My London Calling - EKT

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My London Calling - EKT
Marta Gaggini
My London Calling
Vademecum minimo per sopravvivere a Londra
Parte 7
EdiKiT
MY LONDON CALLING
- parte 7 -
88 DIREZIONE NATALE
E mentre sono in banca a versare gli incassi di questi giorni frenetici che precedono l’esplosione incontrollata dei saldi, il babbo
e la mamma, coi loro piccoli e rumorosi trolley, raggiungono la
City, ingannando l’attesa davanti a questo nuovo Intimissimi che
ormai mi fa da seconda casa. Da queste parti sarà Natale con un
paio di settimane d’anticipo.
Ovviamente, al di là degli sforzi coordinati per curare la pulizia
della casa, mantenere l’ordine anche oltre l’apparenza perché limitarsi a nascondere i detriti è una strategia che non può funzionare con la mamma, e ultimare le confezioni regalo per la famiglia, una volta abbandonata la pianificazione la nostra attenzione
si è rivolta alla gastronomia e alla proposta culturale. Quindi abbiamo iniziato la nostra tre giorni da trascorrere insieme con un
ristorante spagnolo marocchino nel cuore di Soho. Ordinata una
cosa come dodici tapas da dividere, ci siamo dedicati con tutti
noi stessi alla valutazione, giungendo alla conclusione che il pregio di quel locale era la cura maniacale per l’igiene e il difetto
maggiore era il conto a tre cifre. Arrivati a casa, mentre il babbo
mentalmente la ristrutturava, prendendo in considerazione l’idea di fare di Tooting la mia residenza estiva, è stato il momento
di scartare i doni che arrivavano dall’Italia: era evidente che il Natale, quest’anno, sarebbe stato diverso da tutti quelli che erano
venuti prima.
Il giorno successivo, dopo una colazione di tutta sostanza a Caffè Nero, e un paio di acquisti essenziali, ossia antibiotici, che
richiedevano l’ausilio della mamma, e crema antirughe, che la
presenza della mamma mi aveva costretto a procurarmi in fretta,
dato che la sua prima reazione alla mia vista era stata dirmi che
le sembravo vistosamente più vecchia, abbiamo ricominciato il
giro dal mercato di Camden. Abbiamo assaggiato la cucina ‘vietnamese’ e due ciambelline unte sulle Vespe davanti al salice, e
poi abbiamo raggiunto Regent’s Park via canale, ognuno col suo
cappello, adottando la pratica sconosciuta al popolo italiano di
uscire dal bar con un bicchierone da asporto. Abbiamo fatto una
capatina a Bloomsbury per comprarmi una nuova tazza termica
che consolidasse il mio avvicinamento a questa tradizione britannica di sorseggiare il cappuccino per strada, e infine abbiamo
raggiunto la nostra principale meta: il British Museum. Punto di
riferimento unico per ritrovare quel negozino dove la mamma
aveva visto il cappotto rosso che ancora non aveva dimenticato.
Ultimato l’acquisto del secolo, abbiamo fatto una visitina al museo, rispettando le tempistiche che i miei mi hanno insegnato:
entrare, cercare l’opera fondamentale, dare un’occhiata veloce
e uscire rapidamente. Diciamo che, pur non nutrendo una passione sfrenata per musei e gallerie, varcare la soglia del British
era un sacrificio per molte ragioni inevitabile. Prima di tutto, per
la stele di Rosetta, che mio padre ancora era convinto fosse alla
National e che si sarebbe rivelata la svolta fondamentale per memorizzare il nome della sua vicina di campagna, poi per i marmi
del Partenone, che da anni, con beata ignoranza, esponiamo sulla parete del salone. Siamo ripartiti con dubbi lancinanti su quale
fosse il fregio che penzolava sopra il nostro divano, ma anche
con nuove, rinnovate certezze: il British è quello vicino al negozio
dove mamma ha comprato il cappotto, la National è quella con
le poltrone comode all’ingresso, e la vicina di campagna non si
chiama Anna. Da lì abbiamo raggiunto con entusiasmo Covent
Garden. Delle enorme palle rosse ciondolavano dalle volte in vetro del mercato coperto, inondato dal caos dello shopping natalizio e dalle note di una musica classica dallo stile un po’ rivisto, e degli enormi bastoncini di zucchero decoravano il soffitto.
Raggiunto Juri e il suo club sul lungofiume, ci siamo immersi nel
mercatino di Waterloo, dove gli chalet di legno invasi da dolcetti
di ogni tipo rendevano questo Natale più germanico, spostando
questo tratto di Tamigi in un angolo di Baviera o in un villaggio
alpino. Quindi, assuefatti all’atmosfera, abbiamo cenato con una
salsiccia stratosferica e concluso la cena con una degustazione di
churros immersi in bicchierini colmi di cioccolato fuso.
Il mattino dopo è stata la volta della passeggiata sulle rive del
Tamigi. Ma avevamo deciso, per raggiungere il Tower Bridge, di
usare solo autobus a due piani. Che è un po’ come fare Firen-
ze Pisa su un pulmino: un interminabile viaggio di ore. Con la
differenza che qui, invece dell’Autostrada del Sole, c’era Londra
in tutta la sua estensione. Partiamo con il 155 da Tooting, nella
periferia vittoriana, quella con le casette scure e i negozi un po’
confusionari con le cornici in legno colorato e le insegne scritte
in dialetto indiano, e ci catapultiamo giù dal mezzo in movimento
per fare colazione in tazze giganti insieme ai bambini dell’asilo.
Riprendiamo il 155, ancora immersi nel sobborgo, oltrepassiamo
il verde di Clapham, la High Street dei ristoranti e dei locali, e raggiungiamo Stockwell, dove anziché arrenderci alla Victoria Line,
cambiamo con un 88 direzione Camden Town. Avete presente
cosa voglia dire andare da Clapham Common a Camden? Vuol
dire che ogni volta che quell’autobus parte, l’autista deve rassegnarsi all’idea di percorrere non so quanti chilometri di strada.
Tanti, comunque. Vuol dire risalire con un double-decker tutta la
Northern Line senza fare uso di rotaie. Che già così mi dà pensiero, senza contare poi i semafori, le fermate e quelle palle gialle
per l’attraversamento pedonale. Prendete una cartina della metro, quel pieghevole colorato che ogni residente di Londra colleziona in molteplici copie: troverete Camden facilmente, una biforcazione che si spinge nelle regioni del Settentrione. Ecco. Ora
oltrepassate la barriera di Hammersmith e Metropolitan, varcate
i confini della Circle che protegge il centro della città come una
cinta muraria, svicolate fra l’intreccio di colori di Bakerloo, Piccadilly e Jubilee fino a Victoria, e da lì oltrepassate il fiume, lasciandovi alle spalle il reticolo variopinto che ne affolla la sponda
settentrionale, fino a raggiungere Stockwell, ignota stazione di
passaggio, da cui si dirama l’unica linea, isolata e solitaria, che
si spinge nelle pendici del Meridione. Avete raggiunto Tooting
Broadway. Facendo il percorso più breve.
(Volendo esagerare, potrei proporvi di partire dalla vostra familiare zona 3 del Sud-Ovest per trascorrere delle rigeneranti
giornate lavorative nella sconosciuta zona 3 del lontano NordEst. Brent Cross è stata certo una scoperta inaspettata, villette
a schiera coi giardinetti davanti all’ingresso di ogni casa e i tetti
scuri su cui riemergendo dal sottosuolo si affacciava la metropolitana, ma era come partire da Firenze per andare ad Arezzo a
piegare mutande: una trasferta epica.)
Tornando sul nostro 88, invece, facendo il percorso che in fondo
a me più piace, che attraversa il centro da un sobborgo all’altro,
da Stockwell abbiamo raggiunto il vetro e l’acciaio di Vauxhall,
abbiamo attraversato il fiume dando un’occhiata alla centrale di
Battersea e al London Eye che si intravedeva in lontananza, e insinuandoci nell’ordine silenzioso di Pimlico abbiamo raggiunto il
palazzo del Parlamento. Risalendo la Whitehall abbiamo fatto un
saluto a Nelson e siamo scesi poco prima di Oxford Circus.
Prima di intraprendere il resto del percorso abbiamo fatto una
sosta rigenerante in un negozio per adulti: Hamleys. Il negozio
di giocattoli. Cinque piani di divertimenti, dal ritorno della Lego
alla ricomparsa delle Barbie, uno di quei posti dove il tempo
sembra scorrere più in fretta e i movimenti sembrano accelerati,
come quelli dei bambini che hanno ingerito dosi prepotenti di
zuccheri, o come quelli dei film muti. Uno di quei posti dove c’è
talmente tanta allegria compattata, da uscirne completamente
sfiniti, svuotati, come se tutta quella vitalità si mantenesse in vita
succhiando segretamente la nostra energia. Messo in vista tra i
palazzi di Regent Street, un ‘Monsters & Co.’ a cui stavolta sono
i bambini ad essere immuni. Da lì, abbiamo aspettato fiduciosi il
15, che costeggiando la Royal Courts of Justice ad Aldwich, passando rapido davanti al negozio della Twinings, fiancheggiando
tutti gli orologi che addobbano gli angoli della City, e sbucando
all’improvviso davanti a Saint Paul e al suo cupolone, ci ha portato a destinazione: Tower of London vista fiume.
Anziché cominciare il giro in modo convenzionale, ci siamo spinti
oltre quello che per il turista medio sembra essere un confine
invalicabile, e abbiamo oltrepassato il ponte per raggiungere un
porticciolo riparato con qualche barca a vela ormeggiata che faceva tanto riviera ligure o costa elbana. Dato che evidentemente
ho un istinto, se non per gli uomini, almeno per il cibo, abbiamo
scoperto con piacere che ci aspettava un mercatino di vivande
internazionali, e dopo un’occhiatina veloce abbiamo optato a
nostro rischio e pericolo per un pranzo peruviano. Poi è stato il
momento di iniziare il nostro giro, risalendo infreddoliti il corso
del Tamigi per fare sosta con un the caldo in uno dei pub più
antichi di Southwark e dintorni, facendo una visita random, con
assaggio di cheesecake integrato, al mercato alimentare di Borough, dove frutta e verdura decorano le arcate del ponte ferroviario. Usciti dal pub, coi caminetti accesi e una ressa di avvocati
in vesti natalizie che festeggiavano il loro party in un locale de-
cisamente più gradevole del nostro Tiger Tiger Intimissimi, percorrendo le vie inesplorate dei quartieri a sud del fiume siamo
tornati sull’Embankment, scegliendo la Tate come tappa successiva. Cosa che conoscendo la passione dei miei genitori per l’arte
contemporanea mi suonava del tutto inaspettata.
La mamma c’era già stata, ma l’aveva trovata così spassosa che
voleva rendere partecipe l’intera famiglia di questa scoperta straordinaria. Ora. Io pure la Tate l’avevo già vista, e ‘divertente’ non
era la parola che avevo in mente per descriverla. Se a darti il benvenuto nella prima sala è un piccione inchiodato con una freccia
alla parete, ‘divertente’ forse non è il termine migliore per esprimere questa forma d’arte. Arte. Concetto che la Tate mette a
dura prova ripetutamente. Io sicuramente sono prevenuta, magari mi mancano gli strumenti per apprezzare questa espressione artistica, ma non c’è niente da fare: l’arte contemporanea non
mi piace. Anzi vi dirò di più, trovo che sia insensata. Sono i critici,
a cercare un significato intrinseco delle cose, a voler dare a tutte
quelle installazioni, come le chiamano gli addetti al mestiere, un
valore. Voi mi direte che nel teatro succede lo stesso, che anche
il teatro contemporaneo, che tanto mi piace, stenta a farsi capire, e resta spesso inafferrabile per chi non ne conosce l’origine.
Tutto vero. E infatti anche il teatro contemporaneo tende ad essere autoreferenziale e assurdo nel suo significato più concreto.
Ma con quello, visti i trascorsi, ho un altro tipo di rapporto, sono
la prima a partire alla ricerca di un significato nascosto nel testo,
che per quanto ne so, alla fine potrebbe non esistere affatto. Con
l’arte non ce la faccio. Dice che nell’arte contemporanea non è
più la qualità dell’immagine a contare, ma l’idea che c’è alla base.
E io infatti è l’idea, che metto in discussione. Perché se ce l’avessi
avuta io, l’idea di appendere al muro un paio di jeans attorcigliati, o di riempire una sala con un cucuzzolo di sassolini fatti a
mano, o di inchiodare un piccione con una freccia a una parete,
non mi avrebbero esposto alla Tate, mi avrebbero fatto visitare
e diagnosticato un esaurimento nervoso grave. Le installazioni.
Ce n’era una con un ferro da stiro d’acciaio e un enorme triangolo metallico che ciondolava dal soffitto che secondo l’autore
voleva descrivere la luce, l’energia e la forza della vita. Mi state
prendendo in giro? D’accordo, diciamo che lo spunto mi piace,
allora è sulla messa in pratica che dobbiamo discutere. C’era una
stanza con le scale e il secondo piano fatti di tulle arancione: non
ne ho approfondito il significato ma almeno era carina da guardare. C’era un filmato dedicato al movimento irregolare della
spazzatura lasciata cadere ai margini della strada. Ne vogliamo
parlare? La mamma è rimasta particolarmente colpita da una serie di foto: un coniglio immortalato in decine di pose. Il babbo,
invece, che è uomo pragmatico, era impressionato, per non dire
scioccato, dal fatto che di quelle ‘installazioni’, che lui ha motteggiato con termini ben peggiori, ce ne fosse un magazzino intero.
Era turbato dal fatto che, nascosto sotto la superficie della Tate,
ci fosse un sotterraneo pieno d’opere dello stesso inestimabile
valore che aspettavano solo di essere riportate alla luce. Si chiedeva come fino ad allora l’umanità avesse potuto farne a meno.
Ma soprattutto, essendo uomo pragmatico, si chiedeva da dove
tutto questo fosse uscito, come un suo simile l’avesse concepito.
Ma l’immagine che meglio riassume il mio rapporto contrastato
con la Tate è quella della copia di una statua romana, quella sì,
nel suo piccolo, un’opera d’arte, addossata a una montagna di
stracci. Lascio a voi l’interpretazione di questa metafora sottile.
Usciti dalla Tate, attraversando il Millenium Bridge sferzato da un
vento gelido, abbiamo raggiunto la vista notturna di Saint Paul,
e al riparo dell’ingresso di quelli che spero fossero uffici e non
appartamenti di lusso, abbiamo aspettato a lungo l’autobus. Perché stavolta non ci saremmo accontentati di un autobus come
un altro. Stavolta saremmo saliti solo su un 15, su un 15 vecchio.
Quindi abbiamo lasciato passare quei moderni mezzi motorizzati con le porte automatiche e gli interni climatizzati, e abbiamo
pazientemente atteso l’arrivo di quell’articolo vintage che era un
vero e proprio reperto archeologico: l’incavo accanto all’autista,
l’ingresso senza porte sul retro, le scale a chiocciola che conducevano al secondo piano, e un odore violento di curry che probabilmente ci eravamo portati appresso per tutto il pomeriggio senza
saperlo. A Charing Cross l’autobus si è fermato, e noi abbiamo
abbandonato, imboccando l’ingresso della metro e raggiungendo Clapham Common, dove, per concludere, avremmo cenato
nuovamente in un ristorante spagnolo. Tornati a casa, incastrati
tutti i regali in valigia e cambiata la lampadina, era il momento
della ripartenza. Appuntamento alla prossima volta.
Continua...