Diario di una mamma, ex regista, apprendista chef
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Diario di una mamma, ex regista, apprendista chef
06 40 Aper:215x300 17/01/12 18:24 Pagina 21 T E M A / M C O M E M A T E R N I T À Diario di una mamma, ex regista, apprendista chef DI LORELLA REALE Casa del gusto oggi mi è successa una cosa strana. La ragazza che ingaggia ogni giorno una lotta all’ultimo sangue col dispenser del sapone – chissà poi perché – mi ha finalmente rivolto la parola nonostante la rivalità che impéra da queste parti. Ed è stato come un taglio netto. È preoccupata per l’esito di questa scuola: Lei – ha detto – non può permettersi sbagli data la sua età. Al che io inebriata da tanta confidenza, le ho chiesto quanti anni avesse e in cambio ho ricevuto la risposta che meritavo: trentacinque, la mia stessa età. È stato così che le polpettine di coniglio su marmellata di cachi che stavo elaborando da giorni come finger food di ottobre hanno lasciato il posto a pensieri neri. E ai dubbi: «Avrò fatto la scelta giusta? Avrò fortuna? Mi piacerà? Sarò capace?». Certo fino a poco tempo fa avere trent’anni aveva un altro significato. Lo sapevo bene io. Ci avevo anche lavorato su per un documentario sugli anni Ottanta. Sicuramente era considerato qualcosa di piacevole. Vigoria fisica, maturità intellettiva, libertà da pressioni scolastiche e genitoriali se si erano colte le occasioni giuste. Infine un buon lavoro o comunque un lavoro e quindi indipendenza e sicurezza, con ancora la possibilità di sognare dell’altro. Una carriera, una vita più ricca. Mentre oggi? A meno che non si sia storditi da droghe, o figli di qualche notabile, o non si stiano investendo tutte le proprie energie nel tentativo di partecipare a qualche reality in tv, e/o sgambettare in una trasmissione e in un talent show, l’età suddetta non è altro che una fonte di inquietudine, angoscia e confusione. È come trovarsi nel bel mezzo della preparazione di un dolce e accorgersi di avere una bilancia sballata. Era proprio questo il punto: si può aver studiato o non studiato; aver maturato delle ottime competenze in un settore o meno; dipendere da genitori oppure avere un lavoro di qualsiasi tipo; tutto è sullo stesso piano, è una cinquina al superenalotto: «Perderò? Vincerò? Chissà! Conta solo il caso». [....] VENERDÌ 14 SETTEMBRE – Che corsa anche stamattina! Mio figlio si è svegliato alle sei, tredici mesi di energia pura. E ogni cosa è andata a rilento, inframezzata dai giochi. Ci tengo poi che faccia colazione sereno, lui che già assaggia tutto: pane integrale e la marmellata di visciole che facciamo io e il suo papà a giugno in campagna, oltre naturalmente al suo latte. Però alla fine siamo usciti tardi e al solito di corsa al nido, di corsa alla metro, di corsa alla scuola del Gambero rosso. Sempre di corsa del resto, le mie gambe lo sanno bene, sono giorni, mesi, ore, in fondo mi sembra di correre da anni. Da studente brillante di filosofia, anche grazie ai testi che il femminismo aveva prodotto, sono passata a lavorare proprio per la televisione che mi piaceva, quella culturale di Rai educational e infine quella d’inchiesta con Report. Ma da un anno, da quando è nato mio figlio, quello che già sapevo, quello di cui avevo già discusso con altre donne, le pensatrici della Società italiana delle letterate, quello che avevo indagato nel mio lavoro di filmaker e che da tempo sociologhe attente avevano già descritto, è diventato un fatto anche per me. Come un elefante in una stanza. La dedizione totale, lavorare dalle sette a mezzanotte per mesi in cambio di contratti scadenti anche salendo di grado nelle gerarchie, mal si coniuga con l’essere madre, con il desiderio di esserci. Ma stamattina mentre aspetto di tornare alla mia postazione tra ortaggi e tagli di carne, su questo dubbi non ne ho, lasciare quel mondo per mio figlio non mi dispiace. Tra l’altro mi ero già disamorata prima. Vedo dappertutto uno scadimento di qualità, dal cibo che ci vendono ai vestiti, ma anche nel raccontare una storia. Che sia cronaca o di fantasia poi poco importa. Bassi budget, tempi stretti e maestranze pagate al minimo a cosa possono portare? [...] Sono di nuovo in metro, di ritorno a casa dopo ore di fondo bruno e salse. Siamo pressati come sardine, temo che qualcuno mi finirà in braccio. Stavo pensando che soprattutto dal Rinascimento in poi la cucina poteva rappresentare una specie di cartina tornasole dell’economia e della cultura di uno stato. Poche ore fa un ragazzo – forse un futuro cuoco – alla domanda dello chef, «cosa mangi a colazione?», ha risposto: «Innanzitutto Coca cola con Red Bull, costa meno di latte e caffè e ha lo stesso effetto». Allora lo chef: «E cosa hai portato per pranzo?». «Finocchi gratinati e – ha continuato – lo so non sono di stagione ma erano in offerta e anche se di serra so io come insaporirli!». Continuo a chiedermi ma non è tutto collegato, queste cose non c’entrano con la politica, con il mondo che vogliamo? Mi hanno fatto pensare a un film di Ken Loach, In questo mondo libero, a un dialogo tra un padre, operaio in pensione che insieme al nipotino scopre che la figlia ha messo su un’agenzia interinale. Scarico da internet un pezzetto di sceneggiatura: Il padre: Tu quella gente la paghi al minimo sindacale? Angie: Quella gente a casa sua fa la fame! Il padre: Tu quella gente la paghi al minimo sindacale? Angie: Per l’amor del cielo papà, se continui così m’incolperai anche dei cambiamenti climatici, che cosa t’inventerai adesso? Tu non vuoi capire, ma le cose stanno esattamente così: per trent’anni tu hai fatto lo stesso lavoro, giusto? Il padre: Sì... Angie: Beh, io e te siamo molto diversi: tu per trent’anni hai fatto lo stesso lavoro, io ho fatto più di trenta lavori e mi hanno fregata e licenziata tutte le volte che c’ho provato. È per questo che siamo diversi. È vero, il lavoro, questo diritto della nostra costituzione, sta diventando un concetto sfuggente. Ma questo può davvero spingerci a pensare solo ai guadagni im- ▼ Leggendaria 91 gennaio 2012 GIOVEDÌ 8 SETTEMBRE – Nella toilette della 21 06 40 Aper:215x300 17/01/12 18:24 Pagina 22 Leggendaria 91 gennaio 2012 mediati? Il padre incalza Angie chiedendole qual è il mondo allora che sta costruendo per suo figlio. Un giorno, quel bambino, non competerà forse anche lui con altri esseri umani pagati con un salario da fame? I lavoratori di Angie fanno soprattutto i muratori oppure ingrossano le file dei dipendenti dei supermercati, quei luoghi dove regnano i prodotti sottoprezzo che hanno un costo altissimo, dato che bisogna sfruttare tutto, terra e braccia. Perché il mio collega apprendista chef non può mangiare qualcosa di stagione e pagarla il giusto? Sono proprio stanca, forse saranno le tante ore in piedi. [...] 22 DOMENICA 25 SETTEMBRE – È notte. Tutti dormono. Ho fatto dei biscotti sablé a forma di cavalluccio marino per il piccolo, ne assaggio uno con il vino che facciamo a Est del Lazio e che ho provato a cuocere e ad aromatizzare alla maniera del Mulsum degli antichi romani. Un altro impegno, un altro salto nel vuoto: da un anno io e il mio compagno abbiamo impiantato un vigneto che condurremo in modo naturale, alla maniera dei grandi produttori di Borgogna, quasi tutti biodinamici. Ci sta costando molto, oltre che in tempo e in fatica. Ma si avvicina all’idea della vita e del mondo che vorremmo. E mi fa ridere questa cosa, o forse è colpa del Mulsum, ma certo a scorrerla fino ad oggi la mia vita potrebbe sembrare il girovagare proficuo e creativo di un soggetto postmoderno. E forse in parte lo è. Ma di sicuro non credo affatto alla straordinaria flessibilità delle giovani che racconta un pezzo di femminismo italiano. Anzi, mi arrabbio con chi dice che le donne oggi scelgono se lavorare o no, se lavorare o fare le madri, se lavorare part time. Rivelo che chi può farlo e lo fa, ha principalmente soldi non libertà! Se ho potuto permettermi certe scelte, oltre che per aver coltivato molti interessi, è perché sono benestante. Non riguarda certo la maggioranza. Magari il nutrito gruppo di quelle che stanno campando da sole come me ma che sempre «non sanno più per quanto ancora»! A tutte queste, prosit ! ■ N Nessuna Stazione DI GIULIA BERTELLA FARNETTI A scolto Leonard Cohen mentre l’immagine di un treno che non si ferma mai prende spazio nella mia mente. Nel ventre del treno sono ammucchiati uno sopra l’altro come polaroid i ricordi più intensi della mia vita. Il treno è la mia casa. ROMA - MILANO Mi aggiro per la stazione di Roma Termini, la manifestazione contro Bush e la guerra in Iraq è appena finita, la gente si affretta a ripartire con i bambini in spalla, sventolando le bandiere colorate della pace. Tra le fessure della folla intravedo un ragazzo seduto sopra un cumulo di valigie davanti a un vagone, indossa dei jeans Carhartt da lavoro e un berretto nero. Salgo sul treno, non riesco a scrollarmi di dosso l’immagine di quegli occhi, mi alzo, cammino lungo il corridoio in preda a una colica di sensazioni, l’energia che mi attira verso quello sguardo è come una calamita. Varco la porta della mia carrozza, lo rivedo. In un attimo dimentico dove sono, la mia timidezza. Lui mi porge una delle sue cuffie e senza dire una parola ascoltiamo insieme una canzone di De André, uno vicino all’altra, ogni volta che finisce la canzone lui la fa ripartire. Arriviamo a Milano, sono passate solo quattro ore ma mi sembra di aver vissuto una vita intera. Il ragazzo con il berretto della Carhartt è diventato il mio compagno per tre anni e la nostra storia ha segnato un passaggio prezioso della mia vita. MILANO - ROMA Salgo sul treno per andare a Roma a trovare un’amica, la testa mi pulsa di pensieri, quell’attore bastardo è sparito di nuovo, ho voglia di perdermi nei volti delle persone e di azzerare gli input del mio cervello. Il treno si ferma alla stazione di Firenze, una donna formosa con un paio di pantaloni neri attillati si siede al mio fianco, sembra irrequieta. Tira fuori dalla tasca della giacca un foglietto a quadretti con sopra un numero, sbircio… 3-2-8-2, ma guarda comincia proprio con le stesse cifre del numero dell’attore. La donna si specchia nel finestrino e si passa ripetutamente la mano tra i capelli, poi tira fuori il cellulare dalla sua borsa e comincia a copiare il numero dal biglietto alla rubrica del telefono, seguo tutti i passaggi, un numero dietro l’altro: no, non è possibile, è uno scherzo, è il numero del cellulare di Nicola, l’attore, dalla prima all’ultima cifra. Mi alzo di scatto, sbatto contro le gambe del signore che legge di fronte a me, la gente mi guarda, devo sembrare pazza. Penso: di tutti i treni che poteva prendere in tutti gli orari di tutte le giornate dell’anno e di tutti i sedili che poteva scegliere perché questa donna ha scelto proprio questo giorno, questo orario, questo treno e questo posto vicino al mio? MILANO - BERGAMO È mattina presto, la stazione di Milano Lambrate è quasi vuota, raggiungo il binario del treno per Bergamo, oggi ho una lezione di Pedagogia sperimentale. Arriva il treno, scendono flussi di studenti universitari e di impiegati. Cammino controcorrente. Sul treno svuotato rimangono soltanto gruppetti di liceali che bigiano scuola e di emigrati africani che chiacchierano tra di loro. Dal finestrino scorrono uno dietro l’altro i vagoni arrugginiti di vecchi treni in deposito, illuminati da una luce azzurrognola. Si staglia il volto di un emigrato nord africano, sembra scolpito dal vento del deserto del Sahara, mentre “abita” con eleganza una pelle da cui traspira sofferenza, con lo sguardo punta l’orizzonte. Per un attimo mi sembra di vedere con i suoi occhi: tutta la strada che ha fatto per arrivare fin dove è arrivato, le persone a cui ha dovuto dire addio, un figlio, una