"...In guisa d`un arcierpresto soriano": appunti per una metafora d
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"...In guisa d`un arcierpresto soriano": appunti per una metafora d
Andrea Dini "... In guisa d'un arcierpresto soriano": appunti per una metafora d'Amore nella lirica del Dugenta. 1. Se l'amore è un "dardo" - così come si ostinano a cantare con inconsapevole esattezza, nel loro latino Jàcilior, quei melomani emuli di un trovatoriale Conte della Luna tutto passioni e pire ("L'amore ond'io ardo... ") -, perchè non concedersi allora un onesto divertissement all'interno della lirica dugentesca e rintracciare progenitori e innesti, scarti e prosecuzioni di un'immagine sfaccettata dalla straordinaria fortuna letteraria? Dardi, saette, punte di lancia, giavellotti mortali indirizzati al seno di poveri amatori (che finiscono ora in un contorno di cuori spezzati e sanguinanti ora in un tripudio di dolcezze) condiscono infatti, da più versanti, strutture, rime e lemmi della poesia italiana delle origini. A partire dall'esperienza siciliana s'infittiscono i rimandi alla faretra di Cupido (provenienti da indubbie frequentazioni ovidiane), per culminare alla svolta di secolo, in terra toscana, nel serrato tiro a bersaglio cavalcantiano, e proseguire, definitivamente acquisite all'immaginario collettivo, coll'epigonismo iperbolico di un Frescobaldi, di un Lapo Gianni, o anche di un Cino. A questa tarda altezza cronologica essi perdono tutte le coordinate di termini pmi di paragone, e dal loro impiego come enti causali di un vocabolario d'amore presto divenuto stantio (il 'dardo' che fa pacifica rima con 'ardo', al cuore convogliato, è certo, con lo 'sguardo'), si oggettivano, diventano armi vere, veri personaggi, vengono piegati in qualcosa di tragico come motivi portanti di testi che è doveroso indagare, perchè sovvertitori di un'intera tradizione. I presenti appunti propongono un limitatissimo excursus tematico-lessicale delle occorrenze legate all'immagine della 'freccia' inaspettatamente lanciata dall'arco di Amore, concentrandosi in particolare sul trapasso concettuale cui detta immagine si lega tra la Scuola siciliana e le esperienze di Guinizzelli e Cavalcanti (con qualche sondaggio più tardo). Vasta, s'intende, e qui inesplorata rimane la zona d'ombra compendiata nella produzione dei cosiddetti 'minori '; minori per modo di dire, ché nelle fortune -o sfortune- dei topoi letterari irrinunciabile ci sembra la verifica capillare sugli epigoni, solo anche per studiare come certi luoghi fossero reperiti, assimilati, piegati alla costituzione di un canone. (Come s'è detto, il carattere di 'appunti' di cui questa ricerca è costituitaci impedisce un più ampio respiro.) 2. A sfogliare come utile strumento coadiuvante il Repertorio tematico della Scuola poetica siciliana (a cura di Walter Pagani, Bari, Adriatica, 1968), c'è da rimanere interdetti, notando la quasi assenza del motivo ricercato. E non solo da un punto di vista linguistico. Nei primissimi esempi di lirica italiana -vero (e forzato) patterndi confronto per i rimatori successivi-, se presente è spesso la 'ferita' causata da Amore (cioè l'effetto che Amore ha sul cuore d'amante), scompare il mezzo meccanico, il tramite oggettivato del travaglio, l'incarnazione di Amore stesso: la freccia. L'esperienza dell 'innamoramento rimane primariamente astratta, intellettuale, teorica, interamente comunicata per verbis senza il ricorso a immagini iconografiche o a una cifra stilistica elcfrastica. Non ci sono dunque 'correlativi' oggettivi 'eliotiani' a suggerire l'introspezione, la restituizione al lettore del sentimento nel dato concreto. E tantomeno segnali linguistici fissi che la cristallizzano in formula. (L'espressione dell'emozione, così come ci ha insegnato il poeta novecentesco, può incarnarsi in una catena d'oggetti, una serie di eventi, attraverso la cui evocazione scatta il meccanismo di riconoscimento di un sentimento sperimentato.) In terra siciliana, secondo una varia fenomenologia tutta sperimentata nella sua discendenza occitanica, la pena d'amore può legarsi alla lontananza generica della donna, doloroso amor de lonh, o al vicino negarsi di questa; corrisponde all'esperienza degli "sguardi amorosi" divenuti subito "sguardi micidiali" che uccidono (come in Rinaldo d'Aquino, Amorosa donna fina, vv.3136: "per li sguardi amorosi/ che, savete, sono ascosi/ quando mi tenete mente; / che li sguardi micidiali/ voi facete tanti e tali/ che ucidete la gente"), ma a questo travaglio manca un adeguato risvolto lemmatico. Lo scocco degli sguardi, l'abbaglio, il fulmine mentale 'procedens ex visione' che, tutti assieme, immancabilmente costituiscono la base dell'innamoramento, poco si trasformano in 'dardi', ché manca in primis un gusto dell'immagine fisica, o propriamente fisiologica, del tormento d'Amore, come sarà codificato più avanti nel secolo. Tale fatto può sorprendere. Nel tripudio enciclopedico dei bestiari, con i draghi, i basilischi, i pavoni e le salamandre scientificamente usate come imagines aJ1'loris, per il tonnento curiosamente quasi s'assenta l'immagine guerresca, il motivo della lacerazione, dello spargimento di sangue, del blocco delle facoltà vitali. Nella compiuta 'metamorfosi' dell'interiorità causata da Amore si rinnega, -sacrificato sul versante astratto, psicologico,- lo strumento tradizionale, l'arma. Invero la fenomenologia dell'innamoramento è ovidianamente codificata nei suoi effetti, pr~)Venienti proprio dalla puntura di Cupido, alato arciere. Si veda subito la fonte letteraria pnmana: Esse quidem laesi poterat tibi pectoris index et coor et macies et vultus et umida saepe lumina nec causa suspiria mota patenti et crebri amplexus, et quae, si forte notasti, oscula sentiri non esse soriora possent. Ipsa tamen, quamvis animo grave vulnus habebam, quamvis intus erat furor igneus, omnia feci (sunt mihi di testes), ut tandem sanior essem, pugnavitque diu violenta Cupidinis arma effungere infelix... (Metam. IX 535-544) I segni (index) che saranno utilizzati dai poeti lirici sono già tutti, in un dispiegamento polisindetico da vera shopping list pronta al futuro saccheggio: "color", "macies", "vultus", "umida.. .lumina", "suspiria". Facce pallide e contratte, occhi translucidi, sospiri. Il "grave vulnus", la 'ferita insopportabile' del cuore lacerato ("laesi... pectoris index") causata dentro (intus) da una passione di fuoco (furor igneus) ha per origine esplicita le "violenta Cupidinis anna", le sole, uniche armi che superano gli dei e che causano insane passioni. Nella codificazione linguistica italiana, singolannente, sembra andare persa l'origine della ferita, pur essendo questa un'immagine di forte valenza. Nella ricerca delle occorrenze sul territorio della Scuola fa capolino Giacomino Pugliese con Donnaper vostro amore, in cui lo strumento della tortura passionale si dà per accenno: "La feruta non muta de' sguardi;/ ancora gli mi mandate tardi,! passano balestri turchi e sardi;/ sì m'hanno feruto i vostri sguardi" (vv. 74-77). Di contro, la guerra di "occhi feri - guerreri" (Anonimo, XLIV, 3, v.44) rimane embrionalmente ancorata al risultato di 'pene' e 'tormento' ("n'pene - li tene/ e metteli in tormento", Id., v.52-53). Altrimenti si possono mettere in fila solo pochi altri esempi. I primi provengono da anonimi, di cui diamo qualche distillato: "Ed io [... ]/ sono feruto d'uno dardo intero:/ ciò è 'l vostro guardare,! che sì amorosamente/ mi dimostraste, c'ora m'è guerriero" (XLIV, 52, vv.31-36); "Co gli occhi, amor, dolce saette m'archi/ che m'an passat'al cor; fitte le porto,! sì che non le schiaverebben tutt'i marchi/ che 'n terra son, tal gioia m'ano porto" (XLIV, 107, vv.l-4); e infine un componimento famoso, "Uno piasente sguardo/ coralemente m'a feruto,! und'eo d'amore sentomi infiammato;/ ed è stato uno dardo/ pungente, sì forte, aguto,! che mi passao lo core e m'a'ntamato;/ or sono in tali mene/ che dico: 'oi lasso mene, -com faragio,! se da voi, donna mia, aiuto non agio?' " (XLIV, 12, vv.1-9). Solo in quest'ultimo caso si ha la codificazione delle rime sguardo-dardo, cui si dovrà aggiungere, in seguito, l'ardere. Nel Notaro tale vocabolario è presente già tutto, sebbene manchi il salto estremo, il trinomio in posizione di rima di 'sguardo'-'dardo'-'ardo', come si evince da Meravigliosamente, dove, ai vv.28-39, la metafora dell'ardere per il fuoco d'amore, causato com'è ovvio dalla vista della donna, non confluisce in istantanee di strumenti, ma rimane sul versante astratto del 'dolore': "al cor m'arde una doglia,! com'om che ten lo foco/ a lo suo seno ascoso,! e quando più lo 'nvoglia,!allora arde più loco / e non pò stare incluso:/ similcmente eo ardo/ quando pass'e non guardo/ a voi, vis'amoroso./S'eo guardo, quando passo,! inver'voi, no mi gito,! bella, per isguardare" . Con Pietro Morovelli si ha al contrario una prima precisa incarnazione, una fenomenologia lapidmia ma più precisa, tallite e non solo visiva. Gli sguardi-dardi producono non più un generico sentimento interiore, psicologico-mentale, bensì sensazioni epidermiche: "Però si guardi,! e non più tardi,! da dolzi sguardi: ben sente dardi,! caldo e freddura" (XXVII, 1, vV.7276). In fine, da tenere a mente, il fatto che l'effetto predominante del dardo scagliato non sia una ferita che distrugge l'individuo; il suo esito rimane senz'altro positivo: le saette più che guerra conducono la gioia (come sopra, "tal gioia m'ano porto", XLIV, 107). Una compiuta codificazione della ferita d'amore, qui con l'apparato lemmatico che diventerà vulgato (ma non ancora posto in posizione-rima, vera prova del nove della rilevanza stilisticostrutturale del motivo), si ha nel sonetto Sì come il sol di Giacomo da Lentini: Sì come il sol, che manda la sua spera e passa il vetro e no lo parte, e l'altro vetro che le donne spera, che passa gli occhi e va da l'altra parte, così l'Amore fere là ove spera e mandavi lo dardo da sua parte; fere in talloco che l'orno non spera, e passa gli occhi e lo core diparte. Lo dardo de l'Amore, là ove giunge, da poi che dà feruta, sì s'aprende di foco, c'arde dentro e fuor non pare; e li due cori insemola li giunge de l'arte de l'amore sì gli aprende e face l'uno e l'altro d'amor pare. Le rime equivoche in -parte riassumono l'esperienza dell'innamoramento. L'occhio (lo sguardo) raccoglie il dardo d'Amore, ne è trafitto; al contrario del vetro che non viene infranto dal raggio di sole, il raggio dell'amore scinde la persona dell'amante e ne fa 'dipartire' -separare- il cuore. L'effetto non è però negativo. La separazione è solo apparente, è una riunificazione. 11 cuore si allontana a raggiungere madonna. Il dardo d'amore riesce dunque a fondere due cuori, è una cucitrice che non spezza né taglia né divide, ma unifica. Il cuore se ne va dal corpo d'amante a causa della freccia d'amore: si allontana per riunirsi al cuore dell'amata, e la riconciliazione lisana pienamente la ferita. Vi sono svariati esempi di questo allontanamento positivo, non traumatico: la scissione è anzi desiderata, perché può lenire la distanza dalla donna ("poi che' l corpo dimori in altro lato/ lo cor con voi sogiorna tuttavia", Anonimo, XLIV, 8, vv.31-32; o "Luntan vi son, ma presso v'è lo core/ con gran merzede tuttora cherendo/ che non vi grevi lunga dimoranza", e, principalmente, "'l core/ che da voi non si muta,! anzi vi pur dimura;/ e ben gli pare durai di far la dipartuta"). Con Mazzeo di Ricco si può invocare addirittura il concorde scambio dei cuori tra amante e amata, determinato dal tormento che essi provano per la distanza delle persone fisiche dei due amanti. Ma qui non ci sono armi a svellere gli organi del senso, per calmare o infuocare. Esempio principe degli effetti contraddittOll d'Amore è il sonetto lentiniano A l'aire clara, in cui s'afferma: "Ed ho vista d'Amor cosa più forte:/ ch'era feruto, e sanòmi ferendo;/ lo foeo donde ardea stutò con foco" (vv.9-11). La ferita dell'innamoramento è stata guarita con la nuova ferita della corrispondenza, perchè amore ha colpito a sua volta la donna. Il cuore appartiene dunque alla donna, una volta colpito dalla freccia; il cuore che si è staccato dall'uomo, ma per una superiore riconciliazione: il dolore del distacco produce una ricompensa maggiore. Si veda anche S'io doglio no è meraviglia, dove questa situazione è sviluppata: "Lo meo eore eo l'aio lassato/ a la dolze donna mia;/ dogliomi ch'eo so allungiato/ da sì dolze compagnia./Co la madonna sta lo core,/ che de lo meo petto è fore/e dimora in sua balìa" (vv.15-21). 3. Il motivo dell'arco e delle frecce d'amore trova stabilità con l'abate di Tivoli, il quale nella tenzone con da Lentini, nel sonetto Oi dea d'amore, riprende l'immagine codificata da Ovidio: "[... ] ma tu m'hai feruto/ de lo dardo de l'auro, ond'ò gran male,/ ché per lo mezzo lo core m'hai partuto:/ di quello de lo piombo fa altrettale/ a quella per cui questo m'avenuto" (vv.1O-14). E' tra i primi componimenti che non richiedono immagini naturali per commento: se si pensa al sonetto Si corne il sol, il dardo era paragonato al raggio di sole, mentre qui ci si richiama all'ascendenza classica, l'auctoritas delle !vletamorfosi. Ancora dal libro delle trasformazioni amorose: Primus Amor Phoebi Daphne Peneia, quem non fors ignara dedit, sed saeva Cllpidinis ira. Delius hunc nuper, victa serpente superbus, viderat adducto flectentem comua nervo "quid" que "tibi , lascive puer, cumfortibus armis?" dixerat: "ista decent umeros gestamina nostros, qui dare certa ferae, dare vulnera possumus hosti, qui modo pestifero tot iugera ventre prementem stravimus innumeris tumidum Pytona sagittis. Tu face nescio quos esto contentus amorea inritare tua, nec laudes adsere nostras! " Filius huic Veneris "figat tuus omnia, Phoebe, te meus arcus" ait; "quantoque animaliacedunt cuncta dea, tanto minor est tua gloria nostra". Dixit et eliso percussis aere pennis inpiger umbrosa Parnasi constit arce eque sagitt~reraprompsit duo tela pharetra diversorum operum:fugat hoc, facit illud amarem; quod facit, auratum est et cuspide flliget acuta, quod fugat, obtusum est et habet sllb harundine plumbllm (Metam. I 452-471). Esistono dunque due saette a disposizione di Amore, duo tela ... diversorum operum: e le opere diverse pertengono ai loro effetti; una che fa innamorare, l'altra che causa l'isterilimento d'amore. Immagini, queste, che nella marcia d'avvicinamento dalla terra siciliana alla toscana troveremo nel Fiore, moltiplicate fino a cinque (nel sonetto I, 9-14: "la prima [saetta] ha nom' Bieltà: per li occhi il core/ mi passò; la seconda, Angelicanza:/ quella mi mise sopra gran pudore;/ la terza Cortesia fu, san' dottanza;/ la quarta, Compagnia, che fe' dolore; / la quinta apella l'uom Buona Speranza"). E che alfine troveremo in Guido Cavalcanti. I poeti a lui di poco precedenti o contemporanei come Chiaro, Guittone e compagnia s'astengono infatti dall'usare l'immagine. Che comparirà estensivamente in un sonetto cavalcantiano di dibattuta interpretazione, in cui Amore ha stavolta tre frecce!: o tu che porti nelli occhi sovente Amor tenendo tre sae11e in mano, questo mio spirto che vien di lontano ti raccomanda l'alma dolente, la quale ha già feruta nella mente di due saette l'arciere soriano; a la terza apre l'arco, ma sì piano che non m'aggiunge essendoti presente: perché sarìa dell'alma la salute, che quasi giace infra le membra, morta di due saette che fa tre ferute: la prima da piacere e disconforta, e la seconda disia la vertute della gran gioia che la terza porta. 4. Il dardo cavalcantiano s'impone con una forza nuova: la freccia ricevuta non conduce il poeta ad una analisi in telmini puramente psicologici, impressionistici, del soggetto d'amore, ma punta dritta alla cosità, o reificazione, dell'esperienza sensibile: il sentimento del personaggio si fa oggetto, materia, detrito. Il dardo distrugge in un sol colpo l'unità sensibile del soggetto-amante, il suo involucro fenomenico: il colpo invariabilmente scinde la persona nelle sue componenti, le ritaglia in 'anima', in 'cuore', in 'figura', lascia fuggire via 'spiriti' che si personificano, che acquistano cioè peso e tangibilità. Il risultato possiede un preciso effetto visi vo, teatrale per le sue personificazioni, che va oltre l'effetto d'adesione sentimentale alla materia narrata. L'unità vitale del soggetto si disintegra per forza d'amore, un amore che infallibilmente fa rima con morte (Li mie' foll'occhi: "... ciascun si doleva d'Amor forte. I Quando mi vider, tutti con pietanza I dissermi: 'Fatto se' di tal servente,! che mai non déi sperar altro che nwrte' ", vv.11-14; oppure, "L'anima mia vilmente è sbigotita/ de la battaglia ch'e l'ave dal core:Iche s'ella sente pur un poco Amorel più presso a lui che non sòle, ella nwre", vv.1-4. E ancora: "Veder poteste, quando v'iscontrai,1 quel pauroso spirito d'amorel lo qual sol aparir quand'uom si nwre,! e'n altra guisa non si vede mai", vv.l-4). E questa è una rappresentazione completamente nuova nella lirica italiana, una vera primizia, ché alla spersonalizzazione dell'esperienza amorosa (si noti come il dardo non venga lanciato più al poeta stesso, ma al 'concetto' di figura umana che fa esperienza del sensibile, universalizzandosi) si aggiunge una concretizzazione delle cause, fino a una frantumazione e dispersione della soggettività. Questo processo è stato studiato (e spiegato) attentamente da Rinaldina Russel1: "[In Cavalcanti] Ogni movimento della psiche è spiegato in relazione ai movimenti dell'anima sensitiva, la cui sede si supponeva nel cuore e dalla quale si credeva venissero trasmessi e Iicevuti gli impulsi dalle membra del corpo e dagli organi di senso. Tale contatto tra Per l'interpretazione della simbologia delle tre frecce, che qui va al di là della traddio raffigurativa -si cfr. Guiraut de Calanso, che aggiunge all'oro e al piombo una freccia d'acciaio (S.Santangelo, Le tenzoni poetiche nella letteratura italiana delle Origini, Geneve, Olschki, 1928, p.96)- si rinvia all'edizione commentata delle R i In e, curata da Domenico De Robertis, pp.66-68 (e in particolare la nota 11). 1 l'anima e il mondo esterno era mantenuto da un numero indefinito di spiriti animali. In questo modo gli spiriti della vita dagli occhi dell'innamorato an-ivano al cuore e da lì imprimono, nell'immaginazione di lui, l'immagine della donna, e nell'anima sensitiva svegliano il desiderio amoroso. Questa implicazione scientifica, se comporta un processo d'astrazione e di spersonalizzazione del fenomeno amoroso, non è antitetica al processo rappresentativo ed espressivo della poesia. Nello stesso momento in cui lo stato d'animo dell'amante e i movimenti della sua psiche vengono definiti secondo nozioni scientifiche precise, essi subiscono per ciò stesso un processo di concretizzazione rappresentativa. !...} Sensazioni, emozioni, lllnori, condizioni fisiche, psichiche e mentali diventano personaggi che vivono in rapporto alla mente e al cuore e si aggiungono ai protagonisti del duello anwroso, 'amante' e 'madonna' " (Russell 1973: 125, corsivo nostro). Le aree semantiche prevalenti del discorso cavalcantiano, 'angoscia', 'distruzione', 'dolore', sono raccolte intorno al "dissolvimento spirituale" (Russell 1973: 129). Questa lacerazione devastante è vista quasi naturalmente come una battaglia, per cui da ciò derivano le immagini sature di saette e dardi, di guerre, colpi e ferite ricevute che in fondo già avevamo intravisto all'opera, timidamente sperimentate, in alcuni poeti precedenti. (A questo proposito censisce ancora bene la sUldiosa:"Al tri verbi attuano l'immagine dell'amore come battaglia: ferire (IX, 12, 23; XX, 5; XXVIII, 1; XXIX, 13; XXX, 14; XXXI, 4), saettare (XXI,lO), uccidere (XXI ,8; XXII, 6; XXXIV, 11), distruggere (VII, 11; XIII,4; XXXIV,6); tagliare (XIII, 5), gettare (XIII,9), ancidersi (XIX, 5), morire (VII,4; XIII, 14; XIX,6; XX,lO; XXX,l1 nel senso di uccidere)" (Russell 1973: 132). Ma se tali immagini sono lessicalmente 'tradizionali' (hanno cioè degli antecedenti), gli effetti concettuali sono di un ordine diverso, scardinano la pacifica ideologia che poteva desumersi dai poeti precedenti. In queste immagini si fa esperienza dell'averrosimo cavalcantiano, del pessimismo, dell'impossibilità della parola a raccontare un'esperienza trascendente, armonica, come quella della scuola stilnovistica: amore è esperienza solo sensibile, passione, problema, lotta, guerra, appunto. L'amore di Guido è dunque "come appetito dei sensi da scrivere all'anima sensiti va, che è rigorosamente separata dall'intelletto possibile, secondo l'interpretazione averroistica del De anima aristotelico: l'amore è dunque messaggero di morte perchè impedisce il corretto uso della ragione che è nell'uomo principio di vita" (Russell 1973: 127). Inoltre, "la tenninologia immaginifico-filosofica è rigorosamente coerente con la concettualizzazione degli stati d'animo: il che conferisce plausibilità al discorso rappresentativo ed esplicativo del turbamento provocato dall'incontro con la donna. Le similitudini naturali che in Guinizzelli e nei Siciliani allargavano la scena dell'innamoramento fino ai confini della natura sono quasi del tutto scomparse" (Russell 1973: 126). Ma se si è nel giusto quando si rileva come l'innamoramento, in Cavalcanti, venga descritto con immagini lessicalmente tradizionali del colpo ricevuto o della ferita (Russell 130), si opta per una operazione riduttiva non osservando come gli 'effetti' di tale colpo e ferita vadano ben al di là della tradizione codifcata fino allora, che non prevedeva alcuna spersonalizzazione del soggetto, ma solo un paragone appunto descritivo, mutuato dalla tradizione classica greco-latina. La novità è che secondo la tradizione classica, amore è elemento unificatore: un Cupido che ha arco e frecce, sì pungola, sì colpisce, ma spinge all'unione; in Cavalcanti esso sollecita invece la disintegrazione; è per principio una forza non attrattiva, ma entropica, non spinge gli elementi a combinarsi (come all'origine del mondo Eros spinse i vari elementi tratti fuori dal caos a unificarsi). Esso diviene principio negativo. Non pacificazione trovata in altri enti, in sublimazioni salvifiche, in qualcuno "cui" Guido esprimerà certo "disdegno", per dirla con la voce di un poema sacro che non avrebbe potuto certo essere concepito da lui stesso. 5. A rebours, tuttavia, un bell'esempio degli effetti distruggi tori d'amore, non ancora riconciliati, e con il corredo di lemmi poi ipersmisuratamente codificato dal Calvacanti e dai suoi epigoni, è in Guinizzelli, nei sonetti Lo vostro bel saluto e Dolente lasso, già non m'asecuro, i quali fanno sfoggio dell'immagine del "trono"/"dardo" e del "bolzone", della balestra cioè dai micidiali colpi. Lo vostro bel saluto e 'l gentil sguardo che fate quando v'encontro, m'ancide: Amor m'assale e già non ha reguardo s'elli face peccato over merzede, ché per mezzo lo cor me lanciò un dardo clzed oltre 'n parte lo tagUae divide; parlar non posso, ché 'n pene io ardo sì come quelli che sua morte vede. Per li occhi passa come fa lo trono, che fer' per la finestra de la torre e ciò che dentro trova spezza e fende: remagno come statuad'ottono, ove vita né spirto non ricorre, se non che la figura d'orno rende. Dolente, lasso, già non m'asecuro, ché tu m'assali, Amore, e mi combatti: diritto al tuo rincontro in piè non duro, ché mantenente a terra mi dibatti, come lo trono che fere lo muro e 'l vento li arbor' per li forti tratti. Dice lo core agli occhi: "per voi moro", e li occhi dice al cor: "Tu n'hai desfatti". Apparve luce, che rendé splendore, che passao per li occhi e 'l cor ferìo, ond'io ne sono a tal condizione: ciò Curo li belli occhi pien' d'amore, che me [eriro al cor d'uno disio come si fere augello di bolzone. L'armamentario lessicale (e di rima: sguardo-dardo-ardo) di cui si gioverà il più giovane Guido è già tutto qui, come il primo 'spostamento' significativo d'immagine dalla tradizione. L'uccisione e la morte, provenienti dallo sguardo (e siamo ancora nella tradizione); il dardo (ovidiano e lentiniano o dell'Abate da Tivoli), si ripercuotono sull'interiorità del soggetto creando stavolta una scissione ardita. Amore, che saetta fulmini attraverso il cuore causa al poeta uno sdoppiamento, e il poeta vede, più che sente, la morte propria. Il vedere presuppone uno spettatore; e qui gli spettatori sono le membra stesse del poeta, che si traggono quasi fuori dal corpo, che dialogano anzi col corpo divenendo i personaggi principali del dramma. Gli occhi attraversati da Amore che protestano col cuore; il cuore trafitto che protesta con gli occhi: sapida anticipazione, questa, del teatrino delle personificazioni cavalcantiane2 . In Guinizzel1i, tuttavia, con la sola eccezione dei due sonetti precedenti, il dardo d'amore, seppure devastante, non pone in discussione il piacere provato per madonna, e la conciliazione tra 'ferita' subita e 'ricompensa' finale ottenuta. Si 2 Di contro ad un'immagine che è ancora naturalistica, quindi tradizionale (per gli effetti d'Amore il paragone è col 'trono' che abbatte il muro o entra dalla finestra della torre attenando quello che trova sul suo cammino), i moduli della rappresentazione sono tirati su esiti semi-espressionisti: '" n pene io ardo /sì come quelli che sua morte vede" (sdoppiamento del soggetto); o, ad esempio, come ricordato sopra, "Dice lo core agli occhi: "per voi moro e li occhi dice al cor: "Tu n'hai desfatti"(con efficace scambio a chiasmo). Anche nel cavalcantiano Perch 'non fuoro a me gli occhi dispenti, la Morte che porta in mano il cuore tagliato, straziato, dell'amante, è vista, più che sperimentata o raccontata secondo effetti personali: la psicologia drammaticamente afflitta del soggetto-sperimentatore è restituita quasi attraverso un antico 'conelativo oggettivo'. Una catena di eventi, una selie di oggetti, una serie di dramatis personae quasi fisse, ed ecco che l'evocazione di un dramma interiore prende piede. Come la saetta è evocata, in Cavalcanti, subito il contenuto tragico, a essa associato, è evocato al contempo. Perché non fuoro a me gli occhi dispenti o tolti, sì de la lor veduta non fosse nella mente mia venuta a dir: "Ascolta se nel cor mi senti?" Ch'una paura di novi tormenti m'aparve allor, sì cmdele e aguta, che l'anima chiamò: "Donna, or ci aiuta, che gli occhi ed i' non rimagnan dolenti! Tu gli ha' lasciati sì, che venne Amore a pianger sovra lor pietosamente, tanto che s'ode una profonda voce veda a mo' di esemplificazione Madonna il fino amor, in cui alla descrizione dell'impatto distruggitore della saetta amorosa, che piaga il cuore, fa subito eco, nonostante tutto, una pacificazione, un perdono; e al servizio obbligato d'Amore non fa seguito una represione, ma l'affermazione di piacere ottenuto. Di sì forte valor lo colpo venne che gli occhi no'l ritenner di neente, ma passò dentr'al cor, che lo sostenne e sentèsi plagato duramente; e poi li rendè pace [...] Amor m'ha dato a madonna servire: o vogli'i' o non voglia, così este; né saccio certo ben ragion vedere sì como sia caduto a 'ste tempeste: da lei non ho sembiante ed ella non mi fa vist'amorosa, per ch'eo devegn'amante se non per dritta forza di valore, che la rende gioiosa; onde mi piace morir per su' amore. la quale dice:- Chi gran pena sente guardi costui, e vederà 'l su' core che Morte 'l porta 'n man tagliato in croce-" . Voi che per gli occhi mi passaste 'l core e destaste la mente che dormìa, guardate all'angosciosa vita mia, che sospirando la distrugge Amore. E ven tagliando di sì gran valore, che deboletti spiriti van via: riman figura sol en segnorìa e voce alquanta, che parla dolore. Questa vertù d'amor che m'ha disfatto da' vostr'occhi gentil' presta si mosse: lUI dardo mi gittò dentro dal fianco. Sì giunse ritto 'l colpo al primo tratto, che l'anima tremando si riscosse veggendo morto 'l cor nel lato manco. La visività è qui una componente irrinunciabile. Da Cavalcanti anche l'accenno guinizzelliano del rimanere come una statua d'ottone, dunque privo di vita, è ripreso in Voi che per li occhi, col verso "rimane sol figura en signoria": la figura umana, a tu-per-tu con Amore, rimane svuotata, si presenta come una entità scissa, privata dell'anima e degli spiriti che la compongono . Un'immagine che ricorre anche in Tu m'hai sì piena di dolor la mente : ''l'vo come colui ch 'è fuor di vita,/che pare, a chi lo sguarda, ch 'omo sia /fatto di rame o di pietra o di legno, Iche si conduca sol per maestria! e porti ne lo core una ferita! che sia, com'egli è morto, aperto segno" (vv.9-14). 6. Del resto, anche in un sonetto vicino alla tradizione guinizzelliana come Chi è questa che vèn in cui sono svolti i motivi tipici della 'loda' e del passaggio della donna (si confronti a proposito, dell'altro Guido, lo voglio del ver)- il segno di riconoscimento cavalcantiano rimane quello della negazione, elevata a figura retorica, di ogni possibilità di trascendenza conoscitiva, e della negatività dell'esperienza sensibile stessa, insufficiente sempre a descrivere la realtà. L'effetto che la presenza della donna produce nell'ambiente possiede in primo luogo una connotazione fisico-psicologica, non morale: il "far tremar di chiaritate l'are" (v.2), testimonianza di splendore, è signum di una potenza in atto che trascende la natura, che agisce anzi su di essa ma non come elemento religiosamente salvifico. Ladonnaèl' 'altro', l' 'autre'. "Non si poria contar la sua piagenza" (v.9), "Non fu sì alta già la mente nostral e non si pose 'n noi tanta salute I che propiamente n'avian canoscenza" (vv.12-14): restituita concettualmente dalla serie triplice delle negazioni, la donna è soggetto che sfugge alla conoscenza, è un 'oggetto' di speculazione inavvicinabile di per sè, più che per sue qualità intrisecamente miracolose. Anche in un componimento del primo Guido come Fresca rosa novella (in cui l'amore non è ancora una passione lacerante), vi è un punto gravido di implicazioni future, qui richiamato: la donna-dea ("Fra lor le donne deal vi chiaman, come sete", vv.28-29) è "tanto adorna", 'appare' anzi così adorna che tale esperienza non può essere riportata per verba: "... eo non saccio contare" ...(v.30). In fondo, si continua, "...chi poria pensare -oltranatura?" (v.31). Il "Non fu sì già alta la mente nostra" prende loco da questi versi, e sarà senz'altro riecheggiato, in una lettura polemica (e/o tendenziosa) da Dante nel X dell'Inferno, quando quest'impossibilità dell'intelletto, così come Cavalcanti affermava, si rovescia invece, nelle parole del Dante-auctor, in presunzione, in peccato religioso, in orgogliosa negazione della trascendenza e della comunicabilità dell'esperienza trascendente all'uomo. L' "altezza d'ingegno" menzionata da Cavalcante che cerca suo figlio è un idolo polemico nelle mani di Dante, perchè risulta ben chiaro, in Chi è questa che vien, come per Guido simile altezza non sarebbe comunque sufficiente ad avvicinare l'uomo agli elementi della sfera del sovrasensibile: in Guido ogni esperienza mistica è esclusa, e per opere e per verba: l'uomo -l'intelletto umano- ha precisi confini. Ma peccato dell'intelletto, insiste Dante, è anche affermare l'impossibilità del perfezionamento, del rinnovamento interiore attraverso la donna; in quanto essa è imago-Dei, è figura teologica. Se è vero, come è vero per la scienza medievale, che "Amor est passio, quaedam innata procedens ex visione [...] formae alterius sexus", in Dante il desiderio (passio, ergo, 'disio') della donna "fa nsvegliare lo spirito d'Amore" (Vita nuova, XX, 3-5), senza lacerazioni, senza uccisioni o fulminee morti.La poesia dovrà teologicamente essere poesia di lode, davvero un 'traier cansoni per forsa di scrittura', ché il verbo umano ha il compito di rivelare il Verbo (l'Amore universale) fatto carne nella Donna. Al contrario, in Cavalcanti, attraverso la lode della donna si delinea una concezione dell'uomo definito sulla base di ciò che non può fare e non sa fare. La teologia negativa di Guido prevede amore solo come "accidente" 'feroce e altero' (Donna me prega), impedimento della ragione: l'amore come solo appetito dei sensi che non può innalzarsi oltre l'orizzonte delle passioni, materialità. La donna è l' "aperto segno" di una "ferita" (Tu m'hai sì piena di dolor la mente), di una inadeguatezza umana incolmabile. La donna cavalcantiana non può essere una "cosa venuta! da cielo in terra a miracol mostrare"; essa non porta con sè beatitudine, non è una beatrice, insomma, una "che dà per li occhi una dolcezza al core". E' invece la testimone -questo sì- di un dissidio. Una novità esiste comunque, in questo insistere sui segni: i fenomeni per Cavalcanti non corrispondono più, simpateticamente, ad un contenuto noumenico. Se le apparenze sensibili sono manifestazioni da interpretare, esse hanno come cifra non la corrispondenza pacifica tra contenente e contenuto (la donna "umile,! saggia e adorna e accorta e sottile/ e fatta a modo di soavitate!" come specchio di tali virtù), bensì il loro rovesciamento, un'ambiguità costitutiva: in S'io prego questa donna che Pietate, da cui è tratto il precedente esempio, come può la donna, che 'pare' cioè, etimologicamente: appare, si manifesta- 'gentile' e 'onesta' (per parafrasare Dante), essere al contempo campionessa di "nova [inusitata] crudeltate"? Il quesito è interessante, perchè 'kantianamente' abbandona ogni possibilita di riscatto trascendente che si potrebbe avere dalla visione idealizzata della donna (compiut:'1 dalla mente, da un intelletto cioè che costruisce astrazioni smentite dal cuore, dalla parte sensibile dell'uomo: s'inserisce quindi un elemento discordante, schizofrenico). Anche qui, dunque, la faretra d'Amore, il dardo lanciato a priori (rappresentante Amore stesso), spezza, scinde, taglia e divide la coscienza dell'uomo, è il segno di un dimidiamento umano costituitivo: facoltà intellettuali e facoltà sensibili stanno su due piani contrapposti, inconciliabili, e si manifestano stilisticamente in una proliferazione di enti, di entità minime che testimoniano della dissociazione. Ecco la processione di cuori, di menti, di sospiri o comunque di personificazioni, di dramatispersonae che stanno lì a indicare la plurivocità dell'esperienza umana, l'irriducibilità a un unico ordine, la mancata li conciliazione tramite l'apparizione di una presenza salvifica, vero deusex-machina consolatore. Non si hanno sacrifici, espiazioni, figurae Christi, nella poesia cavalcantiana: non ci sono trasfigurazioni indotte dalla morte della donna (si rammenti solo, a paradigmatico esempio e contrario, Donna pietosa e di novella etade, dove l'intero universo solidale si turba per la morte di Beatrice, ripetendo l'esperienza della morte di Cristo). Una morte che non è mai elemento conciliatore (mai, cioè, come in Dante, "cosa gentile"); e non può che essere così: essa incarna una sconfitta, un dolore indotto da Amore, "arcier presto soriano", entità "acconcia sol per uccidere altrui" (vv.7-8 di O donna mia non vedestù colui). La novità cavalcantiana non è quindi solo ideologica, ma profondamente stilistica: i sintagmi associati all'Amore sono necessariamente cose appuntite, dardi, saette, lance, perchè solo tramite il loro colpo può compiersi la scena di un'uccisione, la rappresentazione di un dimidiamento, l'esperienza visuale dello schianto nullificatore. L'astrazione dei siciliani, di quei pochi che abbiamo trovato alle prese con questo motivo, tutto confinato nell'eterea sfera dello sguardo micidiale, si è volta in oggettivazione pura, forse anche convenzionale, ma non convenzionale quanto a effetti: effetti che necessitano del dispiegamento militare, entropico, delle saette. Dal Guinizzelli, in cui il trono, immagine naturale, colpisce la torre, come lo sguardo uccisore, si passa alla dissociazione del soggetto conoscente operata tramite l'elemento che, come osservavamo, dovrebbe tradizionalmente unificare, fungere da spinta unificatrice (il cuore che, sradicato, s'allontana verso l'amata per ricongiungersi a essa): e così l'immagine vemva vissuta dalla tradizione. Amore, in conclusione, per Cavalcanti, non permette requie, nè la possibilità d'indugiare in sogni o in 'incantamenti': e all'invito struggente da parte di Dante di un rapimento 'distensivo' sul vascello di Merlino, con Lippo (o Lapo), circondati da una buona compagnia di donne graziosamente messe loro a disposizione dal "buono incantatore, Guido replica amaro. S'io fosse quelli che d'Amor fu degno, del qual non trovo sol che rimembranza, e la donna tenesse altra sembianza, assai mi piaceria siffatto legno. E tu, che se' de l'amoroso regno là onde di merzè nasce speranza, riguarda se 'l mi' spirito ha pesanza: ch 'un prest'arcier di lui Iwfatto segno e tragge l'arco, che li tese Amore, sì lietamente, che la sua persona par che di gioco porti signoria. Or odi maraviglia ch 'el disia: lo spirito fedito li perdona, vedendo che li strugge il suo valore. 7. Solo un'appendice. Da questo punto in poi, il codice avviato, con il suo contorno di lemmi, sarà utilizzato come mero serbatoio dai rimatori contemporanei o di poco posteriori, indice di un successo 'd'immagine' che ne snatura però le coordinate essenziali, divenendo 'maniera'. Gli epigoni cavalcantiani si approprieranno cioè di un linguaggio svuotandolo del suo contenuto ideologico. Lapo, Cino, Dino, col contorno di anonimi si metteranno all'opera sui frammenti stilistici del poeta, sugli ossi di seppia di una tradizione che loro rivolgono, di nuovo, sulla rotta di una lode o di un servizio. Frecce e saette diventano esercizi, virtuosismi, gli stilemi un repertorio di situazioni combinate con una nuova veste. La metafora del dardeggiamento e del ferimento amoroso, ad esempio, è vissuta nello smilzo canzoniere di Frescobaldi all'ennesima potenza. Schemi figurativi, tematiche, lessico: tutto proviene da una frequentazione assidua delle pagine di Cavalcanti, qui iperbolizzate quanto a contenuto. Le immagini si fanno più violente, più diretto il contenuto negativo, rispetto al vocabolario misurato e essenziale della poesia 'matrice', del 'padre suo'. In Frescobaldi il descrittivismo usato dal Cavalcanti come essenziale elemento della sua ideologia, della tensione conoscitiva, diventa descrittivismo analitico, artificiale, in cui la parola ha un peso, da sola, non comune. Con Cino si arriva all'estrema arte della 'ripresa' letterale, almeno in due componimenti che riechieggiano,l'uno, un vicinissimo Guinizzelli; l'altro, tutti i luoghi comuni che hanno al centro la ferita. Amor è uno spirito ch'ancide, che nasce di piacere e ven per sguardo, e fere'l cor sì come face un dardo, che l'altre membra distrugge e conquide; da le qua' vita e valor divide non avendo di pietà riguardo, sì com' mi dice la mente ov'io ardo e l'anima smarrìta che lo vide... (XXXVI I, vv. 1-8). Le parole-rima sono tutte -o quasi- in Guinizzelli, Lo vostro bel saluto: sguardo-m'ancidereguardo (vv.1-3), e dardo-divide-ardo-vede (vv.5-8). Per tacere delle immagini (o delle suggestioni che vanno oltre Guinizzelli e toccano Dante). Or sento si rinfresca e si rinova quella feruta la qual ricevei nel tempo che de li occhi suoi si mosse uno spirito fero e pien d'ardore, che passò dentro sì che'l cor percosse; onde i sospir miei parlan dolore, perchè l'alma giammai non si riscosse, che tramortì allor per gran tremore (CI, vv.7-14). Il 'percuotersi', i sospiri che 'parlano' dolore, l'anima che non riesce a riscuotersi, perché morta: agisce qui la lezione cavalcantiana. E appare il Dante stilnovista, di cui Cino dà una parafrasi (... "de li occhi suoi si mosse/ uno spirito fero e pien d'ardore", rovesciando la soavità e l'amore che emanano gli occhi di Beatrice in Tanto gentil). (Ma tempo è già di Petrarca, rinfrescare il dolore, del rinnovarlo -qui c'è forse anche un'eco dantesca, la Francesca che si accinge a raccontare di sè, o il virgiliano Enea sull'orlo del racconto dell'incendio di Troia- appunto nel tempo) ... Con Lapo il motivo cavalcantiano ricorre a modo di passacaglia, fino quasi al bisticcio verbale: Amore, infaretrato com'arcero, no lena mai la foga del tu' arco: però tutti tuo' colpi son mortali. Deh, com' ti piace star presto guerrero! e se' fatto scheran, come stai al varco rubando i cori e saettando strali! ProvaI: che di colpire a me non cali, c'hai tanto al cor dolente saettato ch'una saetta lo portò dal segno (XIV, vv.53-61). Il gioco s'è oramai fatto semplice gioco verbale: dal gerundio al participio al sostantivo, è tutto un rapido rincorrersi di saette. L'immagine è però interessante: il cuore che è scomparso perchè trascinato fuori dal 'segno' da una saetta precedente. Ma in tutti gli altri esempi post-cavalcantiani poca originalità sopravvive: in Frescobaldi la "ispietata saetta e sottile" apre naturalmente il cuore "per mezzo lo fianco" (III), saette che puntuali si ripetono in IV ("Trasse Amor poi di sua nova biltate/ fere saette in disdegnosa quadra;/dice la mente, che non è bugiadra,! che per mezzo del fianco san passate", IV, vv.5-8) o saette inefficaci, ché l'anima riesce a contrastare gli effetti negativi d'amore, raccontate per rime equivoche, per ribadimenti, nel dominio della maniera: "poi si dilunga chi valore acquistai gridando forte un suo dur'arco 'intende/ e la saetta prende,! tal che d'uccidermi e' crede esser certo; /ed apre verso questo fianco aperto, /dicendo: 'Fuggi!' all'alma 'che fai?/checamparnol potrai'/ Ma ella attende il suo crudel fedire,! e fascia il cor, nel punto che saetta,! di quel forte desire/ cui non uccide colpo di saetta" (XVI, vv.35-45). Bibliografia. Testi. Guido Cavalcanti, Rime. 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