Numero Ottobre `06

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Numero Ottobre `06
Numero Ottobre '06
EDITORIALE
Benvenuti a tutti in questo nuovo numero del nostro inserto dedicato a quanto
avviene in ambito “emergente, autoprodotto, esordiente, sotterraneo, di culto” in
Italia.
Come da abitudine oramai consolidata, ottobre è il mese in cui vengono annunciate
le nomination per il premio “Fuori dal Mucchio”, che come ogni anno dal 1998 a
questa parte verrà assegnato al migliore disco di esordio di un artista o gruppo
italiano. A decretare il vincitore sarà una giuria composta dai membri del nostro staff
(Fabio Massimo Arati, Alessandro Besselva Averame, Giuseppe Bottero, Gianni
Della Cioppa, Loris Furlan, Federico Guglielmi, Damir Ivic, Francesca Ognibene,
Aurelio Pasini, Gabriele Pescatore, Giorgio Sala, Hamilton Santià, Gianluca Veltri,
John Vignola, Fabrizio Zampighi, Enzo Zappia) e da alcuni ospiti, ovvero Emiliano
Colasanti (Losing Today), Fausto Murizzi (Rockit), Gianluca Polverari (Radio Città
Aperta) ed Eliseno Sposato (Radio Libera Bisignano).
Qui sotto l’elenco dei trenta “nominati”, scelti tra la moltitudine di album di debutto –
quindi niente CD-R, demo o EP – pubblicati nel periodo compreso tra il settembre
del 2005 e l’agosto di quest’anno.
LELE BATTISTA – Le ombre (Mescal/Sony)
BEAUCOUP FISH – Come l’acqua (Bagana/Edel)
BLACK EYED SUSAN – And Silence Will Begin Soon (Mizar/Audioglobe) BLOWN
PAPER BAGS – Arm Your Cameras (Suiteside/Goodfellas)
BLUME – In tedesco vuol dire fiore (Pippola/Audioglobe)
BY POPULAR DEMAND – You Are Nervous (Fosbury/Audioglobe) CACTUS –
Cactus (Hate)
ELETTRONOIR – Dal fronte dei colpevoli (autoprodotto)
MARCO FABI – La scelta (Wing/Edel)
FELDMANN – Watering Trees (Stoutmusic/Audioglobe)
ETTORE GIURADEI & MALACOMPAGINE – Panciastorie (Mizar/Audioglobe)
ALESSANDRO GRAZIAN – Caduto (Trovarobato/Macaco/Audioglobe)
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
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GUIGNOL – Guignol (Lilium/Venus)
HOT GOSSIP – Angles (Ghost/Audioglobe)
LUBJAN – 1 [OneUno] (Faier/Venus)
VALENTINA LUPI – Non voglio restare Cappuccetto Rosso (Altipiani/Edel)
MASOKO – Bubu’7te (Snowdonia/Audioglobe)
MORKOBOT – MoRkObOt (Lizard/Airbag/Audioglobe)
MY DEAR KILLER – Clinical Shyness (Madcap Collective/Under My Bed/Eaten By
Squirrels)
MARCO NOTARI – Oltre lo specchio (Artes/Sony)
POLVERE – Polvere (Wallace/Audioglobe)
POST CONTEMPORARY CORPORATION – Gerarchia ordine disciplina
(MDL/Misty Circles/Old Europa Café)
NICOLA RATTI – Prontuario per giovani foglie (Megaplomb/Wide)
SCARAMOUCHE – Scaramouche (EMI)
ANGELICA SAUPREL SCUTTI – Pomeriggi similabissali (Point Of View/CNI)
TELLARO – Setback On The Right Track (2nd Rec./Wide)
TOTÒZINGARO CONTROMUNGO – La grande discesa (L’Amico
Immaginario/Audioglobe)
TUMA – Uncolored (Swing’n’Pop Around Rose) (L’Amico Immaginario/Audioglobe)
TYING TIFFANY – Undercover (Jato Music/Wide)
VIOLA –Don’t Be Shy (N3/Self)
Il vincitore, che sarà annunciato nell’editoriale del mese prossimo e verrà premiato
in occasione del decimo Meeting delle Etichette Indipendenti di Faenza (25 e 26
novembre), vedrà il suo nome iscritto in un albo d’oro che fino a questo momento
comprende “Ogni città avrà il tuo nome” dei Santa Sangre, “Tempo di vento” di Lalli
, “Sussidiario illustrato della giovinezza” dei Baustelle, “Rise And Fall Of Academic
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Drifting” dei Giardini di Mirò, “Capellirame” dei Valentina Dorme, “The
Mistercervello LP” degli es, “Pai Nai” dei Methel & Lord e “Socialismo tascabile”
degli Offlaga Disco Pax.
In bocca al lupo a tutti quanti, e buon lavoro ai giurati; e, naturalmente, buona
lettura e buoni ascolti.
Federico Guglielmi – Aurelio Pasini
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Aa.Vv.
Cadaveri a passeggio
Cadaveri a passeggio
Una provocazione, ma neanche troppo. Come dice la presentazione dell’iniziativa:
per combattere una situazione musicale indipendente per troppi versi asfittica sette
gruppi che da tempo ruotano intorno allo stesso studio di registrazione, il milanese
Bips Studio, un tempo quartier generale della benemerita Vox Pop, hanno deciso di
riunire le proprie forze. Questa compilation, disponibile al prezzo simbolico di un
euro ai concerti del collettivo, raccoglie un brano per ogni formazione, e la linea che
sembra accomunare le varie canzoni è un rock sonico con ambizioni d’autore,
partendo dalle atmosfere noir degli Stardog, sporcate dal contributo di Amaury
Cambuzat degli Ulan Bator in una convincente “Cadaveri”, arrivando a ZIDima, sulle
orme dei Massimo Volume senza troppo seguirle (“Ocra”), La Stasi (“Il Morto
Allegro”, credibile ballata post-Afterhours) e Vintage Violence, questi ultimi con una
efficace “Quanto fa male pugnalarsi in gola”, buon intreccio di spigoli e melodie.
Chiudono il programma i Jerrinez, mossi da impeto crossover (“Glamour”), gli assai
meno ispirati Noise From Underground (“Cosa mi fa male”) e gli Hangover di “Nuova
insonnia”, cupa, malmostosa e perfetta per la conclusione. Al di là delle inevitabili
differenze qualitative tra i partecipanti, “Cadaveri a passeggio” va oltre la semplice
contingenza illustrata dal sottotitolo (“Compilation indie-gnata”) e mette in fila un
gruppo di musicisti sì determinati e indignati, ma con qualcosa da dire (
www.cadaveriapasseggio.com).
Alessandro Besselva Averame
Black Hole
Land Of Mystery
Andromeda Relix
Un tempo lo chiamavano semplicemente “dark sound”, nessuna definizione
specialistica di sottogenere (il termine doom-metal era ancora lungi dall’essere
coniato). Succede sempre così quando si è un po’ pionieri, degli apripista come
furono i veronesi Black Hole. Certo, la lezione dei primi Black Sabbath era assai
nota, ma riconducendoci ai fervori proto-metal italiani dei primi anni ottanta, di
rimbalzo alla fresca energia della “new wave of British heavy metal”, solo i seminali
Death SS potevano vantare un suono analogamente criptico e oscuro. Il trio
scaligero si distingueva peraltro dalla macabra teatralità del gruppo di Paul Chain e
Steve Sylvester per le proprie trame composite e le tensioni sinistre, lunghe
progressioni sincopate tra riff decelerati e cupe, sacrali atmosfere d’organo e
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tastiere. Suoni non usuali in quegli anni di massoneria metal nazionale dai mezzi di
registrazione più limitati, fissati tuttavia con buona resa nel disco “Land Of Mystery”
datato 1985 e divenuto oggetto da collezionismo, che oltre vent’anni dopo trova
meritevole ristampa su CD, con la consueta aggiunta di alcune bonus-track live. Un
documento dunque imprescindibile nel rappresentare quella stagione italiana, a suo
modo ricca di grandi slanci, apprezzabile freschezza e qualche imprescindibile
ingenuità. “Demoniac City”, “Bells Of Death”, “Blind Men And Occult Forces”,
“Spectral World”, “Obscurity In The Eternal House”, assieme al brano che dà il nome
all’album, sono titoli emblematici, giustificati appieno dall’esteso ed elaborato
sovrapporsi di riff notturni e densi afflati claustrofobici, con la voce riverberata da
cerimoniere di Robert Measles a raccontare di incubi e occultismo, interprete di
un’attitudine filosofico-esoterica che sapeva spingere il rituale rock dei Black Hole
oltre al tratteggio più fumettistico di tanto metal a venire (www.andromedarelix.com).
Loris Furlan
Burnin’ Dolls
Courage And Fear
2L Music
Il batterista Camillo Collecuori e il chitarrista Alessandro Serravalle, accantonato
momentaneamente il timone della loro band madre, ovvero i grandi Garden Wall, si
sono concentrati intorno a questo progetto, che già da alcuni anni cercava uno
sfogo discografico dopo aver incendiato tutta la sua carica in concerto. A far loro
compagnia il fondamentale apporto del chitarrista Raffaello Indri (che “costringe”
Alessandro ad esibirsi al basso) e l’ultimo arrivato, l’ottimo cantante Rudy Berginc.
Lo stile che i quattro sciorinano è un thrash metal d’avanguardia, con passaggi
strumentali imprevedibili, sfiorando il death metal; termine, questo, la cui traduzione
letterale non deve confondere i non adepti, perché si tratta di un filone del metal
estremamente complesso, fatto di perizia strumentale e di vedute compositive
allargate: è infatti possibile trovare al suo interno elementi di jazz, funky, elettronica
e molto altro. Ed è esattamente quello che ascoltiamo tra i solchi di questi otto brani,
dispiegati in quarantacinque intensi minuti. Oltre a un suono sacrificale e torrido, per
cogliere appieno lo spirito dell’album, è necessario sviscerare anche i testi, sempre
sofferti, inquieti, frutto di un travaglio e di un reale disagio interiore, lontano dai tic
masturbatori adolescenziali e maturi segnali di un futuro che appare torbido da ogni
latitudine. Geograficamente posizionati nelle zone di Udine, i Burnin’ Dolls, così
come i Garden Wall, raccolgono maggiori consensi in Austria, Germania e paesi
dell’Est. Forse da quelle parti ci sono ascoltatori più maturi di noi? (
www.burnindolls.it)
Gianni Della Cioppa
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Dufresne
Atlantic
V2/Edel
Il relativo successo internazionale di band quali Atreyu e My Chemical Romance
non poteva non avere “conseguenze” anche da queste parti. Una delle più
interessanti è sicuramente vedere il marchio V2 su “Atlantic” dei veneti Dufresne. Un
disco che, pur guardando inequivocabilmente verso i modelli già citati, a cui
aggiungerei anche i romani Gaia Corporation, rappresenta un'interessante
evoluzione del concetto di metal-core nostrano. Evoluzione innanzitutto per il
cantato in italiano, molto convincente nell'interpretazione e un po' meno nelle liriche;
e poi, più banalmente, per la musica. Una musica potente eppure molto articolata,
con un gran lavoro in fase di arrangiamento e con una produzione, appannaggio
perlopiù di Darian Rundall e David Lenci, molto attenta al dettaglio. E tra i dettagli
spicca l'elettronica che emerge tra il muro di chitarre: non sempre incontra il mio
gusto ma serve ottimamente a spezzare il ritmo e creare atmosfera. Molti i brani
perfetti per un airplay alternativo, tra tutti “Root Is A Flower That Disdain Fame” e
“Un fuoco dentro”, e una band che dimostra di avere, almeno in studio, un grande
potenziale tecnico e musicale, soprattutto per una sezione ritmica assassina. La
scommessa è lanciata, e non mi stupirei se tra cinque anni si parlerà dei Dufresne
come del gruppo più rappresentativo di questa musica in Italia. Non ci resta che
augurare loro buona fortuna, e consigliarvi l'ascolto di questo disco (www.dufresne.it
).
Giorgio Sala
East Cargo
Travel Of Mind
Hapax Legomenon
Buone nuove dal Nord-Est. Niente prove d’indipendenza, né record per il guinness
dell’iperproduzione, ma d’altra parte estremo Nord-Est significa anche, non
trascurabilmente, crocevia di culture e tradizioni, che pare abbiano avuto buon
influsso sul progetto East Cargo e sulla nuova label friulana Hapax Legomenon.
Storie di confine dunque, con le registrazioni in quel di Trieste e la masterizzazione
poco più in là, in Slovenia. Tuttavia c’è un titolo, “Travel Of Mind”, che già di suo
lascia intendere un superamento della consueta ricetta musicale radicata nel
territorio e nel suo folclore, preferendo senza indugi orizzonti sonori aperti a
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contaminazioni modernamente universali. Allora non sorprenderà se “Ninna o’” in
apertura, pur introdotta da un malioso violino, non sembra una dolce ninna nanna
acustica, bensì l’inizio di un viaggio tra i Balcani e lo spazio, tra umori etnici, cenni di
reggae lunare e aperture electro-space. Ecco la chiave di accesso per delineare le
coordinate di questo pregevole debutto, che si sviluppa lungo il funky torrido e
speziato di “Funk(k)astic”, gli arrembanti tempi dispari space progressive di “The
Sorcerer” e “Back To Bucarest”, il danzante zigzagare gitano del violino
accompagnato da una vorticosa fisarmonica de “La danza del Banato”, le incursioni
tecno-metal di “Azako (Dark & Stormy Night)”, il dolce defluire astrale
lounge-disco-dance di “44 Groove (Dancing On The Waves)”. Tante connotazioni
stilistiche con un deciso e versatile comune denominatore etno-electro, una
sensazione di modernità e tecnologia con un’anima che spira forte e leggiadra col
vento dell’est (www.hapaxlegomenon.it).
Loris Furlan
Esa
Tu sei bravo
LaSerra/Carosello
Adesso che c’è la grande ondata dell’hip hop italiano (non solo Mondo Marcio e
Fabri Fibra; ora, visto che i due hanno funzionato, preparatevi a un’invasione di
rapper italici con una major alle spalle, ché l’andamento a gregge dei discografici
nostrani non si smentisce mai), ci farebbe piacere che un po’ di gloria e denaro
andasse anche a chi ha portato avanti la fiamma nei momenti bui. Uno di questi è
sicuramente Esa: dagli OTR alla successiva mutazione in Gente Guasta, Francesco
Cellamaro è sempre stato uno dalla passione vera al 100 percento, anche e
soprattutto quando le faccende hip hop sembravano dalle nostre parti la roba meno
attraente dell’universo, sia nei circuiti mainstream che in quelli underground. Questo
“Tu sei bravo” però ci spiazza. Un lavoro fatto di pregi e difetti, e trovi sia gli uni che
gli altri lì dove non pensavi di trovarli. Ed è così che ci tocca dire che Esa come MC
è in involuzione costante, non c’è quasi più traccia del felice ed articolato narratore
dei tempi degli OTR ma al tempo stesso la linea attuale, quella più come dire
“impressionista”, che si basa più sul suono delle parole e su certi ganci verbali, non
va (molto migliore in questo campo è Medda di Microspasmi, tanto per fare un
nome). Sorprendente invece Esa come produttore delle basi del disco: a parte
alcune cadute di tono (“Trappole&regole”, inascoltabile, a dire il vero non solo nella
parte strumentale), ci sono molte idee bizzarre, interessanti e comunque di valido
impatto, così come c’è la rara capacità di gestire l’amalgama tra campionamenti e
strumenti suonati (ottime “Throw Ya Hands Up” e “Ci son le ragazze”). Lavoro
controverso e discontinuo, quindi. Ma interessante (www.funkprez.com).
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Damir Ivic
Garretti
Prima che si spenga la luce
NoReason
In un panorama mutevole com'è quello della musica indipendente italiana ecco due
nuove realtà che, ci auguriamo, faranno molta strada. Stiamo parlando dei Garretti e
della loro casa discografica, ovvero la NoReason Records. Alla label va il merito di
aver pubblicato questo primo vero album, dopo un mini-CD, della band veneta; ai
Garretti invece aver messo in "Prima che si spenga la luce" quanto di meglio si
possa sentire da queste parti in tema di indie-rock. Forte la vena melodica, ed
emozionale, che li accomuna ai toscani Seed’n’Feed e che troviamo ben espressa
sia nell'artwork che in brani come "Senza identità", merito anche di una voce bella e
carismatica come quella di Adriano e di testi che non si fermano a banalità e luoghi
comuni: a tal proposito leggetevi “Il velo di Maya” per rendervene conto. Molto
interessante anche il duetto con Pablo dei Moravagine su “La Realtà dei fatti”,
anche se, vista la qualità media, ci si trova in difficoltà a scegliere un episodio più
rappresentativo di altri. Buona è anche la registrazione, ad opera di Marino De
Angelis ai Majestic Studio, e viene difficile muovere qualche critica; l'unica è che
forse il gruppo avrebbe potuto osare di più in quanto ad arrangiamenti e costruzione
dei brani, ma non dimentichiamo che pur sempre di esordio si tratta. Fossimo negli
States se li contenderebbero le major, ma siccome siamo dall'altra parte dell'oceano
possiamo solo augurarci che “Prima che si spenga la luce” non passi inosservato.
Sarebbe un vero peccato (www.garretti.com).
Giorgio Sala
Irony Of Faith
Irony Of Faith
autoprodotto
Gli Irony Of Faith sono una band di nuova generazione, in grado cioè di curare
autonomamente non solo il normale processo compositivo, ma anche i successivi
passi di registrazione, di grafica e di gestione degli spazi promozionali. Il loro mini
CD di esordio è il frutto perfetto di un lavoro coordinato con cura e intelligenza,
testimonianza lucida che in questo nuovo decennio (millennio?), per guadagnare
spazio e visibilità nei reticolati dell’underground musicale, più che aspettare occorre
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muoversi. Confezionato in un cartoncino, ma con tutte le informazioni e contatti
necessari, questo debutto mostra una band sufficientemente originale, capace di
veicolare accelerazioni metal con visioni cupe, sulla scia di certi Tool prima maniera,
trascinata da una ritmica dall’incedere schizofrenico, con echi di funky, con una
tastiera anomala, che rende il tutto originale. Solo quattro i brani (ma che senso
avrebbe pubblicare un album intero, se lo scopo di questo mini CD è trovare un
contratto?), ma sufficienti ad infondere la sensazione, oserei dire certezza, che gli
Irony Of Faith abbiano buone carte da giocare, con quel loro girovagare tra rimandi
di tutto e niente. L’apertura di “A Night Without” ha un refrain accattivante, con un
passaggio tenebroso che si chiude con una tastiera sghignazzante che è un
piacere. “Almost Morning” potrebbe essere una versione cibernetica dei Goblin, con
un basso pulsante a trascinare il ritmo. Meno convincente “More Than Anyone”,
tratteggiata da un cantato ancora insicuro, ma il riscatto arriva con la conclusiva “To
Believe Is To Die”, sorta di connubio alieno tra funky ed elettronica. Di tanto in tanto
affiora qualche incertezza, ma questa è una band da seguire con attenzione (
www.ironyoffaith.com).
Gianni Della Cioppa
Jennifer Gentle
Sacramento Session/5 Of 3
A Silent Place/Audioglobe
Non un album nuovo per i Jennifer Gentle – la cui seconda prova per la Sub Pop è
prevista per il prossimo anno – ma una uscita parallela. Piccola, se vogliamo, così
come lo è l’etichetta che la pubblica: la A Silent Place, sottomarchio della Small
Voices. Oltretutto soltanto in vinile, e per di più colorato: in breve, un oggetto per
collezionisti e appassionati veri. E, del resto, neppure i suoi contenuti sono per tutti i
palati. Entrambe le due lunghe composizioni strumentali che vi trovano posto sono
infatti frutto dell’improvvisazione, anche se le diverse modalità di realizzazione
hanno portato a risultati parecchio dissimili tra loro.
A occupare l’intero lato A c’è “Sacramento Session”, ovvero oltre venti minuti
registrati dal vivo per la stazione radio californiana KDVS e caratterizzati da un
lungo ed evocativo crescendo in cui i vuoti vengono lentamente riempiti da un
drumming via via più impetuoso e da una chitarra prima liquida e poi abrasiva, fino
all’inevitabile rallentamento finale in cui emerge anche il lavoro delle tastiere in
sottofondo. Una psichedelia d’atmosfera e molto anni ’70 che contrasta in maniera
decisa con i contenuti della facciata B: “5 Of 3” vede infatti protagonista il solo
Marco Fasolo che, per l’occasione, ha lasciato la chitarra e il microfono in favore di
un inquietante e minaccioso tappeto di effetti e rumori vari.
Due lati della stessa (vinilica) medaglia, insomma, per due delle tante sfaccettature
– quelle più sperimentali, verrebbe da dire – di una band multiforme e multicolore,
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per molti versi unica (www.jennifergentle.it).
Aurelio Pasini
Kokoro Mayikibo
Kokoro Mayikibo
Mila Records
L’attitudine schietta e minimale dei Kokoro Mayikibo appare assai chiara sin dalla
copertina che hanno scelto per il loro CD d’esordio: a parte il nome, i titoli delle
canzoni e i crediti di rito vi compare solo il profilo di una spina elettrica. I più attenti
noteranno la presenza dell’elettrodo centrale per la messa a terra: trent’anni fa
cablaggi di questo tipo non erano affatto comuni. Il particolare tradisce allora la
giovane età dei quattro musicisti milanesi, che invece si ispirano a certa new wave
contorta e sofisticata assai in voga alla fine dei ’70. Aggregatisi nella primavera del
2000 dalle ceneri di altri gruppi amatoriali attivi nell’area meneghina (tuttora il
cantante Andrea Reali è anche membro degli sperimentali I/O), i Kokoro Mayikibo
hanno perfezionato un sound sporco e selvaggio, che parimenti ricalca gli incalzanti
ritmi deviati del funk bianco, allucinate distorsioni di matrice noise e assalti elettrici
tipicamente punk. La loro aggressività è concentrata in nove fulminanti episodi, tutti
con testi in inglese, che non raggiungono neppure un minutaggio complessivo di
mezz’ora. È evidente allora che il quartetto punti più alla sostanza che non alla
forma; forse ancor più di quanto Pere Ubu, Devo e Talking Heads non facessero ai
tempi loro.
Co-prodotto dalla band stessa e dalla Mila Records, l’album è distribuito con licenza
Creative Commons, il che significa niente diritti d’autore e libera condivisione dei
contenuti; pertanto può anche essere scaricato integralmente dal sito
http://www.misskokoro.com/.
Fabio Massimo Arati
Laghetto
Pocapocalisse
Donnabavosa/Shove/Smartz/Horrorvacui Teathre
Dopo l’esordio di due anni fa, “Sonate in Bu minore per 400 scimmiette”, arriva più
consapevole e attualizzato “Pocapocalisse”, secondo disco per i Laghetto gruppo,
post-hardcore di Bologna. Un album che prende spunto dagli ultimi traumi emotivi
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provati, a differenza del primo che raccoglieva canzoni sparse in diversi anni di
rodaggio. Qui invece i nostri tre amici hanno trovato loro stessi, perché
“Pocapocalisse” arriva dritto come una pistolettata in fronte. Sbalzi d’umore: un poco
di post e un poco di hardcore che sfilano impavidi di fronte alla piattezza della
linearità. Testi ironici e intelligenti – “Ora accarezza il fondo / Inspira questo vuoto /
Avverti la nota stonare” – aumentano la loro efficacia, la cui portata è poi possibile
approfondire ulteriormente, visto che nel libretto del CD ne arricchiscono le
sfumature con spiegazioni ulteriori. In “Per un estinzione umana ecosostenibile” si
toccano note tranquille per farle crescere poi più ossute e rock, e quando arrivano le
parole esplode tutto e si arriva a convincersi che bisogna autocannibalizzarsi per –
parafrasandoli – “chi si sfinisce ogni giorno in pasto a se stesso”. Il fiore all’occhiello
del gruppo è diventato da qualche tempo tale Tuono Pettinato, quarto elemento e
insieme guest star dei Laghetto, che con una chitarrina giocattolo e un parruccone
enorme li accompagna sempre in tour, diventandone praticamente il leader
simbolico grazie alle proprie doti di “musa” e alla presenza esplosiva, in un live dove
il pogo diventa divertente (www.donnabavosa.com).
Francesca Ognibene
Mersenne
Stolen Dresses
Urtovox/Audioglobe
I bolognesi Mersenne sono attivi da quattro anni e lungo la consueta strada fatta di
concorsi, demo ed EP hanno costruito una loro credibile versione dell’indie rock
d’oltreoceano: citano tra i numi tutelari Pixies, Weezer e Death Cab For Cutie, e in
effetti molta di quella attitudine si riversa su queste canzoni vivaci, ricche di cambi di
tempo e sfumature, che svelano subito la loro energia in un incipit di sicuro impatto
come “Clerks”. Già dal titolo un omaggio all’omonimo film e, implicitamente, a tutta
una generazione che ci si è riconosciuta. Ma il tentativo di ammiccare a un target
ben preciso, quello dei trentenni cresciuti a cinema e musica indipendente, che
potrebbe portare ad un eccessivo autocompiacimento, non va mai a discapito della
sostanza: canzoni come “There’s A Place”, tutta accordi discendenti, malinconia e
rabbia trattenuta, oppure l’apocrifo di marca Strokes di “I Can’t Stop”, molto più
divertente di quanto non possa apparire dalle parole di chi scrive, i coretti contagiosi
di “A New Brand”, e ancora le pigre divagazioni bucoliche della svagata “Changing
My Plans” svelano un talento che, se non si è ancora dispiegato del tutto, già lascia
sprazzi convincenti. Forse è un talento ancora un po’ troppo vincolato ai modelli di
riferimento, ma il disco è fresco, scritto e suonato con cura. Per fare il definitivo
salto verso l’eccellenza c’è ancora tempo, e lo spazio per la rincorsa, in ogni caso,
non manca (www.mersenne.it).
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Alessandro Besselva Averame
Misero Spettacolo
Tutto è un’opinione
Zeta Promotion/Venus
Nati per descrivere la parabola di una generazione, squallidamente, i Misero
spettacolo fanno mostra di sé in maniera tutt’altro che povera e sconsolata. È un
songwriting di buona fattura, quello del leader e compositore Giuseppe Tranquillino
Minerva, anche se risente di una vena espressiva ingenua, a tratti adolescenziale.
Ma è un piacevole ascolto.
Ingegnosamente (o cervelloticamente) il quartetto suggerisce nelle note di copertina
una scaletta che segua un “ordine concettuale” (aiuto!) in alternativa all’ordine con
cui i brani sono messi in fila. All’ascoltatore l’ardua scelta. Stravaganze a parte,
restano tredici canzoni, frizzanti e vitali, alla ricerca dell’“odore dello stupore”.
“La più bella cosa che sia capitata” è una ballatona acustica di contagioso utopismo,
“Dentro di noi” un rock alla Ligabue sul mondo interiore dei segreti, tema ripreso
anche in “Confessione”, in cui la melodia principale viene osteggiata egregiamente
da una chitarra sofferente. Il tango & roll di “R…esistere” è dedicato alla quotidiana
prodezza del galleggiare, con ironia sorridente, mentre il terzinato bohémienne e
giacobino di “Sur le sky di Parigi” è anche il singolo estratto dal disco, insieme a “Il
fuoco di Paride”, una sorta di elogio dell’eroe troiano (“io come Paride tra potere e
intelligenza/ preferisco Afrodite che mi offre amore”). Dei due brani sono presenti nel
CD anche le tracce video (www.miserospettacolo.it).
Gianluca Veltri
Nuccini!
Matters Of Love And Death
2nd Rec./Wide
Ci sono dischi che sulla carta sono belli e affascinanti; nei fatti, un po’ annoiano. Ci
spiace dirlo, ma questa è la definizione migliore con cui accompagnare questo
“Matters Of Love And Death”. Corrado Nuccini, qui in momentanea libera uscita dai
Giardini di Mirò, con le migliori intenzioni si è avventurato in un territorio troppo
vasto e probabilmente troppo distante. Tutti gli elementi sono disposti e scelti in
modo apparentemente ricco e appropriato: c’è la fascinazione per l’hip hop (ma
come per chiunque provenga dal mondo dell’indie rock, si va poi a finire nei territori
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posticci della Anticon), c’è la volontà di combinare campionamenti e strumenti
suonati, c’è la volontà di nobilitare certe languidezze indie arricchendole di
arrangiamenti ricchi. Ambizioso progetto, non salvato dalla bella calligrafia. Nel
senso che gli arrangiamenti sono ricchi, sì, gli strumenti suonano tutti col giusto
timbro, i rapper si danno da fare più che possono, ok. Ma succede che l’affidarsi ad
una struttura hip hop per i pezzi è un modo (involontario?) per nascondere la
mancanza di particolari idee melodiche; succede che i rapper sembrano
interessanti, ma sono petulanti; succede che le atmosfere sono malinconiche e
curate, ma non coinvolgono davvero a livello emotivo. Si cerca di prendere tutto
(l’essenzialità dell’hip hop, il fascino languido dell’indie rock, l’ambizione di fare un
disco che vada al di là degli stilemi indie rock), ci si ferma invece a qualche metro
dall’obiettivo (perché l’hip hop usato in maniera spuria perde qua di impatto e si fa
maniera, mentre il fascino languido e l’ambizione di arricchirlo di profondità si
elidono a vicenda, quasi come fosse una reazione chimica dove due ingredienti
buoni si trasformano in uno leggermente insapore). Non è un cattivo lavoro:
semplicemente, è al di sotto delle sue ambizioni (www.nuccinimusic.com).
Damir Ivic
Radiolondra
Radiolondra
Sana
In tutto e per tutto classica la proposta dei Radiolondra da Foggia. Strutturalmente,
visto che l’ambito prescelto è quello della forma-canzone tradizionale, e
all’apparenza anche musicalmente, muovendosi la band lungo le strade di un rock
elettroacustico non troppo aggressivo e dalla forte componente melodica.
Registrate alle Officine Meccaniche di Mauro Pagani, le canzoni di questo esordio
omonimo mettono in mostra una buona personalità, specie quando i tempi
rallentano e si fanno notare meglio gli intrecci tra gli strumenti. Pur non mancando i
momenti grintosi e rockeggianti, infatti, è quando prevalgono le mezzetinte che il
sestetto dà il meglio. Nell’iniziale “Pioggia sarà”, per esempio, oppure ne “Il silenzio
e la virtù”, ghost-track dal gradevole retrogusto jazzato con ospite Rocco Tanica, e
soprattutto in “Quello che non pago più”, probabilmente l’episodio più maturo e
personale dell’intera scaletta. Meno bene vanno le cose quando emerge un po’
troppo evidente l’influenza dei Subsonica (“L’io egemone”) ma, trattandosi di un
debutto, è inevitabile che talvolta affiorino riferimenti espliciti e ben identificabili.
Insomma, pur con qualche ingenuità il disco mette in mostra spunti interessanti. Più
che a sorprendere l’ascoltatore – pur non mancando occasionali contaminazioni
elettroniche ed etniche – i Radiolondra puntano a conquistare l’ascoltatore con la
solidità delle composizioni e degli arrangiamenti. E, nei momenti migliori, ci riescono
discretamente bene (www.radiolondramusic.com).
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Numero Ottobre '06
Aurelio Pasini
Reflue
A Collective Dream
Shyrec
Psichedelico e leggero al tempo stesso, etereo quanto strutturalmente elaborato, “A
Collective Dream” è il secondo episodio a marca Reflue, band che qualche anno fa
aveva positivamente impressionato gli addetti ai lavori con l'esordio “Slo-mo” e che
nel 2005 si è guadagnata una partecipazione all'Heineken Jammin' Festival prima e
a Frequenze Disturbate poi. Un ritorno atteso che non delude, dall'alto dei suoi
dodici sussurri sospesi tra pop evanescente, licenze jazz, elettronica dai modi
cortesi e chitarre elettriche al guinzaglio. Morbidezze di un celeste svagato, che
trovano una ragion d'essere nei toni acustici e negli inseguimenti vocali di “Brilliant
Beauty”, si attorcigliano alle progressioni di basso e gli arpeggi dilatati di “Evil Twin”,
dichiarano le proprie infatuazioni in “(She's) Singing The Blues” e “Zimmer” - Yo La
Tengo e Yuppie Flu, ma la lista potrebbe allungarsi a dismisura -, si perdono nei fiati
e nelle atmosfere oniriche della title-track e di “Black Comedy”. Il tutto col fine di
“formare un quadro melodico e stimolante” - come dichiarato anche dalle note
stampa - in cui ricercatezza e orecchiabilità, estetica pop e tendenza alla
stratificazione vadano di pari passo.
Al piatto già ricco delle riflessioni sottratteci da disco in questione vorremmo
aggiungerne soltanto un’ultima, in forma di giudizio numerico e, se volete, piuttosto
sommario: un nove al titolo e allo svolgimento del tema e un sette e mezzo alle
conclusioni finali, a patto che si intenda per conclusioni la capacità dell’opera di
catturare l’ascoltatore e di mantenerne viva, nel tempo, l’attenzione (www.reflue.it).
Fabrizio Zampighi
Rodolfo Montuoro
A_Vision
Auditorium
Bel tipo, Montuoro. Fosse ancora tra noi, forse Nick Drake farebbe canzoni così.
Con la facondia degli archi, le chitarre, ma suggestionate da una modernità che
ronza attorno come un tarlo, che si fa strada in un universo dall’umanità scheggiata.
Con quella voce da Zenobi – sarà quella erre arrotolata – Montuoro mette in fila
undici favole su “ex-ragazze semplici, avvocatucci e bambole”, lontano da aperitivi e
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vezzeggiativi.
Un album governato dalla luna, “A_Vision”. Al quale la presenza di Massimo Giuntini
(anche nella veste di produttore artistico), coi suoi whistles e le sue uilleann pipes,
dà un sapore decisamente irish, ma per niente canonico e rassicurante. È il lato
verde-scuro dell’Irlanda. Un album al quale non giovano le incursioni (per fortuna
rare, come “Le città del Polo Nord”, bello il titolo però) nei movimentati ritmi swing,
che rischiano di sfocare un impianto complessivo onirico e seducente.
Un utilizzo inquieto, funzionalissimo delle possibilità tecnologiche e gli apporti
melodici della tromba e del sax arricchiscono il lavoro, che ha molte carte da
giocare. Con le sue canzoni piene di suspence e sovrapposizioni. Con liriche
impressioniste e raffinate, Montuoro dà corpo alla moltitudine di un attimo, a un
suono elettrodruido a tratti davvero sorprendente. Il sole si è spento e cieli si
allontanano, tra conchiglie abbandonate, pioggia esausta di nuvole, respiri, trappole,
brividi. Vivamente da scoprire (www.auditoriumedizioni.it).
Gianluca Veltri
Spiritual Front
Armageddon Gigolò
Trisol
A cinque anni di distanza da quel "Nihilist Cocktail For Calypso Inferno" che delineò
eloquentemente lo stile e le tematiche di un ambizioso progetto artistico, gli Spiritual
Front pubblicano il loro terzo album in studio, forti di un'esperienza e di una maturità
espressiva acquisita sui palchi e negli studi di registrazione di mezza Europa.
Nell'ultimo lustro, infatti, la formazione romana si è data parecchio da fare,
licenziando numerosi EP e intavolando proficue collaborazioni con gruppi esteri di
culto quali Ordo Rosarius Equilibrio e Naevus.
Per molti versi, "Armageddon Gigolò" si dimostra il capitolo più brillante nella
discografia di Simone Salvatori e compagni. L’elegante musicalità delle loro
canzoni, impreziosita da sobri arrangiamenti d’archi e da gustosi riverberi elettrici,
tradisce influenze assai più vaste di quelle cui sovente s’ispirano i gruppi del giro
post industriale. Oscuri e dannati come solo Nick Cave sa esserlo, schietti e genuini
come sarebbe stato Johnny Cash, epici e malinconici come i migliori Calexico, gli
Spiritual Front peccano forse di scarsa personalità, di esasperato assoggettamento
a canoni stilistici altrui. Pur tuttavia la loro musica è intrigante e coinvolgente come
al giorno d’oggi è raro riscontrare. Lo dimostrano anche gli unanimi riscontri che la
band sta ottenendo anche (e soprattutto) al di fuori dei patri confini, che certo non
possono essere attribuiti esclusivamente alla scelta perentoria di cantare in inglese
o al supporto promozionale del produttore tedesco (www.spiritualfront.com).
Fabio Massimo Arati
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Numero Ottobre '06
Ten Thousand Bees
Polar Days
Knifeville
Iniziativa degna della patria del Great Complotto: un’etichetta che produce solo
gruppi di Maniago, in provincia di Pordenone, e che ricorre ai contributi di un
Comune che ha la lungimiranza di appoggiare l’idea. Idea che si rivela ottima,
almeno a giudicare la qualità di questa nuova uscita a nome Knifeville (questo il
nome della piccola label, evidente omaggio alle coltellerie che hanno fatto
conoscere Maniago al mondo): in appena sei brani, meno di mezz’ora, i Ten
Thousand Bees si districano tra carezze (una “Dead Of Night” moderatamente
indietronica, che sarebbe piaciuta ai Lali Puna e che cresce ad ogni ascolto) e
robuste iniezioni di energia (“June”, basso pulsante e chitarre spigolose, canzone
che sarebbe assai credibile anche al di fuori dei confini), manifestando una
personalità di spicco. Completano il promettente quadro ballate eleganti tenute in
sospeso dai fili di un vibrafono (“Water Circles”, dove l’intreccio di voci, maschile e
femminile, funziona alla grande), un intrigante medley dal retrogusto folk (“Sun
King/Sandrine”), e un finale che dal free form di “Spoon-Bending Party”, tutta detriti
elettronici e coloriture ambient, scivola nell’impressionante fantasia ritmica alla Can
di “Sette”. Sono esordienti, hanno una notevole padronanza dei propri mezzi e
l’unico rischio in cui si possono imbattere è il non sapere quale strada scegliere. Ma
noi preferiamo interpretare “Polar Days” come l’assaggio di un eclettismo destinato
a portare ottimi frutti (www.knifeville.it).
Alessandro Besselva Averame
The Manges
The Manges Go Down
Wynona-Ammonia/Edel
Si fa presto a liquidare i Manges come “figli italiani dei Ramones”; peccato però che
negli oltre dieci anni di carriera il combo spezzino sia riuscito a creare un proprio
sound, che parte sempre da “Rockaway Beach” ma è capace di andare anche molto
lontano dalle spiagge newyorkesi. Come spiegare altrimenti questo “The Manges
Go Down”? Un disco uscito dopo ben quattro anni dal precedente e che, tra citazioni
cinematografiche – “My Rifle” – e i racconti di vita vissuta “In The Van”, mostra
come i Manges siano tra i migliori gruppi in Italia, e in Europa, a portare avanti il
punk rock nel 2006. Anche i testi sono migliorati, e basta ascoltare l'iniziale “Secret
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Agent In East Berlin” per accorgersene; se poi ai brani originali si aggiungono anche
la solita manciata di cover, “Emergency” di Dee Dee Ramone come omaggio ai
propri eroi, “Revenge Of The Nerds” per il titolo e “When Heroes Go Down” di
Suzanne Vega perché è uno splendido pezzo, allora diventa difficile trovare dei
punti deboli a questi quattordici brani. E anche se ci sarà sempre qualcuno pronto a
rimarcare il pregiudizio di cui si accennava all'inizio, da queste parti non si riesce
comunque a togliere il CD dal lettore, e non si può che consigliarvi di fare altrettanto
(www.manges.it).
Giorgio Sala
The Shipwreck Bag Show
The Shipwreck Bag Show
Wallace/Audioglobe
Su queste pagine abbiamo più volte avuto occasione di parlare del collana “Mail
Series” prodotta dalla Wallace e delle innumerevoli avventure intraprese da Xabier
Iriondo - artefice all’occorrenza di gruppi estemporanei dai nomi più improbabili nell’ambito di quest’anomalo piano discografico. Senza dunque soffermarci sugli
aspetti formali e sostanziali comuni a tutte le produzioni del progetto, andiamo allora
ad esaminarne il capitolo più recente, che vede protagonisti - con la ragione sociale
di The Shipwreck Bag Show - il già citato chitarrista milanese e il batterista Roberto
Bertacchini.
Come si evince dal titolo e dal bel galeone che affonda raffigurato in copertina, il
tema è quello del naufragio; ma, a differenza di quanto accaduto per il Titanic, la
storia qui è tutt’altro che melensa e romanzata: bisogna trovare un modo per
scappare e infilare tutti gli effetti personali in una borsa, dopodiché non rimane che
sognare di trovarsi su suolo asciutto. Tensione, ansia, e malinconia convivono nei
tre movimenti strumentali orchestrati dal duo con il solo impiego di batteria, chitarre
e campionamenti. Ovviamente l’approccio rumorista e sperimentale non permette
una fruizione disimpegnata del CD, i cui pregi debbono essere colti nelle inusuali
soluzioni armoniche che rifiniscono la matrice portante di un intricato complesso
percussivo (www.wallacerecords.com).
Fabio Massimo Arati
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Numero Ottobre '06
Unicamista
Unicamista
Lilium/Venus
Un esordio, quello dei milanesi Unicamista, le cui radici risalgono al 1999, quando
si è formato il primo nucleo della formazione. In questi sette anni la band ha avuto
modo di stabilizzare la propria – numerosa: ne fanno parte nove elementi –
formazione, forgiare il proprio suono e arricchirlo di sfumature e contaminazioni. E il
risultato sono tredici brani torridi e multiculturali, nel linguaggio – con testi che
alternano e affiancano italiano, spagnolo, inglese e altri idiomi ancora – e nelle
sonorità, all’insegna di uno ska-reggae magari canonico nelle strutture ma ricco di
spunti di rilievo. Se infatti talvolta, specie nella prima parte del CD, il gruppo sembra
adagiarsi un po’ troppo sui codificatissimi stilemi del genere, con lo scorrere delle
tracce emerge una voglia prorompente non soltanto di sfruttare tutte le potenzialità
della battuta in levare, ma anche di mescolare le carte in tavola aggiungendovi
elementi rock, orientaleggianti, latino-americani ed elettronici. In tutto questo, è
davvero notevole il lavoro fatto dagli Unicamista in fase di produzione, vista la
grande cura messa negli arrangiamenti, curati fin nel più piccolo dettaglio ma, allo
stesso tempo, trascinanti come si conviene all’ambito musicale in questione, con
menzione particolare per “Guerriglia cultivar” e “Teponaztle”. Il tutto a supporto di
liriche impegnate ma non eccessivamente enfatiche, pur con qualche inevitabile –
ma non troppo fastidiosa – caduta nel retorico. Magari i rocker di stretta osservanza
non apprezzeranno, ma gli amanti delle sonorità più solari e festaiole non
dovrebbero astenersi dal prendere contatto (www.unicamista.org).
Aurelio Pasini
X-Mary
A tavola con il principe
LMC
Secondo album vero e proprio dei lodigiani X-Mary, dopo una lunga storia
sotterranea a base di CD-R e cassette, “A tavola con il principe” racchiude oltre
venti canzoni in poco più di mezz’ora: piccoli quadretti di assurdo quotidiano che si
manifestano attraverso un eclettismo lo-fi che tocca di volta in volta punk, funk, folk,
bossa e cantautorato sbilenco. Lasciate da parti le definizioni, una raccolta di
momenti divertenti e trovate geniali, lettere da un mondo parallelo dove Stephen
Malkmus e Freak Antoni convivono alla grande (“Ospedale Maggiore”), gli Os
Mutantes inneggiano a Giambattista Vico dalle pagine di un libro delle superiori
(“Giambattista Vico”) e dove i Ramones ricevono in regalo uno splendido omaggio,
appropriatamente idiota e in perfetto stile “gabba gabba hey”, “Tamara Punk Rock”
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Numero Ottobre '06
(“Ha il giubbotto dei Ramones / e indossa le espadrillas / lei è Tamara / e non
capisce un cazzo”). E ci sono pure ipotesi inquietanti di rock parrocchiale (“Papa
Voitila”), improbabili vicende di cambio di sesso (“Cristiano Cristiana”), parate
medievali trasfigurate in metafore deliranti sull’Unione Europea (“Donnez-moi une
cigarette”). Una follia organizzata ma non troppo, fissata su supporto da un divertito
– immaginiamo – Fabio Magistrali, senza forzature e aggiustamenti in corso. Difficile
dire se faranno proseliti, gli X-Mary, quel che è certo è che ci siamo innamorati del
loro cabaret anarchico fin dalla prima nota (www.xmary.net).
Alessandro Besselva Averame
Zauber
Draghi e vampiri
Eedc/BTF
Guidati tenacemente da Massimo Cavagliato, i torinesi Zauber sono tra i rari gruppi
sopravvissuti dell’ondata pop progressivo degli anni settanta. Sicuramente gli unici o
quasi, esclusi i soliti giganti (Orme, PFM, BMS, New Trolls), che non hanno avuto
bisogno di un posticcia reunion per farsi rivedere attivi, anche se qualche naturale
anno di silenzio l’hanno passato anche loro. Considerando che l’omonimo esordio
risale al 1978, sono quasi tre decenni che gli Zauber portano avanti la loro naturale
propensione alla melodia, con un suono che sa essere leggiadro ma anche incisivo.
Nonostante una formazione ballerina, più volta scomposta e ricomposta quasi come
un gioco a incastro, gli Zauber vantano una decina di lavori, comprese alcune
fondamentali collaborazioni teatrali e benefiche. E dispiace che una storia così
lunga ed appassionante non sia supportata da un sito Internet, quasi a testimoniare
che l’energia dei protagonisti è concentrata solo sulla musica. Questo nuovo lavoro,
a cui collaborano numerosi ospiti, è un bel puzzle, che incastona sette brani originali
– tra cui le ottime “Draghi e vampiri”, “Scoop” con il suo testo così attuale, “Nemesi”
e “Sogni” – con tre riletture indovinate: “Can Anybody Hear Me?” dei Gravy Train,
“75.000 anni fa” del Banco e “Il vento” di Lucio Battisti, con tanto di richiamo iniziale
ai Black Sabbath. Buona la voce di Leo Fiore e fondamentale l’apporto, anche in
fase compositiva, del tastierista Oscar Giordanino. Musicalmente per nostalgici, ma
funziona (www.btf.it).
Gianni Della Cioppa
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Ettore Giuradei & Malacompagine
Ettore Giuradei, sembra essere arrivato da dietro l’angolo con la sua chitarra e il suo
sapore jazz per raccontarci storie di emozioni vissuti sulla propria pelle. Storie di un
poeta che convive ogni giorno con la sua sensibilità, l’insicurezza, gli occhi della
maledetta razionalità. Il suo esordio, “Panciastorie”, esce per la neonata Mizar (con
distribuzione Audioglobe), fondata da Davide Danesi e dallo stesso Ettore.
Cominci bene intitolando il tuo CD “Panciastorie”. Ci racconti cosa si prova
ad essere Ettore Giuradei narratore appunto di “panciastorie”? Come
descriveresti insomma il tuo approccio comunicativo?
“Panciastorie” è fondamentalmente il tentativo di creare una mia canzone d’autore:
spontanea, ingenua, violenta e insieme romantica, giocando con parole e musica
mentre dal vivo con il corpo. L’obbiettivo della mia ricerca è riuscire ad individuare e
unire l’essenziale massimo dei vari aspetti della mia personalità, spesso con
un’unica parola, con un movimento, con uno sguardo, su un unico accordo,
buttando tutto quello che è superfluo insistendo sulla vera urgenza, sulla continua
ricerca della massima coscienza dell’impulso, unica primordiale vera “microverità”,
veramente pura, potente e sorprendente. Tutti aspetti che se espressi al massimo
della loro potenzialità non possono che creare una “bomba comunicativa”, risultato
difficile da ottenere soprattutto per quanto riguarda il significato. Con “Panciastorie”
abbiamo provato a lavorare sugli opposti. Prendi, per esempio, una canzone come
“Porterò con me”: suonata solo con la chitarra continuava a darmi fastidio, perché
arrivava solo una sensazione di malinconica dolcezza, fin troppo sdolcinata che non
rappresentava il vero sentimento ispiratore della canzone, se dici certe cose così,
prendendoti tranquillamente sul serio, non sei assolutamente vero. Mancava il
nervoso, il pensiero che non ti fa dormire, e allora dentro con distorsioni fastidiose,
basso che implora, batteria pestata e piano a creare “cerchi ansiosi”. Non mi
interessa far conoscere il mio dolore, il mio piacere, la mia tristezza ma creare una
situazione o un sentimento che non riconducano per forza a me ma che rimangano
lì sospesi e per tutti.
Qual'è stata la tua prima vera canzone? La tua iniziazione alla musica...
Penso di non avere una prima vera canzone. Forse, nella sua banalità ed ingenuità
la prima, ma la cosa che mi ha iniziato, indipendentemente da quello che scrivevo e
cantavo, era il piacere che provavo nel comporre canzoni.
Hai iniziato subito cantando i tuoi testi o avevi semplicemente iniziato a
scrivere?
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Ho iniziato subito cantando i miei testi perché, fondamentalmente, canticchiavo
canzoni di De Gregori, Guccini, eccetera… e mi piaceva l’idea di cantare qualcosa
di mio, per lo meno provarci, così, per gioco.
Com' è nato questo disco? Il percorso seguito o le difficoltà eventuali.
Questo disco è lo specchio di un aspetto del suo titolo che è la pancia, l’urgenza.
Da parecchio tempo cercavo musicisti adatti al progetto “Panciastorie” e nell’ottobre
del 2004 ho provato con il chitarrista Gabriele Zamboni e mio fratello Marco alla
batteria e pianoforte ad arrangiare qualche pezzo. Il rumorismo distorto della
chitarra di Gabri abbinato alla batteria nevrotica e adolescenziale di mio fratello,
davano alle canzoni dinamiche assolutamente violente, quasi fastidiose: l’embrione
del nostro sound. Poco dopo, si è unito Gigi col suo basso gustosamente ipnotico e
a fine primavera si è aggiunto anche Marco A. alla batteria, in modo da lasciare a
Marco G. la possibilità di entrare col suo piano in tutti i pezzi. Dopo meno di un anno
eravamo in studio a registrare. In seguito con Davide Danesi abbiamo anche risolto
il problema della promozione del CD fondando l’etichetta Mizar Records.
Ci racconti come hai conosciuto Davide per fondare la Mizar, ma in seguito
per produrre anche altri gruppi?
Partiamo dal fatto che Davide è un artista, sognatore e anche poeta e in più lui sa
tutto, ma proprio tutto. Lui è amico di Gabri, il “mio” chitarrista e ha iniziato a seguirci
quando ancora eravamo in tre. Ma è stato a Gargnano nella primavera del 2005,
che abbiamo scambiato le prime chiacchiere su musica, arte, stelle e sogni. Lui
faceva il programmatore e così gli ho chiesto se mi dava una mano ad impostare il
sito del gruppo; lui ha accettato ed abbiamo iniziato a frequentarci. Più ci
frequentavamo e più capivo che sapeva tutto. E allora gli ho chiesto un parere sul
come promuovere il disco. Abbiamo avuto diverse idee tra cui quella di fondare
un’etichetta che sarebbe dovuta diventare una sorta di collettivo artistico, un punto
d’appoggio burocratico-promozionale per tutti quegli artisti spinti da una grande e
rabbiosa voglia di emergere. Dopo tanti e diversi incontri abbiamo capito che in
circolazione non ci sono poi così tanti artisti spinti da una grande e rabbiosa voglia
di emergere e allora abbiamo pensato di avviare l’etichetta come una normale
etichetta indipendente con sempre una porta aperta all’artista spinto e portando
avanti una politica di appoggio e di sostegno, per quanto c’è possibile totale, nei
confronti dei gruppi che abbiamo deciso di produrre.
Tu reciti da tempo, ma ora che hai fatto questo disco sembri aver deciso di
metterti a nudo e non inventare un altro, ma raccontare te stesso per la
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profondità di questi testi. Come mai questa scelta?
Ti devo confessare che non sono un attore classico ma un attore comico (Chaplin,
Keaton…), gioco sull’ingenuità, sullo stupore, sulla pazzia, sul silenzio, sullo
sguardo. E, i personaggi che creo sono la faccia estrema di un aspetto della mia
personalità. In modo diverso racconto me stesso sia in uno spettacolo che in una
canzone. Diciamo che l’approccio alla canzone è spesso più intimo, nasce da un
bisogno irrefrenabile di vedere scritto un pensiero impazzito che non si vuol far
decifrare. Però il piacere è lì, chiuso in un attimo, dopo aggiusti, correggi, provi.
Invece una cosa particolare è il concerto, in cui, in una forma un po’ strana canzone
e teatro si mescolano.
Che cosa ascolti quando sei felice? E quando sei disperato?
Quando sono felice ascolto un po’ di tutto. Quando sono disperato canticchio una
canzone, che non so di chi sia, che fa così: ” Era / che così / tra la pioggia e Nick
Cave / mi veniva di invitarvi / a un banchetto / di vino e carne / di violenza e
silenzi...”. Invece una canzone che canto sia quando sono felice che quando sono
disperato è “Hotel Supramonte”.
Contatti: www.ettoregiuradei.it
Francesca Ognibene
Angelica Sauprel Scutti
Leggi la sua biografia - una successione senza tirare il fiato di confidenze - e che
quindi biografia non è, e ti rendi conto, ancora prima di aver ascoltato la sua musica,
che Angelica Sauprel Scutti; anni spesi a cercare idee e a suonare, fino al suo
splendido debutto “Pomeriggi similabissali” (Point Of View/CNI); può essere tutto,
tranne banale.
Primo ascolto del CD: curiosità. Dal secondo, la certezza di non trovarmi
davanti all’ennesima rappresentante della generazione X. “Pomeriggi
similabissali” emana un fascino che non conoscevo. Inquietudine e velluto.
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Malinconia e dolcezza. Insomma un modo diverso per farti i complimenti.
Adesso però, la domanda retorica. Raccontaci come sei arrivata a questo
esordio.
Ti sono riconoscente per le tue impressioni, davvero. Rispondendo alla domanda,
pensavo di essere stata abbastanza chiara nel rigettare la biografia come biglietto
da visita, la didascalia necessaria ad illustrare le scelte di qualcuno. Soprattutto se
quei fatti non possono venire confrontati con le reazioni che ne hai ricavato, nel mio
caso di generale disagio. Le aspirazioni sono in un altro lato del cranio, sicuramente
in un luogo senza cornice. Retorica che circola a palate ogni volta che parli di
musica con chiunque, siano musicisti stessi o appassionati. Una scalinata per
Wanda Osiris, una parata di pietose bugie. Nelle mie intenzioni è un accesso
all’astratto ed all’immateriale, a suggestioni molto intense ed uniche. È critica feroce
verso i vezzi e la decadenza del mondo, è bozzetto caricaturale dei suoi generi
musicali e compassione verso le anime sofferenti degli uomini, me inclusa. Non mi
interessa un bel niente di essere fraintesa, perché il concetto di musica è per me
equivalente a quello di libertà di parola, come solo so concepirla. La musica è
l’unica mia libertà inalienabile.
Ho come l’impressione che tu sia alla ricerca dell’indipendenza artistica.
Quasi a dire che hai una tua personalità e pretendi che non venga confusa
con esempi e rimandi inopportuni. Ognuno tenta la propria eversione. Prendendo
la domanda da un altro fronte, penso che reagire ai paragoni, spesso accostati in
buona fede, sia da paranoici ed altrettanto lo sia continuare ad utilizzare delle
categorie dove incasellare la creazione degli altri sfuggendo accuratamente
l’impasse di renderne l’idea con il proprio mestiere. Poi c’è un’altra questione che mi
infastidisce, ed è quella di avere, come massima prospettiva futura, l’incredibile
soddisfazione di riuscire a guadagnarmi, un giorno, il nome di donna speciale come
un uomo normale, potendomi esibire fiera nei miei nuovi “attributi”. Nessuno che
parli di noi come esseri umani, mentre la prima categoria che si pensa
indispensabile ed innocua utilizzare è quella che distingue tra uomini e donne.
Questa è, tra tutte, quella che percepisco come più restrittiva. Si accosti pure quello
che scriviamo all’opera di altri musicisti, ma si valuti bene se è necessario
affermare, su tutto, la nostra femminilità. Avrei obiezioni in proposito.
C’è un preciso momento dove ritieni che una tua canzone sia finita o è un
processo che vive nell’attimo? E cosa ne pensi di una delle mode di questi
tempi, ovvero i remix. Saresti disposta a farti rimodellare le tue canzoni da
qualcun altro?
Mi è molto caro il processo di sovrapposizione e di destrutturalizzazione della
musica attraverso la componente digitale. Sono molto aperta in proposito e ritengo
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che il patrimonio creativo sia da far circolare anche nella fucina di altri alchimisti.. Il
mio processo è lineare e si basa in massimo grado sull’ispirazione e sulla
meditazione, non intesa in senso religioso, bensì di espressione, di chiarificazione
delle azioni già compiute. Sono convinta dell’importanza della messa a fuoco
mentale delle reali motivazioni, dell’urgenza espressiva di un’opera. Nel caso di
“Pomeriggi similabissali”, queste mie considerazioni su ciò che era stata la mia vita
fino a quel giorno hanno trovato fulminea voce in soli due pomeriggi. È bastato
prendere in braccio la chitarra ed accendere il registratore. È stato uno dei momenti
più intensi della mia vita.
Trovo i testi delle tue canzoni – volutamente confusi nel booklet – originali
come parole e metrica. In un certo senso paiono figli dell’inquietudine di oggi,
sia personale che universale. Hai anche altri obiettivi in futuro?
Ho sempre creduto che la poesia rincorra l'intelligenza solo all'inizio, poi la fugga
per il resto della vita. Considero le parole che utilizzo un mezzo e mai un fine. Come
dicevo, credo in una libertà d’espressione che non vuole avere scopi, come il gioco
e come l’amore. Comunico al tempo stesso per due essenze diverse dell'uomo, il
suo istinto e la sua ragione, facendone emergere le contraddizioni con un uso
sfumato, poco riconoscibile del sarcasmo. Se voglio mettere in luce un particolare
che ritengo deprecabile non ti dico: questo è brutto, utilizzando molti aggettivi
qualificativi, bensì lo calo allo stesso piano in cui potresti incontrarlo intorno a te in
un contesto quotidiano. Le tue reazioni nasceranno come già ti sono affini e
difficilmente riterrai che ciò sia stato volontario da parte mia. Per questo i miei testi
spesso non sono compresi. Questo è il fulcro della mia ricerca musicale. La verità è
che amo la vulnerabilità dell’uomo e delle cose in mutazione. Il passaggio da una
forma ad un'altra e gli stati intermedi. Il massimo della mia attenzione è rivolto a
creare paesaggi mentali privi di punti di riferimento, predisporre le cose al vostro
ingresso affinché, una volta iniziato il viaggio, vi ritroviate soli in un mondo non
programmato per godere con sorpresa delle visioni che ho preparato per voi. Non
esistono idee troppo pazze per l’arte!
Dove ti ritroveremo nella breve e media distanza?
Ho abbastanza problemi, al momento, a restare sulle mie posizioni. Il fronte è
mutato molto in fretta e ingoio le mie gavette di ghiaccio. Senza scherzi, mentre già
mi immaginavo impegnata nei primi live con le canzoni del disco, sono stata colpita
alle gambe dalla sclerosi multipla ed ho difficoltà a fare cose come reggere il palco,
trasportare strumenti, mimare “Jump!”. Suonare dal vivo, è uno sforzo che al
momento non posso permettermi, credo farò carte false per entrare in studio il prima
possibile per registrare il nuovo disco, che è già tutto nella mia testa. Parallelamente
inciderò il cuore delle altre canzoni che ho scritto fino ad oggi partendo dalle tracce
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di voce. Sarà un attività che mi prenderà del tempo, tutto il tempo necessario. Del
resto non mi importa granché. Quando scrivo o suono, “I’m in the kitchen with the
tombstone blues”.
Contatti: www.pointofviewrecords.com
Gianni Della Cioppa
Hogwash
Quarta fatica per i bergamaschi Hogwash, punto d’arrivo di un progressivo
avvicinamento alla scrittura pop senza perdere il gusto per il vintage e per
l’attitudine psichedelica: “Half Untruths” (Urtovox/Audioglobe) assesta gli spunti di
“AtomBombProofHeart”, bilanciando riferimenti al passato e una vena essenziale,
con la produzione dell’amico Alberto Ferrari (Verdena) a supervisionare il tutto. Ne
parliamo con Roberto ed Enrico, rispettivamente batterista e chitarrista.
Su “Half Untruths” salta subito all'occhio la presenza di Alberto Ferrari dei
Verdena nel ruolo di produttore. In realtà vi conoscete da sempre e i Verdena
hanno già preso parte a “Tailoring”, il vostro secondo album. Perché avete
scelto di affidargli un disco che vi vede sempre più distanti dal loro mondo
sonoro?
Roberto: Ci sono diverse ragioni che ci hanno spinto ad affidare tutti gli aspetti
tecnici di registrazione e produzione ad Alberto, prima tra tutte la grande
soddisfazione di essere in uno studio dotato di strumentazione analogica, cosa
sempre più rara. In secondo luogo, l’amicizia di lunga data. Infine ci interessava
vedere come sarebbe riuscito ad interpretare le nostre sonorità. Mi ha molto colpito
la costanza e la profonda attenzione che ci ha messo, senza mai cedere
all’impazienza nonostante i lunghi tempi di gestazione.
Enrico: Nei dischi precedenti mi sono sempre occupato io delle registrazioni, e
dopo aver prodotto tre dischi come Hogwash e uno come Colt38 è stato più che
naturale voler provare altre strade. Inizialmente ero piuttosto diffidente, perché ho
sempre avuto il controllo su tutto e quindi volevo capire quanto Alberto fosse in
grado di interpretare il nostro sound, poi gradualmente ho sciolto le mie riserve e mi
sono limitato a dare qualche indicazione. Abbiamo sound distanti ma forse è meglio
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così, mi piace il “bel suono” ma odio gli esercizi di stile.
“Half Untruths”, se si parte dai vostri esordi sonici e quasi stoner, è il punto
più lontano che avete raggiunto: l'anima pop viene fuori con ancora maggiore
forza rispetto al lavoro precedente. Una scelta in qualche modo legata ad un
periodo particolarmente sereno, privo di pressioni, le sfumature della maturità
che subentrano ai chiaroscuri degli esordi?
R.: Sicuramente questo disco è frutto e segnale di cambiamento. Sono cambiate le
dinamiche personali in cui ci muoviamo. E’ cambiato addirittura il modo di suonare,
per quel che mi riguarda. E’ diventato molto più importante comporre i pezzi
evitando qualsiasi forzatura. Ogni pezzo è frutto di lunghe gestazioni compositive,
ma tutto questo nostro grande sforzo non deve apparire all’ascolto. Alcune canzoni
hanno cambiato stesura, arrangiamento e atmosfera più volte, prima di raggiungere
la forma finale. Tra le poche cose certe della vita, una è il cambiamento. Riuscire a
inserire questo concetto nei nostri dischi mi da grande soddisfazione.
E.: Sono trascorsi tre anni molto densi di avvenimenti strettamente legati alla sfera
personale, è inevitabile che si riflettano nella nostra musica. Il tempo stesso che ci
dedichi può cambiare il modo di comporre, io ad esempio mi sono trovato
spessissimo a comporre di notte, sfiorando la chitarra accompagnato da una
bottiglia di vino. Non so se per questo si possa definire un disco notturno, anzi, dopo
“AtomBombProofHeart” in qualche canzone abbiamo risfoderato la voglia di fare un
po' casino. È comunque evidente la presenza di chiaroscuri, canzoni come
“Goodbye Letters” e “Holes In My Maps” hanno atmosfere molto diverse fra loro e
riflettono situazioni umorali contrastanti.
Stiamo parlando di un disco che non nasconde le proprie ambizioni pop,
legandosi però ad un certo immaginario, ad un periodo ben preciso (gli anni
70) e ad una scena ben precisa (un certo rock americano impegnato a
rileggere la propria tradizione). Una sintonia che però non sfocia mai nella
maniera. Tuttavia mi chiedo se durante la scrittura dei brani non vi siate
rimessi a riscoprire alcuni dischi e artisti in particolare. Nel caso di una
risposta affermativa, quali?
R.: Non amo elencare quali e quanti gruppi musicali mi piacciono o mi hanno
influenzato. Essendo tutti e quattro grandi ascoltatori di musica di tutti i generi, è
chiaro che le influenze sono numerose. Sicuramente il nostro amore per alcuni
ascolti si manifesta in modo evidente alle orecchie più esperte, ma non ci sono
citazioni espressamente volute nel disco.
E.: Nei miei ascolti ci sono presenze costanti tipo Red House Painters o Mojave 3
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che, come hai detto tu, rileggono certa musica tradizionale, e c'è stata una
riscoperta, che però non credo abbia influito tantissimo, di cose tipo Allman
Brothers, Neil Young, Crooked Fingers. Gli anni 70 sono da sempre una mia grande
passione, in particolare il prog e gruppi tipo Yes, Van der Graaf Generator, King
Crimson, Caravan e Gentle Giant hanno sempre suscitato un forte fascino su di me.
Purtroppo non sono un virtuoso della chitarra quindi mi devo arrabattare suonando
la musica più sfigata, vale a dire l'indierock. Inoltre, in gran segreto, mi sparo a
palla Dillinger Escape Plan, Coalesce, i vecchi Agnostic Front, Fred Buscaglione e
Slayer.
Pur allontanandovi dal suono degli esordi, avete sempre mantenuto un
rapporto costante con la psichedelia. Al di là dell'immaginario facilmente
accostabile al termine, questa attitudine è presente anche in “Half Untruths”,
siete d'accordo?
R.: Psichedelia significa “psyche-delein”, ovvero “mostrare l’anima”, e in questo
senso, ancora oggi, la nostra musica è di per sé psichedelica, forse ancora di più di
un tempo. Teniamo molto a lasciare affacciare le nostre emozioni quando
suoniamo. Ci piace anche far percepire un mood diverso in ogni canzone. Credo
che ogni pezzo musicale possa essere definito psichedelico quando mette a nudo le
emozioni dell’artista.
E.: Si è facilmente portati ad accostare la psichedelia a lunghe jam farcite di delay e
fuzz, capelli lunghi, e tutto l'immaginario fatto di disegni optical e donnine discinte.
Da tempo ci siamo rotti le palle di suonare canzoni lunghe, preferiamo complicarci la
vita con linee di chitarra intricate e ricerca di dinamiche all'interno delle canzoni. Del
resto anche i Grateful Dead non è che facessero musica particolarmente lineare,
quindi accostare, dalla giusta angolazione, questo disco alla psichedelia mi sembra
tutto sommato corretto.
Contatti: www.hogwash.it
Alesssandro Besselva Averame
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Iver & the drIver
“Samples And Oranges” (Ghost/Audioglobe), il debutto degli Iver & the drIver, è un
ottimo catalizzatore di emozioni folk-pop e intimismi della laptop generation. Ne
parliamo con i due artefici del progetto, Paolo Marini e Giustino Di Gregorio. Gente
che non ama stare con le mani in mano.
Cominciamo con le presentazioni. Chi e cos'è Iver & the drIver?
Il progetto nasce nell’estate 2003. Entrambi siamo stati attivi negli anni ‘90 per poi
entrare in una fase di apparente inattività, nel senso che non pubblicavamo roba
nuova anche se andavamo accumulando e registrando idee. Ci siamo incontrati
casualmente ad un concerto e, tra una chiacchiera e l'altra, abbiamo scoperto che
da due mezze svogliatezze poteva uscire fuori qualcosa di interessante. Io avevo
diverse canzoni per voce e chitarra registrate in cameretta. Riascoltandole con
Giustino capimmo che da questo materiale si poteva partire per creare un progetto
che unisse elettronica e sonorità acustiche senza per forza di cose copiare roba tipo
i Notwist o, in seguito, i Postal Service. Dopo continue sedute notturne abbiamo
iniziato a ingranare e, lentamente, le canzoni iniziarono a prendere forma e con
esse la denominazione Iver & the drIver. Intanto cercavamo un'espressione che
contenesse due elementi da accostare. Partendo dal presupposto che “Iver” è un
termine che ricorda Allen Iverson e “drIver” il Robert De Niro di “Taxi Driver”, l'idea di
base è comunque quella di figurare la commistione di parti inorganiche, come
potrebbero essere i driver di un software, e parti organiche (Iver è un nome proprio
di persona).
Come siete approdati alla Ghost?
Abbiamo realizzato e inviato un demo con quattro pezzi a diverse etichette in Italia e
in Europa nella speranza di suscitare qualche interesse in persone che
producevamo roba simile alla nostra. La prima a risponderci è stata la Ghost, che si
è mostrata subito interessata e disponibile a collaborare. Dopo varie e-mail,
telefonate e un fugace incontro a Varese in occasione di una “divertente” partita di
basket, abbiamo concretizzato la collaborazione. Nell'estate del 2005, completati
dieci pezzi, siamo “saliti al nord” per registrare l'album con i tecnici della Sauna,
Marco Sessa e Andrea Cajelli.
Ascoltando “Samples And Oranges” possono venire in mente svariate
influenze musicali, dal folk inglese all'indietronica e all’indie rock. Da che
punti siete partiti per comporre il disco?
Sinceramente non abbiamo fatto troppi calcoli all'inizio. Non abbiamo deciso a
tavolino il da farsi ma ci siamo messi a cercare una via, chitarra o mouse a portata
di mano, utilizzando tutti i riferimenti musicali accumulati negli anni. La lista sarebbe
difficile da condensare in poche righe. Comporre musica è in fondo un processo
istintivo, e solo in una seconda fase ragionato. Poi ognuno ci vede quello che vuole,
nelle canzoni, ma per noi si è trattato di cercare una formula melodica dando il
giusto peso all'elettronica, senza relegarla a semplice accompagnamento come
spesso accade. Nella composizione dei pezzi, ad esempio, non siamo mai partiti da
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un brano voce e chitarra sul quale inserire dei suoni ma abbiamo sempre montato
parti acustiche e parti elettroniche nel tentativo di trovare in maniera semplice e
diretta il giusto equilibrio. Poi c'è una volontà di riaggiornare concetti musicali legati
al passato facendo percepire l'utilizzo di sonorità legate al presente.
E dove volete arrivare?
La ricerca continua è un discorso di maturazione. Con l'evoluzione del progetto ci
siamo resi conto che era possibile staccarsi sempre più dal concetto “tedesco” di
elettronica e trovare una via “mediterranea” a quella musica che oggi si definisce
folktronica, senza passare obbligatoriamente dal “mandolino”. Basta prendere
“Words On A Med Balloon” per capire che un pezzo del genere è comunque
composto in Italia pur avendo tanti suoni elettronici che lo esterofilizzano.
Giustino, nel tuo curriculum c'è anche un disco uscito per la Tzadik di John
Zorn. Com'è nata la collaborazione? Come lavora la Tzadik?
Mi contattò John Zorn dopo aver ascoltato un pezzo del mio primo lavoro
autoprodotto uscito nel 1995. A quel punto diedi forma a del nuovo materiale per
permettere all'etichetta di ristampare quella composizione aggiungendo altri lavori.
Dopo tre anni mandai il progetto a Zorn che lo fece uscire per la Tzadik nel 1999. A
distanza di anni continuo a pensare che la cosa che mi ha fatto più piacere in
questa vicenda è stata la completa libertà sui tempi di lavorazione lasciatami
dall'etichetta che una volta deciso di produrre il mio disco ha semplicemente
aspettato che terminassi a modo mio il lavoro.
Paolo, tu invece hai suonato con gli Orange Indie Crowd. Che fine hanno
fatto? Torneranno? Come mai hai deciso di rimetterti in gioco?
Gli Orange Indie Crowd nacquero una decina d'anni fa e all'inizio c'era un'energia
incredibile attorno a noi. Nel 1998 registrammo anche un disco per la Vurt, che due
anni prima aveva prodotto una compilation allora molto originale con noi – che a
quei tempi ci chiamavamo ancora Protein –, Yuppie Flu, Northpole e Lo-Fi Sucks!.
Abbiamo smesso di suonare cinque anni fa con un concerto di spalla agli Aluminum
Group ma mi vedo con i ragazzi tuttora e non si può escludere nulla in futuro. Fra
l'altro abbiamo diverso materiale nuovo mai pubblicato.
Che progetti avete per il futuro?
A breve vorremmo riprendere a lavorare su del nuovo materiale per il secondo
album di Iver & the drIver. Sia io che Giustino abbiamo ancora tanta materia sonora
da plasmare e poi l'intenzione è quella di integrare sempre più un batterista e un
altro chitarrista per evolvere ulteriormente il progetto.
Come vi siete affacciati sulla scena italiana di questo 2006? Come vi sembra?
Che impressione vi ha fatto?
Paradossalmente si suona poco, si vendono pochissimi dischi ma gruppi indie
italiani si vedono produrre album o espatriano all'estero con molta più facilità
rispetto a dieci anni fa. Se devo fare un nome per me nuovo in questo 2006 direi gli
Amari ma, al di là di un discorso di genere, sono convinto di un fatto. Sarà
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un'ovvietà, ma finché ci sarà gente talentuosa che nascerà in un noioso posto di
provincia, che sia di 5000 o 50000 abitanti, che si chiami Teramo o Varese, che
abbia più pizzerie che librerie, la musica ne trarrà comunque beneficio.
Contatti: www.ghostrecords.it
Hamilton Santià
Miss Violetta Beauregarde
Un disco – il suo secondo – come “Odi profanum vulgus et arceo” appena uscito per
la Temporary Residence (con distribuzione Wide), etichetta di un certo qual
prestigio; la voglia e la capacità di costruirsi già da anni, piaccia o non piaccia, una
identità originale, precisa e riconoscibile (tra l’altro autentica e non posticcia). Ce n’è
abbastanza per dare spazio a una lunga e succosa intervista con Miss Violetta
Beauregarde. Non spendiamo altre parole: cediamole direttamente a lei, che le usa
a modo.
Cominciamo con una sana domanda da nerd: cos’è cambiato nella tua
strumentazione rispetto al primo disco, così come nel processo di mixaggio?
Dubito che questo possa costituire oggetto di reale interesse per i lettori del
Mucchio, li credo più inclini al farsi domande di livello indienazionalpopolari tipo ad
esempio se io e Tying Tiffany siamo amiche o ci odiamo cagnescamente (mi
dispiace deludervi: non ci odiamo cagnescamente) et similia; ma ti lascio
requiescere nel confortevole filmino del “Sì, ai lettori del Mucchio gliene fotte
qualcosa di tutto questo”. Nel primo disco e nel periodo esattamente successivo
prevaleva la voglia di far macello costruendomi gaiamente aggeggi rustici e poco
maneggevoli, giusto per il gusto di. Pian piano l’attitudine “che sia piccolo,
maneggevole, leggero e che non si rompa di continuo perché nei tuoi aggeggi
autocostruiti i fili son collegati di merda” ha lasciato spazio a un magnificente
campionatore della Boss, SP 303, che contiene tutte le meraviglie del mondo,
smanettabili in pochi centimetri di spazio con un numero inusitato di effetti:
loopatore, sequencerino, e divertenti pad gommosi da schiacciare, che si illuminano
pure! Chi se ne incula dei meccanici del suono che si trainano venti metri cubici di
flightcase ripieni di scarti tecnologici assemblati alla cazzo per provocare lo stesso
rumore che si potrebbe ottenere schiacciando UN solo bottone e ruotando di
15° verso destra UNA manopola del mio sampler. Ah già, il fascino del
nerdeggiare con l’immondizia, tre fili e un saldatore… Io dico: provate a viaggiare in
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treno e portarveli tutti in spalla, i vostri ammennicoli preistorici del cazzo, vedrete
come magicamente correrete a sostituirli con apparecchi più acconci. Il fatto è che
prima miravo unicamente a dare fastidio; ora miro a dare fastidio a certa gente, e a
certi altri voglio regalare tappeto sonoro propedeutico allo svalvolo e al degrado.
Fino a quando resterà in qualche modo sconvolgente che una donna sappia
smanettare con strumenti elettronici in prima persona, invece di appoggiarsi a
fidanzati e amanti?
Abbastanza lapalissiano: rimarrà sconvolgente finché le donne non la smetteranno
di appoggiarsi a produttori, fidanzati e amanti. Io non ho mai dato la colpa agli
uomini del fatto che una donna che fa musica è vista con curiosità e scetticismo: è
assolutamente colpa delle donne. E quindi nel momento in cui qualcuna di noi viene
a proporsi musicalmente, viene vista come un alieno. Il mondo è maschilista! È
difficile fare musica se sei donna! Stronzate. Una donna in quanto tale ha
artisticamente un bagaglio di munizioni attitudinali da schiacciare un plotone di
gruppi maschili come una cacata di gallina. Ma le femmine non sono inclini ad
usarle e a far sì che ogni situazione volga a proprio favore, e sfruttare le varie
potenzialità. Molto meglio lagnarsi che il sistema musicale è un inscatolamento
fallocentrico, ma non fare nulla per contrastare, tentacolarmente e con metodo,
questo status. Ovviamente pochissime lo fanno, sicché esse vengono scrutate con
curiosità e vagonate di scetticismo.
Che impressione hai avuto a lavorare con una etichetta americana? È
davvero così un altro meraviglioso mondo, rispetto alle etichette di casa
nostra? Ci sono differenze pratiche e/o di attitudine?
Al boss della Temporary Residence, Jeremy Devine, dovrebbero erigere una statua
lignea, e apporla al posto di quella della madonna che campeggia a Medjugorje. È
un mondo meraviglioso perché non ho dovuto fare un cazzo a parte rompere i
coglioni a Rico degli Uochi Toki perché secondo me l’equalizzazione della cassa era
una merda e poi volevo che mi ponesse rilievo su quei sample fastidiosi mentre egli
premeva per affossarmeli; poi, sbriciolare lo scroto a Baronciani e Toffolo perché la
mucca della copertina aveva le corna troppo lunghe, e scroccargli da mangiare. Per
il resto, hanno curato tutto quelli della Temporary Residence, stampa, distribuzione,
pierraggio, pubblicità – anche qui in Italia. Jeremy è tranquillissimo, ha
pazientemente sopportato le mie note e temute procrastinazioni, è un uomo di
spirito e dalla grande ironia, preciso e puntiglioso ma non spaccacazzo, insomma
uno che fa le cose seriamente e non un pippotto. Certo, uno può chiedersi “Se
Jeremy conduce tutto cosi professionalmente, come è che ha fatto uscire ‘sto disco
di Violetta?”. Cazzi suoi, direi.
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Disegna una mappa di persone che senti simili a te, o che comunque stimi
particolarmente: ok, musicisti, ma se vuoi puoi anche andare a pescare in altri
campi.
‘Sto gran cazzo, io non divido la mia Mappa Delle Persone Fighe con nessuno.
Cosa c’è di vero in questo crescente entusiasmo che dichiari sul tuo blog (e
confermato dal tuo account su MySpace) nei confronti della scena hip hop
italiana?
L’hip hop se preso a giuste dosi e frequentando le giuste persone è qualcosa di
estremamente divertente, di ricolmo di gag, e nello spirito del quale mi ci riconosco
per molti tratti. Purtroppo l’hip hop non lo puoi prendere a giuste dosi, perché tende
a fagocitarti, come è giusto che sia, e non esistono persone giuste da frequentare,
bensì una divertente massa di erotomani delinquenti in egotrip costante, che se
affrontata in un determinato modo ti regala sorrisi, serate in cui ritorni a casa
strascinandoti sui gomiti con gli occhi ribaltati e un filo di vomito da un angolo della
bocca, e delle scintillanti perle di iperrealismo da vantartene coi nipoti nei lustri a
venire (oddio dipende come vuoi tirarli su, ‘sti nipoti). L’hip hop ho cominciato ad
ascoltarlo nel lontano 1993, quando vigeva la commistione
alternative-metal-punk-rappusi, è scemato l’interesse a fine anni 90 ed è
recentemente rinato con ascolti massivi di hip hop italico e non. È insidioso il rap,
inizi a muovere la testa singalongando “baggy jeans bene calati sotto il culo / vivo
per strada non pensando al futuro” dei CdB, e finisci a litigare in freestyle con il tuo
coinquilino per stabilire i turni del cesso al mattino. Io stessa sto (con molta lentezza
e circospezione) portando avanti un side project rappuso mio, in italiano
ovviamente, che verrà curato da Lou Chano, producer del disco “I più corrotti” di Gel
e Metal Carter del Truceklan e curatore delle prossime uscite del Truceklan stesso,
nonché uomo della Tekno Mobile Squad nonché il migliore equalizzatore di casse in
Italia, secondo la mia modesta opinione. Inoltre Lou Chano curerà pure la
registrazione dei pezzi nuovi di Violetta e con ella e un altro ragazzo dello studio di
registrazione si è messo su un ulteriore side project. Tanto per finire di parlare di
progetti laterali, quest’autunno apparirò in un film che vedrà come altri personaggi
gente di Club Dogo e Truceklan. Maggiori info in seguito sui vari blog e minchiate
varie.
In conclusione: chi va a vedere un live set di Miss Violetta Beauregarde, cosa
si deve aspettare?
Ultimamente, un sacco di svalvolati in MDMA e cartoni che fan bordello davanti al
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palco, e molestano gli indie rocker delle file dietro. Cosa di cui sono
soddisfattissima, era il risultato che volevo ottenere. È’ vero, non si comprano un
cazzo di dischi perché si sono sucati tutti i soldi della serata in droga, ma del resto
come biasimarli, farei anche io lo stesso. E’ più divertente performare di fronte a
quaranta sfracellati che saltano e urlano “Ancora porcoddioooooooo biiiiiis vai giù di
Rotterdam!” piuttosto che farlo di fronte a una massa di finocchi rincoglioniti che ti
scrutano da dietro gli occhiali a braccia conserte, e il che giorno dopo annoteranno
sul loro blog musicale della minchia che negli ultimi mesi sono ingrassata e che la
mia musica è dozzinale.
Contatti: www.violettasucks.com
Damir Ivic
Scaramouche
Esordio del gruppo tosco-meridionale degli Scaramouche, con un disco omonimo
(EMI) spumeggiante, sotto la supervisione del Litfiba Gian Luigi “Cabo” Cavallo. Ne
abbiamo chiacchierato con il chitarrista della band Michele Mingrone.
Com'è stata la gestazione di "Scaramouche"?
Abbastanza serena, prima di registrare avevamo lavorato per molti mesi su suoni e
scelte musicali, da soli e poi con Cabo e Carlo Barducci degli studi Parsifal di
Firenze. L’unico dispiacere è stato dover rinunciare a un paio di pezzi pronti, che
però non si incastravano bene con gli altri. Per mantenere la coerenza stilistica
abbiamo inserito solamente dieci pezzi, come in un LP “all’antica”, anziché i dodici
previsti.
La vostra musica appare fortemente influenzata dall'etnica e dal folk, ma ha
anche forti connotati rock (folk'n'roll, qualcuno la chiama). Come definiresti il
vostro sound?
Il termine folk’n’roll rende abbastanza bene l’idea, anche se, forse, mette l’accento
in modo eccessivo sulla parola “folk”. In realtà le componenti base sono tre, nella
stessa percentuale: folk, rock e musica d’autore italiana. In più, sono stati spruzzati
in piccole dosi, a mo’ di spezie, altri ingredienti: swing, blues, musica balcanica,
punk, jazz… Comunque, visto che ci siamo conosciuti suonando musica popolare
del sud Italia e poi abbiamo aggiunto gli altri ingredienti, potrei definire gli
Scaramouche un gruppo post-folk.
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Prima citavi “Cabo”, il Litfiba Gian Luigi Cavallo. Come avete lavorato
insieme?
L’incontro con Cabo è stata una bella esperienza, umanamente e musicalmente. È
stato una preziosa fonte di consigli e di stimoli, insegnandoci un metodo di lavoro
più professionale e concreto. Si è rivelato un ottimo compagno di bevute e cene
insieme, il che non guasta mai, perché la componente enogastronomica è
fondamentale per la band.
Il fatto di incidere già per una major cosa ha rappresentato in termini di libertà
espressiva o di compromessi?
La EMI ci ha lasciato esprimere in piena libertà. In un paio di casi abbiamo deciso di
accorciare un po’ i pezzi, per dar loro i tempi giusti per i passaggi radio, ma sono
state decisioni prese con i produttori, non con la casa discografica.
Un filo letterario unisce i brani dell'album: Dostoievskij, Tati, Molière,
Collodi...
Per quanto riguarda il “fil rouge” letterario (a cui aggiungerei Goldoni e Rostand),
non è particolarmente cercato: alcune associazioni con libri (o film, nel caso di Tati e
Totò) sono saltate fuori in modo spontaneo in fase di scrittura. Comunque, ammetto
volentieri che il vizio della lettura è piuttosto frequente, nella band.
Cosa rappresenta l'allegoria di Scaramouche, il vostro nome?
Ci siamo resi conto che ogni canzone rappresentava un personaggio, creando una
galleria di maschere da indossare per raccontarne la storia. Tra tutte abbiamo scelto
quella di Scaramouche perché ci è piaciuto il “cambio d’immagine” che questo
personaggio compie: lo spadaccino arrogante e vanaglorioso delle prime
raffigurazioni abbandona la spada per una chitarra. Un buon messaggio, secondo
noi. In più, è un italiano che ha fatto fortuna all’estero; il nome originale della
maschera era Scaramuccia: diventò Scaramouche quando l’attore che lo
interpretava, Tiberio Fiorilli, approdò a Parigi trovando gloria e celebrità. Ci è
sembrato di buon augurio…
Riproponete la Tarantella del Gargano. Michele Lombardi, vostro cantante e
paroliere, è di origine meridionale. Le radici sudiste sono condivise da tutti?
Da buona parte del gruppo: Pino (Fidanza, il batterista, NdI) è di origini siciliane; io,
pur essendo nato e cresciuto a Firenze, vengo da una famiglia metà calabrese e
metà jugoslava; Alfredo (D’Onofrio, NdI), il bassista, viene dalla provincia di
Benevento. Solo Riccardo (Brizzi, NdI), il percussionista, è maremmano doc. La
“Tarantella del Gargano” è un omaggio affettuoso alla musica con cui ci siamo
conosciuti.
Noto una forte affezione per una certa canzone swingante. Siete d'accordo?
Sicuramente sì; tra i nostri ascolti ha un posto di rilievo lo swing ironico di Carosone,
Buscaglione e Sergio Caputo.
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Quali autori considerate più vicini a voi?
Abbiamo autori di riferimento molto diversi, c’è chi viene da esperienze di etnica, chi
dal cantautorato, chi dal jazz, chi dal dark. Probabilmente il principale trait d’union
tra tutti noi è l’amore per Tom Waits. Tra altre influenze cito in ordine sparso De
André, Pogues, Nick Cave, Eugenio Bennato, il primo Ruggeri, Rino Gaetano, Paolo
Conte, Matteo Salvatore, Swans, Trilok Gurtu.
Il disco contiene brani sulla guerra poco trionfalistici, molto efficaci. Che idea
avete del ruolo che l'artista può/deve avere in perenne tempo di guerra?
È una guerra perenne che sembra creata per tenere le persone sotto una continua
sensazione di paura. Negli ultimi anni ci hanno insegnato la paura del diverso, di
attentati ed epidemie, drammatizzando oltre ogni limite i fatti reali. In questo senso,
la canzone più “politica” è “Ho paura di tutto”, anche se “Il missile intelligente” e
“Milena” sono più esplicitamente schierate in senso pacifista. Quello che può fare un
musicista è mettere in luce le contraddizioni di questo stato di guerra permanente, i
danni che crea al mondo, a volte portando distruzione, altre volte, subdolamente,
convogliando la mente delle persone in un tunnel di diffidenza e timore dell’altro.
Aver paura del tuo vicino di casa, o del passeggero seduto accanto a te sul treno, è
l’anticamera delle faide.
Contatti: www.scaramouche.it
Gianluca Veltri
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Spazio Giovani 2006
Teatro Mediterraneo, Foggia, 1-3/9/06
Ormai lo diciamo da parecchi anni, ma ripetersi non fa mai male. “Spazio Giovani” è
già da tempo uno dei concorsi per artisti emergenti più prestigiosi e meglio
organizzati d’Italia. Per tanti motivi: il trattamento riservato ai gruppi, la bellezza del
palcoscenico e della cornice, il livello tecnico eccellente di tecnici e impianto e,
soprattutto, la varietà e la qualità delle band finaliste – sedici, scelte tra le ben 562
iscrittesi (tra cui anche alcune straniere).
Come da formula ormai collaudata, due serate di semifinali hanno portato alla
composizione della finalissima del 3 settembre. E, tra gli otto gruppi esibitisi, il
successo finale è andato ai carpigiani F.A.T.A.: formazione ormai collaudatissima e
autrice di una new wave energica e melodica e dalle forti componenti teatrali. A loro
non soltanto il premio “Città di Foggia”, ma anche quelli della giuria popolare e di
Radionorba e la targa MEI, lasciapassare per esibirsi al prossimo Meeting delle
Etichette Indipendenti di Faenza. Per quanto riguarda il Premio della critica, invece,
la scelta è caduta sui romani Croma Nova e alle loro raffinate atmosfere in bilico tra
chanson, pop e jazz.
Reso onore ai vincitori, è doveroso ricordare gli altri finalisti, anch’essi protagonisti di
una serata davvero di gran livello. I salernitani Gruppo Zed, anzitutto, con la loro
opera di recupero e (relativa) modernizzazione delle tradizioni campane,
classificatisi secondi per un solo punto. E poi il grintoso pop dei The Cube (Verona),
le atmosfere acusticheggianti dei capitolini ProgettoT, il trip-hop dei loro concittadini
Revhertz, gli interessantissimi e orchestrali Shin (Merano) e l’elettronica eterea degli
Shirley Said (Latina). Infine, menzione d’obbligo anche per i potentini La Scentifica,
non classificatisi per la finale e vincitori del premio de La Gazzetta del Mezzogiorno.
Insomma, bersaglio centrato in pieno anche quest’anno, grazie a uno a un
meccanismo organizzativo pressoché privo di falle. E per la prossima edizione, la
decima, l’Amministrazione Comunale promette sorprese speciali.
Aurelio Pasini
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it