GAM avvoltoio 2010 STAMPATO

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GAM avvoltoio 2010 STAMPATO
INTERNATIONAL ASSOCIATION FOR ART AND PSYCHOLOGY
SEZIONE PIEMONTESE
GRUPPO DI STUDIO INTERDISCIPLINARE
PERCORSI DELL’ANIMA. ELABORAZIONE DEL LUTTO ED ELABORAZIONE ARTISTICA
Uomini e avvoltoi: rituali funebri dal Neolitico
Pietro Rossi
Relazione tenuta alla GAM, Galleria d’Arte Moderna di Torino, il 22/05/2010
Abstract
La multiforme e per molti versi ancora oscura transizione Paleolitico-Neolitico, avvenuta nel Vicino Oriente tra 12.000 e
6.500 a.C., ha comportato una trasformazione mentale e sociale, prima ancora che economica, manifestata attraverso la
nascita di nuove iconografie nell’arte e di nuove pratiche funerarie.
L’attenzione data alla figura dell’avvoltoio, scolpita e dipinta sovente in associazione a figure umane acefale, trova
riscontro nella pratica della separazione del cranio dalla salma e dalla sua successiva sovramodellazione al fine di ricrearne
le fattezze, pratica riservata solo a qualche membro eminente del gruppo.
La testa, elemento distintivo dell’essere umano poiché sede del pensiero e del raziocinio, “sopravvive” così in qualche modo
al corpo, destinato ad essere innalzato al cielo dal rapace, forse ipostasi del principio femminile nella sua parte distruttiva e
mortifera, tanto che ancora oggi alcune culture attuano queste pratiche: in Nuova Guinea si ornano i crani di individui
prestigiosi e in India gli ultimi zoroastriani offrono in pasto i defunti agli avvoltoi.
L’origine del cambiamento dalle società paleolitiche a quelle neolitiche, dalla caccia all’agricoltura, sembra
sempre più trarre origine da motivazioni mentali e sociali piuttosto che nel concreto, nel materiale o
nell’economico. Alla luce delle nuove ricerche, cambiamenti climatici ed esplosione demografica non
sembrano essere la causa di queste modificazioni. Come disse Jacques Cauvin, gli uomini non sono stati
“costretti” al cambiamento.
Questa progressiva maturazione prese inizio nel Vicino Oriente nella zona tra alta Mesopotamia e Palestina:
tra il 12.000 e il 10.200 a.C. nelle società degli ultimi cacciatori e raccoglitori natufiani, tra il 9600 e l’8800
a.C. durante il PPNA (Neolitico Preceramico A) ed infine tra l’8800 e il 6500 a.C. durante il PPNB (Neolitico
Preceramico B).
Gli indizi di questa maturazione risiedono nella progressiva complessità dell’architettura, nella crescente
organizzazione dei villaggi e nella nascita di monumentali edifici comunitari (di riunione o di culto).
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A livello delle rappresentazioni grafiche dominano le incisioni e le sculture di animali feroci e paurosi, come
scorpioni, serpenti, felini, uri e rapaci, diffusi soprattutto nel PPNA. Famosi sono i pilastri incisi di Göbekli
Tepe (in Turchia, alto Eufrate), con il loro ricco corredo bestiario, forse espressione di un sistema mitico e di
una corrispondenza sociale, clanica, di gruppo. Sembra che quando l’uomo, con l’agricoltura e l’allevamento,
incomincia a dominare il mondo, voglia mostrare che la natura è spaventosa ma che lui è capace di
conquistarla: il “dentro”, villaggio e campi, sono ben organizzati, mentre il “fuori” è pericoloso e selvaggio.
Solo a partire dal PPNB incominceranno le rappresentazioni di animali addomesticati, con piccole sculture in
argilla. Gli animali selvaggi tenderanno a scomparire, eccetto l’uro e l’avvoltoio: le figure di questi due
animali saranno anzi destinate ad una progressiva fortuna nelle società neolitiche evolute, dove sembreranno
assumere il ruolo di divinità, maschile e femminile.
Le rappresentazioni umane sono invece, nella prima fase neolitica, meno diffuse: le uniche figure femminili
del PPNA, delle statuette, sono presenti a Mureybet (in Siria, medio Eufrate). Le figure femminili riappaiono
nel PPNB antico (Dja’de in Siria e Nevali Çori in Turchia) per poi diffondersi dal PPNB medio. Figure maschili,
sovente statue itifalliche, sono ben presenti nel PPNA (Göbekli Tepe) e poi nel PPNB (Urfa).
E’ significativa inoltre una particolare classe di rappresentazione umana, diffusa soprattutto nel PPNA della
Siria: la sola testa. Si tratta di piccole sculture in pietra, forse in origine montate su supporti (Jerf el Ahmar), i
cui tratti del volto, e la cui capigliatura, non lasciano individuare facilmente il sesso.
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La rappresentazione grafica di esseri umani senza testa è ugualmente presente. Sono significativi i casi
dell’individuo rovesciato acefalo inciso su di una grande lastra, inserita tra due stele scolpite a tuttotondo a
forma di avvoltoio e con seni umani, che ornavano un edificio comunitario di Jerf el Ahmar, e di uno dei
pilastri dei circoli di Göbekli ornato da una figura di avvoltoio e da un piccola figura umana acefala. Come
vedremo in seguito, sembra quindi che vi sia una corrispondenza tra dissociazione della testa e associazione
con la figura dell’avvoltoio.
La consuetudine di dissociare la testa dal corpo è attestata anche a livello di pratiche funerarie ed in alcune
sepolture, che saranno esercitate sino al Neolitico ceramico (6500-5300 a.C.).
Le usanze funerarie, infatti, indicano una progressiva crescita dello sviluppo dell’importanza dell’uomo,
parallela al controllo sulla natura. Già nel natufiano, verso il 12.000 a.C., alcune tombe sono dotate di un
ricco corredo funerario, indizio di una incipiente stratificazione sociale in un mondo ancora di cacciatori,
peraltro già in via di progressiva sedentarizzazione. Alcuni individui sono sepolti con un cane, primo animale
addomesticato ed esibito in posizione subalterna. Alcune sepolture mostrano, invece, il cranio separato dal
resto del corpo.
Tale pratica conosce un’intensificazione, tanto che dall’8200 al 7000 a.C., durante il PPNB medio e recente, si
conclama nel sud del Levante, la sovramodellazione dei crani, separati dai rispettivi corpi. Si tratta di un
rituale raro ed attestato solo in sei siti e su circa cinquanta individui (uomini, donne e anche bambini) che
consisteva nella prelevazione del cranio, una volta decomposto il corpo, e nella rimodellazione delle fattezze
del volto con argilla, paglia, calce, conchiglie e coloranti.
Tali crani provengono da Gerico (Cisgiordania), da Beisamoun e da Kfar Hahoresh (Israele), da Ain Ghazal
(Giordania), da Tell Ramad e da Tell Aswad (Siria).
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Dei 9 esemplari rinvenuti nel 2003 e nel 2006 a Tell Aswad, ad est di Damasco, due colpiscono per il realismo
e l’artistica resa dei tratti del volto. Si tratta di ritratti o di volti idealizzati?
Due siti anatolici più recenti, Köşk Hüyük e Çatal Hüyük, già del Neolitico ceramico, dimostrano un lungo
perpetuarsi di tale pratica nell’area del Vicino Oriente.
I personaggi fatti oggetto di tale pratica dovevano rivestire un ruolo importante in seno alla società, individui
che godevano di particolari statuti sociali o religiosi. Sembrerebbe trattarsi quindi di una “reverenza verso gli
antenati”, dei quali si perpetuava la memoria, contenendone simbolicamente la morte, piuttosto che di un
vero e proprio “culto degli antenati”.
Il parallelo etnografico contemporaneo più efficace è quello della Nuova Guinea (valle del medio Sepik), dove
si sono osservate, sino a circa 50 anni or sono, pratiche centrate su due momenti rituali. Dapprima, i crani
rimodellati e preventivamente prelevati dalle sepolture, venivano esposti all’esterno, a volte montati su
manichini, in un luogo pubblico oppure riservato ad una cerchia ristretta di iniziati. In seguito, dopo un lasso
di tempo, di lunghezza variabile, si rendeva loro sepoltura, in genere in una struttura collettiva. In questo
modo i defunti erano integrati nella comunità dei viventi durante più generazioni e la loro memoria
evidenziava uno stretto legame con il passato.
Rituali funerari analoghi sono riscontrabili in varie parti del mondo e su diverse distanze cronologiche: in
alcune tombe elitarie menfite dell’Egitto dell’Antico Regno con le cosidette “teste di riserva” in calcare, nella
Gallia meridionale dell’età del Ferro con i portici in pietra scanditi da alveoli cefalici e nelle maschere-ritratto
dei crani della cultura post-scitica di taštyka della conca del Minusinsk nella Siberia meridionale, solo per
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citare alcuni esempi. Inoltre, le antiche gentes romane non godevano forse dello ius imaginum, ovvero
dell’esclusivo diritto dei patrizi di esporre le raffigurazioni dei propri antenati?
Ritorniamo, infine sull’associazione grafica prima rilevata tra corpi umani acefali e figure di avvoltoi a Jerf el
Ahmar e Göbekli nel PPNA.
Il medesimo tema ricompare con netta evidenza nel PPNB a Nevali Çori (in Turchia, alto Eufrate) dove si trova
una scultura in pietra, forse un pilastro, che rappresenta un avvoltoio che ghermisce le teste di due figure
umane disposte nuca contro nuca.
Tutte queste raffigurazioni anticipano le più tarde, note e forti figure dipinte in alcuni edifici (o templi) di
Çatal Hüyük dell’iniziale Neolitico ceramico, dove piccole figure umane acefale vengono afferrate da grandi
avvoltoi dalle ali spiegate.
Esiste quindi una forte relazione, ovviamente anche simbolica, tra testa, corpo e avvoltoio tanto che, secondo
J. Cauvin e D. Stordeur, l’avvoltoio potrebbe simboleggiare il lato mortifero e distruttore del principio
femminile, e costituire uno dei due temi mitologici del Neolitico, definito “l’avvoltoio e la morte” giustapposto
a quello chiamato “la donna e il toro”, dove invece il principio femminile genera un figlio toro, allo stesso
tempo amante e paredro (letteralmente “che siede accanto”).
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L’avvoltoio, uccello psicopompo (che guida le anime dei morti), continuerà a giocare un ruolo essenziale in
molte tradizioni, come negli antichi rituali funerari zoroastriani, dove si occuperà di scarnificare i corpi
esposti nelle “torri del silenzio” e liberare così le ossa dall’impurità non contaminando gli elementi, come
praticato ancora attualmente solo più in India, a Bombay.
O, ancora, nei rituali himalayani dei “funerali celesti”, dove i sacerdoti buddisti gettano ancora oggi verso il
cielo pezzi del defunto depezzato e mescolati a farina di orzo, the e latte di yak, per permettere agli avvoltoi
di inghiottirli ed elevarli alla limpidezza del cielo, secondo consuetudini che sembrano rimandare anche
all’antico sostrato religioso locale, detto bon.
I medesimi concetti si trovano, in una prospettiva cronologica anteriore rispetto ai due casi citati tuttora
praticati, anche, ad esempio, in un autore latino di età imperiale, Silio Italico. Egli, parlando dei mercenari
celti e iberici della Seconda Guerra Punica, riporta che “Per costoro è una gloria morire in combattimento […]
essi credono che saranno trasportati al cielo vicino agli dèi, se l’avvoltoio affamato lacera le loro spoglie
riverse” (Punica, III, 340).
Le connessioni dell’avvoltoio con la regalità e la sua consacrazione, porterebbero ad estendere l’oggetto del
discorso verso prospettive in parte diverse: a titolo di esempio si pensi solo alla pregnanza della figura di
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Nekhbet, dea avvoltoio dinastica dell’Alto Egitto, o al ruolo sacrale rivestito dall’osservazione degli auspicia
sotto forma di avvoltoio da parte degli augures della Roma regia, a cominciare dal racconto dei sei e dei
dodici avvoltoi osservati rispettivamente da Remo e da Romolo all’atto della fondazione dell’Urbe.
Questi due mitologemi neolitici, insomma, perdureranno non solo sino alla tarda antichità ma anche oltre.
Essi sono potente segno dei cambiamenti mentali che hanno portato l’uomo, dalla pratica dell’agricoltura e
dell’allevamento in poi, a dominare la natura simbolicamente e, di conseguenza, fisicamente.
La testa separata dal corpo, sembra quindi diventare a partire dal Neolitico l’elemento più importante della
persona: sede della ragione, luogo dal quale si libera lo sguardo tramite il quale si esteriorizzano
l’osservazione e i sentimenti, assume la funzione di pars pro toto dell’essere umano, che “sopravvive” in
qualche modo al disfacimento del corpo.
Proprio Platone nel Timeo ricorda che “Noi non siamo come le piante della terra, perché la nostra patria è il
cielo, dove fu la prima origine dell’anima e dove Dio, tenendo sospesa la nostra testa, ossia la nostra radice,
tiene sospeso l’intero nostro corpo che perciò è eretto” (Timeo, 90 a-b).
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