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Tra diritto e società.
Informazioni genetiche e tecniche di tutela
Stefano Rodotà
1. Introduzione
Quando, nel finale della Tempesta, Miranda incontra per la prima
volta «il genere umano», le diverse e «perfette creature» che popolano
il mondo, esclama: «O brave new world, that has such people in’t!»1.
A questo ingenuo stupore nell’incontrare una umanità del tutto sconosciuta si rifà Aldous Huxley quando sceglie il titolo per il suo romanzo sul futuro biologico del mondo, che chiama appunto Brave
New World 2. Ma qui la fiduciosa esclamazione di Miranda si trasforma
nell’utopia negativa di una umanità che non sorprende per la sua ricchezza e bellezza, ma per la gelida pianificazione che la divide in caste
biologicamente determinate.
Miranda scopre le meraviglie di un mondo che porta in sé i segni
d’una naturale perfezione. Huxley s’imbatte nella deliberata volontà
di un Direttore di realizzare «la società totalmente organizzata, il sistema scientifico delle caste, l’abolizione del libero arbitrio mediante
il condizionamento metodico, la soggezione resa accettabile grazie
alla felicità indotta chimicamente, a dosi regolari, l’ortodossia martellata in capo alla gente, coi corsi notturni di insegnamento ipnopedico»3.
1 W. Shakespeare, The Tempest, atto V, scena I, vv. 183-184: «Oh magnifico mondo nuovo abitato da persone come queste!».
2 A. Huxley, Brave New World (1932), trad. it.: Il mondo nuovo, a cura di L. Gigli,
Mondadori, Milano, 1933.
3 A. Huxley, Brave New World Revisited (1961), trad. it.: Ritorno al mondo nuovo, a
cura di L. Bianciardi, Mondadori, Milano, 1961, p. 15.
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Oggi la realtà sembra allontanarsi da entrambe queste rappresentazioni. L’avvento della società «post-genomica» consegnerà a tutti e a ciascuno il genoma umano, vale a dire una massa crescente di informazioni capace di approfondire l’attuale conoscenza di sé e di orientarla verso il futuro. E da qui, da questa diffusa e profonda possibilità di sapere
e di prevedere, ciascuno potrà partire per occupare con le proprie decisioni territori prima segnati soltanto dal caso o dalla necessità. Né natura, né piano, ma il concorso di infinite scelte ci darà l’organizzazione sociale del futuro, segnando profondamente la stessa evoluzione del genere umano. Non un solo potere, d’un Dio lontano o d’uno scienziato vicino, ma molteplici volontà disegneranno il mondo.
2. Un catalogo di nuovi diritti
Era prevedibile che questo nuovo orizzonte si affollasse di diritti. Nel
momento in cui alla natura, alla necessità o al caso, si sostituiva un potere individuale e collettivo di scelta, era del tutto ovvio che ci si interrogasse intorno alla estensione di questo potere, ai soggetti che potevano esercitarlo, in presenza di quali condizioni e con quali limiti. Il ricorso a nuove figure di diritti si presentava così come un approdo inevitabile, come il linguaggio che descriveva con maggiore nettezza la situazione mutata, e a questa offriva strumenti e formalizzazione. Al tempo
stesso, però, la grammatica dei diritti si rivelava eccessiva e inadeguata,
se a essa si voleva assegnare definitivamente il compito di regolare il
nuovo modo d’essere dell’intero ciclo vitale.
Questo processo era già cominciato prima che l’informazione genetica occupasse il centro della scena, via via che le innovazioni scientifiche e tecnologiche aprivano nuovi campi alla possibilità di autodeterminazione: basta pensare alla contraccezione, alle diverse tecniche di
interruzione della gravidanza, e soprattutto alle tecnologie della riproduzione, che fanno nascere libertà e scelta dove prima era soggezione a
immodificabili leggi della natura. Ma proprio la genetica porta a conseguenze radicali questa tendenza, perché massima si fa la possibilità di
conoscenza e scelta, e la creazione di ulteriori figure di diritti mette precocemente in discussione parti dei nuovissimi cataloghi che si era appena finito di compilare.
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Si può tentare un inventario di tutti questi diritti che, quantitativamente e qualitativamente, incarnano la più intensa esplosione di richieste di riconoscimento di poteri ai singoli che mai sia stata conosciuta.
Essi coprono tutto l’arco della vita – la nascita, l’esistenza, la morte – e,
anzi, si spingono al prima e al dopo.
Si parla di un diritto di procreare o di un diritto al figlio; del diritto
di nascere e del diritto di non nascere; del diritto di nascere sano e del
diritto di avere una famiglia composta da due genitori di sesso diverso;
del diritto all’unicità e del diritto a un patrimonio genetico non manipolato. Andando avanti ci si imbatte nel diritto a conoscere la propria
origine biologica e nel diritto all’integrità fisica e psichica; nel diritto di
sapere e di non sapere; nel diritto alla salute e alla cura, e nel diritto alla
malattia. Infine, diritto di morire, diritto di morire con dignità, diritto
al suicidio assistito. Se, poi, si guarda alla fase precedente alla nascita, si
trovano i diritti sui gameti, i diritti dell’embrione, i diritti del feto. E,
dopo la morte, rimane aperta la questione dei diritti sul corpo del defunto, soprattutto nella prospettiva dell’espianto di organi.
Questo non è un catalogo fantasioso o arbitrario (e neppure completo). Per ciascuna di queste figure è possibile ritrovare un riferimento
giuridicamente significativo in convenzioni o dichiarazioni internazionali, in leggi nazionali, in regolamenti, in sentenze, in pareri di comitati etici. Alcune possono apparire singolari già nella loro formulazione, e
meritano un immediato chiarimento. Parlare di diritto di non nascere è
formulazione estrema di fronte alle richieste di risarcimento avanzate
dai figli nei confronti dei genitori per wrongful life, per una «vita dannosa» determinata dalla trasmissione di una malattia; la richiesta di un
diritto all’unicità si fa più intensa di fronte alla clonazione; parlando di
diritto alla malattia, si vuole sottolineare l’illegittimità di discriminazioni legate alle condizioni di salute.
In altri casi, la debolezza di proclamazioni perentorie è rivelata proprio dalle novità introdotte dalla genetica. Il timore delle manipolazioni genetiche spiega perché si parli di un «diritto di ereditare caratteri genetici che non abbiano subito alcuna manipolazione» come diritto fondamentale della persona fin dal 1982, anno in cui il Consiglio d’Europa adotta la Raccomandazione 934 (82). E la stessa preoccupazione è
all’origine della formula adottata nell’art. 1 della Dichiarazione universale sul genoma umano e i diritti dell’uomo dell’Unesco, votata dall’As173
semblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre 1997: il genoma
umano, «in senso simbolico, è patrimonio dell’umanità».
L’assolutezza di queste affermazioni è mitigata fin dall’origine già
nella Raccomandazione del Consiglio d’Europa, dove si precisa che «il
riconoscimento esplicito» di un diritto a un patrimonio genetico non
manipolato «non deve contrapporsi al perfezionamento di applicazioni terapeutiche dell’ingegneria genetica (terapia dei geni), gravida di
promesse per il trattamento e l’eliminazione di alcune patologie trasmesse per via genetica». Si delinea, dunque, un diritto di ricorrere a
tecniche che evitino la trasmissione ai figli di malattie ereditarie, esplicitamente riconosciuto dall’art. 3 di quella che certamente è la legge
più severa in materia, l’Embryonenschutzgesetz tedesco del 1990, dove
si riconosce la legittimità della selezione degli spermatozoi quando ciò
consenta di evitare appunto l’insorgenza di una malattia collegata al
sesso del nascituro, limitatamente ai casi della distrofia muscolare o di
altre malattie genetiche riconosciute «come affezioni gravi dalla autorità competente designata dalla legge dei Länder». Una conferma ulteriore viene dalla Francia, dov’è stata esplicitamente riconosciuta la legittimità della diagnosi preimpianto, la cui funzione, tra l’altro, è appunto quella di rendere possibili accertamenti volti a evitare la trasmissione di malattie genetiche. Partendo da questa premessa, è stata consentita la scelta del sesso del nascituro, seguendo una logica che ha anche la funzione di rassicurare i futuri genitori, eliminando le angosce
su eventuali malformazioni del feto che spesso inducono a interrompere la gravidanza.
Si pone a questo punto, legittimamente, l’interrogativo riguardante
la possibilità di desumere un diritto di nascere sano dalla disponibilità
di tecniche di accertamento precoce di rischi di trasmissione di malattie
genetiche attraverso la diagnosi prenatale e preimpianto. La «manipolazione positiva» come diritto del nascituro? Un obbligo dei genitori di
compiere tutti gli accertamenti possibili? O questo tipo di conflitto dev’essere risolto all’origine da norme espresse, attribuendo importanza
decisiva al fatto della nascita ed escludendo, quindi, un diritto d’azione
dei nati nei confronti dei genitori?
Più complessa è la riflessione aperta dalla Dichiarazione sul genoma.
Il ricorso a una formula come «patrimonio dell’umanità», sia pure temperato dalla sottolineatura del suo significato simbolico, non può essere
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interpretato come affermazione di una sorta di diritto attribuito a qualche soggetto collettivo a disporre del genoma. Non è la prima volta che
si parla di «patrimonio dell’umanità» o – con ulteriore, ma non decisiva specificazione – di «patrimonio comune dell’umanità», e con questa
espressione si è voluto escludere che i beni costituenti tale «patrimonio»
possano essere oggetto di appropriazione4. Trasportato nel contesto qui
considerato, il riferimento al «patrimonio» ha la funzione di escludere
la legittimità di interventi autoritativi di qualsiasi genere sul genoma
umano che, in questo modo, finisce con l’assumere un valore fondativo
della persona. L’esplicita associazione tra «genoma» e «umanità», inoltre, dovrebbe condurre alla conclusione che interventi autoritativi sul
genoma potrebbero essere fatti rientrare nella categoria dei crimini contro l’umanità5.
Questo punto può essere meglio chiarito tornando alle indicazioni
della Raccomandazione 934 (82) del Consiglio d’Europa, dove l’affermata legittimità degli interventi volti a evitare la trasmissione di malattie genetiche consente di leggere nella giusta chiave il riferimento al diritto di ereditare caratteri genetici non manipolati. Di nuovo siamo di
fronte a una formula che intende porre il soggetto al riparo dall’eugenetica di massa e alla totale strumentalizzazione della persona che questa
comporta. Lungo questa linea si è ora posto l’art. 3.2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che prevede «il divieto delle
pratiche eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone», con riferimento fin troppo trasparente a qualsiasi
politica eugenetica, dunque perseguita anche con mezzi diversi dagli
interventi genetici in senso stretto, e caratterizzata sempre da forme di
programmazione a sfondo razzista6.
4
Si vedano, ad esempio, il Trattato sullo spazio extraatmosferico (1967), il Trattato
sul regime della luna e degli altri corpi celesti (1979), la Convenzione sul diritto del
mare (1982), la Convenzione sulla biodiversità (1992). Per un quadro d’insieme A.
Kiss, La notion de patrimoine commun de l’humanité, in Recueil des Cours de l’Académie
de Droit International de La Haye, vol. 175, pp. 99-256.
5 Cfr., ad esempio, M. Delmas Marty, Trois défis pour un droit mondial, Seuil, Parigi, 1998.
6 In una nota esplicativa al testo dell’art. 3 (documento Charte 4473/00 Convent
49) si sottolinea appunto che «il riferimento alle pratiche eugenetiche, segnatamente
quelle che hanno come scopo la selezione delle persone, riguarda le ipotesi in cui siano
organizzati e attuati programmi di selezione che comportino, ad esempio, campagne
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Si pone esplicitamente, a questo punto, il difficile problema dei limiti entro i quali, invece, può essere ammessa l’eugenetica individuale.
Sembrerebbe che una indicazione interpretativa rilevante possa essere
ricavata dal riferimento alla nozione di «malattia» contenuto nella Raccomandazione 934 (82). Ma questa, da un canto, è anche nozione
squisitamente culturale, dunque non solo variabile, ma rimessa a valutazioni storicamente determinate e anche a percezioni soggettive. Il ricorso a essa, d’altra parte, può condurre a effetti imprevisti, che debbono essere attentamente valutati.
L’art. 3 dell’Embryonenschutzgesetz, già ricordato, individua tassativamente (in maniera diretta o per relationem) le malattie genetiche che
rendono ammissibile la selezione del sesso del nascituro. Questa tecnica è volta a limitare in modo rigoroso le ipotesi in cui può essere legittimamente esercitato un diritto di scelta, imponendo di affidare tutte le
altre al gioco del caso o alla logica della natura, per evitare utilizzazioni
ritenute socialmente o eticamente inammissibili. Questa sembrava la
via maestra da seguire, tanto che nel 1988 il Parlamento europeo approvava una Risoluzione sui problemi etici e giuridici della manipolazione genetica (Doc. A 2-327/88) con la quale dichiarava di attendersi
«l’elaborazione di un catalogo chiaro e disciplinato giuridicamente delle malattie ereditarie per cui si possa eventualmente ricorrere a questo
tipo di terapia, catalogo che verrà rivisto periodicamente conformemente ai progressi della scienza medica» (n. 24). E si caldeggiava anche
«un riesame dei concetti di malattia e di malattia ereditaria per evitare il
rischio che semplici deviazioni dalla normalità genetica vengano definite a livello medico quali malattie o tare ereditarie» (n. 25).
La tecnica dell’elencazione tassativa appare oggi sostanzialmente abbandonata, sì che, ad esempio, la Convenzione del Consiglio d’Europa
per la tutela dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano rispetto alle applicazioni della biologia e della medicina (Convenzione
sui diritti dell’uomo e la biomedicina) si limita ad affermare che «l’utilizzo delle tecniche di assistenza medica alla procreazione non è ammesso per la scelta del nascituro salvo che al fine di evitare una malattia gradi sterilizzazione, gravidanze forzate, matrimoni etnici obbligatori, ecc., atti considerati tutti crimini internazionali dallo Statuto del Tribunale penale internazionale adottato a Roma il 17 luglio 1998 (cfr. articolo 7, paragrafo 1, lettera g)».
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ve ereditaria legata al sesso» (art. 14). Quella tecnica, in realtà, può produrre un effetto che va nella direzione esattamente opposta a quella che
ne aveva giustificato l’adozione. Infatti, l’inserimento di una malattia in
un elenco che individua quelle per le quali è legittimo il ricorso all’ingegneria genetica, produce un doppio effetto: uno di legittimazione/divieto, l’altro di stigmatizzazione. Dall’elenco, infatti, si desume ben più
che la valutazione di liceità di interventi per specifiche malattie, e dunque anche di illiceità di tutti gli altri. La lista delle malattie, predisposta
per evitare interventi puramente eugenetici, potrebbe essere percepita
dalla collettività come la individuazione di casi in cui è ritenuto socialmente necessario (o almeno opportuno) intervenire, trasformandosi
così in un incentivo a ricorrere comunque alla genetica nei casi ammessi, per eliminare non tanto un fattore di rischio, quanto piuttosto un
elemento che può produrre stigmatizzazione sociale. Gli elenchi possono così assumere un valore sostanzialmente prescrittivo, individuando
un modello di normalità genetica e capovolgendo l’originaria loro funzione, che dovrebbe essere proprio quella di respingere ogni tentazione
in questa direzione. Trasformato in modello culturale, l’elenco, nei casi
in cui non si ricorresse all’intervento, potrebbe fondare, consciamente o
no, una discriminazione o una stigmatizzazione sociale dei portatori di
quelle malattie7.
Abbandonata la tecnica dell’elenco, non sono certo risolte le questioni che con essa si volevano affrontare. Le opportunità offerte dalla genetica, infatti, devono essere valutate in un quadro in cui la salute viene
definita, secondo i criteri dell’Organizzazione mondiale della sanità, come «benessere fisico, psichico, sociale e spirituale». Una definizione,
questa, che viene riecheggiata dall’art. 3.1 della Carta dei diritti fondamentali, dove si parla dell’«integrità fisica e psichica» appunto come di
un diritto fondamentale della persona. Come si deve affrontare, allora,
il tema dell’eugenetica individuale nel quadro delineato da queste definizioni e da questi princìpi8.
7 Mi ero già occupato di questo tema in «Modelli culturali e orizzonti della bioetica», nel volume collettaneo da me curato Questioni di bioetica, Laterza, Bari, 1993,
pp. 421-431.
8 Segnalo, nella sterminata letteratura, per la discussione di alcuni punti indicati nel
testo, due contributi molto diversi: D. Heyd, Genethics. Moral Issues in the Creation of
People, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-Oxford, 1992; R.F. Chad-
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Provo a rispondere a questo interrogativo ricordando un caso concreto, avvenuto qualche tempo fa, quando l’attenzione per questi problemi era assai meno acuta di oggi, e per questo rimasto sostanzialmente in ombra. Una donna nera, in Italia, ha deciso di ricorrere alla fecondazione con gameti di una donatrice, pur non essendo sterile. Gli ovuli donati da una donna bianca sono stati fecondati con il seme del compagno della donna nera, e quindi impiantati nell’utero di quest’ultima,
che ha portato a compimento la gravidanza. La spiegazione di questa
scelta assume tinte drammatiche. La madre ha deciso di rinunciare al
legame biologico con il proprio figlio per assicurargli una maggiore accettazione sociale in una società di bianchi.
Il richiamare l’attenzione sui modelli culturali non è estraneo all’analisi giuridica. Proprio la loro considerazione, infatti, consente di mostrare l’inadeguatezza della distinzione tra eugenetica di massa ed eugenetica individuale nel momento in cui si pone il problema del se e del
come tracciare un confine tra interventi vietati e interventi leciti. L’esistenza di modelli culturali diffusi, a loro modo normativi, può produrre effetti complessivi per certi versi assimilabili a quelli dell’eugenetica
di massa, quando quei modelli risultano determinanti nel condizionare
l’insieme di scelte individuali che contribuiscono a connotare nel suo
insieme l’organizzazione sociale.
L’amplificazione dei modelli attraverso la pubblicità e le forti pressioni del mercato determinano una loro intensa penetrazione sociale, creando le condizioni propizie a una progressiva restrizione delle
aree dove continua a operare la «lotteria genetica», via via che si diffondono e si banalizzano gli strumenti che rendono possibile l’intervento della genetica. Come si vedrà più avanti, il crescente ricorso ai
test genetici rende ineludibile l’interrogativo riguardante una possibile e invalicabile frontiera, oltre la quale la scelta individuale deve
lasciare che operi unicamente il caso9. Il problema diventa così quelwick (a cura di), Ethics, Reproduction and Genetic Control, Routledge, London-New
York, 1992; D.J. Kevles, L. Hood (a cura di), The Code of Codes. Scientific and Social
Issues in the Human Genome Project, Harvard University Press, Cambridge (Mass.),
1992; A. Dyson, J. Harris (a cura di), Ethics and Biotechlology, Routledge, LondonNew York, 1994.
9 Cfr. S. Rodotà, Il governo sociale del caso, in M. Ceruti, P. Fabbri, G. Giorello, L.
Preta (a cura di), Il caso e la libertà, Laterza, Roma-Bari, 1994, pp. 167-183.
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lo della individuazione delle tecniche necessarie per tracciare con nitidezza un confine.
Invalicabile, dal punto di vista oggettivo, è apparso il confine dell’unicità stessa della persona, con il conseguente divieto della clonazione riproduttiva previsto, su scala internazionale, dal Protocollo aggiuntivo alla Convenzione europea sulla biomedicina e dall’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Illegittime, dal punto
di vista dei soggetti che possono metterle in atto, sono state ritenute
tutte le pratiche eugenetiche di massa, nel senso già analizzato. Ambiguo e non decisivo, per le sue connotazioni culturali, si presenta il ricorso al concetto stesso di malattia.
Sembra delinearsi un contesto istituzionale caratterizzato dalla possibilità di disciplinare in modo compiuto soltanto situazioni ritenute
estreme (clonazione riproduttiva, eugenetica di massa), rimanendo affidate piuttosto a una valutazione casistica, e culturalmente determinata,
la valutazione d’ogni altra ipotesi. Questo implica una valutazione di
inopportunità, o di inefficacia o di possibile rifiuto sociale, delle pure
tecniche giuridiche di divieto di specifici comportamenti, soprattutto
se non inserite in un adeguato contesto istituzionale.
Una analisi delle reazioni sociali rispetto ad alcune possibilità offerte
dalla tecnica ha indotto a conclusioni prudentemente ottimistiche, come accade a proposito della conoscenza precoce del sesso del nascituro
che non è stata accompagnata da un rafforzamento degli stereotipi negativi nei confronti delle donne, come dimostra il fatto che la scelta dell’aborto non trova alcuna significativa motivazione nell’annuncio che
nascerà una femmina. Vero è che in India è stato generalizzato il divieto di rendere noto ai genitori il sesso del nascituro proprio per evitare
l’aborto selettivo delle femmine. In questo caso, però, appare evidente
che il ricorso alla regola giuridica e alla tecnica del divieto viene ritenuto necessario proprio per rimuovere un modello culturale, la cui definitiva cancellazione è tuttavia affidata a un mutamento della condizione
della donna nella società indiana.
Dovendo fare i conti con modelli culturali non confinati nel passato,
ma incessantemente prodotti, la strategia giuridica deve tendere a creare un ambiente socio-istituzionale in grado di neutralizzare, o di ridurre il più possibile, ricadute negative, o comunque ritenute tali, del ricorso alla genetica. Questo implica, anzitutto, un rifiuto radicale di
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ogni parametro di normalità genetica, la messa a punto di modelli giuridici di accettazione della diversità, uno statuto forte dell’informazione
genetica.
La dipendenza da modelli culturali impositivi di particolari caratteristiche fisiche può essere ridotta se, anzitutto, vengono previste garanzie
precise per quanto riguarda la raccolta dei dati genetici; la loro circolazione, e in particolare la loro comunicazione ai diversi interessati; l’utilizzazione da parte di soggetti che perseguono finalità puramente economiche. In sostanza si deve garantire che l’avere particolari caratteri
genetici non produca discriminazioni o stigmatizzazioni. Assumono
così specifico rilievo quelle definizioni della privacy che mettono appunto l’accento sulla «tutela delle scelte di vita contro ogni forma di
controllo pubblico e di stigmatizzazione sociale»10, in un quadro caratterizzato dalla «libertà delle scelte esistenziali»11.
Siamo così di fronte a una precisazione del campo dell’azione giuridica e dei diritti della persona che investe, al tempo stesso, la definizione della sua identità e le modalità delle sue relazioni personali e sociali.
Peraltro, il grado di accettazione della diversità esige che ai diritti riconosciuti sia assicurata una concreta effettività, anche attraverso specifiche azioni pubbliche. Ad esempio, la decisione della donna (della coppia) informata del rischio di una malformazione genetica del nascituro,
per essere diversa da quella che porta all’interruzione della gravidanza,
richiede:
a) un’adeguata informazione accompagnata da una specifica consulenza genetica;
b) un quadro normativo che escluda ogni discriminazione nei confronti dei portatori di quella condizione;
c) l’esistenza di servizi sociali che consentano di sopportare i costi
umani ed economici legati all’esistenza di una particolare condizione fisica o psichica (sostegno ai genitori, accesso all’istruzione, opportunità
di lavoro).
In definitiva, l’accettazione dell’handicap, genetico come di diversa
natura, implica non una generica diffusione di una «cultura della vita»
10 L.M. Friedman, The Republic of Choice. Law, Authority and Culture, Harvard
University Press, Cambridge (Mass.), 1990, p. 184.
11 F. Rigaux, La protection de la vie privée et des autres biens de la personnalité, Bruylant, Bruxelles-Paris, 1990, p. 167.
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che lascia soli i soggetti ai quali spettano le decisioni dirette. L’accettazione individuale è tanto più grande quanto maggiore è l’accettazione
sociale. Senza l’assunzione di una responsabilità sociale, l’accento posto
sulla responsabilità individuale può risolversi nell’abbandono di singoli
soggetti nel momento in cui si trovano di fronte alla necessità di compiere scelte tragiche.
Questo tentativo di capovolgere una impostazione tutta affidata a
una pura logica di divieti non risolve, evidentemente, tutte le questioni
che, soprattutto in prospettiva, vengono poste dalla disponibilità di
specifiche terapie geniche o dalla genetica migliorativa dell’aspetto fisico e delle capacità intellettive. Sembra difficile, nel primo caso, escludere la legittimità del ricorso alla terapia, sia che si ricorra al criterio della
«vita buona» sia che si preferisca un’analisi costi benefici: la disponibilità della terapia, anzi, fa divenire ineludibile il tema della wrongful life,
nelle sue diverse e controverse sfaccettature. In entrambi i casi, a parte
le questioni già ricordate a proposito dell’eugenetica individuale, si pone comunque anche un problema di eguaglianza: i costi degli interventi infatti, possono essere tali da riservarli soltanto alle persone abbienti.
Le diseguaglianze determinate dalla lotteria genetica – e per ciò accompagnate da una accettabilità sociale determinata dalla percezione della
loro «naturalità», e dunque dalla loro inevitabilità – verrebbero così accompagnate e rafforzate da quelle legate all’eugenetica individuale. Di
nuovo, il rischio di una società nella quale emergono «caste genetiche»
può materializzarsi senza che compaiano figure simili al direttore di
Huxley o a un dittatore razzista.
2. Dal caso alla scelta
Analizzando qualche anno fa dinamiche tipiche non solo della società americana, Lawrence M. Friedman ha parlato di Republic of Choice.
Questo carattere è stato straordinariamente rafforzato dalle «rivoluzioni» scientifiche e tecnologiche di quest’epoca, che hanno reso possibili
scelte individuali e collettive anche in situazioni in cui precedentemente esistevano solo il caso o la necessità. Spesso i confini dell’azione umana erano segnati da leggi naturali che escludevano o limitavano fortemente la possibilità di decisioni autonome. Oggi molti di quei confini
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