10 ottobre.qxp

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Copertina: grafica Bose Giesse
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SALVO FRANCESCO LAURIA
SEGRETI
DI SICILIA
ALLA RICERCA DEL TESORO RUBATO
Bonfirraro Editore
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© 2011 by Bonfirraro Editore
Viale Ritrovato, 5 94012 Barrafranca Enna
Tel. 0934.464646 0934.519716 telefax 0934.1936565
E-mail: [email protected]
ISBN 978-88-6272-055-7
prima edizione ottobre 2012
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A mia Madre
il passato non si scorda mai...
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Il vestitino giallo paglierino, sfilacciato ai bordi, della piccola
Stella si era rimpicciolito un bel po’ negli ultimi mesi, eppure lei
era cresciuta solo di qualche centimetro. Non era ancora tempo,
per la madre, di comprargliene uno nuovo. Era costretta a stare
attenta a come si muoveva, per non mostrare più di quanto doveva. Stella o Stellina, come la chiamavano le amichette, era una
bambina magra, striminzita a tratti sproporzionata. Le sue braccia erano più lunghe rispetto al corpo e le gambe sembravano far
fatica a stare dritte. I capelli nero-castani, folti e arricciati le coprivano, se sciolti, le spalle, metà del viso e grande parte dell’esile collo che profumava di cannella; quando riusciva a giocare con
le amichette, invece, li teneva legati con un elastico dietro la nuca, mostrando così tutta la vivacità celata del suo sorriso, un sorriso delicato, innocente dipinto in quel viso roseo leggermente denutrito. La parte velata del suo volto lasciava trapelare i segni di
un tormentato periodo. Ormai aveva perso la voglia di giocare con
le amichette alle cinque caselle: Arance... pere... nespole... perché
obbligata dalla madre a badare alle sorelline più piccole. Non poteva essere lei, la più piccola, oppure la mezzana? Si chiedeva.
No! Così, quando giocava, perdeva sempre.
Il racconto è di mia madre, la primogenita di tre figlie della famiglia Costello. Allora quasi tredicenne, non ancora grande, ma
abbastanza adulta da poter occuparsi delle sorelline più piccole di
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5 e 3 anni, mentre la madre, nota ricamatrice in paese, ormai occupava tutto il suo tempo a lavorare per procurarsi il necessario,
il poco da vivere. Il padre, mio nonno, era un contadino, da poco
ritornato in libertà dopo aver espiato una pena di tre anni per una
storia di terreni incolti e di appropriazione indebita.
Quel mattino di mezza estate, precisamente il tre agosto 1943,
mia madre, come tutte le mattine dopo colazione, usciva con le
sorelline a giocare nello spiazzale davanti alla fontana greca o lavatoio. Una piazzetta piena di vita, circondata da case strette e
sporche, dalle facciate sbriciolate, dai balconi piangenti di acqua,
che colava dai vasetti di creta, stracolmi di pianticelle di basilico
e prezzemolo dopo l’innaffiatura. Qualche secchio di alluminio,
appeso come un vaso, traboccava di piante rampicanti, di gerani,
margherite, rose per lo più, primule e girasoli, che confondevano
con i loro profumi il fetore che si alzava da quella fogna di ruscello dove, uniti al puzzo della merda, galleggiavano contemporaneamente rifiuti organici e il piscio della notte, con stronzi e topi grandi come gatti, che parevano natanti alla deriva. Non mancavano i fili tesi ai muri con mutandoni impiccati, canottiere, intimo femminile appena lavato con la cinniredda e appeso ad asciugare. Per la strada un via vai continuo di gente affaccendata che
si scansava al frastuono dei carretti disegnati e pieni di ornamenti sgargianti, appesantiti di paglia, di fieno e di grano, trainati da
muli e cavalli. Comari e contadini a far provviste d’acqua per la
giornata riempivano le quartare, prima del coprifuoco. Il ringhiare e l’abbaiare di quei quattro cani, che si disputavano un pezzo
d’osso, coprì ancora per qualche attimo il ronzare crescente dei
motori dei B-17, che sorvolavano la piazzetta.
Il brivido lungo la schiena a mia madre arrivò senza preavviso, e
per un attimo la paralizzò dalla paura. Quella giornata incantevole,
calda, assolata, senza una macchia bianca nel cielo di un azzurro
da farti smarrire di gioia, non poteva essere macchiata da qualcosa
di orrido, oscuro, minaccioso e perché mai adesso, ora che i soldati nazisti che avevano occupato il paese originando caos e paura, si
erano da giorni ritirati a Nord-Est verso Piazza Armerina. Perché
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ora dopo che, come d’incanto, era ricomparsa la calma, la tranquillità? Mia madre si rese conto in quell’istante che quella calma era apparente, come la quiete improvvisa a ridosso di una tempesta, come il silenzio delle rondini la mattina. Adesso stava arrivando l’altro braccio spaventoso dell’uragano.
Tra il fuggi fuggi generale la gente che correva disordinata insieme con le galline e i tacchini spaventati, con i quattro cani che
di colpo smisero di abbaiare, all’improvviso, in alto, dalla pancia
di quegli insetti motorizzati colarono come fumate scure una, due,
venti nuvolette che si dispersero in quell’immenso cielo azzurro,
oscurandolo per alcuni minuti. Erano foglietti di carta a migliaia,
che caddero lentamente dall’alto come coriandoli. Non erano pericolosi, ma intimidatori e minacciosi nel contenuto “Allontanarsi dall’obiettivo militare”.
Cinque ore dopo fu tutto più chiaro: dal paese passava la ritirata delle truppe tedesche, e quello era l’obiettivo militare da colpire, da bombardare delle truppe alleate.
Mio nonno aveva appena accompagnato la moglie e le tre figliolette nel rifugio improvvisato nella mangiatoia, l’aveva protetta all’interno con dei sacchi pieni di paglia ai lati, mentre a terra aveva poggiato dei materassi ripieni di fieno, dove si erano tutti accartocciati sotto la pancia della mula. Fuori la pioggia di bombe
mortali non tardò ad arrivare, si sentì il ronzio crescente dei caccia bombardieri americani avvicinarsi come milioni di sciami d’api
capeggiati da battaglioni di calabroni in formazione. Il grido d’allarme delle sirene era assordante ma non riuscì a sopprimere il rombare degli aerei. Da lì a qualche minuto i sibili delle bombe furono seguiti dalle robuste esplosioni inquietanti. Ad un tratto, in mezzo a tutto quel frastuono si sentì bussare alla porta, colpi secchi,
quasi ritmici che sembrarono martellate. Le cinque anime rannicchiate a matassa, tremanti dalla paura, erano terrorizzate. Nessuno di loro sembrava respirare e nell’oscurità della stanza luccicavano i loro occhi sgranati come fanali, mentre cercavano forme conosciute in mezzo al buio e a quel frastuono nella notte. Quei colpi alla porta continuarono a tuonare amplificandosi nell’irreale
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silenzio tra una cascata di bombe e l’altra, incessanti e insopportabili. Mio nonno, o quello che di lui era rimasto, col coraggio
della paura dovette salire ad aprire. Un ragazzo sui vent’anni sporco nel viso e nei capelli, la divisa infangata oltre che fradicia, terrorizzato alla soglia dello svenimento, allo schiudersi della porta
e alla vista di mio nonno gli si buttò al collo a peso morto supplicando “aiutami o uccidimi”.
Mio nonno riconobbe subito la divisa militare tedesca, ma quel
ragazzo impaurito e sbrindellato con occhialini sporchi che gli
oscuravano i grandi occhi azzurri, col berretto verde a navetta che
lasciava fuoriuscire appena un ciuffo di capelli increspati e appiccicati di color oro vecchio, non poteva essere pericoloso e neanche un nemico. Poteva avere l’età di suo figlio, se non fosse morto 14 anni prima per una disgraziata malattia. Impietosito, lo fece entrare e lo condusse giù nella stalla.
Quello che vide mia madre nella piazzetta del Canalicchio dopo
il bombardamento fu terribile e sconcertante, l’odore agro di morte si impadronì rabbiosamente e interamente del suo olfatto. Appena fuori dall’uscio di casa fu inghiottita dall’aria inzuppata di
polvere, di nafta e di carne bruciata e cadde in quello spazio allucinante, innaturale. La scena raffigurava un quadro irreale, sconosciuto, non conosceva ancora Dalì, ma era proprio come un suo disegno, plastico e capovolto. Le fumate nere e sottili che si alzavano dalle macerie e dalla terra bucata che sembrava un colabrodo,
si distendevano ripiegando leggere sopra i corpi immobili di centinaia di creature senza vita. Quel fumo celava nel medesimo istante ombre di animali umani come ratti che si spostavano tra i cadaveri come spettri, lasciandoli sollevare di qualche poco e, di colpo, come il piombo ricadere monchi di piedi o di mani a seconda
se gli venivano tolti gli stivali, gli anelli oppure gli orologi.
Una donna lì in mezzo, inginocchiata, con le braccia cadute sul
grembo, le mani abbandonate sulle gambe con i palmi rivolti al cielo indifferente ritornato azzurro, avvolta nel suo scialle nero tra gemiti e urla di straziante dolore, emetteva un cupo lamento che
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somigliava al pianto disperato di chi ha perso il suo uomo o il suo
bambino. Più in là un uomo, accasciato a terra, poggiava con attenzione la testa inerte di una donna sulle sue ginocchia. Con una
mano le carezzava i capelli umidi di un liquido più denso dell’acqua che immaginò fosse sangue. Speranzoso e vigile aspettava invano un tono, una nota, un respiro da quella bocca. Anche le palpebre chiuse come una saracinesca non accennavano più ad aprirsi. Come un macigno cadutogli addosso, improvvisamente, si riversò su quella forma inerte. Comprese che avrebbe potuto attendere una vita, ma da quella creatura poteva trattenere solamente
il ricordo dell’ultimo sorriso, per sempre. Si alzò portando in braccio quel corpicino senza vita e si fermò davanti alla porta di mio
nonno dove, impalata sulla soglia, mia madre sbottò a piangere
disperata. Non si poteva immaginare l’orrore di quella scena.
Mia madre avrebbe voluto fuggire lontano, lontano, ma dove?
Si sentì vomitare le budella.
Passarono due giorni dal bombardamento prima che spuntassero di nuovo i soldati, ne arrivarono tanti e di nuovo stranieri. Troppo poco tempo era passato senza militari, giusto il tempo per chiedersi e per cercare di capire il valore e il senso della guerra che
naturalmente nessuno comprese mai. Perché quella furia distruttrice aveva raso al suolo il paese come fosse impestato? A nessuno di quei sopravvissuti siciliani si potrà mai spiegare il perché
schiere di uomini armati venuti da terre lontane, distruggessero le
loro case e le loro vite, per scacciare altri eserciti stranieri non
chiamati e non invitati, dalla loro terra, da quella terra che da secoli con stranieri e forestieri ha vissuto e condiviso pazientemente mogli e buoi, pensieri e tradizioni, cielo e terra, anima e cuore.
Tre strade provenienti da sud introducevano nella piazzuola del
Canalicchio e da quelle, preannunziati da un tremolio della terra
sotto i piedi e dal cigolio di carri armati, gli alleati la invasero come acqua su un letto di un fiume in secca, dopo un pauroso temporale, a migliaia. Parlavano alla gente in un italiano strampalato
aiutandosi con gesti studiati, le braccia spalancate, le mani schiuse verso l’alto cercando di rassicurare gli abitanti sospettosi e
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impauriti. Parlavano e gridavano, ma si capiva solo “a noi... amici... cioccolat”.
Uno squadrone di circa 100 soldati si radunò nella piazzuola
della fontana greca del Canalicchio, attorno ad una Jeep militare
con sopra un uomo di grande statura e graduato. Forse un generale o il comandante della truppa, a circa dieci metri dall’abitazione dei miei nonni.
Quei giorni per il soldato Hans Hadding significarono la salvezza. Per mia madre, invece, furono giorni intensi, travagliati, a tratti pieni di passione, meraviglia, mistero, terrore e tensione accompagnati da una nuova sensazione di paura. In ogni caso straordinariamente ricchi di emozioni, pieni di un inspiegabile coinvolgimento di benevolenza e amore. Adesso cosa sarebbe successo?
Bisognava consegnare Hans ai militari americani.
I miei nonni, giustamente, ebbero paura e si confortarono nell’unico modo possibile, rifugiandosi nella disperazione di chi sa
di essere cristianamente umano, di chi non può fare altra scelta
che quella di aiutare il prossimo. Riuscirono a nascondere, agli
occhi delle figlie, la fifa e il terrore di essere scoperti, l’insicurezza, la certezza del pericolo per la famiglia (la fucilazione per mio
nonno era scontata). Avevano nascosto un militare tedesco, un disertore nemico e per il povero ragazzo la sorte non sarebbe stata
molto diversa.
Per sua fortuna, Salvatore Costello, mio nonno, aveva coinvolto in questa storia suo fratello Bonifazio e il suo amico compagno di guerra, Luciano Marotta, che era stato militare attivista già
durante la prima guerra Mondiale, meritandosi il grado di sergente, il quale conosceva l’inglese. La sua mediazione salvò la vita
ad entrambi. Cosa riportò al comandante americano, non lo seppe nessuno, neanche mia madre. Hans, che nel frattempo aveva
imparato a pregare, si era affidato alla volontá del Signore, c`era
bisogno di un suo miracolo per sopravvivere. Forse con questa convinzione tramutatasi in rassegnazione la notte precedente si avvicinò a mio nonno, meravigliando tutta la famiglia, e si mise a raccontare la sua storia quasi in un perfetto italiano, confidandogli
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cose strane, misteriose e intriganti. Nessuno aveva immaginato
che Hans parlasse l’italiano, nemmeno mia madre che aveva provato alcune volte, invano, a dialogare con quel ragazzo. Anche se
lei si chiedeva cosa avrebbe potuto dire quell’uomo a una bambina di quasi 13 anni. Invece il giorno dopo, prima di essere consegnato, Hans si avvicinò a lei e qualcosa le confidò: Un segreto
che avrebbe cambiato la storia di quel paese e scombussolato la
sua. Sempre che un giorno lei riuscisse a decifrarne il suo significato.
Hans Hadding era un ragazzo di 20 anni, figlio di un affermato
professore universitario, docente di fisica e matematica e di madre aristocratica. Appassionato di archeologia, si era iscritto all’università di Münster in storia e filosofia, al quarto semestre dovette interrompere gli studi per la chiamata militare. Gli si prospettò di raggiungere la divisione militare di H. Göring in Sicilia
come giornalista storico e come interlocutore dei servizi della SD
(Sicherheits Dienst).
Senza vedere la Sicilia non è possibile farsi un’idea dell’Italia.
La Sicilia è la chiave di tutto. (J.W. Goethe da “Viaggio in Italia”
1787)
Presumibilmente l’interesse per la Sicilia e per la sua storia in
lui nacque da lì, leggendo Goethe appunto, oppure in occasione
della stesura di una tesi scolastica su Federico II, lo stupor mundi, nipote di Barbarossa, affascinato e stuzzicato dal fatto che un
erede al trono tedesco si fosse innamorato di quella terra a tal punto da rinunciare alla corona germanica per quella del Regno di Sicilia, domiciliarsi, vivere e fondare tra le tante opere culturali, addirittura la prima scuola siciliana di lettere italiana. Apprendere,
inoltre che in quella regione innumerevoli popoli di diverse culture vi erano passati, lasciando ognuno tracce indelebili seppellite dal tempo, l’avevano ancor di più incoraggiato e spinto a raggiungere quel paese.
Prima di partire aveva approfondito la conoscenza dell’isola rileggendo scritti di letteratura storica, di miti e tradizione. Tra i
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tanti documenti interessanti consultati, sicuramente quello più intricante era il trattato sulla famosa Mappa Romana: l’ITINERARIUM ANTONINI scritto dal suo connazionale Ulrich Jasper Seetzen, nella quale spiegava come tra le molteplici occupazioni Greco-Romane tra il II e il III secolo d.C. in Sicilia erano stati rilasciati moltissimi contributi storici, vedesi Taormina, Siracusa,
Agrigento, Selinunte e altri, ma la cosa interessante era che il trattato supponeva una diversa collocazione del tracciato all’interno
della Sicilia, quello che collegava Catania ad Agrigento e più precisamente quello che delineava il percorso da Piazza Armerina in
poi, dimostrando la possibilità di un diverso itinerario e di conseguenza altre città e centri abitati antichi potevano essere nate lungo quel corridoio e ancora non erano stati scoperti.
In effetti gli scavi che diedero alla luce alla Villa del Casale i
bellissimi MOSAICI contenevano documentazioni di luoghi mai
trovati e strade di collegamento tra Piazza Armerina e Agrigento
sconosciuti. Con questo e altri pulici per la testa, arrivò in Sicilia
nell’aprile del 1942, precisamente a Gela. Due mesi più tardi si
trasferì ad Agrigento, dove conobbe e frequentò il Sovrintendente della città, come lui appassionato di storia e a conoscenza dell’Itinerarium Antonini. L’amicizia che nacque tra i due gli procurò con facilità l’accesso agli archivi storici della città. La ricca biblioteca gli spalancò ancor di più la porta della sua già notevole
conoscenza storica e archeologica di quella regione. Un giorno,
con sua grande meraviglia, su un plico avvolto come una pergamena trovò una copia della mappa dell’Itinerario con altre due cartine avvolte all’interno della prima che in quel momento non riuscì a interpretare. Solo la sua intuizione e l’irrefrenabile curiosità
di ricercatore gli guidò la mano con le mappe nella sua borsa.
Mia madre mi raccontò la prima volta questa storia quando avevo circa 14 anni. Non fosse stato per mio nonno l’avrei scordata.
Negli ultimi anni di vita mio nonno era sopravvissuto a un ictus
celebrale che gli aveva paralizzato quasi tutto il lato destro del
corpo, costringendolo alla sedia per tutto il giorno; faceva molta
fatica a parlare più di qualche minuto. Due mesi prima che
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morisse mi trovavo con mia madre in Sicilia e andavo spesso a
trovarlo nella sua reggia. Era una di quelle casette vecchie e malandate con vani piccoli appena sufficienti, mobiliati del necessario. Il soggiorno si prestava solo ad accogliere, ad introdurre nell’abitazione; la stanza da letto, ritagliata dove una volta viveva la
mula, cioè la stalla, era stretta, ma era comoda perché distaccata
dalle altre stanze; più spaziosa e rustica era la cucina, con le piastrelle di ceramica colorate di giallo e blu, il forno ancora a legna
ma con incorporati da poco due fornelli elettrici. Appese al muro
una batteria di pentole e padelle annerite dal fumo e dal soffitto
pendevano arnesi di cucina in rame di ogni tipo. Un solo armadio
con due ante di vetro, da dove si notavano i bicchieri e i vasetti
di vetro colorato di ogni misura, insieme al tavolo e le sedie occupavano il restante spazio della sala pranzo. Da lì, finalmente, si
usciva nell’ampio terrazzo a più livelli e due verande comunicanti tra di loro. I diversi livelli erano attraversati da una scalinata
imperiale, ornata ai bordi con piante, fiori e un’infinità di vasi di
terracotta e d’argilla; prima giarre maestose ripiene d’olio, poi anfore, bummuli e quartare, ricordavano i tempi antecedenti i rubinetti e l’acqua corrente proveniente dalle nuove vasche comunali. Le scale finivano nell’ampio giardino sottostante alberato, dove indisturbati regnavano due alberi di melo e un immenso fico.
Il lavatoio della piazzetta sotto casa si affollava di lavandaie loquaci e civettuole sin dalle prime ore del mattino, lasciando echeggiare insieme al trambusto dei carretti l’intera casa e quel brulichio vivace la rendeva persino allegra. All’ombra del fico, quasi
ogni mattina, mi dilettavo a fare la barba a mio nonno con il
rasoio, seguendo movimenti antichi e rituali lontani come quello
di affilare la lama nella cinghia di cuoio. Cominciavo ad insaponargli il viso col pennello e mentre la schiuma gli copriva la barba il suo volto si distendeva, mostrando una gioia e una soddisfazione pari a quella che provava quando dalla radio uscivano le note dell’inno comunista di… avanti popolo… alla riscossa... e sorridente senza balbettare mi canticchiava: “tu puoi farmi la barba,
di te mi fido”. So che dovevo esserne onorato. Si fidava di me,
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come del comunismo. Ogni tanto, quando usciva un po’ di sangue dal suo viso, per qualche piccolo taglio, gli strofinavo una
strana pietra sulla pelle e come per magia il sangue stagnava.
Un giorno, seduto all’ombra del fico che si affacciava in quella piazzetta vicino alla fontana greca in contrada Canalicchio, appena finito di fargli la barba con un tono più sofferente del solito
mi ordinò di avvicinarmi a lui e con parole affannate mi parlò:
“Nipote mio, ho da dirti che ho un segreto” e, prima che io interrompessi quel silenzio lungo che seguì, aggiunse “Non lo dirò a
nessuno, neanche a te, ma voglio che tu sappia che ho un segreto e che me lo porterò nella tomba”. Pausa.
“Ma come, mi dici che hai un segreto, però non vuoi svelarmelo?”. Chiesi perplesso.
“Sì! Perché voglio solo che tu sappia che c’è un segreto. Lo devi sapere, altrimenti non puoi né pensare né dire che mi sono portato un segreto nella tomba.” Quando mio nonno voleva dirmi
qualcosa d’importante lo nascondeva dietro una storia o una metafora e io dovevo capire quale era il significato, il senso. Si divertiva, a volte mi faceva scervellare, ma era efficace, in questo
caso pensai era riuscito a diventare immortale, ogni volta che sento la parola segreto mi ritorna alla mente lui e le sue storie.
Quella fu l’ultima volta che lo sentii parlare.
“Dopo la morte di mio nonno mi sono fatto raccontare da mia
madre di nuovo la storia del soldato Hans, ed è quella che ti sto
per raccontare.” Dissi a Mara Merthen Hedding, la donna magra e
bianca che mi stava di fronte, mentre mi guardava con due occhi
attenti che riuscivano a nascondere lo stupore di avermi realmente trovato. Io stavo per continuare il mio racconto quando un pensiero, come il lampo che arriva prima del tuono, mi fermò. C’era
qualcosa che mi bloccava più della voglia di continuare a raccontare la storia a quella donna ancora sconosciuta, ed era il desiderio di sapere come aveva fatto a trovarmi e perché.
“Perché io? Come sei arrivata fino a me?”
Ero seduto in un’osteria piena di fumo, con le finestre che
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piangevano a dirotto rivoli di pioggia e la radio che cantava malinconica la voglia di evadere, era una serata invernale come tante altre, in un paese ordinario del Nord-Rhein-Westfallen. Davo
un’occhiata rattristata fuori dove, come sempre, troppo presto era
diventato buio pesto e mi voltavo a guardare lei. Mentre percepivo massiccia la tediosità del paese attesi la risposta e Mara, che
da quel momento si sentì a dir poco a disagio, dopo essersi aggiustata sulla sedia e tracannato un sorso di Martini, iniziò a raccontarmi di suo padre, di cui non aveva come ricordo che il nome:
Hans Anton Hadding. Non sapeva che aspetto avesse, neppure una
foto, che viso ci fosse dietro il nome di suo padre non riusciva a
immaginarlo. Sua madre non le aveva mai parlato di lui, da quello che circolava in famiglia era riuscita a sapere solamente che
era docente di storia e filosofia, che nel dopoguerra, finiti gli studi, aveva ricevuto una cattedra all’università di Colonia e che nel
1959 aveva sposata sua madre. D’istinto si era accostata di qualche centimetro a me, come a volersi avvicinare al nocciolo del discorso.
“Nel 1961, con mia madre ancora incinta, mio padre si preparò
ad intraprendere un lungo viaggio di lavoro per conto del Governo, si trattava di scavi archeologici in Africa, disse. Partì subito
dopo la mia nascita. Per due anni scrisse e inviava puntualmente
dei soldi a casa poi, un giorno, da mia madre si presentò un avvocato italiano con dei documenti, che le consegnò per conto di mio
padre, senza darne una motivazione chiara e precisa. Si trattava di
un certificato di deposito intestato a mio padre in una banca in
Svizzera, un estratto conto a nome di mia madre contenente una
grossa somma di denaro e la chiave di una cassetta di sicurezza
sempre presso la stessa banca. Di mio padre, da quel momento,
non si seppe più nulla. Quando mia madre si recò in Svizzera a
ritirare il contenuto del deposito erano passati diversi anni. Trovò una lettera per lei e un cofanetto con su scritto il mio nome con
incise due serie di numeri, il 18 e il 94.0.12. Della lettera a mia
madre ti parlerò un’altra volta.” Un sospiro, un’altro sorso profondo di Martini, che questa volta le distese i muscoli del viso, e
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continuò: “Al mio diciottesimo compleanno mia madre mi consegnò quel cofanetto, convinta che il primo numero si riferisse all’età che dovevo avere per riceverlo, quasi come un regalo di abbandono di mio padre, e che per capirlo avrei dovuto raggiungere i 18 anni. Ma c’era poco da capire, una letterina di poche righe
con su scritto “...mia dolce bambina, tuo papà ti vuole tanto bene e, vicino e lontano, presente e assente, nel passato e in futuro,
in guerra e in pace, nella mente e nel cuore, sarà il tuo sole.
NB. troverai uno strumento musicale avvolto in un sacchetto,
una nota ti spiegherà che cos’è.”
Mara mise la mano nella sua borsetta di pelle marrone e tirò fuori quello strumento.
“Ecco il contenuto” disse Mara mostrandomi lo strumento.
“E allora?” dissi io, dopo averlo guardato e identificato. “Un
marranzano.” Ancora non capivo.
Marranzano o trunfa è uno strumento tipicamente siciliano.
Se cumpone ‘e n’arco metàlleco curvo e tìseco, chiuso quase da
capa ‘o pere, ‘e diàmetro tra 4 e 7 centìmetre, addò vibra na lenguetta metàlleca, pizzecata c’ ‘o dito ‘e na mana, vicino â vocca,
che funce perzò ‘a cascia sunora
“Beh all’inizio anche per noi niente di strano, fino a quando mia
figlia un bel giorno lo ritrova e se lo porta a scuola per proporlo
al suo gruppo durante le lezioni di musica. In quella occasione
scopre ai lati interni dello strumento musicale delle incisioni. Ora
se quelle parole incise non fossero così bizzarre e curiose, sarebbe rimasto un curioso strumento musicale, regalato da un padre a
sua figlia dopo un viaggio in Sicilia.” Adesso ero io curioso!
“Vedi... ad occhio nudo quasi non si riesce a leggere, ma c’è inciso: 94.0.12 /GRAZIE COSTELLO S. + STELLA e poi nell’altro lato: /SERRADAPI/S. FRANCESCO + DEMETRA + 18”
Minchia, pensai, COSTELLO S. + STELLA sono mio nonno e
mia madre! Il resto non mi diceva niente. “Ti dice qualcosa?”
chiese Mara con aria di chi sa di avere buttato bene l’esca.
“Tu cosa sai?” risposi scuotendo la testa.
“Quello che so da mia figlia” continuò un po’ seccata di non
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aver ricevuto una risposta.
“Un suo amico e compagno di classe è siciliano, suo padre lavora al Consolato Italiano di Colonia ed è riuscito a sapere come
trovare Costello S. grazie al numero 94012 che è il codice postale del paese dove abitava”.
“È vero” dissi “non avevo notato”.
“Non c’è voluto molto a sapere che una delle figlie si chiama
Stella ed è sposata con tuo padre, vive qui in Germania e che uno
dei suoi figli porta il tuo nome, S. Francesco”.
Porca miseria che giro pensai.
“Guarda che S. Francesco si riferisce a San Francesco, è un Santo popolare che dovresti conoscere bene, in quanto a SERREDAPI non ne ho la più pallida idea”.
Mentre continuavo a rimuginare sulle incisioni, un po’ disattento, mi ero sorpreso ad ammirare quella donna che nonostante la
stanchezza sul suo viso, dai suoi occhi azzurri come il cielo emanava una luce intima che accendeva la sua aura e il buio melanconico di quella serata. Mostrava i suoi anni solo dai modi di come
mi guardava. Dai suoi atteggiamenti curati e non troppo spigliati
notavo un po’ d’incertezza. Era una donna desiderabile e interessante, oltre che bella. Gli occhi di chi è abituata a scrutare, il naso diritto e proporzionato, la bocca tratteggiata per lei e quelle labbra carnose marcate la rendevano ancora più sensuale. Il suo profumo, gradevolmente mielato, si mescolava a quello del lievito di
birra e del fumo denso di sigarette che riempivano lo spazio vuoto e scuro del locale. Solo lei mi stava seduta di fronte e mi fissava dritto negli occhi mentre parlava. Non doveva essere una donna superficiale e neanche una avventata, pensavo. Se dopo quattro decenni era in cerca del padre. Se dopo tanto tempo, fa tutto
sto casino per arrivare qui, credendo di scoprire ora, dopo quarant’anni, qualcosa di suo padre... però è interessante, alle coincidenze non ci credo e, poi, mi sembra una donna assai risoluta.
“Voglio che mi aiuti a capirci di più in questa storia” mi disse
quasi a voler interrompere i miei pensieri.
“E poi, penso che potrebbe riguardare anche a te.” Lo aggiunse
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così convinta, che aveva ragione.
Prima di rispondere ripensai bene cosa stavo per dirle, non volevo deluderla. Cazzo, non ci voleva molto a capire che non potevo. E così le dissi che, vero mi aveva intrigato e interessato, sinceramente non sapevo ancora come fare, ma l’avrei aiutata. Nello stesso tempo mi resi conto, mio malgrado, di una mia debolezza patologica. Perché non seguo la ragione? No! Preferisco il mio
intuito. Se la cosa mi stuzzica mi ci butto dentro e non ne esco
più, come cazzo faccio adesso, non ho tempo e non parliamo di
disponibilità.
“Dammi un paio di giorni e vediamo cosa si può fare.” Aggiunsi quasi inconsciamente.
“Ho preso una stanza in un hotel qui vicino fino a domani. Se non
puoi o non vuoi aiutarmi non c’è bisogno di attendere la risposta
ancora più a lungo.” Disse determinata. Aveva ragione, in effetti
non c’era bisogno. Avevo già deciso, ma volevo prima parlare con
mia madre e capire dove mi avrebbe portato questa storia.
“Ok, ci vediamo domani alle 17 al tuo hotel”. E stavo per alzarmi.
“Ma non volevi raccontarmi la storia?”
Disse lei, facendomi notare la sua delusione.
Per me era chiaro che, se avessi raccontato ora la storia del soldato Hans, non avrei avuto più via di uscita. Quella non era più
una storia, ma la prima traccia di un percorso che porta così lontano e dal quale non si torna facilmente indietro, anzi non si può
proprio tornare indietro.
“Scusa te la racconto domani, dopo aver riparlato con mia madre”, dissi alzandomi in fretta e ci salutammo.
Dopo quasi un’ora avevo terminato il racconto di mia madre, ma
continuavo a scrutare Mara, nel suo sguardo ricercavo qualcosa
che assomigliasse alla consapevolezza. Era cosciente di cosa cercava veramente? Lei mi rassicurò dicendomi: “Vedi, ero certa che
potevi aiutarmi, come ora sono sicura che non può essere una semplice coincidenza senza senso questa storia.” Io feci una lunga
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pausa prima di rispondere. Lei, nel frattempo aveva guardato il
suo orologio.
“Quello che cerchi è vicino e lontano, devi scoperchiare il passato e proiettarti nel futuro, è assente e presente, per scoprire devi andare in guerra, può essere pericoloso. Per arrivare devi percorrere sentieri irrazionali e misteriosi. Te ne sei resa conto?”
Non volevo scoraggiarla, avevo paura che mi chiedesse quello
che già sapevo.
“La mia vita perderebbe il senso se mi fermo ora, e poi ho già
abbastanza paura per tornare indietro. Devi solo dirmi se tu sei disposto a darmi una mano, o se devo farlo da sola.” Mi fissava adesso con gli occhi di chi sa quando si devono fare gli occhi dolci.
Non avevo raccontato tutto quello di cui ero a conoscenza, non
avevo detto che le tracce erano ormai sparpagliate per mezza Europa, che dietro c’erano scoperte archeologiche rilevanti, segreti
occulti ancora sepolti, la mano mafiosa, la mia famiglia.
“Senti può durare a lungo e costarci molto questa ricerca, come
pensi di poterla finanziare?”
“Sono contenta che accetti” disse con un sorriso di soddisfazione. “Non devi preoccuparti per i soldi, ho a disposizione tutto il
patrimonio lasciato da mio padre. Mia madre non ha usato niente,
ha voluto donare tutto a me affinché lo utilizzassi per ricercare e
capire dove e chi fosse mio padre. Penso che basti.” Doveva essere un piccolo capitale, pensai.
Nel moderno appartamento di Mara, nei pressi di Colonia, il tocco prevalente del colore beige dei muri, con quello di albicocca e
marrone dei mobili, spezzava la monotonia del tetto bianco. La
piccola cucina comunicava con l’ampio soggiorno quadrato, dove un pannello rosa leggermente pallido dalla parte dell’ingresso
e bianco dall’altra, raccoglieva lo spazio del soggiorno per poi perdersi nella parete di vetro che dava sul grande terrazzo zeppo di
piante sempreverdi, cactus e alcuni fiori di tulipano, entrava una
luce calda e rassicurante che si rifletteva nel pavimento di legno
di abete. L’odore del caffè e il profumo dei panini ancora caldi
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davano una sensazione di sollievo al mio bisogno di avvertire dentro lo stomaco qualcosa di caldo, mi sentivo a mio agio. Insieme
alla figlia di Mara, Syria di ventuno anni, ci teneva compagnia un
Setter irlandese, o scozzese che fosse, un bel cane dal pelo marrone lucente e dagli occhi melanconici. Aveva quasi tre anni. Syria era completamente diversa di come me la ero immaginata. Portava i capelli corti, erano scuri, quasi castani e non biondi, alta
circa un metro e settanta e non aveva nessun piercing. Gli occhialini sul naso le davano un’arietta intellettuale, ma non ne aveva il
fare. Quando mi salutò allungandomi la mano fine e magra, mi
guardò curiosa con quegli occhi grandi marrone chiaro come il
suo cane. Senza distogliere lo sguardo accennò a un sorriso di circostanza, lasciandomi intravvedere una nota d’interesse. Studiava musica, il suo strumento preferito era il violino.
Mentre sua madre finiva di preparare il caffè, mi avvisò che stava per arrivare il suo amico Riccardo, un ragazzo italiano. Suo padre era impiegato al Consolato Italiano a Colonia, loro si frequentavano da quasi tre anni e lui era a conoscenza della storia.
“Sono stata io a persuadere mia madre a cercarti.” Cosa che
avevo percepito in quella sfrontatezza giovanile e che adesso ne
comprendevo il perché. Chiesi “Perché tua madre non voleva?”
“Non è che mia madre non volesse, lei è una che regolarmente
cerca di chiudere con il passato, e con tutto quello che non può
cambiare. Diceva che la scelta di suo padre era immutabile, di
conseguenza non serviva neanche cercarne il motivo, a saperlo
cosa avrebbe cambiato? Lei si ritiene una donna indulgente, una
che accetta le scelte degli altri e vuole vivere le sue. Anche con
mio padre è stata tollerante. Questa filosofia l’ha ereditata da mia
nonna.”
“ Cosa è successo con tuo padre?” non era solo curiosità.
“Mio padre non ce la faceva più di vivere qui e voleva ritornare nella sua terra in Grecia, ma lei non ha voluto seguirlo e hanno
divorziato”.
“Dunque, lei non voleva fare ricerche su tuo nonno, tu come hai
fatto allora a farle cambiare idea?”
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“Le conseguenze, le ho parlato delle ripercussioni, dell’egoismo, non è cosi facile. Lei può essere indulgente, ma non apatica, io mi chiedo perché non siamo una famiglia normale, cosa ha
spinto mio padre, mio nonno ad allontanarsi dalla moglie, dalla
figlia, insomma, cosa può esserci di così importante per rinunciare a quello che prima doveva essere il sogno, cosa succede che fa
barattare l’amore, il rapporto con qualcos’altro d’indefinito di sconosciuto ma altrettanto necessario?”
Già. Cosa fa rinunciare a una cosa così importante? Come obbligato dalla mente rividi in un attimo il film del mio matrimonio, la casa, la nascita dei miei figli, la gioia, la responsabilità, sinonimo di colpevolezza, la sofferenza, il divorzio, una bugia, mille bugie, una verità, quale verità. Tutto scorre! Tutto si trasforma!
Il matrimonio evidenzia la gabbia nella gabbia e u animale che
abbiamo dentro, non vuole vivere imprigionato.
“Non pensi che sia giusto sapere, conoscere il perché, almeno
per rispetto di te stesso, per le conseguenze che devi accettare?”
Syria aveva intuito qualcosa, l’instabilità soggettiva tra egoismo
e sacrificio, la lotta interiore tra il bisogno di libertà e la conseguenza della necessaria rinuncia, assolversi o condannarsi. Definire il dissidio fondamentale che ci travaglia, l’oscillazione fra
claustrofobia e claustrofilia. Se si rinuncia alla libertà per altri,
questi diventano colpevoli involontari, gli ereditari delle conseguenze. Gli uni accreditano, gli altri si addebitano.
“Sei riuscita a interessarla nel modo giusto” dissi.
“Penso di sì. È arrivata un paio di giorni fa dicendomi che oggi saresti venuto a trovarci.”
Quando finalmente arrivò Riccardo, il caffè era pronto. Syria,
impaziente, mi chiese come pensavo di aiutarli, ma sua madre intervenne al mio posto, invitandola a non essere impaziente ora e
di non fare premura. Poi iniziò a raccontare del nostro primo incontro. Concluse sostenendo che non avevamo pensato ancora cosa fare, in effetti non avevamo che poche informazioni e quindi
prima di intraprendere una qualsiasi iniziativa bisognava ricercare più elementi, e poi si poteva pensare da dove partire. Si mise a
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sorseggiare il caffè. Poi inaspettatamente rivolta alla figlia le chiese: “Syria, perché non ci racconti cosa sei riuscita a sapere dalle
tue ricerche con Riccardo?”
“Ok.” Rispose lei senza nascondere un certo compiacimento e
cominciò.
“Dunque, avevamo due incisioni - S. + Stella - con il cognome
- Costello - dopo aver scoperto per caso che il numero 94012 era
il codice postale del paese di Barrafranca. La famiglia di Riccardo è originaria di quel paese ed è stato il padre a farcelo notare e
che ci ha aiutato a risalire alla tua famiglia, fino a tua madre e te.
Il nonno di Riccardo conosceva bene la famiglia Costello, lo zio
Turi (Salvatore) che era morto da quindici anni, e anche il fratello Bonifazio, morto anche lui. Era stato sposato con Giuseppina
e una delle sue figlie si chiama Stella, e si era sposata con uno
della famiglia Lucano che adesso vive in Germania. Quando scoprimmo che ancora abitavate a 38 km da Colonia, mia madre decise che si sarebbe impegnata lei di rintracciarvi, e così ho cominciato a fare ricerche su mio nonno Hans. Non è stato facile trovare indizi precisi, sono riuscita a sapere due cose certe: mio nonno era tornato in Sicilia diverse volte, l’ultima nel 1959, precisamente a Centuripe e non aveva nessun incarico di lavoro per il
Governo. Si era preso un periodo di ferie dall’università, aveva
trovato il sostituto per la sua cattedra e nessuno sapeva più niente. La Seconda cosa era che scriveva per un giornale di Francoforte che aveva pubblicato alcune lettere scritte da mio nonno nel
periodo della permanenza in Sicilia. Questo l’ho saputo dal direttore dell’università di Colonia. Scusate ma devo andare in bagno.”
Si alzò di colpo e sparì. Mara dopo qualche istante, interrompendo il silenzio lasciato della figlia, iniziò a raccontare.
“Mia madre non mi ha mai raccontato la verità, o forse non sapeva neanche lei quale fosse. Quando mi diede il cofanetto di mio padre, mi disse solo: “Tuo padre è stato sempre un uomo misterioso
così come tutto questo è un mistero. Mi diceva che la cosa più
bella nella vita era CERCARE, cercare nel mondo e dentro se
stessi il segreto dell’umanità. Si sentiva attratto e condannato da
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questo impulso. Tutto il resto per lui era noia. Mi diceva che ritrovare una città sepolta, una necropoli era come rivelare un amore sconosciuto, sai che esiste, ma non lo vedi, come il tempo, rimane un mistero. Se un giorno saprò dirti di più, allora avrò capito chi fosse veramente tuo padre.”
Una vita senza ricerca non è degna per l’uomo di essere vissuta, mi venne in mente.
“In punto di morte mi confidò che da anni, ormai stanca di domandare e di chiedersi, si era rassegnata a non aspettare più una
risposta. Lui rimaneva un mistero. Mi diede la lettera ricevuta dall’avvocato italiano e non parlò più di mio padre.”
Intervenne Syria, nel frattempo di nuovo con noi, soddisfatta di
se stessa per l’efficace ricerca esposta e per la seguente intuizione: “La lettera senza mittente era indirizzata all’avvocato e dal
timbro sui francobolli sono riuscita a leggere Centuripe.” Sorseggiò un po’ di caffè, poi rivoltasi verso Riccardo aggiunse “Lui ha
fatto tutta la ricerca storica della occupazione dell’armata di H.
Göring allo sbarco degli alleati fino alla ritirata della truppe tedesche”. Riccardo se n’era stato tutto il tempo in silenzio. Era un
bel giovane alto, capelli scuri, un po’ ricci, ma riconoscibile
lontano un miglio che era del sud. Simpatico, vestiva un casual
elegante e nonostante i riccioli era pieno di brillantina. Si inserì
per la prima volta nella discussione “Ho fatto delle ricerche su Internet, ho preso degli appunti e ne ho fatto delle copie”. Aveva
una voce rauca e bassa, graffiata, robusta e calda.
Mi porse due fogli che aveva sfilato da un raccoglitore poggiato sulle gambe. Gli diedi velocemente una guardata...
9-10 luglio 1943. Con l’Operazione Husky inizia lo sbarco in
Sicilia: all’alba del 10 luglio, alle 4,45, la 7a Armata Usa sbarca
sulle spiagge di Gela e l’8a Armata inglese su quelle di Pachino
e Siracusa.
10-12 luglio 1943. Violento scontro tra la 7a Armata Usa e le divisioni tedesca Hermann Göring e italiana Livorno, che si ritirano
solo alle ore 14 del 12 luglio.
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