sample - Casa Fluminense

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sample - Casa Fluminense
550
Prima edizione ebook: settembre 2013
© 2013 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-5883-2
www.newtoncompton.com
Edizione elettronica realizzata da Serena Russo
Martin Rua
Le nove chiavi
dell’antiquario
Newton Compton editori
Ai miei genitori,
che mi hanno permesso di restare bambino
A Mario Buonoconto,
che un giorno mi aprì le porte del Tempio
A Yuliya,
che ha negli occhi il fiume Dnipro
e sul cuore una poesia
Prologo
Rielaborazione della Chronica Gondemarensis
Manoscritto templare del XII secolo ritrovato a Pontarlier, attuale Franca
Contea
Gerusalemme, 1118
«Spostate quelle pietre e puntellate la galleria con attenzione prima che ci crolli tutto addosso!».
La voce del capomastro – un uomo imponente, con una folta barba bianca e il viso segnato dal
tempo, dalla polvere e dal sole– tuonò nell’angusto spazio, mentre gli scavatori spostavano gli ultimi
ostacoli che impedivano di proseguire con il lavoro.
Scavavano ormai da settimane e non avevano ancora trovato traccia di quello che, in base agli
indizi raccolti e ai documenti, doveva essere per forza lì sotto. Avevano recuperato una gran quantità
di reperti di epoca romana, ossa e frammenti di vasellame, ma niente che lasciasse supporre che
stessero cercando nella direzione giusta.
Il re si era dimostrato entusiasta e aveva accolto con favore l’iniziativa di fondare un nuovo
ordine. Aveva consentito loro di occupare una parte del palazzo reale e operare indisturbati nelle
fondamenta di quello che una volta era il grande tempio. Ma il re era all’oscuro dei veri intenti di
quegli uomini che ai suoi occhi apparivano come dei valorosi e pii monaci guerrieri, decisi a difendere
i pellegrini.
«Maestro, forse ci siamo», disse uno dei muratori ormai allo stremo delle forze.
L’ultimo diaframma della parete che stavano picconando sembrava aver ceduto e una corrente
d’aria fredda si era riversata nella galleria, facendo tremolare le torce. Il maestro si avvicinò
all’apertura con una lampada a olio e illuminò l’interno. Dopo un istante si voltò verso i muratori: sul
suo viso era comparsa un’espressione di trionfo.
«Uscite tutti e andate a chiamare mastro Hugues».
I manovali obbedirono. Erano uomini votati alla causa del nascente Ordine, vincolati a un
giuramento di segretezza che includeva quegli scavi misteriosi.
Pur avendo fiducia in loro, i nove cavalieri fondatori avevano stabilito che i muratori non
dovessero vedere quel che avrebbero trovato.
Il capomastro attese che tutti fossero usciti dalla galleria, quindi spostò egli stesso le restanti
macerie che ostruivano il varco ed entrò nella grotta buia.
L’ambiente, fresco e umido, consisteva in un’ampia camera scavata nella roccia il cui soffitto era
retto da massicci pilastri intagliati in maniera grezza. Il capomastro accese alcune torce e le infilò in
sostegni di metallo che sporgevano qua e là, quindi iniziò a ispezionare quel luogo. Gli saltarono
subito agli occhi dei simboli incisi sui pilastri di sostegno della volta, forse segni lasciati dai muratori
che avevano creato quell’ambiente scavato nella roccia, tagliapietre vissuti almeno duemila anni
prima. C’erano squadre, martelli, ma anche simboli più oscuri, forse lettere di un alfabeto segreto.
Allineati lungo le pareti, c’erano otto imponenti sarcofagi di pietra lavorati in maniera grezza. Su
ciascuno era scolpito un simbolo. Sul fondo della caverna, infine, era visibile un nono sarcofago. Il
capomastro si avvicinò e vide due simboli che rivelavano, con certezza, l’identità di chi vi riposava.
«Finalmente…».
In quell’istante sentì un rumore di passi alle sue spalle e si voltò di scatto: otto uomini con tuniche
da lavoro erano appena entrati nella caverna. Alla loro testa un individuo il cui sguardo mostrava una
luce particolare, una determinazione che solo chi ha responsabilità di comando ostenta. Eppure, quella
determinazione e rigidità sembravano stemperate da accenti di bontà e misericordia.
Il capomastro rimase in silenzio accanto al nono sarcofago, mentre gli altri si avvicinavano con
reverente lentezza.
«È lui?», domandò l’uomo alla testa del piccolo gruppo appena entrato.
«Direi che non ci sono dubbi, fratello Hugues».
Hugues si avvicinò al sarcofago e percorse con le dita i due simboli, uno dei quali, un ramo
d’acacia, rappresentava il mitico Architetto del Tempio di Salomone. Quindi si voltò a osservare le
altre otto sepolture di fattura simile. Alla fine il suo sguardo si posò sulla parete dietro al sarcofago
principale, dove una nicchia scavata nella roccia era chiusa da due ante di bronzo.
«Apriamola, fratelli!».
Due dei presenti si avvicinarono alla nicchia e provarono a forzarne le ante con una leva di ferro.
Dopo qualche istante le giunture vecchie di millenni si aprirono, lasciando comparire uno scrigno
cubico che inondò di bagliori dorati tutta la grotta. Accanto vi era appoggiata una tavoletta di pietra su
cui era inciso qualcosa. I due uomini la presero con cautela e la portarono a fratello Hugues. I suoi
occhi la analizzarono prima di consegnarla al frate accanto a lui. «È scritta nell’antica lingua dei
giudei, fratello Alain. Prova a decifrarla».
Alain, tra i più anziani del gruppo, era un grande linguista, competente nelle più disparate lingue
antiche. Con i suoi grandi occhi castani scorse veloce l’iscrizione sulla tavoletta, quindi, dopo un
istante di concentrazione, provò a tradurre. «“Nove chiavi per nove simboli per nove custodi, affinché
gli occhi del guardiano siano sigillati per sempre”. Non c’è altro».
Tutti si scambiarono uno sguardo che rivelava i timori sollevati da quell’iscrizione. Tutti tranne
Hugues, i cui occhi si spostavano invece da un sarcofago all’altro. «Nove chiavi per nove custodi…
presto, apriamo i sarcofagi!».
Tutti si misero all’opera e una dopo l’altra scoperchiarono le nove sepolture. L’ultima fu quella
dell’Architetto del tempio. Insieme ai resti dei mitici custodi e costruttori, alle preziose vesti e
suppellettili che con essi erano state sepolte, ogni tomba conservava una piccola chiave d’oro dalla
forma curiosa, che non terminava con la tipica dentellatura, ma con un simbolo, una sorta di sigillo.
Nel sarcofago dell’Architetto rinvennero anche un triangolo d’oro, sul quale era incisa una lunga
formula.
Mastro Hugues lo prese delicatamente e ancora una volta lo porse a fratello Alain, che lo esaminò
rapidamente e con un’espressione tra il preoccupato e l’eccitato disse: «È il rituale, spiega tutto».
Il volto di mastro Hugues si fece determinato, quindi, rivolto agli altri, disse: «Fratelli, nessuno
dovrà mai avere accesso a questo scritto, alle chiavi e soprattutto allo scrigno. Nessuno, neanche il
pontefice o l’uomo più pio o colui che viva nella completa grazia di Dio. Poiché nessuno avrà mai la
capacità di resistere alla sua forza immensa. Nessuno, tranne noi».
Gli altri si guardarono, stupiti e spaventati.
«Perché non lo distruggiamo per sempre, mastro Hugues?», propose uno di loro.
Hugues rimase pensieroso per qualche istante, lo sguardo fisso sullo scrigno. «Sì, probabilmente
sarebbe la cosa migliore, ma non ci perdoneremmo mai di averlo fatto, se esso contenesse ciò che può
darci la vittoria sugli infedeli».
Gli altri annuirono, ma sui loro volti si dipinse un’espressione grave.
Dopo un istante Hugues riprese la parola. «In quanto Gran Maestro, io mi assumo la responsabilità
di preservare questa scoperta e di studiarla. Ciascuno di noi conserverà una chiave e un simbolo; noi
che siamo i nove fondatori del nostro Ordine, come nove erano coloro che accompagnarono
l’Architetto nel suo ultimo viaggio, custodendone anche il segreto più tremendo. Prendiamo tutto e
richiudiamo per sempre questa grotta».
LIBRO PRIMO
1
Un giorno perfetto
Eventi ricostruiti da Lorenzo Aragona
Napoli, dicembre 2012
Quella giornata era iniziata come Dio comanda. Avevo dormito come un ghiro finché le lame di
luce non si erano adagiate sulle coperte, svegliandomi dolcemente.
Mi stirai e mi sedetti in mezzo al letto, guardandomi intorno, soddisfatto. Ormai mancavano pochi
giorni a Natale e faceva un gran freddo fuori, ma la luce che si posava sui mobili era intensa e lasciava
immaginare un tempo splendido.
“Si prepara un solstizio d’inverno magnifico”.
Mia moglie si era già alzata, ma io avevo ancora sonno, così tornai a infilarmi pigramente sotto le
coperte, preparandomi a ritardare il momento di abbandonarle per le seguenti quattordici ore. Mi alzai
solo quando il profumo familiare e ammaliante del caffè s’insinuò nelle mie narici, a tradimento, e mi
convinse ad avviarmi verso la cucina.
Raggiunsi Àrtemis ai fornelli e la baciai sul collo, mentre lei era ancora intenta a girare il caffè
nella macchinetta.
«Buongiorno tesoro, dormito bene?»
«Alla grande direi. Se non fosse stato per l’odore del caffè, sarei rimasto sepolto tra le coperte
ancora un po’».
Mia moglie mi abbracciò e mi baciò con trasporto, quasi cogliendomi di sorpresa. «Davvero? E
saresti rimasto a letto senza di me…?».
Con un unico gesto della mano si slacciò la vestaglia, lasciandola cadere a terra, e rimase nuda tra
le mie braccia.
«Be’, se la metti così…». E mi persi di nuovo nei suoi riccioli neri.
Sembrava che l’inverno fosse arrivato con una promettente gerla carica di tutti i suoi profumi,
sapori e piaceri. Solo per questo avrei dovuto essere di buonumore. Tuttavia, da un po’ di tempo strani
incubi, o meglio sogni a tinte forti, occupavano le mie notti, anche se il ricordo svaniva quasi sempre
al risveglio.
La mia estrema sensibilità mi aveva reso particolarmente ricettivo a certi segnali del subconscio e
a certi fenomeni, per così dire, fuori del normale. Anzi, più volte, nel corso delle mie scorribande nel
mondo esoterico alla ricerca di manufatti misteriosi, i sogni mi avevano chiarito eventi che altrimenti
sarebbero stati di difficile comprensione. Insomma, ero abituato ad avere una vita onirica abbastanza
vivace.
In ogni caso, per tenere un po’ a bada la mia psiche turbolenta, avevo iniziato a prendere delle
pillole, che avrei dimenticato tutte le mattine, se non ci fosse stata Àrtemis a mettermele praticamente
in bocca.
«Sei davvero incorreggibile, Aragona», mi disse anche quella mattina chiamandomi per cognome,
come faceva tutte le volte che voleva rimproverarmi, raggiungendomi sull’uscio con un bicchier
d’acqua e la magica pasticca.
Bevvi un sorso e mandai giù la pillola, poi afferrai mia moglie e la baciai con passione. «Lo so,
per questo mi ami!».
Lei mi spinse fuori con un sorriso malizioso. «Va’ via, mercante d’arte, o farò tardi
all’università!».
Ah la mia Àrtemis! Era l’idolo dei suoi allievi, una specie di Indiana Jones in gonnella, sempre
pronta a ficcarsi nei guai pur di dimostrare una sua teoria. Era una delle poche studiose al mondo a
essere riuscita a decifrare la lingua oscura degli antichi abitanti di Creta, la lineare A , e certamente
una delle prime a essere stata in grado di leggerla, guadagnandosi la stima dei colleghi ricercatori
sparsi nel mondo. Il legame con la sua terra d’origine, la Grecia, le aveva donato una sorta di orecchio
assoluto per tutto ciò che era ellenico. Aveva messo in ridicolo più di un luminare con le sue teorie
estreme e infiammato la scena accademica con decine di pubblicazioni pionieristiche. Particolare non
da poco, era bella come una delle danzatrici del palazzo di Cnosso, con i suoi meravigliosi riccioli
neri e il suo sguardo felino, intenso come le profondità dell’Egeo. L’adoravo.
Lasciai la mia greca alle prese con la sua preparazione mattutina e prima di prendere la macchina
raggiunsi il mio edicolante preferito. «Buongiorno Fausto, il solito per favore».
«Ecco a lei, dottor Aragona, le auguro una buona giornata».
La cordialità di Fausto mi metteva sempre di buonumore, anche se poi il traffico tentacolare del
centro, le rare volte in cui decidevo di raggiungerlo in auto invece che in funicolare, mi poteva far
precipitare nella disperazione più nera. Quel giorno, tuttavia, sembrava che ogni cosa dovesse
procedere per il meglio. Lungo il tragitto verso la mia galleria d’arte, infatti, incontrai pochissime
macchine, non un solo ingorgo. Curioso, essendo il Natale vicinissimo.
Quella mattina, però, non avevo alcuna voglia di farmi troppe domande e decisi di lasciarmi
accarezzare dalla dolcezza di quel giorno perfetto.
Entrando nel negozio trovai Bruno, il mio socio, in piena trattativa per la vendita di una preziosa e
costosa consolle Luigi XVI . Sembrava che le cose fossero iniziate con il piede giusto anche sul fronte
degli affari, quel giorno. Salutai il cliente, che conoscevo bene, e mi avviai verso il piccolo ufficio che
avevamo sul retro.
Dopo circa un quarto d’ora, Bruno entrò con un sorriso smagliante. Si appoggiò con le mani alla
scrivania e il suo volto spigoloso, che mi ricordava tanto Chopin, si sporse in avanti. I suoi piccoli
occhi scuri mi guardarono con penetrante insistenza. «Buongiorno di nuovo, socio, a quanto pare ho
stabilito il record di vendite. Ho aperto appena mezz’ora fa e il dottor Ciliento ha già staccato il primo
assegno per l’acquisto della consolle».
«L’ho sempre detto che sei un venditore straordinario».
«Ah, sarei solo un venditore dunque? Se è per questo allora tu sei solo un mercante».
«Il solito permaloso, è implicito che tu sia anche un grande antiquario con il fiuto per i pezzi rari».
Bruno annuì con un’espressione seria in viso. «Così va meglio».
Il mio amico e socio, Bruno von Alten, di padre tedesco, era un uomo molto elegante e un
antiquario straordinario. E anche un ottimo pianista jazz. Quando non era in galleria, era a provare con
il suo trio o su qualche palco in giro per l’Europa a esibirsi. Davvero un bel tipo.
Quella mattina aveva concluso la vendita di una consolle del XVIII secolo, realizzata dalla scuola
di Jean Henri Riesener, un tedesco trapiantato in Francia e divenuto ebanista di corte nel 1774. Metà
dei mobili esposti a Versailles e appartenuti a Maria Antonietta sono opera sua. Bruno amava proporre
ai suoi clienti pezzi realizzati da artisti tedeschi, una sorta di omaggio che rendeva ogni volta alla
memoria del padre, morto quando lui aveva vent’anni. Amava inoltre alla follia i mobili di fine
Settecento e ogni volta che ne vendeva uno faceva una specie di teatrino ostentando il dolore nel
doversene privare.
Io naturalmente non avevo nulla da obiettare, fintanto che le sue erano trattative vincenti. Lo
stesso attaccamento, del resto, io lo manifestavo per un altro stile, che lui, snob impenitente, definiva
una pura e semplice volgarità.
«Come puoi paragonare lo stile Luigi XVI con quella porcheria di art nouveau?».
Io scrollavo la testa e facevo spallucce. «Il tuo problema è che non ti sei mai aggiornato, vecchio
mio. Gli stili cambiano, si sperimentano cose nuove».
Pronunciavo quelle parole con poca convinzione durante quei soliti battibecchi, giacché ero io il
primo a rifiutare l’arte e l’architettura contemporanee. Per me tutto era finito negli anni ’30, in
America, con l’art déco, e consideravo l’art nouveau la massima sintesi di antico e moderno. Era il
mio stile preferito, come dimostrava la mia casa, un trionfo di volute e fiori, abat-jour di vetro
colorato e mobili in stile Guimard. Che lui detestava.
Bruno sedette alla sua scrivania e aprì il registro delle vendite. Contemporaneamente accese il
computer: aveva l’abitudine di trascrivere tutto a mano e di conservare gli originali delle ricevute e
tutti i documenti importanti nella cassaforte di casa sua. La stampante la guardava con sospetto e
diceva di non fidarsi di quell’aggeggio infernale chiamato computer.
«Ti ho già detto che sei rimasto al XVIII secolo? Non vuoi aggiornarti?»
«Il giorno in cui il tuo computer o la tua stampante decideranno di non funzionare più, verrai a
piangere da me e a implorarmi di farti accedere alle mie inutili carte. A quel punto aprirò la più
costosa bottiglia di cognac fine champagne e mi farò una risata».
«Bene, ci sto. Io da parte mia farò uno strappo al divieto che mi sono imposto di bere assenzio e
brinderò con te con un bianco spagnolo che ho da parte».
«Molto bene», concluse Bruno. «Ora che abbiamo discusso di liquori, se non ti dispiace, vorrei
fare insieme a te un controllo incrociato dei pezzi venduti, di quelli opzionati e di quelli su cui
abbiamo messo gli occhi di recente».
Allargai le braccia disperato. «Ma l’abbiamo fatto ieri!».
«Ma ieri non avevamo ancora venduto il Riesener».
Alle tredici andai a pranzo con Àrtemis alla trattoria Donna Teresa, la mia preferita, che si trovava
a pochi minuti da casa mia. Avrei percorso chilometri pur di gustare i suoi piatti genuini, e benché
l’Églantine – la mia galleria antiquaria – si trovasse in centro, risalivo volentieri al Vomero durante la
pausa pranzo.
«Dottor Aragona, oggi abbiamo pasta al forno, fagioli e scarola e un meraviglioso risotto con la
verza».
Quando Teresa, la nipote della leggendaria fondatrice della trattoria, elencava i piatti del giorno,
per me era come ascoltare la lettura di un poema. Era poesia, pura poesia gastronomica.
«Per me risotto», disse Àrtemis anticipando la mia scelta.
«Risotto anche per me, grazie Teresa».
La ragazza prese nota e se ne andò.
«Allora, tutto bene giù al negozio?»
«Per carità, non chiamarlo negozio, lo sai», dissi alzando le mani come per proteggermi, «sennò
Bruno spunta dal pavimento e ti fa una di quelle sue ramanzine teutoniche insopportabili. L’Églantine
è una galleria antiquaria».
«Va bene, non intendevo offendere…».
«Ma figurati, tesoro. Per quanto, se non fosse per Bruno…».
«Esatto, devi ringraziarlo. Non c’è bisogno che ti ricordi che sulla tua scrivania prolifera una
colonia di strani oggetti ammucchiati lì forse da anni».
«Esagerata! Io sono un antiquario, è normale per me accumulare e conservare. Le cose assumono
valore in questo modo».
«Già, la solita scusa».
Quando Teresa portò i nostri piatti, misi da parte ogni altra questione e m’impegnai a fare fuori il
risotto chicco a chicco. Prima di abbassare lo sguardo e ficcare la forchetta nella verza cremosa,
qualcosa – o meglio qualcuno – proprio all’ingresso della trattoria, attirò la mia attenzione.
Mi accorsi, infatti, di avere gli occhi di una bella ragazza bionda puntati addosso. Ci scambiammo
uno sguardo che sembrò lunghissimo e che mi trasmise in un attimo una sensazione di disagio. Ebbi
l’impressione che non mi stesse solo fissando, ma volesse comunicarmi qualcosa.
Àrtemis se ne accorse e si voltò meccanicamente verso l’ingresso, ma la ragazza era già
scomparsa. «Che c’è, che cosa hai visto?».
Preferii non risvegliare la sua gelosia e mentii. «No, niente, mi sembrava di aver visto qualcuno
che conoscevo. Mangiamo, è tutto a posto».
Dopo pranzo accompagnai Àrtemis all’università, quindi ritornai verso l’Églantine. Ero quasi
arrivato quando, improvvisamente, quello che mi era parso un giorno perfetto fino a quel momento
prese una piega inaspettata.
Stavo percorrendo via Chiatamone per raggiungere il garage dove avrei lasciato l’auto, quando
dall’interno di un palazzo sbucò un motorino che mi tagliò la strada. Non riuscii a sterzare e lo presi
in pieno, facendo sbalzare di sella il conducente.
«Porca puttana!», esclamai in preda al panico, catapultandomi fuori dall’auto.
Per fortuna non stava passando nessuno in quel momento, quindi potei soccorrere il conducente
senza problemi. Lo raggiunsi davanti alla mia auto, steso a terra accanto al mezzo.
«Oh mio Dio, fa’ che stia bene!». Mi abbassai per verificare e mi accorsi che si trattava di una
giovane donna. «Puoi sentirmi? Ehi, tutto bene?».
Alzai la visiera del casco e la ragazza aprì immediatamente gli occhi, due intensi laghi azzurri che
si fissarono nei miei. In quel-l’istante mi resi conto che quel viso non mi era nuovo, che dovevo aver
visto quegli occhi già da qualche altra parte.
“Fuori alla trattoria! È lei!”.
Prima che potessi aprire bocca, la ragazza m’infilò qualcosa in tasca, poi, con uno scatto felino, si
rimise in piedi, rialzò facilmente il motorino – neanche fosse un bicicletta – e schizzò via prima che io
potessi fare alcunché.
Mi guardai intorno. Sembrava che nessuno si fosse accorto di nulla e così, piuttosto confuso,
ritornai verso la macchina. Cercai di calmarmi respirando profondamente, rimisi in moto e raggiunsi
finalmente il garage.
Non appena Bruno mi vide s’incupì. «Lorenzo, sembra che tu abbia visto un fantasma. Va tutto
bene?».
Mi lasciai cadere sulla poltrona dietro la mia scrivania e gli raccontai dell’incidente. Bruno mostrò
all’inizio un’espressione eccessivamente tesa poi, in un attimo, si ricompose. «Meno male che non è
successo niente, mi ero preoccupato. Torniamo al lavoro, dài».
Lo fissai incredulo. «Ma come puoi dire che non è successo niente? Ho quasi ammazzato una
ragazza che poi è scappata via senza che potessi verificare se stesse bene o meno».
Bruno alzò le spalle. «Forse era una balorda, Lore».
Non dar peso all’incidente era forse la cosa migliore, ma prima di persuadermi dovevo controllare
una cosa. «Mah, forse hai ragione. Vado a sciacquarmi il viso».
Mi chiusi in bagno e tirai fuori il biglietto che la ragazza mi aveva messo in tasca. C’era scritto:
Ci vediamo alle 18:30 al piccolo bar alla fine di via Parco Margherita, angolo corso Vittorio
Emanuele. Non manchi, ne va della sua vita.
Rimasi a fissare quel pezzetto di carta per alcuni secondi, cercando di riordinare le idee e di capire
se stessi sognando o fosse tutto vero. E se quell’incidente fosse stato solo una finzione? Se la ragazza
non avesse voluto far altro che mettermi quel messaggio nella giacca? Rimisi il foglietto in tasca e
uscii dal bagno. Come un’apparizione, trovai Bruno davanti alla porta che mi squadrava con uno
sguardo serio.
«Sei sicuro di star bene, Lorenzo?».
Mi portai una mano al petto e tirai un sospiro. «Accidenti, mi hai fatto prendere un colpo! Certo,
sto bene, sta’ tranquillo».
«Sì, giusto… Ero solo preoccupato. Meglio non pensare a quell’incidente, vero?».
Annuii, stralunato. «Ma certo, meglio non pensarci, è tutto a posto».
«Ottimo. Senti, devo allontanarmi per qualche minuto, qui resti tu, no?».
Bruno non lasciava mai il negozio e non l’avrebbe fatto neanche sotto un bombardamento. Ma
ormai quello che era parso un giorno perfetto si era tramutato in un gran casino, per cui smisi di
stupirmi. «Ok, vai pure, fai con comodo».
Bruno si assentò quasi per un’ora, sessanta minuti durante i quali cercai di mettere insieme i pezzi
di quella strana esperienza e prendere una decisione in merito all’appuntamento che quella
sconosciuta mi proponeva. Sarei dovuto andare oppure no? E che cosa voleva dire che ne andava della
mia vita? Certo, negli ultimi anni avevo vissuto un numero considerevole di avventure in quel
misterioso mondo di discipline esoteriche che tanto mi incuriosiva, cacciandomi spesso nei guai e
trascinando con me la povera Àrtemis. Avevo visto con i miei occhi rituali antichi ancora praticati da
sette segrete, rinvenuto amuleti dotati di poteri sconosciuti e studiato codici che sarebbe stato meglio
lasciare ad ammuffire in biblioteche sperdute. Di recente, tuttavia, avevo deciso che non valeva più la
pena correre tanti rischi per inseguire leggende e sogni. Mi consideravo già fortunato di essere riuscito
a gettare uno sguardo oltre il velo dell’apparenza, di indagare gli aspetti più nascosti del sapere e della
realtà. La mia passione per l’alchimia mi aveva aperto il mondo affascinante delle trasmutazioni dei
minerali, grazie a ore e ore trascorse ad affumicarmi nel piccolo laboratorio che avevo a casa; le folli
caccie al tesoro in compagnia del mio amico Sante – un marinaio maltese in pensione completamente
svitato e col pallino per l’archeologia esoterica – mi avevano portato a scoprire reperti misteriosi e
tracce di civiltà perdute. Infine, la mia appartenenza alla Massoneria mi aveva introdotto alle più
diverse dottrine ermetiche.
Era abbastanza. Ora volevo vivere tranquillo per un po’, dedicarmi al mio lavoro e soprattutto a
mia moglie.
La piccola avventura di quella mattina, però, mi aveva rimesso addosso tutta l’ansia e la tensione
che avevo sperimentato durante quelle pericolose incursioni nell’esoterismo. Il comportamento della
ragazza e ancor di più il biglietto che mi aveva messo in tasca avevano iniziato a solleticare il mio
sesto senso.
Non sapendo come comportarmi, mi venne in mente che avrei potuto raccontare tutto a Oscar, mio
fraterno amico e commissario di polizia, e così composi il suo numero di cellulare. La voce
elettronica mi avvisò che l’utente non era raggiungibile, allora provai a telefonare direttamente in
commissariato.
Il centralinista non lasciò speranze. «Mi dispiace, ma il dottor Franchi non è in sede, posso
lasciare un messaggio?»
«Gli dica solo che Lorenzo Aragona lo sta cercando».
Niente da fare, dovevo decidere da solo. Non volevo far parola del biglietto nemmeno a Bruno. Mi
avrebbe preso per matto sapendo che ero disposto a dar credito a una tipa che si era dileguata subito
dopo essere stata investita.
In effetti avrei dovuto lasciar correre. Aveva tutta l’aria di essere uno scherzo.
Quando Bruno rientrò aveva il suo solito aplomb dipinto sul viso spigoloso. La preoccupazione
che avevo visto comparire nei suoi occhi, alla quale non ero abituato, si era dileguata.
«Tutto bene? È passato qualcuno? Telefonate?».
Scossi la testa. «Tutto tranquillo, pare che senza di te niente e nessuno si muova».
«Scherza, scherza».
Bruno si mise alla scrivania e cominciò a fare telefonate e aggiornare i suoi dati. Io invece non
riuscivo a dissimulare la mia agitazione: mi alzavo spesso e gironzolavo per il negozio tra mobili e
oggetti in esposizione. Avevo deciso di non andare all’appuntamento, eppure non potevo fare a meno
di pensare all’incidente, alla ragazza e a quella frase: “ne va della sua vita”.
In ogni caso, arrivate le 18:15 mi avviai verso la macchina. «A domani socio, io vado a casa. Non
fare tardi come al solito».
«Lo so che tu non contempli proprio questa possibilità, ma bisogna pure che qualcuno tenga in
ordine le carte. Ci vediamo domani».
Mi misi in macchina e mi avviai verso piazza dei Martiri, poi attraversai via dei Mille e infine
percorsi via del Parco Margherita. Ero quasi giunto all’incrocio con corso Vittorio Emanuele, quando
un grosso SUV nero, che era parcheggiato sul lato destro della strada, partì all’improvviso piazzandosi
davanti a me e procedendo assai lentamente. Dopo qualche secondo persi la pazienza e iniziare a
suonare il clacson. A quel punto, il SUV si fermò del tutto.
«Ma che diavolo!».
La portiera del lato conducente si aprì e ne uscì una donna completamente vestita di nero, con un
cappellino da baseball in testa. Si avvicinò a grandi falcate al mio finestrino, si chinò e mi guardò
negli occhi.
Era la ragazza del motorino. Neanche questa volta riuscii ad aprire bocca. Mise di nuovo un dito
sulle labbra, come a zittirmi, e appoggiò rapidamente un altro pezzetto di carta sul cruscotto. Quindi
ritornò verso la sua auto e si allontanò. Mi stavo davvero stufando. Misi in moto e, mentre guidavo,
srotolai il pezzo di carta per leggere il messaggio.
Entri nel garage alla destra dell’hotel Parker’s, mi troverà lì. Parcheggi accanto al SUV nero. Non
usi il telefono. Qualunque cosa accada, non parli per nessun motivo!
Quella caccia al tesoro stava cominciando a snervarmi, ma decisi di seguire le nuove istruzioni:
dovevo parlare a quattr’occhi con la ragazza e capire cosa diavolo volesse. M’infilai nel garage che si
trovava a pochi metri dall’incrocio, presi il ticket rilasciato automaticamente dalla macchinetta
all’ingresso e in fondo all’ampio spazio vidi il grosso SUV nero. Parcheggiai, spensi il motore e attesi
appena un paio di secondi. Sentii la portiera dietro di me aprirsi.
Feci per voltarmi, ma una mano premuta sulla bocca mi paralizzò impedendomi di muovermi e di
parlare. Contemporaneamente, un’altra mano mise davanti ai miei occhi il display di un cellulare con
su scritto:
Non parli, ha dei microfoni addosso. Non voglio farle del male. Si spogli completamente e indossi
i vestiti che appoggerò sul sedile accanto al suo.
A quel punto non potevo fare altro che continuare a seguire le istruzioni: pensai che potevo avere
una pistola puntata dietro alla schiena e la cosa non mi faceva stare proprio tranquillo.
Con un certo imbarazzo, mi cambiai in fretta e attesi. Un altro messaggio digitato sul cellulare mi
diede altre istruzioni.
Esca dall’auto e s’infili direttamente sul sedile posteriore del SUV .
Feci come mi diceva e, dopo poco, la porta del lato conducente si aprì. «Adesso possiamo parlare,
ma aspetti ancora un secondo, voglio uscire da qui dentro», mi disse con una voce calda e profonda
che tradiva un leggero accento straniero.
Mise in moto, infilò il ticket nella macchinetta all’ingresso e la sbarra si aprì. Si avviò a grande
velocità lungo corso Vittorio Emanuele in direzione di Mergellina. Le luci del golfo alla nostra
sinistra sfilarono veloci in quella fredda serata partenopea.
«Abbiamo poco tempo dottor Aragona, non sa da quanto sto cercando il modo di parlarle. Sono
settimane che studio i suoi movimenti».
«Molto carino da parte sua darmi queste informazioni, però io sono veramente seccato. Cos’è
questo, un rapimento? Vuole soldi? Che diavolo cerca?»
«Niente di tutto questo. Mi chiamo Anna Nikitovna Glyz, sono russa. Ho studiato in Italia, ecco
perché parlo la sua lingua. Le dirò solo poche cose, quello che so, ma la prego di prendermi sul serio».
Cercavo d’indovinare i suoi lineamenti attraverso lo specchietto retrovisore, ma era troppo buio e
riuscivo solo a intuirli. Doveva essere molto bella, comunque, con i capelli biondi leggermente mossi
e quei meravigliosi occhi tra l’azzurro e il verde.
Guardò lo specchietto, poi, senza tanti preamboli, disse: «La sua vita è una finzione, dottor
Aragona».
Feci una risatina. «Certo, come no».
«Mi ascolti, la prego, non so per quanto tempo riuscirò a fregarli».
«Fregare chi, scusi? La vuole smettere con questa farsa?»
«Non sto scherzando, mi creda. La sua vita è come un reality. Sua moglie, il suo socio, la sua casa,
il suo negozio. È tutto finto. La stanno ingannando».
«Chi mi sta ingannando, signorina? Chi è lei?».
Il SUV giunse fino alla stazione di Mergellina, proseguì quindi fino a piazza Sannazzaro, fece il
giro intorno alla fontana con la statua di Partenope, e ritornò verso corso Vittorio Emanuele.
«Mi ascolti, io devo andarmene. Lei si metterà alla guida senza uscire dall’auto. Ormai sospettano,
ma possiamo ancora confonderli. Ritorni al garage, lasci quest’auto, risalga sulla sua, e indossi i suoi
abiti».
«Un momento, che vuol dire che deve andarsene via? Vuole lasciarmi così? Senza spiegazioni».
La ragazza parcheggiò davanti alla stazione ferroviaria di Mergellina e prima di uscire si voltò
verso di me. Era bellissima, di una bellezza senza compromessi, senza difetti. Il suo viso era
semplicemente perfetto: l’ovale regolare, le labbra carnose, la linea delle sopracciglia precisa, il naso
dritto e ben proporzionato. Per una frazione di secondo mi fece dimenticare l’assurda situazione nella
quale mi trovavo.
«Dottor Aragona, c’è qualcosa che prende ogni giorno? Voglio dire, qualcosa che mangia, che
beve sistematicamente, sempre allo stesso orario».
«Be’, tante cose…».
«Qualcosa d’insolito, non il caffè o il suo drink preferito. Ci pensi bene e da stasera trovi il modo
di non prenderla più. Ma non si faccia scoprire dalla donna che lei crede essere sua moglie. Sia
naturale. Mi rifarò viva io».
Senza darmi il tempo di controbattere, aprì la portiera e si dileguò in direzione della stazione.
Attesi come inebetito per alcuni secondi, cercando di metabolizzare quello che mi aveva detto. Mi
sembrava improvvisamente che tutte le persone lì attorno avessero gli occhi puntati su di me. Mi
dissi, però, che era impossibile. D’un tratto mi assalì di nuovo l’idea che quella ragazza potesse aver
inventato tutto. Magari voleva disfarsi di quel SUV rubato e aveva trovato un modo bizzarro per farlo.
Quel pensiero mi fece entrare ancora di più nel panico e così decisi che era meglio riportare l’auto nel
garage, al più presto. Scivolai sul posto di guida e mi diressi di nuovo verso l’hotel Parker’s.
Ripresi la mia macchina, indossai i miei vestiti e mi avviai rapidamente verso casa. Durante il
tragitto, tuttavia, la mia tensione non fece che aumentare: come mi sarei comportato con mia moglie?
Le parole di Anna – ammesso che fosse il suo vero nome – avrebbero lasciato di sasso chiunque.
Come potevo rientrare a casa e fare finta che nulla fosse successo? Il falso incidente in motorino, i
messaggi, lo scambio di auto e poi quella frase: “sua moglie, il suo socio, la sua casa, il suo negozio. È
tutto finto”. Sorrisi.
“Andiamo Lorenzo, la sventola russa si è voluta divertire un po’”.
Intanto ero quasi arrivato a casa. Non ero particolarmente attento quando guidavo, ma quella sera
guardai in continuazione nello specchietto retrovisore e in ogni possibile direzione per cercare di
capire se qualcuno mi stesse per caso seguendo. Non notai nulla e così, facendo un bel respiro
profondo e scrollando la testa come per liberarla dal ricordo di quella strana esperienza, varcai il
portone di casa.
«Arti sono io».
«Ciao», rispose mia moglie dalla cucina. La sua voce era tranquilla.
La raggiunsi e la trovai intenta a preparare le polpette alla greca. «Ciao, tesoro, tutto bene?»
«Sì, tutto ok, tu? Ho saputo dell’incidente».
Sbiancai. Non ci eravamo sentiti per tutto il pomeriggio, come poteva saperlo?
«Incidente?»
«Be’, Bruno mi ha detto che hai messo sotto qualcuno oggi pomeriggio».
Ah, ecco, aveva parlato con Bruno.
«Ma no, niente di che. Una ragazzina è uscita da un palazzo senza fare attenzione e mi è finita
addosso. Ma non si è fatta nulla, per fortuna».
Arti mi fissò con quei suoi occhi da gatta, come se volesse penetrare nella mia testa. Che stesse
cercando di smascherare la mia mezza verità? Dopo un istante distolse lo sguardo e ritornò a
occuparsi della cena. «Va bene, meglio così. Sto preparando i bifteki, quindi ho bisogno di una
mezz’oretta ancora».
«Va bene, fai pure».
«Nel frattempo potresti dare finalmente un’occhiata a quella scatola di roba vecchia che ho messo
nel tuo studio qualche giorno fa».
«Sì… ottima idea».
Lo scatolone era sul tappeto nello studio ed era pieno di oggetti accumulatisi in quarant’anni.
Àrtemis aveva detto di averlo messo lì qualche giorno prima, ma a me sembrava di non ricordarlo. Tra
libri e vecchi fumetti, orologi rotti e altri oggetti inutili, c’erano anche alcuni giocattoli ai quali ero
molto affezionato. Àrtemis sapeva quanto ci tenessi e il fatto di trovarli lì, pronti per essere buttati
via, m’infastidì non poco.
C’erano soldatini futuristici con armi e veicoli da combattimento, robot transformer, una busta di
mattoncini Lego e infine qualcosa che avevo dimenticato, qualcosa cui ero stato profondamente legato
da bambino: un pupazzetto di Spider-Man con gli arti calamitati.
Che gioia rivederlo. Pensavo di averlo perso. Mentre ancora lo stavo guardando, una specie di luce
mi balenò davanti agli occhi, subito seguita da un’immagine, come un fotogramma rapidissimo in cui
si sovrapponevano volti e luoghi.
Quella specie di visione durò pochi istanti, poi da quella folla confusa emerse un’unica figura
distinta, un volto a me caro, ma che non riuscii a identificare. Quell’uomo, che aveva le fattezze di un
vecchio dallo sguardo sereno, cercò di dirmi qualcosa. Non colsi il senso delle sue parole, ma fui
colpito da un simbolo che appariva e scompariva sul suo volto, un simbolo in tutto e per tutto simile a
quello usato in alchimia per raffigurare il sale comune o il verderame. Una ruota con quattro raggi.
Aprii e chiusi rapidamente gli occhi. La visione svanì e mi ritrovai a guardare il pupazzetto di
Spider-Man. Poi alzai lo sguardo e vidi Àrtemis, immobile sulla soglia, che mi fissava senza dire
niente, con una strana luce negli occhi. «Allora? Come procede?»
«Bene… Ci sono alcuni giocattoli che vorrei tenere».
«Oh, figurati, li ho messi insieme con le altre cose perché magari ce n’è qualcuno che non
t’interessa più. Lo so che sei ancora un bambino».
«È che sono ricordi. Guarda, c’è anche il mio vecchio Spider-Man, non lo trovavo più».
«Bastava che chiedessi a me. Il problema è che sei disordinato».
«Sì, sì, va bene. Metterò in ordine. È pronto?»
«Ancora venti minuti per le polpette», disse mentre appoggiava un piatto con feta e olive sulla
scrivania. Quindi mi si avvicinò e cominciò a strusciarsi su di me improvvisamente languida,
ficcandomi un’oliva in bocca che non potei fare a meno di mandare giù. «Però ti ho portato uno
spuntino. Lo vuoi, eh? Lo vuoi il mio spuntino?»
«Be’… Sì…».
Quella sua passione mi colse di sorpresa e certamente, se fossi stato in un altro stato d’animo, mi
sarei abbandonato senza esitazione. Ma in quel momento la mia mente era in subbuglio, le parole di
Anna, alle quali pure avevo deciso di non dare importanza, avevano ripreso a bruciare, mentre
quell’enigmatico simbolo lampeggiava davanti ai miei occhi e il sapore dell’oliva mi faceva pensare
che non avrei dovuto mangiarla. Le effusioni di Àrtemis divennero però sempre più intense, quasi
selvagge e non riuscii a resistere. Mi spinse sul divano e mi sbottonò i pantaloni velocemente. Era
quasi aggressiva. Impiegò invece molto più tempo a sfilarsi la camicetta, per far salire la mia
eccitazione. Quando fu a seno nudo, iniziò a toccarsi in maniera conturbante davvero inusuale.
“Sua moglie, il suo socio, la sua casa, il suo negozio. È tutto finto”. Quelle parole mi scoppiarono
letteralmente nella testa, mentre le mani e la lingua di Àrtemis erano dappertutto, mi avvolgevano in
un turbine di famelica passione. I suoi movimenti erano così sensuali che la mia eccitazione crebbe a
dismisura, così come l’eco assordante delle parole di Anna.
“È tutto finto”. “È tutto finto”. “È tutto finto”. Era come una cantilena scandita ritmicamente dai
movimenti di mia moglie che godeva come una menade su di me. Io, che fino a quel momento avevo
subìto l’ondata quasi sconvolgente di passione, decisi di prendere l’iniziativa e osare di più. Cercai di
ricordare come fosse in genere fare l’amore con lei, se quello fosse il suo solito modo di prendere e
dare piacere, ma la mia mente era un puzzle d’immagini confuse. Di un’unica cosa ero certo: quella
foga era insolita.
“No, non può essere… Arti è più delicata, più romantica… Ne sono sicuro”.
Decisi di stare al suo gioco. Almeno dovevo vedere fino a che punto potevo osare. Mi sollevai e mi
alzai in piedi. Lei allora si mise carponi invitandomi con forza a possederla da dietro. Obbedii e la sua
furia non fece che aumentare. Alla fine non riuscii più a controllarmi.
Esplosi senza potermi fermare finché, stremato, caddi pesantemente sul divano. Lei si rialzò e –
nuda, ansimante e bagnata – iniziò a fissarmi. Era Àrtemis sì, ma in quello sguardo da lupa affamata
le parole pronunciate da Anna, quelle che poche ore prima mi avevano offeso, assunsero un significato
diverso.
Bastarono tuttavia poche ore perché quel pensiero uscisse completamente dalla mia testa.
2
Operazione Sunrise: il lupo è in trappola
Dalla testimonianza di Richard Douglas Morrison, agente della CIA agli
ordini di Allen Welsh Dulles
Zurigo, 8 marzo 1945 – Austin, Texas, 1976
Mi chiamo Richard Douglas Morrison. Sì, lo so, se invece di Richard mi avessero chiamato James
sarei stato omonimo di Jim Morrison, il cantante dei Doors morto qualche anno fa. Invece io sono
Richard e non ho fatto il cantante nella mia vita, ma la spia. Ben inteso, l’ho fatto in via ufficiale, nel
senso che ho lavorato per la CIA . A dire il vero posso considerarmene uno dei fondatori. Eh già, fino
al ’45 ero arruolato nell’ OSS , l’Office of Strategic Services, in Europa, poi, quando Truman creò la
CIA , nel ’47, fui trasferito a Langley.
Fu proprio nel ’45 che conobbi Dulles, allora direttore dell’ OSS in Europa, uno di quelli che poi
spinsero per il mio ingresso a Langley. Dio che uomo, Dulles! Soprannominato il “Maestro delle
Spie”, aveva un’aria da pacifico giocatore di golf, ma più scheletri nell’armadio di un becchino.
Insomma, un uomo potente, capace di scatenare una guerra dal nulla e farla apparire come una cosa
sacrosanta. O di costringere alla fuga uno tra i più temuti eserciti che l’Europa abbia mai visto. Sì, mi
riferisco ai crucchi. I nazisti.
Come membro dell’ OSS , nel ’45 partecipai all’Operazione Sunrise di cui Dulles fu uno dei
protagonisti. Di una guerra, in genere, si conoscono sempre solo i fatti più eclatanti. La verità che c’è
dietro non la troverete mai nei libri di storia. Ecco perché è perfettamente inutile che andiate a cercare
in altri testi quello che state per leggere. Questa è roba top secret. Un capitolo oscuro di una guerra
che già di per sé fu un fottuto pozzo nero di orrori indescrivibili. Un capitolo che non fu mai messo
per iscritto nei dossier riguardanti l’Operazione Sunrise, quella che decretò la fine dell’occupazione
nazista in Italia e che il governo americano sfruttò per raccogliere informazioni su qualcosa che poco
o nulla aveva a che fare con la guerra. Almeno apparentemente. Che ci crediate o no, io ero a Zurigo
con Dulles quel marzo del ’45, mentre quel bastardo strapazzava a dovere un pezzo grosso dello
spionaggio crucco.
Mi sono divertito a ricostruire quanto avvenne quell’otto marzo scrivendo una specie di racconto.
Così nessuno potrà accusarmi di niente. È solo una storia, no?
I due uomini si stavano fissando da un minuto in totale silenzio, l’uno con un’espressione seria ma
distesa, l’altro con il tormento dipinto sul volto. Stavano giocando a un gioco tremendamente serio
che avrebbe potuto evitare altri spargimenti di sangue e distruzioni sul suolo italiano; una partita
mortale, ormai sfuggita al controllo dei protagonisti, affidata a pedine all’apparenza piccole che
stavano facendo lo sforzo di porre fine, tra le altre cose, a ulteriori sofferenze per milioni di persone.
«Generale, vedo che la mia richiesta l’ha messa a disagio», disse l’uomo con uno sguardo sereno,
risistemando gli occhialini tondi sul naso e tirando una boccata dalla pipa.
L’altro continuava a fissare il suo interlocutore senza riuscire a parlare. La tensione, che si era
stemperata dopo l’imbarazzo iniziale, si era di nuovo acuita nel momento in cui l’americano aveva
avanzato la sua ultima richiesta.
«Le ripeto che ciò che mi chiede è impossibile, mister Dulles», rispose infine il generale con il suo
inglese dal forte accento tedesco.
Dulles rimase calmo, imperturbabile. Svuotò la pipa del tabacco ormai ridotto a brace e iniziò a
pulirla con cura. «Vede generale, per quanto mi riguarda tutta questa faccenda è una perdita di tempo.
Se sono qui, è perché ho riconosciuto la sua buona fede e a me basterebbe quanto abbiamo già
concordato». Esaminò la pipa e solo quando si considerò soddisfatto della pulizia, ritornò a fissare il
generale. «Tuttavia, sebbene abbia ampi margini di manovra in questa operazione, non posso decidere
in totale autonomia di tralasciare uno dei termini dell’accordo. Un punto per altro considerato
imprescindibile».
Il generale si fece coraggio e cercò di scoprire le carte dell’altro. «Ho il sospetto che dietro questo
aut aut ci sia lo zampino di Churchill e la cosa mi fa pensare che avessi visto giusto nel considerare le
sue frequentazioni – come dire? – fuorvianti. Ma da voi americani non mi aspetto che mandiate
all’aria un accordo così importante per una… leggenda. Siete troppo pragmatici».
Dulles si alzò senza perdere la calma, infilò le mani in tasca e camminò lentamente verso la porta,
poi ritornò verso il generale e, tenendo lo sguardo su di lui, appoggiò le mani aperte sul tavolo
sporgendosi in avanti. «Le amicizie di Churchill non ci interessano qui, generale Wolff, e se lei
considera la cosa una leggenda, non dovrebbe avere problemi allora a darcela. Lei sta tradendo il
Terzo Reich perché ha capito che solo facendo così può impedire nuovi lutti. E per il suo tornaconto,
ovviamente. Ha già accettato, dunque, di anteporre le vite di milioni di persone alla follia di Hitler.
Cosa le impedisce di accondiscendere a quest’ultima richiesta? Per lei non è altro che fumo».
Wolff tentennò.
«Generale», riprese Dulles quasi bisbigliando, «le ricordo che i suoi sono venuti in possesso di
questa cosa col tradimento di un patto che i miei superiori consideravano al di sopra di me, di lei e di
ogni politico o militare su questa terra. Anche i più fanatici tra i suoi colleghi, legati alla fratellanza,
hanno giurato di rispettarlo. Tranne uno, s’intende. Capisco che lei non voglia mettere in pericolo la
vita dei suoi soldati, ma mi lasci dire che siamo ancora in guerra e qualunque cosa avverrà prima della
firma del trattato di resa sarà considerata una normale, seppur tragica, azione bellica. Da parte mia, il
suo tradimento si limiterà – se così si può dire – a ciò su cui ci siamo già accordati. La può
considerare un’ulteriore dimostrazione di buona fede, che resterà tra me e lei. Né il commando che
sarà scelto, né tutti gli altri coinvolti nel-l’Operazione Sunrise, né tantomeno la Storia verranno mai a
sapere da chi è partita la soffiata».
Wolff era alle corde. Se avesse rifiutato ostinatamente di dare a Dulles ciò che voleva, lui avrebbe
usato il suo potere d’interrompere le trattative e prolungato il tormento della Germania, già distrutta
ormai dalla sconsiderata politica di Hitler e dall’offensiva degli Alleati. Tuttavia, sapeva che
confidando a Dulles quanto voleva sapere, avrebbe condannato a morte alcuni tra i suoi più fedeli
soldati, giovani membri delle SS che si nascondevano in un luogo insospettabile, noto solo a lui.
Anche per questo il suo tormento era ancora più grande, perché riusciva quasi a immaginare lo stupore
su quei giovani volti alla vista delle armi americane. Uno stupore accompagnato dall’immediata
consapevolezza che la loro morte aveva nome e cognome: Karl Friedrich Otto Wolff.
3
Dalla luce alle tenebre
Eventi ricostruiti da Lorenzo Aragona
Napoli, dicembre 2012
Quella giornata sembrava fosse iniziata in maniera egregia. Avevo dormito come un ghiro e un
bellissimo sole invernale mi aveva svegliato inondando le coperte.
Mi attardai un po’ nel letto gustandone il tepore: mancavano ormai pochi giorni a Natale e faceva
un gran freddo fuori, ma la luce che cadeva intensa annunciava una giornata luminosa e tersa, come
non ne vedevo da tanto tempo.
“Si prepara un solstizio d’inverno magnifico”.
Mia moglie era già in piedi ma io avevo ancora sonno, così cercai di ritardare il più possibile il
momento di alzarmi. Mi decisi solo quando il profumo familiare e ammaliante del caffè s’insinuò
nelle mie narici, a tradimento, e mi convinse ad avviarmi verso la cucina.
Raggiunsi Àrtemis ai fornelli e la baciai sul collo mentre lei era ancora intenta a girare il caffè
nella macchinetta.
«Buongiorno tesoro, dormito bene?»
«Benissimo, anche se, a dirti la verità, ho ancora sonno».
Mia moglie si voltò porgendomi una tazzina di caffè e scuotendo la testa. «Sei il solito
dormiglione! Ecco, bevi. Svegliati», mi disse.
Adoro l’inverno, la mia stagione preferita. Il caldo dell’estate mi ha sempre creato estremo
disagio, preferisco di gran lunga imbacuccarmi in una giornata gelida che boccheggiare sotto il
solleone.
Tuttavia, da un po’ di tempo strani incubi, o meglio sogni a tinte forti, occupavano le mie notti,
anche se il ricordo svaniva quasi sempre al risveglio.
In ogni caso, per tenere un po’ a bada la mia psiche turbolenta, avevo iniziato a prendere delle
pillole, che avrei dimenticato tutte le mattine, se non ci fosse stata Àrtemis a mettermele praticamente
in bocca.
«Lorenzo, non voglio che stanotte mi svegli di nuovo perché sogni astronavi di pastasciutta!», mi
disse quella mattina raggiungendomi sull’uscio con un bicchier d’acqua e la pillola.
«Ah, così pensi che quei sogni siano dovuti alla mia golosità! Eppure, anche se non ricordo quasi
nulla, sono certo di non aver sognato cibo».
«Allora hai qualche amante che si chiama carbonara…».
Uscii di casa sorridendo per la battuta di Àrtemis e mi avviai al garage. Tuttavia, lungo il tragitto e
prima di fermarmi a prendere il giornale, ritornai a pensare al sogno di quella notte. La frecciatina di
mia moglie ne aveva fatto riaffiorare alla mente un brandello. E in quel brandello non c’era un piatto
di pasta, ma un volto. Un volto di donna. Àrtemis non era andata così lontano in fin dei conti. Mi
sforzai di mettere a fuoco quei lineamenti, ma tutto ciò che riuscii a recuperare fu il colore dei capelli.
Ero più che certo di aver sognato una donna bionda.
Misi da parte per un momento il sogno e mi avvicinai al chiosco dei giornali. «Buongiorno Fausto,
il solito per favore».
Diedi i soldi all’edicolante e in quel momento qualcuno mi urtò facendo rotolare le monete per
terra. «Mi scusi tanto», disse la donna che mi aveva colpito mentre ci chinavamo insieme a
raccogliere i soldi.
«No, lasci stare, faccio io, non importa».
Aveva un cappello di lana calato fin sulla fronte, dal quale fuoriuscivano capelli biondi legati a
coda di cavallo, e indossava grossi occhiali da sole scuri. Li abbassò rapidamente e così notai gli occhi
di un azzurro stupefacente. Nell’attimo esatto in cui il nostro sguardo s’incrociò, una fitta mi annebbiò
la vista per qualche secondo, facendo affiorare sulle mie labbra tre parole: «Ma sei tu!».
La ragazza si rinfilò gli occhiali e si dileguò senza rispondere o lasciarmi il tempo di aggiungere
altro. Mi rialzai confuso guardando nella direzione in cui era scomparsa, poi, mi girai verso Fausto.
Aveva il suo solito sorriso e il giornale in mano. «Ecco a lei, dottor Aragona, le auguro una buona
giornata». «Sì, sì anche a lei Fausto», risposi porgendogli i soldi, poi, prima di andarmene, aggiunsi:
«L’ha mai vista da queste parti?»
«Chi, dottor Aragona?»
«Come chi? La ragazza che mi ha urtato poco fa».
«Veramente io non ho visto nessuno».
«Ma come? Mi ha quasi travolto».
Fausto scrollò le spalle. «Mi dispiace ma non c’era nessuno, dottore… Lei è arrivato solo e
nell’ultimo minuto non ci sono stati altri clienti». Lo fissai per qualche secondo poi presi il giornale e
me ne andai.
Esclusi che Fausto, nonostante la familiarità che c’era fra noi, potesse arrivare al punto da
prendermi in giro. Ma allora che cosa era successo? Che avessi avuto un’allucinazione provocata dal
ricordo di un sogno? Scrollai le spalle e non ci pensai più fino al garage, dove, mettendo una mano in
tasca per prendere le chiavi della macchina, mi accorsi di un piccolo pezzo di carta appallottolato.
Lo aprii e così lessi.
Cafè Riviera, ore 11:30. Venga da solo e non parli con nessuno di questo biglietto.
Non riuscivo a capire cosa significasse e soprattutto come fosse finito nella mia tasca.
“Ma certo, la ragazza! Allora non era un’allucinazione”.
Ma chi era e cosa voleva da me?
Giunsi all’Églantine – la mia galleria antiquaria – con quell’interrogativo che mi ronzava per la
testa e con un’espressione corrucciata, tanto che Bruno, il mio socio, mi guardò con un’aria perplessa,
mentre era in piena trattativa per la vendita di una preziosa e costosa consolle Luigi XVI .
Dopo circa un quarto d’ora, Bruno entrò con quella sua andatura dinoccolata e un sorriso
smagliante nel piccolo ufficio che avevamo in fondo alla galleria. «Buongiorno Lorenzo, sappi che ho
stabilito un altro record. Ho aperto appena mezz’ora fa e ho già venduto al dottor Ciliento la consolle
Riesener. Ecco il primo assegno!».
«Bravo, complimenti».
«Ma che cos’hai? Quando sei entrato avevi un’aria pensierosa, è tutto a posto?»
«Sì… be’, veramente mi è successa una cosa strana».
Raccontai a Bruno l’accaduto ma senza dirgli nulla del biglietto. Non volevo dare troppo peso alla
vicenda e qualcosa mi diceva che era meglio tenere per me quel particolare.
Il mio socio assunse un’aria tra il serio e il preoccupato poi, con una risatina, scrollò le spalle.
«Lorenzo, avrai visto quella ragazza da qualche parte, magari nel tuo quartiere e l’hai sognata».
«D’accordo, ma come ti spieghi l’atteggiamento del giornalaio?»
«Mah… non avrà visto la ragazza perché era impegnato a prendere il giornale. Andiamo, non c’è
niente di misterioso nella faccenda! Anzi, occupiamoci di qualcosa di serio. Ora facciamo un bel
confronto incrociato tra vendite, acquisti e oggetti cui siamo interessati».
«No, ti prego, l’abbiamo fatto ieri!».
«Ma ieri non avevo venduto il Riesener».
L’ennesimo controllo incrociato di Bruno – come li chiamava lui – durò più del previsto, mentre
io diventavo via via sempre più agitato per l’avvicinarsi dell’ora dell’appuntamento. Non avevo
ancora deciso se andarci o meno quando, a un certo punto, il telefono squillò e come sempre Bruno fu
velocissimo a rispondere. Qualcosa scattò in me. Non so perché lo feci, ma mi alzai meccanicamente e
mi diressi verso l’uscita. Bruno, stupito, mi seguì con lo sguardo e io, accostando due dita alle labbra,
gli feci segno che stavo andando a prendere un caffè. Afferrai il cappotto e uscii in gran fretta, per
evitare che mi facesse troppe domande.
Raggiunsi a piedi il Cafè Riviera che distava neanche un chilometro dall’Églantine. Quando ero
ormai a una trentina di metri dall’ingresso del locale, riconobbi sulla soglia la figura snella della
ragazza. Era alta, molto alta. I capelli biondi, sempre legati in una coda, e il cappello nero ancora
calato fin sugli occhi, coperti dagli stessi occhiali.
Nel vedermi, la ragazza s’irrigidì e agì in maniera imprevedibile: mi venne incontro rapidamente e
senza fermarsi si mise prima di tutto un dito sulle labbra poi, passandomi accanto, indicò con la testa
il vicolo adiacente al bar verso il quale si diresse. Rimasi lì, imbambolato, poi la seguii. Quel giochino
stava iniziando a seccarmi, ma a quel punto ero determinato ad assecondarla.
Proseguii lungo la trafficata via Santa Maria in Portico, dove la ragazza aveva svoltato, ma a un
certo punto la persi di vista, come se si fosse volatilizzata. Superai alcuni negozi e un portone poi,
giunto al secondo palazzo, mi sentii tirare per il cappotto all’interno dell’atrio.
«Ma che cazzo…».
La mia imprecazione fu soffocata sul nascere da una mano premuta sulla mia bocca. Era lei.
Sollevò davanti ai miei occhi un cellulare sul cui display era scritto un messaggio.
Salga lungo le scale, si spogli completamente e indossi gli abiti che trova in questo sacchetto. Io
controllerò che nessuno arrivi. Non c’è tempo, la stanno già cercando. Voglio solo aiutarla. Non parli
per nessun motivo.
Era proprio il colmo. Una maniaca mi diceva di spogliarmi per le scale di un palazzo in una zona
molto popolare di Napoli e per giunta a dicembre inoltrato. Aggrottai le sopracciglia e cercai di
liberarmi dalla sua mano ancora premuta sulla mia bocca. Lei abbassò gli occhiali rivelando ancora
una volta quelle due gocce di cielo che erano i suoi occhi. Mi guardò supplichevole e mormorò un “ti
prego” a fior di labbra.
Tentennai ancora un attimo, quindi presi il sacchetto e mi diressi verso le scale. Per fortuna
nessuno salì o scese nei due minuti che impiegai a cambiarmi tremando per il freddo e così, vestito
come un teenager, con tanto di cappello da baseball e occhiali scuri, ritornai da lei. La ragazza prese
immediatamente il sacchetto nel quale avevo messo i miei indumenti e uscì dal palazzo.
Raggiungemmo un motorino parcheggiato lì fuori. Mise il sacchetto nel piccolo baule posto dietro
al sellino, quindi s’incamminò verso la chiesa di Santa Maria in Portico che si trovava alla fine della
strada omonima e mi fece un cenno invitandomi a seguirla. Entrammo e, attraversata tutta la navata,
sedemmo al primo banco davanti al bell’altare del Vaccaro.
«Adesso possiamo parlare, al contrario dei vestiti che indossava, su questi che le ho dato non ci
sono microfoni», disse lei togliendo occhiali e cappello.
Aveva un viso allo stesso tempo dolce e determinato, praticamente perfetto. Gli splendidi occhi
azzurri viravano verso il verde acquamarina.
Dopo un istante di straniamento, ritornai in me e andai dritto al punto. «Microfoni? Signorina, si
rende conto di quello che mi ha fatto fare e di quello che mi sta dicendo?»
«Lei non si ricorda di me, vero?»
«Certo che mi ricordo! Per causa sua, ho fatto la figura del-l’idiota stamattina con il giornalaio
sotto casa».
«Non mi riferisco a stamattina».
La guardai interdetto.
«Non si ricorda dell’incidente di ieri? Del nostro appuntamento al garage del Parker’s, di quello
che le ho detto?»
«Incidente? Appuntamento? Ma di che sta parlando?»
«E ovviamente non ricorda nulla dell’altro ieri, di quando ci siamo incontrati nel parco della Villa
Floridiana, prima che lei ritornasse a casa».
«Senta, se questo è uno scherzo, è di cattivo gusto. Se sta cercando di spillarmi denaro, me lo dica
chiaramente. Ogni altro motivo per me non conta. Sono un uomo sposato e adoro mia moglie e
sebbene lei sia…».
«Giusto, parliamo di sua moglie», m’interruppe lei con molta calma.
«Che c’entra mia moglie?»
«Dottor Aragona, la donna che lei crede essere sua moglie è in realtà un’attrice».
«Ma per favore…».
«Mi faccia finire, abbiamo poco tempo, il suo socio si è già insospettito. Noi ci siamo già
incontrati, dottor Aragona, e ogni volta le ho raccontato questa storia. Ma lei il giorno dopo dimentica
ogni cosa e io devo ricominciare da capo. Tutto questo andrà avanti finché lei non troverà il modo
d’interrompere questa sorta di stato ipnotico».
Rimasi a fissarla per qualche secondo. «Lei vorrebbe farmi credere che la mia memoria dura un
giorno e poi si azzera? Come in un film? Cos’è, la versione napoletana di Matrix?»
«Esatto».
La cosa mi strappò una risatina e senza aggiungere altro feci per andarmene.
«Non vuole sentire il resto della storia?»
«La prego, mi restituisca i miei abiti e facciamola finita», le dissi con molta calma.
«Dottor Aragona, non sto scherzando. Lei non ricorda nulla di quello che le è successo ieri».
Sbuffai infastidito e tornai a sedere accanto a lei. «D’accordo, se vuole giocare, le concedo ancora
qualche minuto. Allora, che cosa ho? Una malattia di cui non sono a conoscenza? Chi è lei? Come fa
conoscermi?».
Un sorriso amaro comparve sul suo viso. «Incredibile, questa è la quinta volta che ci presentiamo.
Mi chiamo Anna Nikitovna Glyz, sono russa. Parlo italiano perché ho studiato a Roma. La stessa cosa
che sta succedendo a lei è successa anche a me, ecco
perché so tante cose».
«Che cosa sa, per esempio?»
«Il suo lavoro, il suo socio, la sua vita: è tutta una finzione. Probabilmente i suoi giorni sono tutti
uguali perché così vogliono che sia».
«Un momento… Vogliono? Di chi sta parlando?»
«Non lo so ancora, ma quello che le sta succedendo non è dovuto a una malattia che le cancella la
memoria a lungo termine. Lei è costantemente e quotidianamente drogato».
Rimasi a guardarla per un attimo ancora, poi mi appoggiai allo schienale e, scuotendo la testa,
sorrisi di nuovo. «Lei ha davvero voglia di scherzare, ma devo ammettere che la sua fantasia è
notevole».
«Dottor Aragona, la prego, mi ascolti. Questa sera, tornando a casa, noti l’atteggiamento di sua
moglie. Cerchi di capire se mente, se c’è qualcosa d’insolito. E poi, a partire da stasera, cerchi di non
bere o mangiare nulla a casa sua. La cosa insospettirà sua moglie, ovviamente, ma è l’unico modo per