diffondersi, non solo tra l’aristocrazia femminile, quindi, il credo cristiano.
È ipotizzabile quindi che la divisione e la distinzione sociale rimangano,
e i servi per questo motivo continuano a portare a termine le loro mansioni, che sono perfettamente compatibili con il santo proposito cristiano seguito da Paola. Anche nella lettera 38,4, Gerolamo, parlando
di Blesilla, fa allusione alle sue compagne di preghiera, che dovrebbero,
secondo la mia interpretazione del passo, vivere con lei: «Ora, invece,
si alza svelta per la preghiera, intona con voce armoniosa l’alleluia alle
compagne e comincia lei per prima a lodare il suo Signore» non è chiaro se Gerolamo con il termine ceteris fa qui menzione di compagne di
preghiera pensando alle sole Paola ed Eustochio, o se ci vuole fare capire
che anche nella casa di Blesilla vi era già una sorta di chiesa domestica e
di riunione di “monache”19.
È vero che sant’Agostino parla di veri monasteri organizzati esistenti
già al tempo di san Girolamo20: Agostino infatti afferma di avere visto,
a Roma, gruppi di monache e monaci che vivevano, praticando l’asceti-
Hier., Ep., 39,5: si parentem cogito, non reprehendo, quod plangis; si christianam et
monacham christianam, istis nominibus mater excluditur.
17
Hier., Ep., 108,2: nec mirum de proximis et familiola, quam in utroque sexu de seruis et
ancillis in fratres sorores que mutauerat, ista proferre, cum eustochium, uirginem et deuotam
christo filiam, in cuius consolationem libellus hic cuditur, procul a nobili genere sola fide et
gratia diuitem reliquerit.
18
Hier., Ep., 38,4: illo tempore plumarum quoque dura mollities uidebatur et in extructis
toris iacere uix poterat; nunc ad orandum festina consurgit et modulata uoce ceteris ‘alleluia
praeripiens prior incipit laudare dominum suum.
19
20
De moribus Ecclesiae I, 70, ML 32, 1340.
122
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smo, sotto la direzione di superiori; ancora, Sant’Ambrogio si riferisce ad
alcune comunità di vergini che hanno abbandonato la vita di famiglia
e vivono insieme a Bologna e a Milano, nel 37721. Benché le descrizioni date da Gerolamo portino a pensare all’esistenza di organizzazioni
fisse, ferree, e non facciano pensare a semplici riunioni di preghiera, a
mio avviso le espressioni «capo del monastero» (monasterii princeps) e
«madre delle vergini» (mater virginum), che si riferiscono per esempio a
Lea (nella lettera 23, a Marcella sulla morte di Lea appunto), debbono
esser considerate in senso lato, in quanto lei, come pure Marcella e Paola, qualificate dalla loro santità, erano unicamente considerate un perno
attorno al quale si radunavano vergini e vedove che si consacravano
ad una vita ascetica. Nella lettera 23, al paragrafo 1, scritta a Marcella,
Gerolamo così si esprime: «La vita della nostra cara Lea, invece, chi
si sentirebbe di metterla in risalto come merita? Si era data al Signore
in modo così totalizzante da essere messa a capo del monastero e da
diventare madre di vergini. Dopo aver vestito in passato morbide vesti,
logorava le sue membra con rude bigello. Passava le notti in preghiera;
ed era la sua vita, più che i suoi discorsi, ad influire sulla formazione
delle compagne. Umile e sottomessa, pur essendo stata padrona di molti
schiavi, l’avresti creduta a servizio dell’umanità. Eppure appariva tanto
più schiava di Cristo quanto meno si atteggiava a signora di uomini.
Vestiva dimessamente, il suo cibo era grossolano, i capelli non li curava
affatto. E malgrado ciò, non ostentava alcuna singolarità: la ricompensa non se l’aspettava in questa vita»22. Il termine “monastero” sta a mio
avviso per sinonimo di “casa in cui si accoglievano ascete”.
Dalla lettura della lettera 107 a Laeta, la nuora di Paola, riguardo all’edu-
Ambr., De virginibus, 1,57 e 1,60. Per altri riferimenti storici e letterari all’esistenza
di ordini monacali a Roma e in Occidente al tempo di Gerolamo, Laurence 1997, 31.
21
Hier., Ep., 23,1: equidem conuersationem leae nostrae quis possit digno eleuare praeconio? ita eam totam ad dominum fuisse conuersam, ut monasterii princeps, mater uirginum
fieret; post mollitiem uestium sacco membra triuisse; orationibus duxisse noctes et comites
suas plus exemplo docuisse quam uerbis. humilitatis tantae tam que subiectae, ut quondam
domina plurimorum ancilla hominis putaretur, nisi quod eo christi magis esse ancilla, dum
domina hominum non putatur.
22
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo V. Le scelte più estreme: povertà assoluta e monachesimo
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cazione di Paola iunior, votata alla verginità, mi sembra di potere dedurre
che a Roma non esistessero, secondo Gerolamo, monasteri, o comunque
luoghi dove una giovane vergine poteva essere educata e lasciata in ritiro
a dedicarsi alla preghiera. Gerolamo dà infatti una serie molto precisa di
consigli a Laeta, per allevare una vergine modello, in casa. La lettera è
datata al 400 d.C. Laeta vive a Roma, e l’educazione di una vergine in
una città tale sembra per Gerolamo pericolosa, o quantomeno delicata in
ragione delle mille influenza negative che Roma può provocare. Tutto
ciò porta Gerolamo a fare esprimere i dubbi di Laeta in questo modo:
«Tu dirai: «Come può essere possibile che io, donna di mondo, tra un
mare di gente, a Roma, resti fedele a tutte queste norme?» Gerolamo
risponde in questi termini: «Per l’appunto; non addossarti un peso che
non riesci a portare. E allora, dopo averla svezzata, dopo averla vestita,
mandala da sua nonna e da sua zia [...]. Venga nutrita nel monastero,
se ne stia fra i cori delle vergini» [107,13]23. Non è chiaro, in realtà, se
questa mia interpretazione sia corretta o se semplicemente Gerolamo,
maldisposto verso la città di Roma, finga di ignorare in essa la comparsa
e l’organizzazione del monachesimo e con essa la fondazione di alcuni
monasteri. Non è chiaro se preferisca che Paola iunior si unisca a Paola e
Eustochio e compia il loro stesso percorso, o se in effetti a Roma non ci
sia una reale possibilità di vita in monastero. Bisogna però sottolineare
che già nella lettera 46, del 386, benché Gerolamo evochi immagini di
una Roma cristiana, egli non fa accenno a nessun monastero.
Nella lettera 22, a Eustochio, come già ho avuto modo di fare cenno, Gerolamo delinea il suo ideale programma ascetico, mettendo in
guardia la giovane contro la corruzione dilagante della società romana
[Nazzaro 1997]. Gerolamo fa un amplissimo excursus per delineare un
quadro preciso della vita dei monaci e dei cenobiti: «Giacché il discorso
Hier., Ep., 107,13: respondebis: ‘quomodo haec omnia mulier saecularis in tanta frequentia hominum romae custodire potero? [...] redde pretiosissimam gemmam cubiculo mariae et cunis iesu uagientis inpone. nutriatur in monasterio, sit inter uirginum choros, iurare
non discat, mentiri sacrilegium putet, nesciat saeculum, uiuat angelice, sit in carne sine carne,
omne hominum genus sui simile putet et, ut cetera taceam, certe te liberet seruandi difficultate
et custodiae periculo.
23
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è caduto sui monaci, e so come ascolti volentieri i discorsi edificanti,
prestami attenzione per un momento…». Gli insegnamenti a Eustochio
sono facilmente applicabili anche come regole per l’ascetismo e per la
vita cenobitica, che essa seguirà alla lettera insieme alla madre Paola:
«Esci in pubblico meno che puoi. I martiri, venerali nella tua stanza. Se
dovessi uscire ogni volta che ti occorre qualche cosa, non ti mancherebbe il pretesto di farlo. Mangia con moderazione e non portare mai
a sazietà lo stomaco. Molte vergini, sobrie nell’uso del vino, diventano
come ubriache per l’intemperanza nel mangiare [...]. Digiuno quotidiano: mai cibo a sazietà».
In Egitto, a detta di Gerolamo, ci sono tre categorie di monaci: i cenobiti, che nella parlata locale sono detti sauhes, che potremmo definire: «coloro che vivono in comunità»; gli anacoreti, che abitano soli nel
deserto, denominati così perché vivono segregati dal resto dell’umanità;
la terza categoria è costituita dai cosiddetti remnuoth: pessima sorta di
monaci da tutti disprezzata24.
Essi abitano a gruppi di due o tre, o poco più; e ciascuno si regola di sua
testa, senza dipendere da nessuno; in comune mettono soltanto quella
quota di denaro, guadagnato col lavoro, che è indispensabile per provvedere alla mensa comune. La maggior parte del tempo abitano in città,
o in qualche borgata, i loro prodotti li vendono maggiorati, come se
la santità si trovasse nell’opera manuale e non nella vita. Fra loro sono
frequenti i litigi: vivendo ognuno del proprio guadagno, non si ammette di stare soggetti ad altri. Fanno persino, continua Gerolamo, gara a
chi digiuna di più; si vantano d’aver vinto in una pratica che dovrebbe
restare segreta. Il tema del litigio, all’interno della comunità monastica,
sarà ripreso nell’epitaffio di Paola, che viene descritta come molto abile
e paziente nel sedare i piccoli e grandi screzi dovuti alla convivenza.
Gerolamo parla severamente di questi monaci, dato che in essi tutto è
artificioso: maniche ampie, scarpe a soffietto, tuniche rozze; ad ogni
A titolo di curiosità, l’autore pagano Eunapio di Sardi (348-414 d.C. circa), all’interno della sua opera, compie un’invettiva monastica che appare in netto contrasto con
ciò che è invece espresso da Gerolamo [Cracco Ruggini 1972; 1979; Baldini 1985].
24
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125
istante emettono un sospiro, fanno visite alle vergini, denigrano i chierici e, nelle feste più solenni, si rimpinzano fino alla gola. Gerolamo li
definisce tipi pestiferi e, sempre rivolgendosi a Eustochio, passa a trattare
di quelli che fanno vita di comunità, e che si chiamano cenobiti.
Anche qui la descrizione di Gerolamo è fonte preziosa, dato che da
lui sappiamo che la prima legge per essi è obbedire agli anziani, e fare
quello che viene loro comandato. Sono divisi in decurie e centurie, in
modo che ad ogni gruppo di nove uomini presieda un decurione, e ad
ogni gruppo di dieci decurie un centurione. Vivono in celle separate,
ma contigue. Fino all’ora nona la vita comune è come sospesa: nessuno
va a trovare i compagni [22,37; De Vogüé 1991]. Dopo l’ora nona si
raccolgono insieme; cantano Salmi e leggono, secondo la tradizione, la
Sacra Scrittura. Terminate le preghiere comuni, tutti si mettono a sedere, e uno di loro, che chiamano Padre, inizia una conversazione. Mentre
questo parla, tutti l’ascoltano con religioso silenzio: nessuno osa voltarsi
verso un compagno, nessuno s’azzarda a tossire. Unico elogio a chi ha
parlato è il pianto degli uditori; le lacrime scorrono silenziose sui volti:
il dolore non scoppia mai in singhiozzi.
Questo, come viene descritto nelle Lettera 22, è il programma base, classico, che si osserverà anche nel monastero di Gerolamo e Paola [108,20]:
lo stesso schema, è ripreso da Gerolamo nelle lettere 107(9) e 130 (15) e
pure nel suo Trattato sul Salmo 11925 [Mateos 1963]: come ha già fatto
per i precetti relativi alla vedovanza e alla verginità, Gerolamo insiste
quindi in diverse lettere anche sull’ideale di vita ascetica e sulla regola
cenobitica e monacale.
In effetti i particolari ritornano, con qualche leggera variazione, nell’epitaffio di Paola, dove si sottolinea la maestria con cui la donna riesce a
organizzare e a fare rispettare questi insegnamenti. Per esempio, il puntualizzare a Eustochio che tra i veri monaci non vi è nessuno strepitio
durante il pranzo, e che mentre si mangia non si parla, o che i cibi dei
monaci sono il pane, i legumi, o degli erbaggi conditi con olio e sale,
25
Hier., Comment. in psalmos [CPL 0582] 19, 1-12.
126
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e ancora che solo i vecchi bevono vino, non può non essere ricollegato
alle stesse cose che Gerolamo dice di Paola una volta che questa è morta:
Paola digiunava o mangiava a malapena, non beveva vino, da lei regnava
il silenzio [108,16 e passim]. Nella lettera 22, Gerolamo sottolinea che i
monaci si alzano tutti insieme, e dopo aver cantato un inno, si ritirano
nelle loro celle. Questa descrizione, che ho riassunto ma occupa gran
parte della lettera alla figlia di Paola, deve avere, nell’intento di Gerolamo, lo scopo di rendere edotto il suo pubblico su come si organizzano
i diversi monasteri, compreso quello che fonderà Paola con la figlia, e
nello stesso tempo serve a Gerolamo stesso per poi lodare l’amica nell’epitaffio.
Non va dimenticato, comunque, che nelle sue lettere Gerolamo fornisce
spesso alle sue destinatarie (e destinatari in senso più vasto) anche Regole e modelli di ascetismo. Scrivendo per esempio ad Asella, nella lettera
24,2-3, Gerolamo ci informa che lei, compiuti i dodici anni, ha fatto
una scelta, vi si è tenuta ben stretta, vi ha perseverato, l’ha iniziata e l’ha
portata a termine (i verbi scelti da Gerolamo costituiscono una climax
ascendente e contribuiscono al tono perentorio del messaggio che vuole
fare circolare: elegit, arripuit, tenuit, coepit, inpleuit). Chiusa in una sola
cella, per di più stretta, lei si è goduta la vastità del paradiso. Quattro
palmi di terra battuta le servono come luogo di preghiera e di riposo.
Il digiuno lo considera un divertimento e l’astinenza il suo cibo. Anzi,
quando è portata a mangiare, non dal desiderio di nutrirsi, ma dalla
debolezza, più che saziare l’appetito lo accresce con pane, sale e acqua
fresca. Si mantiene così riservata nella solitudine della sua cameretta privata, che non mette mai piede tra la gente. Mai si intrattiene a parlare
con un uomo; anzi non cerca neppure di vedere sua sorella, essa pure
vergine, pur amandola teneramente26. In questo breve spaccato di vita
Hier., Ep., 23,3-4 (non riporto il testo integralmente): sed ea uenio, quae post duodecimum annum sudore proprio elegit, arripuit, tenuit, coepit, inpleuit [...] unius cellulae clausa
angustiis latitudine paradisi fruebatur [...] sed, ut dicere coeperamus, ita se semper moderate habuit et intra cubiculi sui secreta custodiit, ut numquam pedem proferret in publicum,
numquam uiri nosset adloquium et, quod magis sit admirandum, sororem uirginem amaret
potius, quam uideret.
26
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ascetica romana, gli elementi da sottolineare sono i precetti molti simili
alla regola, o alle regole, osservate dai monaci in Oriente. La descrizione
fatta della vita ascetica di Asella corrisponde in larga parte a quella fatta
riguardo a Paola nella Lettera 108. Ho riportato questo passo anche per
un altro motivo: Gerolamo usa il termine cella (cellula); si può pensare, a
mio parere, che Asella, quindi, non fosse parte per così dire “attiva” della
Chiesa domestica di Paola, ma avesse preferito un ritiro in casa, un isolamento nella preghiera e non una vita insieme ad altre donne; Eustochio
invece ha sempre vissuto nella casa della madre, fino al momento di
imbarcarsi con lei per l’Oriente. Eustochio dunque ha avuto parte attiva
nella Chiesa domestica romana. Ancora, nel medesimo passo, saltano
agli occhi le parole usate per descrivere le caratteristiche della scelta: se
non sapessimo che in questo caso si tratta di Asella, potremmo pensare
che Gerolamo stia parlando della stessa Paola, e della scelta operata da
quest’ultima, Gerolamo parla del resto della costanza, della perseveranza
(come per tutte le vedove), del portare a termine una decisione difficile
[Ep., 54,7: uidua, quae marito placere desiuit et iuxta apostolum uere uidua
est, nihil habet necessarium nisi perseuerantiam].
Un’altra menzione dei monaci si trova all’interno della lettera 38, a testimonianza di come il monachesimo stesse prendendo forma: Gerolamo
fa allusione al nominativo legato ai monaci, e qui il discorso è legato a
una sorta di disprezzo, che a Roma si doveva avvertire per coloro che
sceglievano questo tipo di vita: «Noi siamo qualificati monaci, perché
non usiamo vestiti di seta. Ci chiamano i puri malinconici perché non
ci ubriachiamo, perché non spalanchiamo la bocca per sghignazzare. Se
la nostra tunica non è perfettamente bianca, subito ci sentiamo rivolgere
il volgare detto: «È un impostore, è un greco!». Ma inventino pure ogni
sorta di scemenze. Vogliono anche farci passare come uomini dal ventre
grasso e pieno? Lo facciano!»27. È interessante notare come tutte queste
puntualizzazioni geronimiane siano date quasi a preparare Eustochio
Hier., Ep., 38,5: nos, quia serica ueste non utimur, monachi iudicamur, quia ebrii non
sumus nec cachinno ora dissoluimus, continentes uocamur et tristes. si tunica non canduerit,
statim illud e triuio: ‘inpostor et graecus est.
27
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per quella che sarà la sua vita con Paola nel monastero; quindi, già al
tempo della redazione della lettera 22, databile al 384, nella mente di
Gerolamo vi era già il progetto di fare compiere a Paola questa grande
impresa. Non possiamo sapere se il medesimo progetto era già nella
mente della stessa Paola. L’unica certezza che abbiamo in questo senso
è una testimonianza tratta ancora una volta da una Lettera, la 45, ad
Asella. Al momento di imbarcarsi per l’Oriente, nell’agosto 385, Gerolamo scrive relativamente alle critiche di cui egli è caduto vittima, a
causa del suo rapporto con Paola [45,2]: «l’unico campo di accusa è il
mio sesso, e lo si tira in ballo solo al momento in cui Paola è in partenza
per Gerusalemme!»28. Qui Gerolamo dà come imminente la partenza di
Paola, che evidentemente ha già deciso e programmato la sua partenza. La decisione forse era stata presa proprio dopo la morte di Blesilla,
o comunque dopo la lettera 39, dell’ottobre 384. Nella stessa lettera a
Eustochio, Gerolamo allude alla difficoltà della scelta monacale, patita
da lui stesso [22,7], quasi a mònito per le fatiche che Eustochio e Paola dovranno sopportare: «Quante, quante volte, pur abitando in questo sconfinato deserto bruciato da un sole torrido, in questa squallida
dimora offerta ai monaci, credevo davvero d’essere nel mezzo della vita
gaudente di Roma29! Me ne stavo seduto tutto solo, con l’anima rigonfia
d’amarezza… Io dunque, sì, proprio io che mi ero da solo inflitto una
così dura prigione per timore dell’inferno, senz’altra compagnia che bel Hier., Ep., 45,2: nihil mihi aliud obicitur nisi sexus meus, et hoc numquam obicitur,
nisi cum hierosolyma paula proficiscitur. Tutto il paragrafo 2 dell’epistola è intensamente
dedicato da Gerolamo a scagionarsi dalle accuse dei suoi detrattori: osculabantur mihi
quidam manus et ore uipereo detrahebant; dolebant labiis, corde gaudebant: uidebat dominus
et subsannabat eos et miserum seruum suum futuro cum eis iudicio reseruabat. alius incessum
meum calumniabatur et risum, ille uultui detrahebat, haec in simplicitate aliud suspicetur.
paene certe triennio cum eis uixi; multa me uirginum crebro turba circumdedit; diuinos libros,
ut potui, nonnullis saepe disserui; lectio adsiduitatem, adsiduitas familiaritatem, familiaritas
fiduciam fecerat [...] pecuniam cuius accepi? munera uel parua uel magna non spreui. Come
ho già avuto modo di sottolineare, anche i paragrafi 4 e 5 della lettera insistono sugli
stessi temi.
28
Hier., Ep., 22,7: o quotiens in heremo constitutus et in illa uasta solitudine, quae exusta
solis ardoribus horridum monachis praestat habitaculum, putaui me romanis interesse deliciis! sedebam solus, quia amaritudine repletus eram.
29
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo V. Le scelte più estreme: povertà assoluta e monachesimo
129
ve e scorpioni, sovente mi pareva di trovarmi tra fanciulle danzanti. Il
volto era pallido per il digiuno, eppure, in un corpo ormai avvizzito, il
pensiero ardeva di desiderio [...]. Non mi vergogno di confessare queste
miserie; se mai, piango di non avere più il fervore d’una volta».
V.2. La vita della monaca
Fin dalle prime manifestazioni monastiche, esiste uno stretto rapporto
fra lavoro e preghiera. La necessità di operare manualmente non inficia il
ruolo preminente della contemplazione e della lode e vari testi dimostrano come il monaco possa dedicarsi nello stesso tempo alle due attività
per tenere occupate le mani, la mente ed il cuore.
Un mondo a se stante, sul piano della valutazione del lavoro, é rappresentato dal monachesimo femminile, non sempre preso nella dovuta
considerazione [Quacquarelli 1982; Giannarelli 1986; Lizzi 1989; Giardina 1988; Clark 1985; Laurence 2010]. Anche per noi moderni è difficile immaginare una semplice trasposizione al femminile dei precetti
riguardanti le attività manuali e di fatica, soprattutto per una serie di
motivi, il più cogente dei quali è che nel mondo antico le sfere di azione
dei due sessi erano nettamente differenziate. Eppure, attraverso Paola,
ciò si realizzò: sebbene donna così nobile, partì nel mezzo dell’inverno,
riscaldata dall’ardore della fede [108,5]. La tendenza ad una vita religiosa in casa, trasformata in un monastero, rende ragione di tutta una
serie di testimonianze che identificano il lavoro nelle faccende domestiche, quelle stesse che nella Bibbia avevano viste impegnate le matriarche di Israele e che Clemente Alessandrino non esita a consigliare alle
nobili dame di Alessandria, quando afferma la necessità per le donne di
compiere attività fisica: non palestre, ma cure pratiche della famiglia.
All’interno del monastero femminile di Paola, l’occupazione principale rimane quella di filare la lana, la canapa, il lino, con tutto ciò che a
questa attività si collega sul piano sociale, come compito caratteristico,
soprattutto in ambito occidentale, della figura di nobili origini.
130
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Nel monachesimo delle donne, sia in Oriente che in Occidente, le strutture gerarchiche legate all’estrazione sociale delle singole monache resistono più a lungo di quanto non avvenga nel corrispettivo maschile: così
sappiamo che Macrina continua a filare, ma quando assume su di sé il
compito di fare il pane, occupazione umile e da schiava, lo fa soltanto
per servire sua madre. Nello stesso modo, nell’organizzazione del suo
monastero, questo è un dato che salta particolarmente agli occhi, Paola,
lodata sempre per la sua umiltà, sembra mantenere le distanze sociali, se interpreto bene questo passo di Gerolamo [108,20]: «Dopo aver
costruito un monastero per gli uomini, da lei pure posto sotto il governo
degli uomini, divise in tre schiere e in tre monasteri un grande numero
di vergini, che essa da diverse province aveva qui radunate, parte delle
quali erano di nobile famiglia, altre di modesta condizione, altre di basso
rango sociale. Così però che solamente nell’operare e nel cibarsi stessero
separate, ma nel salmeggiare e nel pregare dovessero stare unite»30.
Ed è altresì nota la reazione delle aristocratiche romane discepole di
Gerolamo, Paola e le donne del suo monastero in primis, di fronte alla
prospettiva di lavori pesanti, per cui la loro ascesi si colloca piuttosto su
un piano intellettuale e di impegni legati a studio, preghiera e beneficenza [Gribomont 1986].
La vita era frugale e Paola era la prima a dare il buon esempio e a praticare la virtù: con Eustochio era sollecita nella preghiera e nei servizi
più umili (non dimentichiamo però che Gerolamo ci informa, come già
abbiamo avuto modo di sottolineare, che nel monastero si mantengono
comunque le distanze sociali: è evidente che nella descrizione di Paola
alcune caratteristiche sono quantomeno enfatizzate da parte di Gerolamo). L’impressione è che più dei monaci le ascete si affidassero alla
carità e che il lavoro fosse una sorta di necessario bilanciamento con la
Hier., Ep., 108,20: dicam et de ordine monasterii, quomodo sanctorum continentiam in
suum uerterit lucrum [...] post uirorum monasterium, quod uiris tradiderat gubernandum,
plures uirgines, quas e diuersis prouinciis congregarat, tam nobiles quam medii et infimi
generis, in tres turmas monasteria que diuisit, ita dumtaxat, ut in opere et cibo separatae
psalmodiis et orationibus iungerentur.
30
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo V. Le scelte più estreme: povertà assoluta e monachesimo
131
preghiera, per non far sembrare interminabili le giornate trascorse in
una grotta o in una cella. Un passo dell’epistola 130 di Gerolamo serve a
chiarire il problema [130,15]: «Oltre alla serie dei Salmi e delle preghiere
che devi abituarti a recitare a terza, a sesta, a nona, a vespro, a mezzanotte e al mattino, stabilisci quante ore intendi dedicare allo studio della S.
Scrittura, e il tempo che vuoi destinare ad una lettura che non ti affatichi ma che ti serva come ricreazione e nutrimento all’anima. Una volta
terminati questi periodi di tempo, e dopo aver fatto in ginocchio quelle
frequenti preghiere che la sollecitudine per la tua anima ti avrà ispirato,
per il resto tieni sempre in mano la lana, oppure torci col pollice e riduci
in filo il pennecchio della conocchia, o fa’ girare i fusi nella navetta per
tessere la trama; raccogli in gomitoli o avvolgi in matasse per la tessitura
il filato delle compagne. Esamina poi il tessuto fatto, aggiusta quello
sbagliato e prepara quello da fare. Se starai occupata in attività così svariate, i giorni non ti sembreranno così lunghi, anzi, persino quando il
sole, d’estate, li allunga, ti parranno corti, soprattutto quelli, poi, nei
quali sarai riuscita a terminare il lavoro»31.
Peraltro, gli stessi testi antichi ci segnalano che fra i compiti dei cenobiti
c’era quello di mantenere le corrispettive strutture femminili, segno di
una organizzazione del lavoro in queste ultime meno cogente e soprattutto più circoscritta [Gribomont 1986; Giannarelli 1986]. Resta tuttavia l’impressione che il monachesimo femminile, piú di quello maschile,
sia legato alla presenza di singole personalità trainanti (Paola, Eustochio,
le due Melanie), di alta collocazione sociale e che questo abbia dato una
impronta del tutto particolare al movimento, riguardo al quale si tende
più ad una giustificazione ideologica che non ad una regolamentazione concreta. Non siamo però lontani dalle motivazioni di autonomia
e dovere di carità tipiche della forma antoniana, ma l’economia di un
cenobio femminile si basa moltissimo sul patrimonio della fondatrice,
che spesso vi fa confluire non solo le sue sostanze, ma la sua famiglia, la
Più o meno sulla stessa linea di Hier., Ep., 108,20: mane, hora tertia, sexta, nona,
uespera, noctis medio per ordinem psalterium canebant nec licebat cuiquam sororum ignorare
psalmos et non de scripturis sanctis cotidie aliquid discere.
31
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madre, le serve, riproponendo una struttura, che in parte sembra riflettere quella domestica. Inoltre, forse sulla spinta dell’esempio fornito
da Macrina, il lavoro per la donna aristocratica che si fa monaca é più
un mezzo di correzione spirituale. Lo stesso atteggiamento si ritrova
in Gerolamo, che invita le sue nobili discepole a lavorare, o meglio ad
organizzare il lavoro della lana, per evitare di peccare, dato che, come
si suole dire proverbialmente, il padre dei vizi è 1’ozio [130,15: … haec
obseruans et te ipsam saluabis et alias et eris magistra sanctae conuersationis
multarum que castitatem lucrum tuum facies scriptura dicente: in desideriis
est omnis anima otiosi]. E se da Agostino abbiamo notizia di monache
che vivono insieme con il frutto del loro lavoro, sostengono i poveri e
tessono vesti per procurarsi da mangiare, la linea per così dire «aristocratica» del monachesimo femminile inaugurata da Paola ed esaltata da
Gerolamo non conosce interruzioni e arriva a trovare un corrispettivo
nell’esempio tardo della regina monaca Radegonda, che attraverso la
penna di Venanzio Fortunato si trasforma nel prototipo della dama di
carità [Consolino 1984; Giannarelli 1986]. Un’ultima riflessione: si è
detto che, prima di tutto, Paola pratica l’ascetismo a Roma, a casa. L’eccezionalità del suo trasferimento al monastero a Betlemme, con tutto ciò
che aveva comportato, doveva essere stata aumentata anche dal carattere
duro e avventuroso della vita nel deserto, che non doveva essere particolarmente conveniente per una donna: la città offriva una sicurezza fisica e
anche morale, e la vita cittadina, anche quando si qualificava come vita
di comunità, sembrava più adatta ad assicurare protezione. Come è ben
chiaro dalla lettera 130, a Demetriade, l’eremitismo femminile destava
grande sospetti, anche a Gerolamo stesso: chiedendosi retoricamente se
è migliore la vita eremitica o quella cenobitica, Gerolamo afferma che
va certamente preferita la prima, tuttavia «se già presenta dei pericoli
per le persone di sesso maschile perché, tolte fuori dalla compagnia dei
loro simili, sono più esposte ai pensieri impuri ed empi, diventano piene
d’arroganza e d’orgoglio, disprezzano tutti [...] quanti più ne presenta per le donne che sono instabili e fluttuanti nei loro sentimenti e, se
abbandonate a se stesse, fanno presto a scivolare verso il peggio! [quanto
magis in feminis, quarum mutabilis fluctuans que sententia, si suo arbitrio
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo V. Le scelte più estreme: povertà assoluta e monachesimo
133
relinquatur, cito ad deteriora delabitur!]. Ne ho conosciuto personalmente
dell’uno e dell’altro sesso che, per l’eccessiva astinenza, hanno perso a
tal punto la sanità del cervello - soprattutto quelli che abitavano in celle
fredde e umide - che non sapevano più cosa fare, dove andare, quello che
dovevano dire o tacere»32.
32 Hier., Ep., 130,17: solet inter plerosque esse certamen, utrum solitaria an cum multis uita sit melior. quarum prior praefertur quidem secundae, sed, in uiris si quidem periculosa est, ne abstracti ab hominum frequentia sordidis et inpiis cogitationibus pateant
et pleni adrogantiae ac supercilii cunctos despiciant arment que linguas suas uel clericis
uel aliis monachis detrahendi <causa> - de quibus rectissime dicitur: filii hominum,
dentes eorum arma et sagittae et lingua eorum gladius acutus… noui ego in utroque sexu
per nimiam abstinentiam cerebri sanitatem in quibusdam fuisse uexatam praecipue que
in his, qui in humectis et in frigidis habitauere cellulis, ita ut nescirent, quid agerent quo
ue se uerterent, quid loqui, quid facere deberent.
Capitolo VI
Lasciare tutto: pellegrinaggio e vita monastica
«Non basta che ti sia allontanata dalla patria, se poi non dimentichi il
tuo popolo e la casa paterna; non è sufficiente neppure aver disprezzato
la carne, se non ti unisci agli amplessi dello Sposo [uerum non sufficit tibi
exire de patria, nisi obliuiscaris populi et domum patris tui et carne contempta
sponsi iungaris amplexibus]. La Scrittura dice: “Non guardare indietro,
non fermarti in nessun luogo dei dintorni; salvati sul monte, per non
essere fatta prigioniera”. Posta mano all’aratro non è più il caso di voltarsi indietro e tornare a casa dal campo; né conviene scendere dal tetto
a prendere un’altra veste, una volta indossata la tunica di Cristo» [22,1].
«Casa, padre e madre, sorella, parenti, e - questo m’era più difficile - l’abitudine a lauti pranzi: tutto avevo tagliato via per il regno dei cieli, e
me n’ero andato a Gerusalemme a militare per Cristo»: questo è ciò che
racconta Gerolamo di sé stesso alla figlia di Paola nella lettera 22 [paragrafo 30]1. Paola (con Eustochio) segue il suo esempio, e lascia tutto per
il suo ideale cristiano. Gerolamo, in tutti i suoi scritti, si fa propagatore
dell’importanza dei luoghi santi e della necessità di visitarli da parte dei
Hier., Ep., 22,30: cum ante annos plurimos domo, parentibus, sorore, cognatis et, quod
his difficilius est, consuetudine lautioris cibi propter caelorum me regna castrassem et hierosolymam militaturus pergerem…
1
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fedeli. Nel caso della sua corrispondenza con Paola, ma in realtà anche
in quella con altre vedove, le incita particolarmente a recarsi in Palestina,
a venerare i luoghi santi, a vedere (e infatti sottolinea spesso come Paola
veda con i propri occhi) e adottare la vita monastica [Kelly 1975; Hunt
1982; Maraval 1988]. In particolare due sono le lettere che coinvolgono
direttamente l’incitamento e la descrizione del viaggio-pellegrinaggio
dell’amica Paola, la lettera 46 e l’epitaffio di Paola, cioè la lettera 108 a
Eustochio (a cui rimando per l’analisi del viaggio di Paola). Il tema della necessità del pellegrinaggio per il sapere biblico è sentito come molto
forte [46,7-9], e Gerolamo, anche in un’altra lettera, la 53, ricorda che
pure Pitagora, Platone, Apollonio di Tiana e altri pagani lodarono con
San Paolo i meriti di un pellegrinaggio erudito [53,1-2]2. Nella lettera
46, di cui ho già parlato in merito alla paternità geroniamiana, ma anche
nel 393, nella lettera a Desiderio di Roma [47,2], nel 394-395, nelle
lettere a Paolino, il futuro vescovo di Nola [53 e 58], o, più tardi, nel
407, a Rustico [lettera 145], Gerolamo non cesserà mai di promuovere
la bontà e la validità dei luoghi santi. Nella lettera 46, soprattutto, dettando, secondo la mia interpretazione, a Paola ciò che deve scrivere a
Marcella, l’importanza del messaggio di promozione dei luoghi santi è
acuito da due principali motivi: il primo è che la lettera è la prima, in
ordine cronologico, a contenere esplicitamente una lode di questi luoghi, contrapposti alla negatività della città di Roma, piena di corruzione
e malvagità; il secondo è che l’elogio risulta tramandato da una donna,
Paola, che ha visto con i propri occhi ciò che Gerolamo cercava di spiegare. Forse può essere proprio questo il motivo per cui la lettera 46,
Hier., Ep., 53,1: habuit illa aetas inauditum omnibus saeculis celebrandum que miraculum, ut orbem totum ingressus alium extra orbem quaereret: apollonius - siue ille magus, ut
uulgus loquitur, siue philosophus, ut pythagorici tradunt - intrauit persas, transiuit caucasum,
albanos, scythas, massagetas, opulentissima indiae regna penetrauit et ad extremum latissimo
phison amne transmisso peruenit ad bragmanas, ut hiarcam in throno sedentem aureo et de
tantali fonte potantem inter paucos discipulos de natura, de moribus ac de siderum cursu
audiret docentem. Ep., 53,2: quid loquar de saeculi hominibus, cum apostolus paulus, uas
electionis et magister gentium, qui de conscientia tanti hospitis loquitur: an experimentum
quaeritis eius, qui in me loquitur christus?, post damascum arabiam que lustratam ascenderit
hierosolymam, ut uideret petrum, et manserit apud eum diebus quindecim…
2
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo VI. lasciare tutto: pellegrinaggio e vita monastica
137
l’unica che abbiamo come scritta da Paola, si trova all’interno dell’epistolario geronimiano. Gerolamo vuole rendere il suo messaggio ancora
più forte, e grazie alla lettera che fa passare per scritta da Paola e Eustochio, il suo messaggio assume ancora più valore, in quanto Paola e la
figlia hanno visto realmente, e possono risultare come viva testimonianza della bellezza e della santità di quei luoghi, affermando non solo la
fondatezza spirituale del pellegrinaggio, ma confermando anche l’autenticità e l’incontestabilità della loro scelta. Paola infatti sembra testimoniare dei temi di fondo della polemica geronimiana [46,4], basandosi sul carattere spirituale della scelta cristiana. Nella lettera 46, ancora, la
diatriba è contro coloro che considerano la terra di Gerusalemme come
maledetta, perché ha «bevuto il sangue del Signore» [maledictam terram
nominant, quod cruorem domini hauserit, et quomodo benedicta loca putant,
in quibus petrus et paulus, christiani exercitus duces, sanguinem fudere pro
christo?] e perché ha visto la Passione di Cristo: secondo Gerolamo,
attraverso le parole di Paola, queste sono voci scellerate [Maraval 1988]:
è Roma che può essere considerata maledetta, dato che ha bevuto il sangue di Pietro e Paolo [46,8]3. E ancora, a 46,12, la contrapposizione tra
Roma e Betlemme: «è vero, anche dove tu vivi c’è la santa Chiesa, i
trofei degli Apostoli e dei martiri, il paganesimo rovesciato e il nome
cristiano che ogni giorno prende più quota. Ma è proprio la grandiosità, la fastosità, la potenza, la grandezza della città, la necessità di farsi
osservare e di curiosare, la smania di essere salutati e di salutare, di lodare
e criticare [...] proprio queste cose sono tanto estranee alla vita ascetica
dei monaci»4. Attraverso la descrizione del viaggio di Paola, la visita dei
luoghi santi è un’eccellente occasione per spiegare la religione cristiana
Hier., Ep., 46,8: maledictam terram nominant, quod cruorem domini hauserit, et quomodo benedicta loca putant, in quibus petrus et paulus, christiani exercitus duces, sanguinem
fudere pro christo?
3
Hier., Ep., 46,12: est quidem ibi sancta ecclesia, sunt tropea apostolorum et martyrum, est
christi uera confessio et ab apostolis praedicata fides et gentilitate calcata in sublime se cotidie
erigens uocabulum christianum, sed ipsa ambitio, potentia, magnitudo urbis, uideri et uidere,
salutari et salutare, laudare et detrahere, audire uel proloqui et tantam frequentiam hominum
saltim inuitum pati a proposito monachorum et quiete aliena sunt.
4
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a tutti coloro che si sforzano, come ha fatto Paola stessa, di conoscere e
meglio comprendere la Bibbia [46,9]. I tre frutti che grazie a Paola vengono colti attraverso il viaggio sono la pietà, il sapere e la virtù, intese
cristianamente [46,11-12]. È innegabile che la frequentazione dei luoghi santi serva ad aumentare le personali virtù cristiane, già molto lodate, di Paola. Si legga, per esempio, nell’epitaffio: «E chi nei luoghi santi
ritrova cosa più degna di ammirazione tra gli uomini che Paola? Ella
come gemma preziosissima tra molte gemme risplende. E in quel modo
che lo splendore del sole copre e oscura le piccole fiammelle delle altre
stelle, così quella gran donna con la sua umiltà ha superate le virtù e le
potenze di tutti, ed è stata la minima fra tutte per divenire di tutte la più
grande; quanto più ella si abbassava, tanto più dal Cristo era innalzata.
Cercava di nascondersi, ma non le riusciva l’intento». Gerolamo sviluppa attraverso diversi esempi questo concetto: se esistono dei personaggi
santi, si trovano nei luoghi santi. In particolare tra questi vengono annoverati, oltre ai monachi, le vergini e le vedove: tra loro non esiste l’arroganza, la contestazione, il giudizio negativo riguardo agli altri [46,10: ad
quae nos loca non ut primae, sed ut extremae uenimus, ut primos in eis
omnium gentium cerneremus. certe flos quidam et pretiosissimus lapis inter
ecclesiastica ornamenta monachorum et uirginum chorus est [...] tot paene
psallentium chori, quot gentium diuersitates, et inter haec, quae uel prima in
christianis uirtus est, nihil adrogans, nihil de continentia supercilii: humilitatis
inter omnes contentio est]. Installarsi poi a Betlemme significa farsi eco di
tutti quegli importanti e ammirevoli monaci che già lo hanno fatto: la
santità dei luoghi, viene detto nella lettera 46, sembra agire in modo che
si rispecchi su coloro che a questi luoghi si avvicinano, e che qui si stabiliscono. Paola, fedele discepola che i monaci della Nitria erano pronti
ad accettare tra loro, è spinta dall’amore per i luoghi santi e desidera
proseguire il suo viaggio (dopo una prima tappa proprio in Nitria) e
risiedere, vicino a Gerolamo, nella santa Betlemme [108,14]. Paola ed
Eustochio, nella lettera 46, esaltano il fascino dei paesaggi bucolici del
villaggio, e, insieme a Gerolamo, paiono avere trovato ciò a cui Gerolamo aspirava in un’altra lettera a Marcella, cioè la calma della natura
(secondo quanto affermato nella lettera 43,3). Come per Gerolamo, per
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo VI. lasciare tutto: pellegrinaggio e vita monastica
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Paola Betlemme è contrapposta, nella lettera 46, alla città della confusione [46,9-10], alle mondanità, al lusso e ai piaceri, che essa stessa ha
abbandonato, lasciandosi alle spalle anche gli spiriti cattivi degli abitanti di Roma [46,10]. Paola, abitando per tre anni in una umile dimora, il
tempo necessario per costruire le celle e il monastero, fonda anche una
strada e un rifugio per i pellegrini [108,14]: dopo dodici anni, quindi,
sembra seguire l’esempio di Melania senior, e fonda un monastero a
Gerusalemme, dove continuerà ad abitare fino alla morte [108,34]. Le
lettere 46 e 108 vanno lette (come scritte dallo stesso autore?) quindi
anche come testimonianza dell’operato di Paola: al paragrafo 12 della
lettera 46 (con ripresa del paragrafo 2), inoltre, c’è un forte passo che
sottolinea l’incompatibilità della vita sociale della città con il santo proposito, cioè la scelta fatta da Paola, che non può essere disgiunto da ciò
che altrove [108,5] Gerolamo ha già espresso, desiderando un ritiro in
un luogo solitario, che non può non augurare quindi anche alla sua
discepola: «Non parlo poi dei pranzi che ci aggravano la pesantezza
dell’anima. E mi fa pure vergogna parlare delle visite così frequenti, sia
di quelle che ogni giorno rendiamo agli altri, sia di quelle che riceviamo
in casa nostra. In esse si finisce per parlottare, la conversazione va per le
lunghe, si tagliano i panni agli assenti, passiamo in rassegna la vita
altrui... e rosicchiandoci l’un l’altro finiamo di ingoiarci a vicenda [...]
sono i nostri vizi a metterci addosso tante maschere [...]. Da troppo tempo stiamo vivendo nei compromessi. La nostra nave un po’ è stata sballottata da tempeste marine, un po’s’è avariata nel cozzare contro gli scogli. Mi pare il caso, dunque, di rifugiarci al più presto in qualche
solitario e nascosto angolino di campagna, come in un porto» [108,5].
Il pensiero di Gerolamo è quindi tutto volto all’elogio del ritiro lontano
da Roma; nessuno si stupirà dunque se i luoghi della Palestina, che avevano santificato Gesù e la sua santissima Madre, hanno esercitato un
fascino e un’attrattiva così grandi su Gerolamo e sulla stessa Paola. Quali fossero i loro sentimenti su questo punto, si potrà facilmente indovinare da ciò che Paola ed Eustochio dicono a Marcella: «Con quali parole
noi possiamo darti un’idea della grotta in cui nacque il divin Salvatore?
Della culla che udì i suoi vagiti infantili? È più degno il silenzio che le
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nostre povere parole... Non verrà dunque il giorno in cui ci sarà dato di
entrare nella grotta del Salvatore, di piangere sulla tomba del divino
Maestro accanto a una sorella, a una madre? Di baciare il legno della
Croce, e sul Monte degli Ulivi di seguire in spirito, ardenti di desiderio,
Cristo nella sua Ascensione?» [46, 11 e 13]. Tutti questi concetti, della
superiorità dell’Oriente su Roma, vengono tra l’altro ribaditi per la nipote di Paola, la figlia di Laeta, nella lettera 107,13, nel già citato passo in
cui Gerolamo fa capire alla madre di Paola iunior che non è concepibile
allevare una vergine a Roma.
VI.1. L’ultimo passo verso la vita perfetta: il monastero
«Subito tornò in Palestina e si stabilì a Betlemme, dove rimase per tre
anni in un piccolo alloggio, fino a che costruissero alcune celle, monasteri e case di accoglienza in modo da ricevere i pellegrini» [108, 15].
È qui che Paola trascorse il resto dei suoi giorni, sotto la guida di San
Gerolamo, che anch’egli, in quello stesso posto, concluse la sua vita
dedicata allo studio della Sacra Scrittura e all’ospitalità verso gli stranieri.
Paola è consapevole del fatto che il suo viaggio è stato più lungo del
normale: «Ahimè, la mia peregrinazione si è prolungata. Io mi sono
trattenuta con gli abitanti di Kedar, e l’anima mia è stata lungo tempo
pellegrina [...]. Per la qual cosa spesse volte ripeteva quel detto: io sono
forestiera e pellegrina, come tutti i miei antenati. Diceva altresì: desidero
sciogliermi da questo corpo, ed essere con Cristo. Ogni volta poi che
ella era tormentata da qualche infermità del suo corpo (in lei prodotta
dalla sua incredibile astinenza e dai suoi continui digiuni) aveva questo
sentimento sulle labbra: Io sottometto il mio corpo e lo riduco in servitù, per timore che predicando io agli altri, non sia ritrovata reproba.
Parimenti diceva: è bene non bere vino, né mangiar carne. Soggiungeva
ancora: Ho umiliato l’anima mia col digiuno, e nella mia infermità per
tutto il mio letto mi sono rigirata, dicendo anche: Mi sono ritrovata in
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo VI. lasciare tutto: pellegrinaggio e vita monastica
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mezzo alle miserie, essendo da spine trafitta. E fra le punture dei suoi
dolori, da lei con ammirevole pazienza tollerati, come se appunto per
sé vedesse aperti i cieli, così diceva: Chi mi darà ali a guisa di colomba,
e volerò e riposerò?»
Sappiamo dall’epitaffio di Paola [108,20] come era organizzato il monastero che essa dirigeva: «Parlerò ancora dell’ordine del suo monastero e
come volse in proprio vantaggio la continenza dei santi». Paola seminava cose carnali per cogliere le spirituali, dava le terrene per ottenere le
celesti, concedeva agli altri quelle che presto passano per far cambio con
le eterne. Dopo aver costruito un monastero per gli uomini, da lei pure
posto sotto il governo degli uomini, divise in tre schiere e in tre monasteri un grande numero di vergini [...]. Terminato il canto dell’alleluia,
col quale segno erano quelle chiamate perché venissero alla così detta
colletta, a nessuna era permesso di rimanere da sola. Ma venendo essa la
prima o tra le prime, stava ad aspettare che giungessero le altre, provocandole alla fatica con la vergogna e con l’esempio, non già col terrore.
La mattina a terza, a sesta, a nona, a vespro e a mezzanotte, seguendo
l’ordine dei salmi, cantavano il salterio». Gerolamo continua informandoci che Paola voleva che ciascuna delle sorelle imparasse i salmi e diceva
che conveniva imparare ogni giorno qualche cosa della divina Scrittura.
Le vedove e le vergini che vivevano insieme a Paola dovevano dedicarsi,
oltre alla lettura delle Scritture, anche a qualche altra attività lavorativa,
dato che Gerolamo ci dice che «solamente nei giorni di domenica andavano alla chiesa a fianco della quale avevano la loro abitazione. E ogni
schiera (agmen, in senso militare, che richiama la militanza-militaturus
con cui si autodefinisce Gerolamo a 22,305) di quelle seguiva la propria
madre e di là insieme ritornando attendevano a fare ciò che era loro
assegnato» [108,20]. Sappiamo inoltre che tutte queste donne cucivano
e insieme facevano abiti o per se stesse o per le altre. Paola pare molto
Gerolamo usa vocabili che richiamano alla milizia di Cristo più volte nelle Lettere.
A titolo di esempio, si ricordi per Demetriade, a 130,4, il nesso tiruncula Christi (cioè
recluta di Cristo; «tiruncula» letteralmente si traduce con «novizia», ma già Seneca dava
al tremine il significato di «soldatello»).
5
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attenta anche a non fare ricadere in vecchie brutte abitudini le vedove o
le vergini di nobile stirpe: «se tra esse ve ne era alcuna nobile, non le era
concesso di avere una compagna della propria casa, affinché, ricordandosi le antiche consuetudini, non riandasse agli errori della sua passata
molle fanciullezza e col discorrer insieme a lei non li facesse tornare
nella mente»6. Ancora, Paola cerca di fare sì che siano tutte uguali, quasi a formare un gruppo unico e indivisibile: «Andavano tutte vestite
nella stessa maniera: usavano panno di lino solamente per asciugarsi le
mani». Forse memore delle maldicenze e delle calunnie subite a Roma
da lei stessa e Gerolamo, Paola ha anche molta cura, nel suo monastero,
affinché non ci siano incontri con uomini: «Le teneva così strettamente
separate dagli uomini che ne escludeva anche gli eunuchi, per non dare
occasione alcuna alle lingue dei maldicenti di parlarne male, giacché
essi sono soliti parlare male dei santi anche per rallegrarsi del proprio
peccato»7. Gerolamo indubbiamente ci dona una descrizione idealizzata
di come Paola governava il proprio convento, attraverso l’elogio della sua
autorità carismatica e attraverso la descrizione dell’esperienza dell’amica,
che essa aveva accumulato negli anni. Il tema dell’esperienza di Paola
era già stato toccato nella lettera 107, 13, in merito ai motivi per cui
Laeta deve mandare Paola iunior a Betlemme dalla nonna: «Se ne stia in
grembo alla nonna, affinché essa possa ripetere nella nipote la riuscita
esperienza fatta sulla figlia, tanto più che la lunga pratica le ha insegnato
a nutrire, ad istruire, a preservare le vergini».
Il monastero di Paola, attiguo a quello di Gerolamo, veniva a costituire
un “duplice monastero”, dove uomini e donne facevano vite separate,
anche spiritualmente [108,20] e si autofinanziavano indipendentemente
gli uni dalle altre. L’intento di Paola era ovviamente eliminare la possi Hier., Ep., 108,20: si qua erat nobilis, non permittebatur de domo sua habere comitem,
ne ueterum actuum memor et lasciuientis infantiae errorem refricaret antiquum et crebra
confabulatione renouaret.
6
Hier., Ep., 108,20: a uiris tanta separatio, ut ab spadonibus quoque eas seiungeret, ne
ullam daret occasionem linguae maledicae, quae sanctos carpere solita est in solacium delinquendi, si qua uel tardior conueniebat ad psalmos et in opere pigrior, uariis eam modis
adgrediebatur.
7
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143
bilità di relazioni sentimentali: la sua non era soltanto una reazione alle
malignità suscitate dal rapporto che aveva stretto lei stessa con Gerolamo, ma era anche la reazione a un fatto probabilmente accaduto. Sappiamo infatti da un’altra lettera di Gerolamo, la 147 (della quale non si
riesce a stabilire l’anno di redazione), che un diacono, Sabiniano, che si
era aggregato al monastero di Gerolamo, aveva sedotto una delle vergini
del monastero di Paola8. Questo ci fa pensare che se i due riuscirono a
incontrarsi (e a frequentarsi, a quanto pare dalla descrizione di Gerolamo, che arriva a parlare di lunghi scambi di sguardi e di regali tra i due,
attraverso una finestra), in realtà la separazione tra il monastero maschile
di Gerolamo e quello femminile di Paola non fosse in realtà così rigida
come appare dalle parole di Gerolamo. Gli stessi Paola e Gerolamo continuarono infatti a vedersi e a scambiarsi pareri in materia intellettuale e
spirituale.
VI.2. L’Epitaffio di Paola
«Potrebbero trasformarsi in lingua tutte quante le membra del mio corpo [...] ma non riuscirei a esprimere una sola frase degna delle virtù
della santa e venerabile Paola! Nobile per casato, ma molto più nobile in
santità» [108,19].
La lettera 108 è conosciuta a tutti come “Epitaffio di Santa Paola”, redatto da Gerolamo alcuni mesi dopo la morte dell’amica. La lettera, come
altrove ho già accennato, è documento di importante valore in quanto
si costituisce fonte primaria per la biografia di Paola, dato che, in una
lunghezza importante, elenca tutte le tappe della sua vita e ne descrive le varie fasi con estrema precisione. Già dal titolo che Gerolamo dà
8
Hier., Ep., 147 [ad Sabinianum diaconum cohortatoria de paenitentia], partic. 5-7.
Hier., Ep., 108,1: si cuncta mei corporis membra uerterentur in linguas et omnes artus
humana uoce resonarent, nihil dignum sanctae ac uenerabilis paulae uirtutibus dicerem.
9
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alla lettera, cioè “Epitaffio”, sorgono però dubbi riguardanti la veridicità
delle notizie che in essa sono contenute. Ma Gerolamo come di consueto, è consapevole del fatto di potere suscitare perplessità, e così infatti
si difende: «Dirà il prudente lettore che io invece di scrivere le lodi di
questa matrona scrivo ciò che può recarle biasimo. Chiamo perciò come
testimone il mio Gesù, a cui essa ha servito e io desidero servire, che
non fingo ad arbitrio cosa alcuna né per l’una né per l’altra parte. Ma
come cristiano espongo le cose che sono vere di una donna cristiana,
scrivo cioè la storia, non compongo il panegirico di quella e ardisco dire
che i vizi suoi negli altri sono virtù»10. E ancora: «Io non loderò in lei
cosa alcuna, se non quel ch’è suo proprio, e deriva dal purissimo fonte
della sua santa mente» [libera traduzione di 108,2-3]11. Sebbene Gerolamo affermi questo non bisogna certo tralasciare il fatto che le orazioni
funebri siano volutamente tendenziose e mirino ad esaltare ed amplificare le virtù dei defunti: normalmente erano gli uomini che avevano
particolare interesse ad esaltare le proprie spose perché, come è stato
osservato, le virtù di una donna fedele testimoniano il valore del marito
e ne accrescono il prestigio e l’autorità [Parker 1998; Hemerlrijk 2004].
Ancora, come già Gerolamo aveva fatto nella lettera 22 a Eustochio,
tende a negare che elogerà al massimo l’amica, e non possiamo non
pensare che questo sia un artificio retorico, teso a nascondere un intento
ben preciso, e cioè, a parere mio, quello di elevare Paola a modello, a
martire e santa. Ne è prova, a mio avviso, una frase al 108,3: «Ma che sto
facendo? Non ho tenuto il filo del discorso. Mentre mi soffermo su ogni
dettaglio, esco fuori dalle regole oratorie!»12 Gerolamo, preso dall’enu-
Hier., Ep., 108,21: testor iesum, cui illa seruiuit et ego seruire cupio, me in utraque parte
nihil fingere, sed quasi christianum de christiana, quae sunt uera, proferre, id est historiam
scribere, non panegyricum, et illius uitia aliorum esse uirtutes.
10
Hier., Ep., 108,2-3 (riportati non integralmente): testor iesum et sanctos angelos eius
ipsum que proprie angelum, qui custos fuit et comes admirabilis feminae, me nihil in gratia,
nihil more laudantium, sed, quidquid dicturus sum, pro testimonio dicere et minus eius esse
meritis, quam totus orbis canit, sacerdotes mirantur, uirginum chori desiderant, monachorum
et pauperum turba deplangit.
11
12
Hier., Ep., 108,3: sed quid ago? narrandi ordinem praetermittens, dum in singulis teneor,
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145
merare le lodi dell’amica, ironicamente si sprona a dare un filo logico
al suo discorso, un filo che segua determinate regole letterarie. Anche
nella chiusa dell’Epitaffio, infine, Gerolamo torna sul concetto di prosa
e letteratura, affermando che a causa del proprio dolore e del proprio
coinvolgimento, ha composto «una prosa disadorna, priva di eleganza e
di leggiadria» [108,32]13.
Nel caso particolare di Paola, l’intento di Gerolamo non è semplicemente
quello di lasciarci un ritratto veritiero della discepola, quanto di delineare attraverso di lei il modello di ogni autentica santità. Non l’eccezione
dunque, ma la norma della fede, quale deve essere vissuta da chiunque
vuole dirsi cristiano. L’intento apologetico è trasceso da un altro ancora
più grande. Gerolamo fa capire, attraverso Paola, qual è il senso vero
della nostra vita cristiana, quale lo scopo ultimo cui dobbiamo tendere,
quale la grandezza e la nobiltà che noi tutto dobbiamo desiderare e cercare. Paola fu nobile, ricca e potente per famiglia, ma ogni bene terreno
lo considerò una perdita in confronto alla conoscenza del Cristo. Ogni
suo legame con la vecchia vita viene da lei spezzato da una sincera e
decisa volontà di andare incontro alla conoscenza di Dio. Dalle parole
di Gerolamo nell’Epitaffio, si capisce che questo è ciò che Paola riesce
a fare in maniera esemplare, entrando prima di tutto in un cammino di
conversione, non semplicemente a parole, ma con i fatti, spogliandosi di
tutto. La spiritualità esaltata all’estremo di Paola, la sua vita monastica, i
suoi ideali ascetici seguiti con regime austero non possono che portare
a delineare Paola come l’eroina geronimiana per eccellenza, ma fanno
anche pensare che Gerolamo stesse, mentre scriveva questa lettera, gettando le basi per un vero e proprio culto relativo alla discepola. In effetti,
le parole di lode che usa per Paola nell’Epitaffio, e le diverse espressioni
che delineano Paola come Santa (santa; venerabile; beata) hanno portato
alcuni studiosi anche a ritenere che Paola fosse, nell’ideale geronimia-
non seruo praecepta dicendi.
Hier., Ep., 108,32: nam quotienscumque stilum figere uolui et opus exarare promissum,
totiens obriguerunt digiti, cecidit manus, sensus elanguit. unde et inculta oratio uotum scribentis absque ulla elegantia et uerborum lepore testatur.
13
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no, un esempio di martire cristiana [Cain 2013]. Effettivamente, dopo
la morte dell’amica, Gerolamo applica gli aggettivi santa e venerabile
per Paola in numerose altre sedi e occasioni14: nel lessico ecclesiastico
tardoantico, santo e venerabile costituiscono epiteti sia per le persone di
Chiesa, sia per i laici.
L’Epitaffio è inviato a Eustochio, ma nel consolare la figlia, pare chiaro
che Gerolamo consola pure sé stesso per la morte dell’amica, alla quale idealmente si rivolge nel finale della lettera chiedendole di pregare
per lui, rimasto ormai solo con Eustochio e Paola iunior. Attraverso la
memoria di Paola, Gerolamo argina al tempo stesso il dolore del destinatario e del mittente epistolare. In questo epitaffio Gerolamo rifiuta la
prescrizione di collocare la figura di Paola solo e soltanto sullo sfondo
dei gesta maiorum (secondo le indicazioni letterarie tipiche della laudatio
funebris), e si dissocia dalla tradizione non solo retorica, ma anche gentilizia pagana, creando invece un’immagine cristiana di nobiltà tutta
interiore e spirituale.
La struttura del componimento è la seguente: prologo e dedica a Eustochio [1-2]; nobiltà di nascita e matrimonio di Paola [5-6]; vedovanza
e abbandono di Roma [7-14]. Inizia a questo punto la descrizione del
viaggio verso la Palestina e l’Egitto, che terminerà con l’arrivo a Betlemme, dove Paola porrà la sua dimore vicino alla grotta dove nacque il
Salvatore.
I paragrafi della lettera 108 che vanno dal 7 al 14 sono dedicati alla
descrizione del pellegrinaggio di Paola, Eustochio e Gerolamo in Terra
Santa. Gerolamo aspetta Paola a Reggio, e da quel giorno resteranno
insieme fino alla morte di lei. Il viaggio ha luogo intorno al 386: il fatto
che Gerolamo lo descriva una ventina di anni dopo (404) lascia pensare
che certi tratti della descrizione dei luoghi siano stati da lui attualizzati,
data la precisione con cui ce la consegna. Tale accuratezza non è affatto
inficiata dal carattere agiografico dell’elogio e dalla retorica dell’autore.
A titolo di esempio, Hier., Ep., 108,33: dormiuit sancta et beata paula e Praef. in Pachomiana Latina [CPL 0619 a]: unde et ego maerens super dormitione sanctae et uenerabilis
paulae…
14
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147
Il viaggio di Paola e quello di Gerolamo sono molto simili, anche se
non avvengono contestualmente. Il viaggio di Paola offre a Gerolamo il
pretesto per un breve excursus nelle Sacre Scritture [108,9]. In Palestina
ogni luogo riporta alla mente la Parola di Dio. Ha inizio una delle parti
più lunghe della lettera. Il discorso in questi paragrafi potrebbe essere
giudicato alquanto pesante e noioso, dato che è permeato di nomi e
citazioni della Scrittura che si susseguono in un flusso serrato e continuo, che sembra non aver mai fine. E non si può dire che tutto questo
non sia avvertito dallo stesso Gerolamo; ma lo scopo è ben preciso, ed è
quello di fornirci un insegnamento. Nessun approdo felice ci può essere ad uno spirito di preghiera perenne se non si percorre prima, con la
lettura, la meditazione, il richiamo alla mente, tutto il percorso tracciato
dalla Parola di Dio. La fede viene dall’ascolto e l’ascolto dalla Parola di
Dio. Gerolamo non vuole semplicemente darci un assaggio delle sua
conoscenza delle Sacre Scritture, per fare sfoggio di sovrabbondante e
sfacciata cultura biblica. Vuole innanzitutto premettere ad un discorso
l’importanza di un approccio serio e profondo con la Parola Rivelata,
come condizione sine qua non per una fede fondata ed approvata da
Dio. Non poteva esserci esaltazione della vita di Paola, se non preceduta
dall’esaltazione di quella Parola per la quale ed in virtù della quale ci è
donata la fede in Cristo. Durante il suo pellegrinaggio, quindi, Paola
va Cipro, dove si getta ai piedi di Santa Epifania, che la ferma per dieci
giorni per farla riposare, poi impiega il suo tempo per visitare i monasteri del paese, dove distribuisce elemosine ai solitari che l’amore del santo
vescovo aveva attirato da tutte le parti del mondo. Da lì, si trasferisce ad
Antiochia, dal vescovo Paolino. Se ne riparte poi in pieno inverno, su un
asino, invece di essere trasportata dagli eunuchi, come era sua abitudine.
Attraversa la Siria fino a Sidone; nelle vicinanze, a Sarepta. A Cesarea,
vede la casa del centurione Cornelio trasformata in una chiesa, la casa
di San Filippo e le stanze delle quattro vergine profetesse, sue figlie. Il
governatore della Palestina, che conosceva la famiglia di Santa Paola,
aveva inviato alcuni agenti per preparare in anticipo il palazzo a Gerusalemme; ma Paola preferisce alloggiare in una povera cella. Gerolamo
la descrive visitare i luoghi santi con tale devozione che lascia il lettore
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senza parole. Molto intenso è il passo in cui viene descritta prostrata
davanti alla croce, mentre venera il Signore, come se lo vedesse inchiodato: «Entrava nel sepolcro, baciava la pietra che l’angelo aveva tolto
per aprirlo, e, ancor di più, il luogo in cui aveva riposato il corpo di
Gesù Cristo» [108,10]. Dopo la distribuzione di elemosine a Gerusalemme, Paola prende la strada per Betlemme, e vede di sfuggita la tomba
di Rachele. Entrando nella Grotta della Natività «le parve di vedere il
bambino Gesù adorato dai pastori e dai re Magi»15. Paola visita inoltre
la torre di Ader o del Gregge e altri luoghi famosi della Palestina. Vede,
tra gli altri, la tomba di Lazzaro e la casa di Marta e Maria. Sul monte
di Efraim, è descritta come adorante le tombe di Giosuè e del pontefice
Eleazaro. A Sicar, entra nella chiesa costruita sopra il pozzo di Giacobbe,
dove il Salvatore parlò alla Samaritana. Vede, poi, le tombe dei dodici
patriarchi, e soprattutto quella di San Giovanni Battista, dove Gerolamo
ci dice che fu terrorizzata dagli effetti del demonio sui posseduti. Gerolamo descrive il pellegrinaggio di Paola, e quindi ci trasmette anche
le vestigia dell’antichità sacra che, a suo tempo, si presentavano nella
Palestina. A questo punto Paola, accompagnata dalla figlia Eustochio e
da altre vergini, parte per l’Egitto. Arriva ad Alessandria, poi al deserto
di Nitria, dove il vescovo Isidoro, confessore, viene a lei con numerosi
gruppi di monaci, tra i quali alcuni che erano sacerdoti e diaconi. Paola visita i più famosi monaci solitari, entra nelle loro celle, cade ai loro
piedi, e Gerolamo ci informa del fatto che volentieri sarebbe rimasta in
quel deserto, con le figlie, se non l’avesse tradita l’amore per i luoghi santi
[108,14]16.
Questo è il momento ideale per l’esaltazione delle virtù di Paola, le sue
prove morali e fisiche [paragrafi 15-22]. Con le sue parole Gerolamo
Hier., Ep., 108,10: ubi bos et asinus calcant, me audiente iurabat cernere se fidei oculis
infantem pannis inuolutum uagientem in praesepe, deum magos adorantes, stellam fulgentem
desuper, matrem uirginem, nutricium sedulum, pastores nocte uenientes,
15
Hier., Ep., 108,14: nec multo post in sancta bethleem mansura perpetuo angusto per
triennium mansit hospitio, donec extrueret cellulas ac monasteria et diuersorium peregrinorum iuxta uiam conderet, quia maria et ioseph hospitium non inuenerant. huc usque iter eius
descriptum sit, quod multis uirginibus et filia comite peragrauit.
16
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definisce i tratti di una santità che capovolge l’ordine dei valori umani,
per mettere al primo posto le beatitudini di Cristo. Non si è santi per
eredità umana, ma per libera elezione del nostro cuore. Non si è potenti
per le ricchezze terrene, ma per una povertà affidata al Cristo. Non sono
i palazzi grandi e dorati, ci fa intendere Gerolamo, costruiti da mani
d’uomo, che ci salvano dall’opera devastatrice, ma la Chiesa di Cristo,
unica abitazione bella e gradita ai suoi occhi anche se a noi può sembrare vile e malformato tugurio. Paola è perfetto esempio di questo messaggio cristiano di Gerolamo, che descrive la sua trasformazione con
queste parole: «Essa dunque abbassò se stessa con umiltà così profonda,
virtù che è la prima dei cristiani, che chi non l’avesse veduta e per la
fama del suo nome avesse desiderato di vederla, non avrebbe stimato che
fosse essa ma piuttosto l’ultima delle sue ancelle. Ed essendo circondata
da numerosi cori di vergini, per la maniera di vestire, alla voce, all’abito,
e al portamento era la minima di tutte. Dopo la morte del marito, fino
al giorno della sua morte non mangiò mai con alcuno uomo, sebbene
sapesse che quello era santo e costituito nell’alto grado di vescovo. Non
usò i bagni se non costretta da qualche infermità. Quantunque gravemente oppressa da febbre, non si coricò su molli materassi, ma distesi sul
suolo alcuni suoi piccoli cilici qui prendeva riposo, se pure può chiamarsi riposo quello in cui la pia donna, quasi in continue preghiere,
passava i giorni e le notti, adempiendo ciò che si legge nel salterio, cioè:
“Io lavavo ogni notte il mio letto, con le mie lacrime bagnerò il mio
giaciglio». Gerolamo ricorda che spesso aveva ammonito la sua amica e
discepola, affinché avesse riguardo ai propri occhi e li conservasse per
leggere il Vangelo, e ricorda le risposte di Paola: «Deve sporcarsi questa
mia faccia, perché spesso da me contro il divino precetto è stata dipinta
con rossetto, biacca e antimonio. Voglio affliggere questo corpo che si è
dato a tanti piaceri. Conviene che un lungo riso da perpetuo pianto venga compensato. I molli lini e i drappi preziosissimi devono cambiarsi in
aspri cilici» [108,15]. Ancora, nell’Epitaffio Gerolamo non manca di
celebrare la castità di Paola, che deve fungere da esempio a tutte le
matrone, e che con il suo comportamento riuscì in qualche modo a
respingere le accuse dei maldicenti: «Se fra tali e così grandi virtù vorrò
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celebrare la sua castità, sembrerà cosa superflua. Perché anche a Roma,
essendo una secolare, fu essa esempio a tutte le matrone. Si comportò in
tal modo che le stesse lingue dei maledici neppure osarono fingere cosa
alcuna di pregiudizio al suo decoro. Non si vide mai animo più clemente del suo, nessuno più cortese verso gli inferiori. Non desiderava la
conversazione dei potenti. Eppure, nonostante ciò, non disprezzava con
fastidio i superbi e quelli che aspiravano a un po’di gloria» [108,15]. In
questo passo forse Gerolamo mitiga la sua polemica contro coloro che
avevano accusato lui e Paola di avere un rapporto troppo stretto; in questa lettera evidentemente non vuole dare spazio alla polemica, secondo
anche una frase che fa pronunciare poco più avanti a Paola stessa: «non
si devono temere le labbra ingannatrici e le lingue dei malvagi, godendo
noi di avere in aiuto il Signore, il quale dobbiamo ascoltare quando per
bocca del profeta ci ammonisce in tal modo» [108,18]. Le lodi fatte a
Paola all’interno dell’Epitaffio sono armonizzate tra racconto, esempi
biblici, e lodi vere e proprie intervallate da racconti di vita vissuta dalla
donna, come il suo dare ai poveri, ma anche il suo dare totalmente anche
il so corpo al Signore, con digiuni e astinenze propri dei più rigidi
monaci: anche questo la eleva al di sopra degli altri, e soprattutto delle
altre donne: «Noi sappiamo che molti hanno fatto elemosine, ma non
hanno dato cosa alcuna del proprio corpo: che hanno steso la mano in
soccorso dei bisognosi, ma sono stati vinti dai piaceri del senso: che
hanno imbiancato ciò che si vedeva fuori, ma dentro erano pieni di ossa
di morti. Tale non fu Paola, essendo essa stata di così grande continenza
che quasi passava il giusto e diventava debole di corpo per i digiuni
eccessivi e per la fatica. Essa non prendeva olio, tranne i giorni di festa e
soltanto nei cibi, per cui da questo si può comprendere quale stima
facesse del vino, dei liquori, dei pesci, del latte, del miele, delle uova e
delle altre cose che sono soavi al gusto. Di queste cose cibandosi alcuni
stimano di osservare una rigorosa astinenza e se di quelle non si riempiono il ventre si persuadono di avere assicurata la continenza». Ma
Gerolamo, ancora una volta, ricorda quanto fosse importante il suo ruolo da maestro nella vita dell’amica, che, anche se non ne aveva bisogno,
non era mai privata dei suoi consigli, in modo da rimenare sempre sulla
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retta via, e in modo da non farsi prendere da vanità o altri vizi: «È tuttavia noto che l’invidia sempre perseguita le virtù e i monti più eccelsi
sono anche i più esposti ai fulmini. Né faccia meraviglia se io dico questo degli uomini, dal momento che anche lo stesso nostro Signore per
l’invidia dei farisei fu crocifisso e tutti i santi hanno sempre avuto degli
emuli contro, anzi anche nel paradiso si ritrovò il serpente, per la cui
invidia entrò la morte nel mondo. Intanto il Signore aveva fatto levar
contro di lei un novello Adad Idumeo che la tribolasse affinché non si
insuperbisse. Questi dunque, quasi come un certo stimolo della carne,
spesso la ammoniva che la grandezza delle sue virtù non la sollevasse
troppo in alto e guardando il folle errare delle altre donne non si lusingasse di essere giunta al sommo della perfezione» [108,18]. Non sappiamo chi sia questo Adad Idumeo, ma è colui che attacca anche verbalmente Paola a tal punto che Gerolamo le consiglia di lasciare Betlemme
per non doverlo affrontare. Ma Paola non persiste e non accetta il consiglio di Gerolamo, è ferma nella sua scelta [108,18]. Un altro personaggio [108,18 e 108,23-24] è additato come nemico di Paola, ma non
siamo in grado di identificarlo. Paola giustifica la propria pazienza,
interpretata in senso cristiano anche di perdono, di fronte a quanti la
accusano di superbia e contro coloro che, maldicenti, la accusano di follia: «Perché per quale ragione non devo io superare l’invidia con la
pazienza? Perché non devo vincere la superbia con la umiltà, a chi mi
percuote una guancia offrirgli l’altra, dicendo l’Apostolo: vincete il male
con il bene?». Paola non era certo immune alle tentazioni, ma era così
legata alle Scritture che esse la tenevano ferma nelle sue decisioni:
«Quando poi era assalita dalle tentazioni ripeteva le parole del Deuteronomio [...]. Nelle sue tribolazioni e angustie replicava le parole di Isaia».
Per Paola la tribolazione opera la pazienza, la pazienza la prova, la prova
la speranza, la quale non confonde: questa è dunque la maturità a cui è
giunta grazie alla Bibbia e a Gerolamo17. Grazie alla compagnia delle
Hier., Ep., 108,18: …tribulationem super tribulationem sustinere, ut spem super spem
mererentur accipere scientes, quoniam tribulatio patientiam operatur, patientia probationem,
probatio spem, spes autem non confundat, quod, si is, qui foris est, noster homo corrumpitur,
17
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Sacre Scritture, Paola, sebbene debole, fiaccata dalla fatica e dalle malattie, resiste, anzi, si sente più forte: «Quando mi trovo inferma allora io
sono più forte» [in languoribus et crebra infirmitate dicebat: quando infirmor,
tunc fortis sum: 108,19]. Ai paragrafi 23-25, troviamo la descrizione del
suo monastero, al paragrafo 26 viene descritta la sua gioia per il fatto che
la nipote Paola iunior seguirà la vita religiosa e si parla, come già detto,
dell’ingenium di Paola; la malattia e la sua morte, con il funerale occupano i paragrafi 27-29, e al paragrafo 30 Gerolamo torna ancora sulla
povertà di Paola. Ai paragrafi 31-33, la chiusa di Gerolamo, con anche
l’iscrizione che andrà sulla tomba di Paola. La decisione di porre un’iscrizione sulla tomba dell’amica può forse essere testimonianza favorevole di un pensiero di Gerolamo riguardo al culto di “Santa Paola”: l’iscrizione sul sepolcro può servire da monito ai pellegrini che si trovano
in viaggio, inteso non solo come viaggio fisico ma soprattutto spirituale18.
VI.3. Paola e Gerolamo
«Ho dettato questo libro, per te, sopraffatto da un dolore identico al tuo.
Ti assicuro che ogni volta che mi sono messo a scrivere, per comporre
questo lavoro che ti avevo promesso, mi sono sentito le dita paralizzate,
la mano mi cadeva inerte e mi sentivo svenire» [hunc tibi librum ad duas
lucubratiunculas eodem, quem tu sustines, dolore dictaui. nam quotienscumque
stilum figere uolui et opus exarare promissum, totiens obriguerunt digiti, cecidit manus, sensus elanguit: 108,32]. Con queste parole Gerolamo chiude
l’epitaffio a Paola, aggiungendo una richiesta particolare, cioè quella di
ille, qui intus est, innouetur.
Hier., Ep., 108,31: incidi elogium sepulchro tuo, quod huic uolumini subdidi, ut, quocumque noster sermo peruenerit, te laudatam, te in bethlem conditam lector agnoscat. titulus
sepulchri: scipio quam genuit, pauli fudere parentes, gracchorum suboles, agamemnonis inclita
proles hoc iacet in tumulo, paulam dixere priores. eustochiae genetrix, romani prima senatus
pauperiem christi et bethlemitica rura secuta est. et in foribus speluncae: despicis angustum
praecisa rupe sepulchrum?
18
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo VI. lasciare tutto: pellegrinaggio e vita monastica
153
pregare per lui, «un vecchio cadente che ti ama» [uale, paula, et cultoris
tui ultimam senectutem orationibus iuua: 108,33].
Come ormai più volte accennato, il rapporto privilegiato con Paola, mai
nascosto da Gerolamo nelle sue opere, crea numerosi malumori e maldicenze. Tra i vari modi in cui Gerolamo risponde alle critiche, talvolta
metodi come abbiamo notato molto forti, un passo della lettera 22, alla
figlia di Paola: «È difficile che il cuore dell’uomo non ami; è inevitabile
che il nostro spirito provi qualche affetto. Sia l’amore spirituale a vincere l’amore carnale! Un desiderio si spegne con un altro desiderio: se
il primo diminuisce, il secondo cresce in proporzione. Piuttosto ripeti
senza posa: «Sul mio letto, la notte, ho cercato l’amato del mio cuore» [22,17]19. Qui Gerolamo sta facendo tutt’altro discorso, esortando
Eustochio alla vita da vergine, ma sottolinea quello che più volte ha
cercato di spiegare riguardo all’amicizia tra lui e Paola: può esistere, anzi
deve esistere, anche «un amore spirituale». Oltre che a Gerolamo, Paola
a quanto pare è legata a tutta la sua famiglia: incontra infatti il giovane
fratello del Santo Paoliniano, e anche il suo caro amico, il prete Vincentius, che si era imbarcato con Gerolamo verso la Terra Santa.
Rimane da sottolineare che, nonostante sia stato il rapporto privilegiato
con Paola a portare a diverse maldicenze, in realtà anche con Eustochio
si segnala un rapporto particolare: «Mia Eustochio, tu che mi sei figlia,
signora, compagna, sorella - questi titoli te li devo per l’età, la virtù, la
fede comune, e, l’ultimo, per l’affetto che ci lega -; conserua è da intendersi forse come compagna, cioè insieme al servizio di Dio» [22,26: mi
eustochia, filia, domina, conserua, germana, - aliud enim aetatis, aliud meriti,
illud religionis, hoc caritatis est nomen]. Questa descrizione di Eustochio si
configura a mio avviso come la testimonianza di un tono di condivisione del dolore per la perdita di una persona comune tanto amata.
Certamente tra Paola e Gerolamo vi era stato un legame molto stret-
Hier., Ep., 22,17: difficile est humanam animam non amare et necesse est, ut in quoscumque mens nostra trahatur affectus. carnis amor spiritus amore superatur; desiderium desiderio restinguitur. quidquid inde minuitur, hinc crescit. quin potius semper ingemina: super
lectum meum in noctibus quaesiui, quem dilexit anima mea.
19
154
ISBN 9788898392162
to, questo non si può certo negare, ma il Santo non fu l’unico a tenere
con la donna un rapporto spirituale. Già si è detto che Paola, attraverso
Gerolamo, aveva conosciuto il vescovo Epifanio di Cipro e Paolino di
Antiochia, venuti a Roma per il Concilio convocato da Papa Damaso nel
382, che aveva per scopo l’elezione contestata da Flaviano sul seggio di
Antiochia. Anche essi esercitarono senza alcun dubbio un’azione determinante sulla conversione di Paola. Come già accennato, Epifanio fu
ospitato da Paola in casa propria, mentre Paolino alloggiava in un’altra
dimora. Gerolamo si era fermato qualche tempo nella comunità di Paolino, e il vescovo Epifanio, per circa trent’anni, fino al 367 (anno della
sua elevazione?) aveva vissuto la vita monastica in un monastero fondato
da lui stesso in Palestina: le esperienze monastiche di questi personaggi
influenzarono decisamente Paola. Tre anni dopo, sulla via per Betlemme, Paola fece una tappa a Cipro, dove fu ospitata da Epifanio, poi si
fermò ad Antiochia, dove invece fu accolta, e forse ospitata, da Paolino. Proseguendo nel suo viaggio in Egitto, Paola passò ad Alessandria,
dove il vescovo Isidoro di Ermopoli le venne incontro, accompagnato da
una «truppa memorabile di monaci». Questi erano al corrente dell’arrivo
della donna grazie al suo rapporto epistolare e personale con Gerolamo.
Prima di arrivare a Gerusalemme, fu accolta dal proconsole di Palestina.
Alipio, amico di Agostino, prima di diventare vescovo fece un viaggio
in Palestina e si recò da Gerolamo, nel monastero vicino a Paola, e i due
si conobbero grazie all’intermediazione geronimiana. Ancora, è lecito pensare che Paola ebbe modo di conoscere Fabiola, nobile romana,
vedova, che lasciò i suoi beni e si imbarcò per l’Oriente e a Betlemme,
nel 394, fu ricevuta da Gerolamo che si era anche preso l’incarico di
trovarle un posto dove potersi stabilire [Ep. 77,7 e 10]. Fabiola poi tornò
a Roma, e collaborò con Pammachio, il genero di Paola, alla costruzione
del primo ospedale, divenuto famosissimo, del Porto Romano [Labourt
1951]. Non si capisce come mai il rapporto di Gerolamo e Fabiola non
destò mai alcun sospetto nei detrattori geronimiani. Inoltre Paola ebbe
forse modo di conoscere Palladio, non ancora vescovo ma monaco: questi, negli anni 386-388 visse infatti a Gerusalemme, ed è lui la seconda
fonte su Paola, che cita nella sua storia composta tra il 419 e il 420. Tra
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo VI. lasciare tutto: pellegrinaggio e vita monastica
155
le donne, Paola entrò forse anche in contatto con Melania senior, che
visse a Gerusalemme dal 376, per almeno venticinque anni. Malgrado
il silenzio, curioso, delle fonti riguardo ad un loro contatto, esse ebbero
esperienze così simili, che sembra difficile escludere una loro conoscenza: si può anche pensare che Paola, al suo arrivo a Gerusalemme nel
385, beneficiò della sua ospitalità. La nipote di Paola, in tutti i casi,
assistette alla morte di Melania iunior nel 439: questo proverebbe che
una qualche amicizia tra le donne forse si era creata [108,18]. La cosa
che colpisce è che intorno a Paola, che aveva cercato in un certo senso
l’isolamento dal tipo di mondo che aveva lasciato, gravitano comunque
più di una quarantina di persone con le quali essa aveva o legami di
parentela o di amicizia. Questi legami si perpetuano anche e malgrado
la cesura spazio-temporale che Paola aveva operato compiendo la sua
scelta: molti suoi amici o parenti si ricongiungono in effetti con lei a
Betlemme. L’aristocratica romana si ritrova quindi con altre nobili che
a Roma, ciascuna secondo il proprio percorso, aveva seguito la stessa vita
ascetica: prestando fede alla già menzionata testimonianza di Palladio
[Storia Lausiaca, 41], a Betlemme, dopo la sua morte, una cinquantina di
persone continuarono a costituire la sua comunità, e Paola fu apprezzata
da numerosi vescovi della Palestina, per la sua umiltà cristiana e la sua
naturale autorità. La sua influenza, indipendentemente da ciò che dice
Gerolamo, al quale (forse) troppo spesso è associata, si nota nel paradosso del suo funerale, al quale parteciparono vescovi e una folla numerosissima: lei che aveva voluto un’esistenza solitaria, ritirata e di preghiera,
diede invece il via a una vita comunitaria che, grazie al suo nome e alla
sua celebrità, si trovò al centro del mondo cristiano tra Oriente e Occidente. Paola quindi, piace ricordarlo, non si legò al solo Gerolamo. Ma
ritornando al rapporto con il solo Gerolamo, il Santo, come si evince
dall’Epitaffio, non nasconde il suo dolore per la grande perdita che ha
subito; tutta la lettera 108 ci fa ben capire il tono di intimità, spirituale,
e la confidenza, data dagli interessi e dagli intenti progettuali comuni,
dei due. Nell’Epitaffio, ricordando di Paola le lotte e le fatiche, sembra
quasi che Gerolamo si identifichi con l’amica, e i due sembrano diventare un’unica persona che combatte per un obiettivo fondamentale. Nella
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chiusa, chiedendo a Paola di pregare per lui, ci testimonia come l’età e
gli studi e la preghiera costante, unita alla solitudine del monastero, non
lo avessero privato della sensibilità. Gerolamo era unito a mio avviso a
Paola da un affetto puro, da quella dilectio che lui stesso ci testimonia
in una sua lettera, la 62: questa dilectio, questo rapporto così particolare,
era un attaccamento generato dalla parte migliore dell’anima, più forte
di tutti i legami carnali [62,1]20. La differenza del legame con Paola, se
confrontato con quello che Gerolamo aveva avuto con Marcella, o con
Eustochio, o con Paola iunior, è dato a mio avviso da un’altra testimonianza di Gerolamo, nella lettera 45. Qui infatti il Santo, parlando del
suo rapporto con le donne del seppur ristretto conciliabolo denominato
Circolo dell’Aventino, afferma che qualcosa (di eccezionale a mio avviso) si era creato: «l’insegnamento aveva creato l’assiduità, l’assiduità aveva
creato la famigliarità, la famigliarità aveva creato la confidenza»21. Assiduità di frequentazione, famigliarità e confidenza: queste è a mio parere
creano la dilectio con Paola, unitamente a rispetto reciproco e sensibilità
affini22. Questi sentimenti non hanno nulla a che fare con quelli che lo
legano a Eustochio, che comunque lo sorreggerà e lo inciterà ugualmente a lavorare dopo la morte della madre (lo sappiamo per esempio da
un passo del Commentario a Ezechiele23), o con quello di Paola iunior,
che il santo accoglierà e aiuterà a formarsi, non senza sentire il peso della
fatica e della responsabilità [lettera 107].
Hier., Ep., 62,1: maiora spiritus uincula esse quam corporum si olim ambigebas. nunc
probauimus, dum et mihi sanctitas tua haeret animo et ego tibi christi amore coniungor. uere
enim et simpliciter candidissimo pectori tuo loquor: ipsa scidula et muti apices litterarum
spirant in nos tuae mentis affectum.
20
Hier., Ep., 45,2: paene certe triennio cum eis uixi; multa me uirginum crebro turba
circumdedit; diuinos libros, ut potui, nonnullis saepe disserui; lectio adsiduitatem, adsiduitas
familiaritatem, familiaritas fiduciam fecerat.
21
Della dilectio per Paola vedi Ep., 108,21: uitia loquor secundum animum meum et
omnium sororum ac fratrum desiderium, qui illam diligimus et absentem quaerimus.
22
Hier., In Ezechielem, 12: trepidationem meam in explanatione templi hiezechiel, immo
tacendi perseuerantiam, tuae, filia eustochium, preces, et domini promissa superant dicentis…
23
Capitolo VII
Conclusioni
Con l’esame delle lettere a Paola ho cercato, seppur limitatamente, di
evidenziare come grazie a questa donna ci si trovi di fronte, nel IV secolo, ad una varietà di situazioni ancora a noi poco chiare relativamente
alla scelta compiuta dalle aristocratiche nel periodo esaminato. Nella più
rigorosa pratica dell’ascesi, esse sembrano in un certo qual modo avere
disturbato gli equilibri sociali tradizionali, e ne è testimonianza la viva e
fervente polemica, quasi costante nelle lettere, di Gerolamo. Paola (dopo
l’esempio costituito da Melania, della quale, per ragioni di spazio, non
ho potuto parlare), con la sua conversione non sembra, perlomeno inizialmente, sconvolgere il nucleo famigliare a cui appartiene. Ma soltanto
all’inizio, cioè mentre fa della sua casa una domus ecclesiastica. La famiglia, gli amici, anche i figli, non sembrano toccati da questa scelta. Paola
ha già garantito la prosecuzione del suo nomen, e di quello del marito, e
il figlio maschio Tossozio risulta ancora pagano. Le regole dell’ambiente aristocratico tradizionale sembrano essere quindi ancora garantite, e,
tra l’altro, la vedova che aveva comunque fatto figli aveva certamente,
come notato da Giannarelli [1980; Consolino 2006], molta più libertà
di iniziativa e di movimento. Quello che deve avere turbato i più, a mio
avviso, probabilmente deve essere stato legato alla sua scelta di lasciare i
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suoi beni (o parte di essi, come a me sembra più probabile) ed avere successivamente influenzato oltre a Eustochio, anche Blesilla e la figlia di
Laeta e Tossozio, Paola iunior. La dismissione dei beni, a livello completo, in occidente pare scelta operata dalla sola Melania iunior: questo sta
a significare che la scelta di Paola, pur radicale, era probabilmente stata
operata con un determinato ragionamento, che comprendeva il lascito
della propria eredità ai figli che non l’avevano seguita nella conversione
o non volevano praticare alcune regole del cristianesimo, come invece
avevano fatto Blesilla e Eustochio. Un altro gesto che aveva certamente
suscitato scalpore era stato l’abbandono dei figli, scelta che come abbiamo notato Gerolamo cerca di sfumare e di rendere meno forte nei confronti dei suoi detrattori, nel passo già citato: «Paola dimenticava la propria maternità per mettersi alla prova come ancella… mentre si accinge
a partire i suoi occhi sono altrove, per non vedere cosa lascia… ma sono
convinto che nessun’altra abbia amato i suoi figli come lei» [108,6]. La
scelta innovativa di Paola a mio avviso rimane la sua partenza intesa già,
dal primo momento, come scelta definitiva, come decisione di stabilirsi
in terra santa, di staccarsi completamente dal mondo nel quale aveva
vissuto da sempre e non partire quindi come per un “semplice” pellegrinaggio. Il viaggio di Paola è la destinazione finale del suo percorso
spirituale, non è certamente un seguire la moda dei pellegrinaggi che
avevano trovato così tanto riscontro tra le aristocratiche cristiane e tra
alcune auguste, prima tra tutte l’Augusta Elena, madre dell’imperatore
Costantino. Paola non deve avere infastidito tanto per le sue interferenze
in materia religiosa, come invece fece Marcella, dato che è poco toccata
da questi problemi, ma può avere spaventato quello che le è più criticato,
e cioè quella che alla lettura delle lettere di Gerolamo mi fa pensare talvolta a una sorta sudditanza psicologica. È evidente da ciò che ci riporta
Gerolamo, e dalla brevissima definizione che di Paola dà Palladio, che a
turbare l’ambiente aristocratico sia stato non la sua scelta ascetica, che
tra l’altro si compì prima di conoscere Gerolamo, ma quello che dalla
pagine di Gerolamo emerge come un eccessivo credito dato da Paola al
maestro secondo amici e parenti della vedova. Il fatto che queste critiche
siano riportate da Gerolamo stesso mi fa riflettere che siano verifica-
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo VII. conclusioni
159
te realmente e siano state così numerose e continue da non permettere allo stesso Gerolamo di nasconderle nei suoi scritti, ma di tentare,
attraverso la sua prosa, l’unica via possibile, cioè di confutarle. Il ruolo
giocato dall’appartenenza all’ambiente aristocratico funge da elemento
fondamentale in questa conversione così straordinaria. Adottando l’abito monastico Paola, e tutte le donne che seguirono il suo esempio,
andarono contro tutte le regole tradizionali, mettendo ovviamente in
discussione per prima cosa lo statuto matrimoniale e rigettando tutti i
dogmi cari all’élite senatoriale. La partenza di Paola, seguita allo scandalo
provocato dalla morte di Blesilla, fiaccata dagli aspri digiuni, la scelta
altrettanto estrema di Eustochio mettono quasi contemporaneamente in
discussione tutto ciò che la nobiltà in realtà si aspettava da queste rappresentanti femminili di una nobile casata. Gerolamo non nasconde la
familiarità con Paola che viene a volte anche, dai maliziosi, trasformata
in qualcosa di più ambiguo; il Santo non nasconde inoltre la critica che
gli viene mossa dell’avere completamente soggiogato non solo Paola,
ma anche Blesilla. Dopo Paola, a Roma altre donne dell’ambiente aristocratico scelgono la conversione, e anche l’ascesi. Ma il fatto che non
si registrino dalle fonti critiche forti a gruppi di donne e vedove fa pensare che queste aristocratiche abbiano manifestato la loro fede religiosa
senza particolari scosse per l’ambiente che le circondava: non va infatti
dimenticato che l’amica Marcella, “luce del senato romano”, secondo la
definizione geronimiana della lettera 97,31, non lascia Roma, sebbene
incalzata da Gerolamo, Paola e Eustochio [lettera 46]; un’altra, Fabiola,
si accontenta di fare solo un pellegrinaggio ma ritorna a Roma. Risulta
evidente a mio parere che la società e l’ambiente aristocratico, anche se
non riuscivano ad impedire la conversione, influenzavano fortemente
queste donne, che adattavano per così dire la loro religiosità alla vita
romana, probabilmente celandosi discretamente, o chiudendosi nella
preghiera in casa.
Un interrogativo interessante, che al momento non trova a mio parere
Hier., Ep., 97,3 (a Pammachio e a Marcella): uos, christiani senatus lumina, accipite et
graecam et latinam etiam hoc anno epistulam.
1
160
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risposta, ed è destinato quindi a rimanere aperto, è se le lettere a Paola, e
alle altre, erano lettere davvero rivolte solo a queste donne. Sono del
parere che il vero destinatario fosse un pubblico molto più vasto, e che,
nel caso specifico di Paola, lei si sia configurata come perfetto strumento
per l’elaborazione di un messaggio nuovo, quello del cristianesimo,
molto difficile da fare circolare. Il fatto che spesso Gerolamo nelle sue
Lettere inserisca passi dalle parabole bibliche, o dai Salmi, porta a pensare che lui stesso voglia provocare, addirittura incalzare con la sua predicazione. Non dimentichiamo che fu Gerolamo a incentivare la pubblicazione del suo Epistolario, quindi l’intento di avere un pubblico più
vasto era certamente un progetto. Il messaggio cristiano che troviamo
nelle lettere a Paola è l’amplificazione, a volte solo la riesposizione, dello
stesso messaggio che avevano già declinato, con strumenti diversi dalle
lettere, Tertulliano e Ambrogio. In alcuni passi delle Lettere, è lo stesso
Gerolamo a richiamare le sue fonti, per esempio quando incita Eustochio a conservare la verginità: «Se vuoi proprio sapere da quali molestie
sia libera una vergine, e quali, invece, assedino una moglie, leggi il libro
scritto da Tertulliano a un suo amico filosofo e gli altri suoi trattati sulla
verginità, l’eccellente volume del beato Cipriano, gli scritti di papa
Damaso in versi e in prosa su questo argomento e gli opuscoli che il
nostro Ambrogio ha indirizzato recentemente alla sorella. Sono scritti in
stile smagliante e contengono un elogio perfetto della verginità, per
completezza, ordine ed espressione» [22,22]2. La novità e l’eccezionalità
di Gerolamo sta nel fare un passo ulteriore, cioè farsi aiutare da persone
e nella fattispecie Paola, e dalle figlie di lei, a lui fedeli e vicine, anche
spiritualmente. Usando esempi di vita reale, usando Paola, donna vera,
Gerolamo riesce a compiere due operazioni difficilissime: una è fare circolare ampiamente il principio e lo spirito cristiano attraverso le lettere,
l’altro è rendere Paola, donna eccezionale altrimenti sconosciuta, un
esempio di vita perfetta e farla giungere fino a noi. La propaganda cri-
Sulla stessa linea per esempio anche Hier., Ep., 49,18: lege tertullianum, lege cyprianum, lege ambrosium, et cum illis me uel accusa uel libera.
2
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo VII. conclusioni
161
stiana è già nelle fonti di Gerolamo, e lo dimostrano alcune riprese, quasi letterali, dalle opere dei predecessori: la chiave di volta è proprio nel
delineare, grazie all’esperienza da lui stesso vissuta con queste donne, un
gruppo, e un modello, Paola, esaltati dall’epistolario, che fornisce una
testimonianza di ciò che sta cambiando anche negli ambienti più ostili
al cristianesimo, quelli della vecchia aristocrazia senatoria. La scelta di
un modello femminile, scelta pericolosa per molti versi, è una scelta
intrepida, che desta meraviglia. Optare per una donna come modello di
vita perfetta fa meditare noi moderni sul passo rivoluzionario compiuto
da Gerolamo, che a mio parere era ben consapevole di ciò che stava
facendo: «Sevirebbero dei libri interi per raccontare tutto ciò che c’è di
grande nell’universo femminile» [Prologo al Commentario a Sofonia,
scritto tra il 389 e il 392]. Non posso certo affermare che con questa
operazione Gerolamo abbia per così dire liberato il mondo femminile,
anzi, forse può, con le numerose critiche, avere contribuito a reinserirlo
in altre categorie precise; ma il suo è stato certamente un lavoro rarissimo: proclamando le qualità di Paola, ha portato a speculare relativamente al loro rapporto, ma ha anche concorso a dare dignità a una donna, e
ad altre donne, che probabilmente senza di lui sarebbero state ignorate.
In effetti Gerolamo, per esempio nella lettera a Rustico, citandogli la
moglie come esempio, afferma che il sesso debole vince nel mondo, il
sesso forte è vinto dal mondo [122,4]3; ancora, nella lettera a Pacatula,
ribadisce la superiorità del sesso femminile, affermando che, almeno, le
donne hanno capito lo scandalo della ricchezza, che Gerolamo denuncia
con toni aspri. Paola può rappresentare quindi a mio avviso un primo
passo, in un cammino lunghissimo, verso l’espressione di una dignità
femminile, anche se non posso nascondere che sia stata anche impiegata da Gerolamo per scopi apostolici e divulgativi. Un’ultima considerazione riguarda il carattere di Paola: più volte le parole di Gerolamo fanno pensare a quella che ho definito “sorta di sudditanza psicologica”
della donna. In realtà alcune considerazioni geronimiane relative all’a-
3
Hier., Ep., 122,4: …fragilior sexus uincit saeculum et robustior superatur a saeculo.
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mica fanno considerare che Paola fosse più determinata di quanto appare nel ritratto che evinciamo da Gerolamo e dai brevi accenni fatti su di
lei da Palladio. Un esempio può essere ciò che viene detto a 108,18; il
contesto storico è difficile: Gerolamo, Rufino e Gianni di Gerusalemme
sono sospettati di filo-origenismo. I contrasti durano parecchio tempo, e
si verificano anche alcuni episodi che portano all’interdizione del convento di Gerusalemme geronimiano, unita a un ordine di esilio da parte
del Prefetto del Pretorio contro Gerolamo e i suoi monaci. Poco tempo
dopo il Prefetto del Pretorio viene ucciso, quindi in un certo qual modo
il monastero di Gerolamo e l’ordine di esilio passano in secondo piano.
Ma il clima doveva essere molto teso: Gerolamo prega insistentemente
Paola di rientrare a Roma, di ritornare quindi a casa, sui suoi passi. L’intento è quello di proteggerla, anche a scapito di rimettere in discussione
tutto ciò che era stato da lei creato. Paola si rifiuta ostinatamente, puntando sul fatto che la sua presenza a Gerusalemme è indispensabile. La
donna è quindi cosciente, almeno da quello che traspare da questa
descrizione, dell’importanza e della grandiosità del suo operato, e si
mostra ferma nel disobbedire agli ordini del maestro. Paola sa che deve
rimanere anche per sostenere, lei stessa, Gerolamo, con la sua pazienza,
con la sua opera instancabile di carità, con la sua dolcezza, per moderare
la rabbia dell’amico. La personalità di Paola si fa sentire anche nella guida del suo monastero, che, non va dimenticato, è da lei fondato, finanziato e amministrato, pur con i limiti già evidenziati. Il suo prestigio in
questo senso è tale e tanto che essa non mostra alcun bisogno di essere
definita madre badessa: questo mi fa pensare che fosse sicura di sé, non
legata a titoli di nessun genere; Gerolamo la definisce nell’Epitaffio
madre particolare, tra le altre madri [108,20], come se Paola, umile ma
consapevole, avesse rifiutato qualsiasi direzione ufficiale4. Ancora, nell’E A 108,20, Gerolamo così si esprime: post uirorum monasterium, quod uiris tradiderat gubernandum, plures uirgines, quas e diuersis prouinciis congregarat, tam nobiles quam
medii et infimi generis... Quindi, fondato il monastero maschile, e postolo dunque sotto
un uomo, Paola si dedicò alla cura di quello femminile. Il passo farebbe supporre che
Paola, rifiutando qualsiasi direzione potesse avere la possibilità, anche se donna, della
direzione pure di monasteri maschili. Non è chiaro se la cosa si applicò solo per lei, o
4
Beatrice Girotti, Paola. Omnium Romae matronarum exemplum
capitolo VII. conclusioni
163
pitaffio, anche se, come abbiamo più volte ricordato, non va disgiunto da
tono eccessivamente elogiativo, Paola emerge come donna autorevole,
che gode di prestigio tra i religiosi di entrambi i sessi: alcuni critici
moderni, a cui mi associo [Laurence, 45], sono arrivati a parlare non di
grandezza di Paola, ma del suo carisma. È in effetti secondo il mio parere innegabile che la presenza di Paola si senta ovunque nelle Lettere di
Gerolamo, anche in quelle a lei non indirizzate: Paola riesce a suscitare
l’emulazione con il proprio esempio. Con autorità, rigore e coerenza,
mai disgiunti da umiltà, riesce a mantenere in armonia gruppi di donne:
Gerolamo incita tutti, e in particolare Eustochio, ad agire come la discepola [«Se fra le tue compagne ve ne sono alcune di condizione servile,
non le trattare dall’alto in basso, non darti le arie da padrona»: 22,26]. Da
Gerolamo si erge quindi un’immagine di una donna sulla quale la grazia
della fede ha lavorato trovandovi non perfezione (che sarebbe stata avvertita come negativa), ma docilità e tenacia. Paola non deve essere stata
immune dai sentimenti naturali, soprattutto nelle prove più dure che la
vita le ha presentato: Gerolamo non manca di descrivercela come mai
indifferente ai dispiaceri. Tutte queste qualità si sono quindi tramutate,
in Paola, in un perfetto e positivo strumento di ascesi [Mirri 1992]. A
108,10, questa la definizione più intensa che a mio avviso dà Gerolamo
dell’amica: «Che ardore meraviglioso, che tempra d’animo, appena
immaginabile in una donna [mirus ardor et uix in femina credibilis fortitudo! oblita sexus et fragilitatis corporeae inter tot milia monachorum cum
puellis suis habitare cupiebat]». Paola quindi non è, né per Gerolamo, né
per gli altri, una santa distaccata; appare per lo più come un tormento
continuo, dentro di lei si trova quasi una lotta costante tra prudenza
[secondo l’espressione di 108,28 sentiebat prudentissima] e autonomia
[per esempio quella dimostrata nell’amministrare il patrimonio: 108,15].
È in questi ultimi passi citati in cui forse possiamo trovare la profondità
geronimiana della conoscenza dell’amica, dei sui risvolti più intimi e
se fosse stato così anche per altre donne. Se così fosse, alle donne quindi era data questa
possibilità per diritto di fondazione o perché elargivano direttamente i fondi necessari
alla creazione dei monasteri stessi.
164
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psicologici, che contribuirono ad avvicinarla alle persone come esempio, e non come modello irraggiungibile.
Appendice
Come si è cercato di evidenziare in questo studio, la fatica maggiore
per delineare un ritratto di Santa Paola è data dalla carenza delle notizie
relativamente a questa donna. In un’Enciclica di Papa Benedetto XV,
molto pertinente con i nostri studi e ricerche dato che, nel commemorare il quindicesimo centenario della morte di S. Gerolamo, ci dona
insegnamenti di altissimo valore sullo studio delle S. Scritture e nozioni interessanti sull’attività fatta di dialogo e di rapporti con i Rabbini
dell’epoca, da Girolamo intessuti in Terrasanta, ove convergevano tutti i
suoi pensieri e sentimenti, viene sottolineata in particolare l’importanza
da lui attribuita allo studio ed alla conoscenza della lingua ebraica per
accostarsi ai Sacri Testi nel loro humus originario. In questa occasione,
il Papa riporta passi dell’opera di Gerolamo in cui si parla di Santa Paola.
Nel dicembre 2013, è uscito il volume della monaca di Bose Lisa Cremaschi, Donne di Comunione. Vita di monache d’oriente e d’Occidente (Qiqajon), che contiene biografie di monache che provengono da
ambienti sociali e culturali molto diversi, dall’oriente e dall’occidente, da
un’area geografica che dall’Egitto risale a Roma passando per la Palestina. Anche a Paola e Eustochio è dedicato ampio spazio.
La recente pubblicazione del volume, a cura di Norberto Caymo, Gio-
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ISBN 9788898392162
vanni Fabbri, Giacinto Avignoni, Della vita di Santa Paola vedova matrona Romana fondatrice dell’ordine Girolamino. Libri quattro è la rielaborazione e traduzione di un testo del 1752, edito nella stamperia di Lelio
dalla Volpe a Bologna. Nella pagina dell’originale, siamo informati che
lo scritto fu ad opera di un monaco, del medesimo ordine della Congregazione d’Italia e dedicati alla Sacra Cattolica Maestà D’Elisabetta
Farnese, Regina Vedova delle Spagne. Paola viene qui descritta come
matrona dotata di celeste sapienza, con coraggio superiore alla fievolezza del suo sesso. Essa seppe coniugare, secondo quanto ci è detto, la
grandezza del suo illustre casato e la santità delle sue operazioni. Anche
in questo scritto sono ricordate le calunnie «sparse in Roma da persone
di alto affare» (libro I, capitolo X); l’eccezionalità del suo pellegrinaggio
(libro III) e tutte le sue meravigliose qualità, che, ancora nel 1752, devono fungere da esempio ad un’altra nobile e famosa vedova.
Mi piace sottolineare la casualità del fatto che l’unico libro da me reperito sulla vita di Santa Paola, del 1752, sia uscito da una stamperia bolognese: dopo più di 250 anni, una nuova biografia di Paola è scritta proprio a Bologna.
L’epistolario di Gerolamo a Paola
In molte sue opere, e nelle prefazioni ai Commentari alle sue Scritture,
Gerolamo si rivolge per lo più a interlocutori femminili. Per ciò che
riguarda l’opera epistolare di Gerolamo, uno dei documenti più vivaci e ricchi di temi da approfondire, questo protagonismo femminile è
ancora più stupefacente1. In un insieme di circa centocinquanta lettere
a noi pervenute, quarantadue sono destinate a donne, e altre sei parlano
Sull’epistolario e su Gerolamo vedi almeno; Marcocchi 1983; Kelly 1988; Moreschini 1988; Rebenich 1992; Kamesar 1993; Krumeich 1998; Conring 2001; Laurence
1997; 2010; Fürst 2003; Amerise 2008 (in partic. 15-21; 22-28 e 101-131); Corsaro
2008-2009; Cain 2013.
1
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di loro, con argomentazioni diverse. Considerando inoltre i molti riferimenti a sé stesso e alle sue esperienze, le lettere di Gerolamo possono
essere ritenute come uno dei più importanti documenti autobiografici
del IV secolo d.C., pur non essendo chiaramente un’autobiografia in
senso stretto.
La più antica edizione a stampa dell’epistolario di Gerolamo risale alla
seconda metà del Quattrocento e comprende 139 lettere. In seguito
Erasmo da Rotterdam provò a ricostruire il testo delle epistole: questa
edizione fu ripresa nell’edizione dei maurini. Domenico Vallarsi, tra il
1734 e il 1742, ricostruì filologicamente e cronologicamente le lettere,
e questa edizione fu riproposta nel 1766 nella Patrologia Latina, vol.
XXII, coll. 325-1224 del Migne.
Tra l’ampia produzione di Gerolamo, l’eccezione cospicua, e da tutti
riconosciuta, è appunto costituita dal vasto epistolario, nel quale, per
usare le parole di Harald Hagendahl [1958], «supera di parecchie lunghezze» tutti gli altri autori latini cristiani. Questo giudizio vale tanto
più per le lettere d’apparato e in particolare per quelle di contenuto funerario (nel caso di Paola sono due, la 39 e la 108), dove il santo sembra
dare il meglio di sé. Tra tutte lettere, come già si è detto, si può parlare
di una corrispondenza “privilegiata”, nei confronti di alcune donne in
particolare. La prima, destinataria di più lettere (diciannove), è Marcella.
Le altre due donne molto legate a Gerolamo e destinatarie di alcune lettere a noi pervenute sono proprio Paola e la figlia di questa, Eustochio.
Nel 393 Gerolamo, a proposito di queste due donne, ci riferisce di avere
loro inviato un numero incerto di lettere, dato che la corrispondenza è
pressoché quotidiana.
Queste sono le lettere, a noi rimaste, che sono indirizzate direttamente a
Paola o, se inviate o destinate ad altre, trattano più o meno direttamente
di lei:
Epistola 22, a Eustochio, De Virginitate servanda (anno 384)
Epistola 30, a Paola, sul senso etimologico e mistico delle lettere dell’alfabeto ebraico (anno 384)
Epistola 31, a Eustochio, contenente ringraziamenti per alcuni regali e
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consigli riguardo all’ascetismo (anno 384)
Epistola 33, a Paola: catalogo comparato delle opere di Varrone e di
Origine (anno 385?)
Epistola 39, a Paola, sulla morte di Blesilla, figlia di Paola (anno 384)
Epistola 46, da Paola e Eustochio a Marcella
Epistola 107, a Laeta, nuora di Paola, sull’educazione di Paola iunior
(anno 400)
Epistola 108, orazione funebre di Paola (anno 404).
Paola è inoltre menzionata nelle lettere 45 (ad Asella), 54 (a Furia), 107
(a Laeta), 127 (a Principia); citazioni meno dirette o esplicite si trovano
anche in tutto l’epistolario.
***
Molte di queste lettere, e molte delle lettere non indirizzate direttamente a Paola, sono in relazione con la vita ascetica, sia che si tratti di una
polemica contro gli avversari di questo ideale, o che si tratti di un’esortazione a questo modo di vita, o di elogio a donne già convertite. Gerolamo pare fare quindi suo il modello orientale della rinuncia a tutte le
soddisfazioni dell’esistenza terrena e presenta, quasi come decalogo, una
serie di precetti che prevedono l’obbedienza a norme relative all’alimentazione, alla sessualità, al comportamento in società, alla ricchezza e alla
cultura. L’insieme di tutte queste regole e l’osservazione delle stesse corrisponde all’ideale geronimiano di “vita perfetta”. Alcune lettere, come
ad esempio la 22, alla figlia di Paola, Eustochio, lasciano intendere che la
maggior parte dei destinatari si accontentava, a torto, di un cristianesimo superficiale, semplice osservanza della religione ufficiale. Attraverso
i consigli di Gerolamo, le donne, in primis Paola, adotteranno una vita
cristiana pienamente coerente, e contribuiranno così alla nascita di quello che si può definire un nuovo modello ideale femminile, secondo gli
insegnamenti non del solo Gerolamo, ma anche di Ambrogio, Giovanni
Crisostomo e Agostino.
La vita di Paola, relativamente lunga per una donna del suo tempo, dal
347 al 385 si svolge a Roma. Il ruolo e l’influenza di Paola non sono a
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mio avviso stati ancora messi completamente in valore, ma analizzando
i differenti momenti della sua vita, certamente attraverso il racconto, talvolta di parte, di Gerolamo, non possiamo non trovare a mio parere un
quadro completo e una concreta prova del fatto che essa si sia qualificata
come un esempio, un modello da seguire. L’inchiesta su Paola trova una
sua completezza solo se accanto a lei si leggono e si recensiscono, quali
complementi alla sua vita tutti i personaggi che le gravitano intorno,
cioè la sua famiglia, i suoi amici, i più vicini a lei del cosiddetto Circolo dell’Aventino, i vescovi, gli ufficiali e anche i suoi oppositori, e se
si tengono conto altresì i loro legami e le occasioni del loro incontro
con Paola. È certamente in ragione di un interesse comune per la vita
perfetta che Gerolamo entra in corrispondenza e si relaziona con Paola.
Attraverso il rapporto con lei, e con anche alcune altre donne destinatarie delle sue lettere, verrà data testimonianza dell’espansione del modo
di vita ascetica a Roma e in Occidente nella seconda metà del IV secolo
d.C. Una tale espansione ci naturalmente porre domandare relativamente alla natura dei precetti geronimiani ma anche sulla maniera in cui
essi furono osservati. Importante è anche capire che le situazioni non
erano sempre le stesse, cioè il carattere e il temperamento dei personaggi
influiva molto sul modo di affrontare la propria conversione. Questo
tema ci porta a fare assumere a Paola la funzione esemplare e di madrina
di un certo tipo di scelta da parte di alcune donne della tarda antichità.
Qual è il ruolo effettivo di Paola nella vita e nelle lettere di Gerolamo, e
come valutarlo è compito difficile, soprattutto per un motivo: le lettere
tra Gerolamo e Paola sono a senso unico, noi non possediamo nessuna
risposta di Paola, e dobbiamo quindi accontentarci di una sola voce, di
un solo punto di vista, che propone certamente una visione personale
e soggettiva di ciò che scrive. Ancora, non va dimenticato un aspetto importante: l’autore delle lettere Gerolamo, è un uomo, che in un
periodo particolare della storia può avere una qualche opinione anche
falsata sull’altro sesso2. Per comprendere comunque il cristianesimo e la
Gerolamo è stato a più riprese tacciato di misoginia; altri invece hanno moderato
l’aspetto velatamente misogino operando una distinzione tra le opinioni che l’autore
2
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società del IV secolo d.C. non si può non ignorare una questione come
quella femminile, che coinvolge le relazioni affettive, familiari e amorose. La questione del matrimonio per esempio, e la verginità cristiana,
temi ricorrenti nelle lettere a Paola, non possono essere considerati come
solo fine a sé stessi e oggetti di un dialogo solo tra i due. Le lettere erano
sì dialoghi, e per questo loro aspetto implicavano un sermo cotidianus,
ma gli argomenti, esposti in un modo che era il più chiaro possibile,
commisuravano certamente il tono a seconda del destinatario ma erano
comunque a carattere pubblico, dato che Gerolamo stesso, nella lettere
49 e 79, autorizza i corrispondenti a procurarsi copie delle lettere che
aveva scritto a qualcun altro, e spesso sostiene che le cose che scrive
non sono dirette al mittente ma ad una cerchia più vasta3. È essenziale
precisare che per Gerolamo Paola sia, prima che destinataria delle sue
opere, componente essenziale della sua esistenza. È infatti all’interno del
così denominato circolo femminile, che lo circonda negli anni romani e
che in parte lo segue anche in terra santa, che molti dei suoi scritti sono
pensati, redatti e studiati. La proposizione di un modello di genere femminile rappresenta dunque per lui forse un’urgenza esistenziale, anche
se, in generale, l’interesse per una valorizzazione del genere femminile
non andrà ridotto al puro esito dell’influenza delle donne che lo circondano, influenza che però deve essere stata certamente rilevante [Prinzivalli 2010, Moretti 2013]. Molto si è discusso sull’emergere delle figure
femminili in ambito religioso nei secoli IV-V [Cracco Ruggini 1979]
quindi diventa arduo provare a tracciare sinteticamente un discorso, ma
quello che appare dallo scambio di lettere tra Paola e Gerolamo ci dà una
prima linea guida per capire cosa era cambiato e cosa stava cambiando
per molte donne con l’avvento del cristianesimo.
aveva sulle donne in generale e al contrario sulle preferenze che dimostrava per alcune
di esse [Laurence 1997]. Molto accattivante appare la definizione di Brown 2008, 385,
che considera quella di Gerolamo «elegante misoginia».
3
Hier., Ep. 49,18 e 79,7.
Indice delle fonti antiche
Agostino
Confessiones IX,VIII, 17: p. 79
Confessiones IX,IX, 19: p. 79
De moribus Ecclesiae I,70: p. 121
Ambrogio
De virginibus, 1,57: p. 122
De Virginibus 1,60: p. 122
Ep. XVIII: p. 74
Cipriano
De habitu virginum 21: p. 75
Ep., 80,1,2: p. 33
Dio Cassio
67,14,1-2, p. 281 Boissevain, III: p. 33
74, 4,7, p. 285 Boissevain, III: p. 33
172
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Eusebio
HE, III, 18,4: p. 33
HE, VI, 8,2: p. 34
HE, VIII, 14,17: p. 99
Genesi
III, 16: p. 78
Hieronymus
Contra Ruf., 1,9: p. 99
In Ezechielem, 12: p. 156
In Ezechielem, Prol. : p. 94
In Tit., 3,9: p. 95
In Isaiam, 1,1: pp. 96; 97
Praef. In Pachomiana Lat., 1,11: pp. 120: 146
Tract. Ps., 81: p. 98
Tract. in Ps., 19,1-12: p. 125
De vir. Ill., 135,c. 759 A. : p. 166
Ad Ephesios, 4,31: p. 95
Ad Ephesios, Prol., col.: 467: p. 107
Contra Iov., I, 3; p. 75
Contra Iov., I, 40; p.75
Contra Iov., II, 19; p. 75
Contra Iov., II, 35; p. 75
Comment. Ad Sofon., Prol.; p. 161
Origenis in Evang. Lucae, PL 26, 220 A; p. 101
Hieronymus, Epistulae (= Hier., Ep.)
Ep., 22: pp. 10; 23; 63; 67-69; 123, 128; 145; 167; 168
22,1: pp. 64; 69; 136
22,2: pp. 68; 69
22,3: p. 69
22,4; p. 69;72
22,5: pp. 69; 70; 72
Beatrice Girotti, Paola. omnium Romae matronarum exemplum
Indice delle fonti antiche
22,6: p. 79
22,7: pp. 70; 128
22,11: pp. 10; 70
22,13: pp. 74; 98
22,13-18: pp. 71; 73
22,15: pp. 63; 67; 69; 73; 75
22,16: pp. 71; 73
22,17: p. 154
22,17,2: p. 95
22,18: p. 69
22,19: p. 76
22,20: p. 76
22,22: pp. 69; 77; 161
22,24: p. 64
22,26: pp. 153; 163
22,27: p. 109
22,28: pp. 96; 99
22,29: p. 96
22,29,2: p. 95
22,30: pp. 135; 141
22,37: p. 125
Ep., 23: pp. 45; 47; 122
23,1: pp. 45; 122
23,2: p. 46
23,3: p. 50
Ep., 24: p. 19
24,1: pp. 19; 74
24,3: p. 41
24,5: p. 43
24, 2-3 p. 126
24, 3-4: p. 126
Ep., 30: pp. 22; 40; 55; 74; 89; 93; 167
30,1-3: p. 90
30,4: p. 90
173
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30,13: pp. 40; 90; 107
30,14: pp. 22; 55; 74; 90
Ep., 31: p. 167
Ep., 32: p. 34
32,2: p. 34
Ep., 33: p. 168
Ep., 38: pp. 40; 103
38,2: p. 61
38,3: pp. 15; 40; 61
38,4: pp. 41; 121
38,5: p. 127
38,13: p. 40
Ep., 39: pp. 46; 47; 50; 57; 76; 88; 120; 167; 168
39,1: pp. 55; 56; 57; 88
39,2: p. 52
39,3: pp. 58; 59; 61
39,4: pp. 19; 56
39,5: pp. 56; 59; 61; 110; 111; 121
39,6: pp. 61; 62
39,7: p. 62
39,8: p. 63
Ep., 43: p. 103
43,2: p. 103
43,3: p. 138
Ep., 44: p. 24
44,4: p. 24
44, 11-12: p. 63
Ep., 45: pp. 26; 28; 156
45,2: pp. 84; 128; 156
45,2-3: p. 27
45,3-4: p. 26
45,4-5: pp. 29; 128
45,7: p. 34; 35
Ep., 46: pp. 28; 41; 56; 101-108; 123; 135; 136; 159
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Indice delle fonti antiche
46,3: p. 105
46,4: p. 137
46,7-9: p. 135
46,7-10: pp. 103; 104
46,8: p. 137
46,9: p. 138
46,9-10: p. 139
46,10: pp. 138; 139
46,11: p. 140
46,11-12: 138
46,12: pp. 105; 137; 138
46,13: pp. 94; 140
Ep., 47: p. 136
47,2: p. 136
Ep., 49: p. 160; 170
49,18: pp. 160; 170
Ep., 52: p. 68
52,17: p. 68
Ep., 53: pp. 107; 136
53, 1-2, p. 136
53,10,1: p. 107
Ep., 54: p. 15
54,2: p. 30
54, 7: pp. 15; 127
54,14: p. 110
54, 15: p. 32
Ep., 58: pp. 102; 136
Ep., 59: p. 75
59,2: p. 75
Ep., 62: p. 155
62,1: p. 156
Ep., 65: p. 105
65,1: p. 105
Ep., 66: pp. 13; 34
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66,3: p. 13
66,4: p. 34
Ep., 77: p. 154
77,7: p. 154
77,10: p. 154
Ep., 79: pp. 110; 170
79,1: p. 110
79,7: pp. 15; 170
Ep., 97: p. 159
97,3: p. 159
Ep., 123: p. 32
123,3: p. 61
123,5: p. 110
Ep., 107: pp. 39; 82; 83; 122; 156; 168
107,1: p. 39
107, 5: pp. 82; 88
107, 9: p. 125
107, 9-12: p. 95
107,13: pp. 82; 83; 123; 140; 142
Ep., 108: pp. 11; 72; 80; 127; 144; 156; 167; 168
108,1: pp. 110; 143
108,1-2: p. 146
108,2: p. 121
108,2-3: p. 144
108,3: p. 144
108,4: pp. 12; 104
108,5: pp. 17; 72; 85;118; 129; 139
108,5-6: p. 145
108,6: pp. 16; 80; 109; 158
108,6,1: p. 31
108,7-14: p. 146
108,9: p. 147
108, 9-10: p. 94
108,10: pp. 104; 148; 163
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Indice delle fonti antiche
108,14; pp. 138; 138; 148
108,15: pp. 112; 113; 119; 140; 149; 150; 163
108,15-22: p. 148
108,16: pp. 110; 112; 126
108,17: p. 84
108,18: pp. 150; 151; 155; 162
108,19: pp. 81; 152
108,20: pp. 42; 125; 130; 131; 141; 142; 162
108,21: pp. 144; 156
108,23: p. 93
108,23-24: p. 151
108,23-25: pp. 92; 152
108,25: p. 93
108,26: pp. 87; 91; 93; 100; 111; 114; 152
108,27-29: p. 152
108,28: pp. 87; 163
108,29: p. 85
108,30: pp. 113; 152
108, 31: p. 152
108,31-33: p. 152
108,32: pp. 145; 152
108,33: pp. 146; 152
Ep.,122: p. 161
122,4: p. 161
Ep., 127: p. 38; 116; 170
127,2: p. 17
127,3: pp. 25; 38
127,4: p. 91
127,5: pp. 85; 92; 116; 118
127,7: pp. 16; 91; 94
127,8: pp. 104; 119
127,9: p. 93
Ep., 130: pp. 43; 114
130,3: pp. 10; 44; 132
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130,4: pp. 44; 133
130,6: p. 115
130,15: pp. 125; 131; 132
Ep., 145: p. 136
Ep., 147: p. 143
147,5-7: p. 143
Matteo
13,3-23: p. 75
Origene
Contra Celsum III, 9: p. 33
Palladio
Historia Lausiaca 41: pp. 84; 155
Paolo
1 Cor. 1,26-31: p. 34
Porfirio
Fr. 4 Harnack: p. 98
Salmi
Salmo 44: p. 64
Salmo 72, 11-12: p. 46
Tertulliano
Ad uxorem I, 4, 6, SC 273, pp. 104,39-41: p. 78
Apologeticum 18,4: p. 39
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Le indicazioni bibliografiche date non possono certo avere carattere esaustivo. Sul tema
generale “donna e cristianesimo antico”, e sulle tematiche trattate in questo volume,
ormai la produzione internazionale è sterminata, e quindi non è facile orientarvisi.
Questi alcuni studi di carattere generale che permettono di ricostruire i contesti so-
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COMMUNICATING
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Finito di stampare nel dicembre 2014
presso Atena Srl, Grisignano di Zocco (VI).