Esperienze di associazionismo e di volontariato nel mezzogiorno d

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Esperienze di associazionismo e di volontariato nel mezzogiorno d
Sindaco di Napoli
Complimenti a chi ha deciso di aprire il cuore alla solidarietà. Questa
è la Napoli che amo, la città dell’accoglienza e della fratellanza. Un esempio da imitare!
Napoli 9 marzo 2012
Luigi De Magistris
ESPERIENZE DI ASSOCIAZIONISMO
E DI VOLONTARIATO
NEL MEZZOGIORNO D’ITALIA
La città di Napoli è profondamente grata ed orgogliosa per l’opera dell’Associazione Maria Rosaria Sifo Ronga. La casa di accoglienza presso
l’Ospedale Monaldi costituisce una iniziativa di grande coraggio, di solidarietà e di amore per chi soffre. Alleviare la solitudine del malato garantendogli la vicinanza di persone di famiglia è un gesto ricco di umanità.
Al Presidente dell’Associazione ed a tutti i volontari e le volontarie va
la mia ammirata gratitudine. Sono sicura che i vostri ospiti ricorderanno
la bellissima e ridente “casetta” con grande affetto. Auguri di cuore per il
vostro ottimo lavoro.
Napoli 13 novembre 2010
Rosa Jervolino Russo
ESPERIENZE DI ASSOCIAZIONISMO
E DI VOLONTARIATO
NEL MEZZOGIORNO D’ITALIA
a cura di
Nello Ronga
Sindaco di Napoli
Io non conosco il fondo del lungo cammino della mia sofferenza.
Io non so se mia figlia, che è tanto giovane, vivrà o morrà, ma la
Casetta mi ha insegnato che il dolore può ma non deve inaridire i cuori,
perché sul terreno del dolore, tanto più grande è, tanto più inestinguibile
è, può nascere l’immenso albero della generosità e della solidarietà.
Napoli 17 dicembre 2011
Maria, di Aversa (Caserta)
È stata una bellissima esperienza di avere una Casa da abitare per qualcuno che viene (da) così lontano. Noi veniamo dall’Australia. Siamo
venuti in circostanze così dolorose. Nostra Madre è così malata. Grazie,
Grazie Mille per la vostra ospitalità. Che meraviglia trovare questa “Bellissima Casetta”. Il Signore benedica a voi tutti per il bene che abbiamo
avuto e ricevuto con tanto affetto.
Napoli 1 settembre 2012
Eugenio, Marisa e Maria, Australia
ospiti della Casetta
Associazione Maria Rosaria Sifo Ronga
ospite della Casetta
Associazione Maria Rosaria Sifo Ronga Onlus
CENNI SUL VOLONTARIATO E L’ASSOCIAZIONISMO NEL MERIDIONE D’ITALIA
Lettere e Arte/4
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NELLO RONGA
CENNI SUL VOLONTARIATO E L’ASSOCIAZIONISMO NEL MERIDIONE D’ITALIA
ESPERIENZE DI ASSOCIAZIONISMO
E DI VOLONTARIATO
NEL MEZZOGIORNO D’ITALIA
a cura di
Nello Ronga
Associazione Maria Rosaria Sifo Ronga Onlus
2014
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NELLO RONGA
Volume stampato con il contributo del 5 x 1000.
Il file in formato PDF è disponibile sul sito www.associazionesiforonga.it
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CENNI SUL VOLONTARIATO E L’ASSOCIAZIONISMO NEL MERIDIONE D’ITALIA
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Il dubbio o la fiducia che hai nel prossimo
sono strettamente connessi
con i dubbi e la fiducia che hai in te stesso.
Chi ti dà una serpe quando chiedi un pesce,
può darsi abbia solo serpi da dare.
La sua, dunque, è generosità.
(KHALIL GIBRAN, poeta, pittore e filosofo libanese,
Bsharri, 6 dicembre 1883 – New York, 10 aprile 1931)
Alle volontarie e ai volontari della nostra Associazione
e a tutti coloro che dedicano
una parte del loro tempo agli altri.
Ai circa 1200 ospiti che hanno dimorato
nella nostra Casetta dimostrando che l’autogestione
è possibile anche nel Mezzogiorno d’Italia
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NELLO RONGA
CENNI SUL VOLONTARIATO E L’ASSOCIAZIONISMO NEL MERIDIONE D’ITALIA
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INDICE
Presentazione
RELAZIONI INTRODUTTIVE
11
Nello Ronga
Cenni su volontariato e associazionismo nel Meridione d’Italia
dall’Unità a oggi
Renato Briganti
Costituzione, cittadinanza attiva e partecipazione nell’Italia Meridionale
13
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Federico D’Agostino
Giovani e volontariato nel Mezzogiorno. Il ruolo dei giovani
49
Giuseppina Ronga
L’Associazione Maria Rosaria Sifo Ronga Onlus
57
ESPERIENZE
I
Associazionismo e volontariato per l’adolescenza
Immacolata Saviano
Il Cantiere giovani di Frattamaggiore (Napoli) un esempio concreto di educazione non formale
69
Gennaro Ravellino
La socializzazione secondaria, il caso della Fondazione Famiglia di
Maria di S. Giovanni a Teduccio (Napoli)
77
Tiziana Pagano
Giocando si impara. Progetto socio-educativo dell’associazione
CLEMISIAN, San Giovanni a Teduccio (Napoli)
85
Rachele Tarantini
Progetto MARE (Minori A Rischio di Ercolano) un intervento sul
campo di educazione socio affettiva
91
Antonietta Porzio
L’UDI e la salvezza dei bambini napoletani. Valore sociale della
maternità e politiche per l’infanzia (1944-1975)
101
8
INDICE
Daniela Carofiglio
Masseria Sociale e Didattica “Terra D’incontro”. Casamassima (Bari)
119
II
Il volontariato nelle carceri, nei centri di accoglienza degli immigrati
e nella gestione dei beni confiscati alla camorra
Anna Mariella
Il carcere possibile. L’associazione Fratello Lupo nell’Istituto
Penale Minorile Fornelli di Bari
125
Lucia Savo Sardaro
La cooperativa di ex detenuti Made in Jail di Roma e il riutilizzo
sociale dei beni confiscati alla camorra
131
Giovanna Barletta
L’associazione Tenda di S. Damiano di Villa Castelli (Brindisi). Una
Casa di fuga per le donne vittime di tratta e di accoglienza per
immigrati
137
Luca De Cristofaro
NCO, Microfisica della Nuova Cucina Organizzata: Ristorante
pizzeria di San Cipriano d’Aversa
141
Maria Rita Cardillo
Immigrare a Caserta. L’esperienza del Centro Sociale ex Canapificio
157
III
Il volontariato per la salute
Anna Somma
Il medico e il malato in età moderna
173
Rossella Bruni
Profilo dei soci donatori di sangue dell’Avis di Corato (Bari)
185
Alfredo Esposito
La confraternita della Misericordia di Torre Annunziata (Napoli)
195
Maria Teresa Materazzo
Il volontariato nel gruppo operativo dell’Associazione Italiana Sclerosi Multipla di S. Giovanni in Fiore (Cosenza)
203
Giuseppina Mazza
L’assistenza ospedaliera dell’Associazione Madre Serafina Farolfi di
Palermo
213
INDICE
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IV
Associazionismo, Sussidiarietà e Mercato
Olimpia Ucciero
Donne e politica nella rivista Noi Donne e nella stampa femminile
del secondo dopoguerra (1944-1956)
221
Teresa Serpico
Il ruolo e l’evoluzione del Non profit nel Mezzogiorno d’Italia
225
Fulvia Vigliano
Volontari si nasce o si Diventa? Una ricerca sui volontari di
Teano (Caserta)
233
Giuliana Francavilla
Il principio di sussidiarietà orizzontale nel Terzo Settore
241
Roberto D’Anselmo
La fiducia come dimensione del capitale sociale
245
Valeria De Sortis
Commercio equo e solidale: l’associazione Sott’n’coppa di Napoli
257
Francesco Pezzullo
Salviamo Carditello. Il fund raising delle associazioni di promozione
culturale
263
V
Terzo settore e Università, formazione e comunicazione
Adele Medaglia
L’offerta universitaria per il Terzo settore in Italia e all’Università
della Calabria
283
Giovanna Chiavetta
Il bilancio sociale e prospettive di miglioramento continuo: caso AIL
in Sicilia
291
Annalisa De Lorenzis
La comunicazione nelle associazioni di volontariato. Il caso della
FIDAS (Federazione Italiana Donatori di Sangue)
295
10
PRESENTAZIONE
PRESENTAZIONE
11
PRESENTAZIONE
La pubblicazione di questo volume trae origine da due concorsi banditi
dalla nostra Associazione nel 2011 e nel 2012 per premiare sei tesi di laurea su: Associazionismo e Volontariato nell’Italia Meridionale nel periodo
compreso tra l’unità d’Italia e i nostri giorni 1.
Ai concorsi parteciparono trentadue studenti di varie università con altrettante tesi di laurea, (22 il primo anno e 10 il secondo), gran parte delle
quali riportano esperienze sviluppatesi in varie aree meridionali. La loro conoscenza merita, a nostro avviso, di essere diffusa tra quanti s’interessano
della vita sociale perché, probabilmente, esse rappresentano il vertice di una
piramide di azioni che va al di là di quanto comunemente si creda. È probabile che queste esperienze, laiche o religiose, siano le meno appariscenti
e le meno conosciute e forse tra le più concrete fra quelle esistenti nel Meridione. Quanto di buono esiste in questo settore può essere un’occasione per
tante persone, giovani e meno giovani, per considerare possibile un impegno sociale che, oltre ad offrire aiuti, consente di sentirsi utili agli altri rafforzando il senso di appartenenza sociale.
Il senso della nostra iniziativa è quello di contribuire ad alimentare una
riflessione, una discussione sul come il Meridione d’Italia ha vissuto e vive
l’associazionismo e il volontariato.
Per non disperdere il patrimonio di esperienze raccolto decidemmo di
organizzare un convegno, chiedendo a tutti i tesisti di partecipare illustrando il caso empirico da loro preso in considerazione, e di utilizzare, poi, il
materiale prodotto per una pubblicazione. Il convegno Il volontariato nell’Italia Meridionale, presieduto da Anna Maria Rao, si svolse il 19 aprile 2013
a Napoli nella facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Federico II. In
questo volume pubblichiamo gli interventi al convegno e stralci delle tesi dei
giovani che non furono presenti.
1
La commissione per la valutazione delle tesi era formata da: prof. Renato Briganti, docente di istituzioni di diritto pubblico nell’Università Federico II di Napoli, prof. Federico D’Agostino, ordinario di Sociologia della famiglia nell’Università di Roma 3, prof. Anna Maria Rao,
ordinario di Storia Moderna nell’Università, Federico II di Napoli, dott. Nello Ronga, presidente
dell’Associazione.
12
PRESENTAZIONE
Ci rendiamo conto che muovendoci noi sul terreno dell’impegno civile
indulgiamo, probabilmente, all’idea di una conoscenza militante del volontariato e dell’associazionismo tesa a comprendere il presente anche allo scopo
di contribuire a progettare il futuro. Ma questa scelta non ci spinge ad allentare lo spirito critico sul fenomeno del volontariato meridionale2.
Anche in questo caso, come già stiamo realizzando con la Casetta di
accoglienza da noi costruita e gestita nel parco dell’ospedale Monaldi di
Napoli, non abbiamo chiesto contributi agli enti pubblici, ma faremo fronte
ai relativi oneri con le nostre risorse.
Chiudiamo questa presentazione ricordando che tante depressioni, tante
malinconie, particolarmente tra le persone non più in età lavorativa, potrebbero trovare giovamento nel sentirsi utili agli altri attraverso l’attività di
volontariato. Tra i giovani e i meno giovani il volontariato e l’associazionismo possono contribuire a rafforzare molti valori, quali il senso civico e il
senso della collettività, che purtroppo non rappresentano una caratteristica
molto diffusa tra noi meridionali.
Una piccola esperienza, da noi maturata in un incontro, molto affollato,
con studenti dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, ci ha ulteriormente convinti che nel Sud i giovani sono molto più aperti degli adulti al
volontariato. C’è bisogno di incoraggiarli ed aiutarli a creare strutture associative.
Tutti, oltre al bisogno di soddisfare le nostre esigenze con un’attività
retribuita, dovremmo operare per sentirci utili alla collettività e contribuire,
in misura rapportata alle nostre risorse, al miglioramento delle condizioni di
vita nel nostro Meridione.
La nostra esperienza ci porta a ritenere che l’associazionismo laico e
religioso nel Meridione, intendiamo particolarmente quello che possiamo
chiamare in senso stretto volontariato perché offre qualcosa senza chiedere
contropartite, e senza contributi da parte della pubblica amministrazione,
anche se non diffuso come al Centro Nord, è più presente di quanto si sappia, e gran parte di esso è di ottimo livello.
Il Consiglio direttivo
Napoli, marzo 2014
2
Sulla tendenza finalistica della storia, presente nella storiografia militante fino alla metà
degli anni settanta cfr. Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto (a cura di), Presentazione, Storia d’Italia, Le premesse dell’Unità. Economia, società, istituzioni, vol. 1, Milano 2010, p. IX.
PRESENTAZIONE
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CENNI SUL VOLONTARIATO E L’ASSOCIAZIONISMO
NEL MERIDIONE D’ITALIA DALL’UNITÀ A OGGI
Nello Ronga
L’associazionismo prima dell’Unità
La storia del volontariato e dell’associazionismo si intreccia, nei secoli
passati, con quella dell’assistenza sanitaria, dell’igiene pubblica e privata, dell’istruzione, della tutela dei bambini abbandonati, dei vecchi e degli inabili
al lavoro.
La bibliografia su questi temi nel Mezzogiorno d’Italia è piuttosto scarsa
e solo in parte è giustificata dalla ridotta presenza di strutture associazionistiche, vi ha contribuito anche la modesta attenzione che il mondo degli studi ha
dedicato a questo aspetto della vita sociale nei decenni scorsi.
Probabilmente le prime forme di associazionismo, con vene anche di volontariato, riscontrabili nell’Italia Meridionale nei secoli passati, erano quelle religiose e si manifestavano attraverso le confraternite, le congregazioni,
i monti ecc. che offrivano ai confratelli, e a volte alla popolazione in genere e in particolare ai bisognosi, alcuni servizi, che oggi denominiamo sociali e che all’epoca erano considerati opere pie. Non bisogna però enfatizzare
l’attività di questi sodalizi studiati, spesso, esclusivamente attraverso gli statuti, nei quali si dichiarava di voler offrire molto più di quanto le strutture
realmente dessero. Studi più recenti stanno dimostrando che frequentemente
i luoghi pii contribuivano più ad arricchire la borghesia locale che ad offrire servizi alla popolazione1.
Com’è noto nella seconda metà del 1700 in tutti gli stati italiani questi
sodalizi furono soppressi o riorganizzati per creare un primo embrione del
sistema assistenziale. Il riordinamento della carità pubblica avvenne ad ope1
Sulla gestione economica dei luoghi pii si veda, tra gli altri, Armando Serra, Problemi
dei beni ecclesiastici nella società preindustriale. Le confraternite di Roma Moderna, Roma
1983; Teodora Iorio, Le opere pie a Napoli tra inchieste e processi (1863-1903), in Ennio De
Simone, Vittoria Ferrandino, Assistenza, previdenza e mutualità nel Mezzogiorno moderno, Atti
del Convegno di studi in onore di Domenico De Marco, Benevento, 1-2 ottobre 2004, Milano
2006; Nello Ronga, La gestione economica delle Confraternite e dei Monti della diocesi di Aversa durante il periodo borbonico e nel Decennio, in Costanza D’Elia (a cura di), Stato e Chiesa
nel Mezzogiorno Napoleonico, Napoli 2011, e dello stesso Dai Luoghi pii alla pubblica assistenza in Terra di Lavoro, Una ricerca sulle confraternite della diocesi di Aversa nel primo
periodo borbonico e nel Decennio francese, Napoli 2014 (Edizione on line marzo 2013 sul sito:
www.istitutostudiatellani.it; articoli e libri non pubblicati dall’istituto)
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NELLO RONGA
ra dello Stato che incominciò a farsi carico dei bisogni dei ceti più poveri.
Nel Meridione d’Italia questo tentativo di razionalizzazione fu effettuato dai
francesi durante il Decennio.
Intanto, ma per motivi che niente forse hanno a che vedere con il riordinamento dei servizi di assistenza, si manifestano nell’Italia non ancora unificata nuove forme associative (club e sette) nel ventennio 1796-1815 sotto
l’influenza degli eventi rivoluzionari francesi e della successiva dominazione gallica che “razionalizzando la geografia politico-amministrativa della penisola e abbattendo d’un colpo la selva delle giurisdizioni privilegiate, distrusse le fondamenta della società d’antico regime e diede l’avvio a un processo traumatico quanto irreversibile”2.
Il dibattito sull’erogazione della beneficenza fu molto vivace nel periodo napoleonico; la tendenza a privilegiare la beneficenza pubblica rispetto
a quella individuale, indipendentemente se erogata da privati cittadini o da
gruppi organizzati, religiosi o laici, attraversava tutta l’Italia. Già all’inizio
dell’Ottocento, ad esempio, Vincenzo Cuoco riteneva che la carità andasse
organizzata sulla base delle Commissioni di beneficenza, “che dovevano essere il centro di rilevazione dei bisogni, di raccordo con il territorio e soprattutto di coinvolgimento di notabilati all’interno dei quali una borghesia
emergente poteva trovare spazio insieme agli esponenti degli antichi patriziati”3. La beneficenza stessa trovava spazio nel nuovo associazionismo lai2
Introduzione ai volumi 1 e 2, in Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto (a cura di), Storia d’Italia, Le premesse dell’Unità. Economia, società, istituzioni, vol. 1, p. XIII.
3
Edoardo Bressan, Percorsi del terzo settore e dell’impegno sociale dall’Unità alla prima guerra mondiale, in Emanuele Rossi e Stefano Zamagni (a cura di), Il terzo settore nell’Italia unita, Bologna 2011, p. 29. Durante i pochi mesi della Repubblica napoletana del 1799
il problema dell’assistenza ai bisognosi era stato all’attenzione dei patrioti. Domenico Cirillo
(Grumo 1739 – Napoli 1799) e Vincenzo De Muro (S. Arpino 1757 - Napoli 1811) avevano
presentato due ipotesi sulla razionalizzazione dell’assistenza: Progetto di carità nazionale e Piano
di amministrazione e distribuzione di Beni ecclesiastici diretto al Governo Provvisorio. Cirillo
sosteneva che bisognava scoraggiare le elemosine fatte direttamente dalla pietà dei cittadini ai
poveri, perché queste sarebbero state date a chi prima si fosse presentato, e, frequentemente, si
sarebbe trattato di oziosi e vagabondi che chiedono l’elemosina per mestiere. Scopo del Progetto era quello di inserire i poveri nel mondo del lavoro e far loro gustare la vera libertà che
“si ottiene colle proprie fatiche”. Nel suo Piano De Muro, partendo dalla considerazione che i
beni della chiesa appartenevano alla Nazione, perché frutto dei doni dei fedeli e che gli ecclesiastici ne sono solo gli usufruttuari, proponeva che essi tornassero allo Stato per essere ridistribuiti nel modo seguente: una parte al clero per il suo sostentamento, una parte allo Stato e
utilizzata per i bisogni generali e per il sollievo dei poveri, l’ultima parte doveva essere utilizzata per “animare i talenti e sviluppare le virtù patriottiche”. Sulla Repubblica del 1799 cfr. Anna
Maria Rao (a cura di), Napoli 1799 fra storia e storiografia, Napoli MMII, che affronta “alcuni dei principali nodi problematici dello studio del periodo”. Su Cirillo e De Muro cfr. Nello
Ronga, Il 1799 in terra di Lavoro, Una ricerca sui comuni dell’area aversana e sui realisti
napoletani, presentazione di Anna Maria Rao, Napoli MM, pp. 228- 231 e pp. 242 – 247; dello stesso, La Repubblica Napoletana del 1799 nell’area atellana, prefazione di Gerardo Marotta, Frattamaggiore 1799, e il volume di Bruno D’Errico (a cura di), Domenico Cirillo, scienziato e martire della Repubblica Napoletana, Frattamaggiore 2001.
CENNI SUL VOLONTARIATO E L’ASSOCIAZIONISMO NEL MERIDIONE D’ITALIA
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co che si sviluppava nella prima metà dell’Ottocento, e si articolava almeno in due filoni; il primo a carattere ricreativo il secondo a sfondo culturale-pratico. Il primo vedeva coesistere “tre diversi modelli di ricreazione organizzata dall’élite: quello, in declino, a specificità aristocratica; quello, bene
in salute, del ceto civile nella sua gamma intera (possidenti, banchieri, commercianti, professionisti, funzionari); quello innovativo e di grande avvenire, che raggruppa i vertici patrimoniali dell’uno e dell’altro versante, conservando tuttavia a chi dispone di un titolo e di un blasone un certo maggioritario rilievo nell’Iniziativa”4. Nel secondo a “sfondo culturale”, in
qualche caso, c’era una larga compartecipazione e compenetrazione dello
Stato. A Milano nacque l’Istituto lombardo di scienze, lettere e arti, a Torino l’accademia delle scienze, ecc. nei decenni successivi l’abbinamento tra
associazionismo e scienza mirò sempre più da un lato a trasformare la natura con l’aiuto della botanica, della mineralogia, della chimica ecc, e dall’altro alla correzione delle disarmonie esistenti nella società attraverso le
conoscenze che in quegli anni cominciavano ad essere individuate dalle
scienze sociali. A Napoli “per tutta la prima metà del secolo è lo Stato che
organizza la socialità accademica, quella scientifico-economica, e addirittura quella ricreativa”5. Con il nome di società economiche, sotto la direzione
degli intendenti, sono costituiti in tutte le province, istituti che raggruppano
i notabili per censo e per cultura al fine di una riflessione intorno ai nessi
tra scienza ed economia locale6.
Il terremoto della Calabria del 1783 fu l’occasione per sperimentare nuove forme popolari di aggregazioni. La regione fu devastata dalle scosse telluriche, il governo costituì una Cassa sacra incamerando i beni di Luoghi
pii e di Ordini religiosi allo scopo di “fornire aiuti per risollevare le condizioni del paese, e (questa) doveva particolarmente aiutare i contadini con
censuazioni, con enfiteusi e con vendite di terre a mite prezzo, a piccoli lotti
e a condizioni favorevoli di pagamento”7. Nel 1796 avendo constatato che
nulla era stato fatto di bene per il popolo il governo decise di liquidare tutto. Gli anni tra il terremoto e il 1796 “furono in Calabria tristi di miseria e
torbidi di rivolte: ribellioni ad agenti fiscali e feudali, leghe di resistenza per
non sottostare a gravezze, e delitti si ripetevano frequenti. Denunzie anonime al Re e relazioni di autorità locali e di ecclesiastici avevano segnalato
in quegli atti un carattere politico, un pericoloso attentato all’autorità del
sovrano, un contagio di idee rivoluzionarie francesi, una conseguenza di
4
Marco Meriggi, Società. Istituzioni e ceti dirigenti, in G. Sabbatucci e Vittorio Vidotti,
op. cit. p. 201.
5
Daniela Luigia Caglioti, Circoli, società e accademie nella Napoli preunitaria, in «Meridiana», nn. 21-23, 1995, p. 22.
6
Marco Meriggi, op. cit., p. 201.
7
Nicolò Rodolico, Il popolo agli inizi del Risorgimento nell’Italia Meridionale 1798-1801,
Firenze 1936, p. 41.
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NELLO RONGA
quelle sette massoniche8, che già pullulavano in Calabria, e che realmente
erano propaggini francesi”9. Forse non è proprio esatto definire le aggregazioni che sorsero tra i contadini Leghe di resistenza, ma di certo furono costituite associazioni che, in qualche modo, precorsero quelle che sorgeranno, con caratteristiche di lotta di categoria verso la fine del secolo XIX.
Avvicinandoci alla metà del 1800 le associazioni scientifiche a finalità
pratica sempre più accanto all’obiettivo di migliorare la produzione agraria,
acquisirono una rilevanza politica e da un lato miravano a condizionare le
scelte dei governi e dall’altro incominciarono ad occuparsi, anche se marginalmente, delle condizioni dei contadini e delle plebi urbane tentando di prevenirne le spinte rivendicative. La pratica tradizionale della carità si trasformò, con i lumi della scienza in filantropia10. In questo modo si cercava anche di ridurre la potenzialità sovversiva del mondo dei diseredati.
Prima dell’unità d’Italia l’associazionismo laico e religioso era presente
in misura e con capacità economiche diverse nelle varie aree del Paese e produceva palesi differenze i cui effetti sarebbero stati presenti nella società civile anche nei decenni successivi. La forza economica delle associazioni religiose è desumibile anche dalla constatazione che in alcuni Stati della Penisola per tutta la prima metà del secolo XIX anche le élites più laiche e
secolarizzate continuavano a praticare vita di confraternita.
“Noi siamo nel secolo delle scienze morali, economiche e politiche e
delle scienze naturali ed esatte”, sentenziava Vieusseux nel 1824; ma tutti i
nobiluomini e i nobili toscani seguitavano a onorare i riti delle Misericordie, decisamente inscritti sotto il segno della carità, dell’assistenza salvifica
ai poveri. Gino Capponi, ad esempio, destinava oltre il 6% delle sue uscite
annuali a spese caritative11.
I lasciti milionari dei privati negli Stati ricchi come la Lombardia consentivano di raccogliere somme elevate che permettevano di erogare com8
Sul rapporto massoneria e politica nel periodo rivoluzionario, (con una bibliografia aggiornata) cfr. Elvira Chiosi, Massoneria e politica, in Anna Maria Rao (a cura di), Napoli 1799
cit., pp. 217-237. Molti calabresi aderenti alla massoneria facevano parte del gruppo dei riformatori illuminati, ed ebbero un ruolo importante nel periodo della “ricostruzione” dopo il terremoto del 1783.
9
Ivi, p. 44.
10
La filantropia non va confusa col volontariato. Riportiamo il significato dei due termini
secondo la Treccani: filantropìa s. f. [dal gr. φιλανρωια v. filantropo]. – Amore verso il prossimo, come disposizione d’animo e come sforzo operoso, di un individuo o anche di gruppi sociali, a promuovere la felicità e il benessere degli altri: opere di f.; uomo ricordato da tutti per
la sua grande filantropia. Volontariato Prestazione volontaria e gratuita della propria opera, e
dei mezzi di cui si dispone, a favore di categorie di persone che hanno gravi necessità e assoluto e urgente bisogno di aiuto e di assistenza, esplicata per far fronte a emergenze occasionali
oppure come servizio continuo (come attività individuale o di gruppi e associazioni): l’importanza del v. nella Croce Rossa; l’apporto insostituibile del v. nell’assistenza ai disabili; i primi
aiuti ai terremotati (o ai profughi, ai feriti dell’esplosione, ecc.) sono venuti dal volontariato.
11
Marco Meriggi, op. cit., p. 211.
CENNI SUL VOLONTARIATO E L’ASSOCIAZIONISMO NEL MERIDIONE D’ITALIA
17
plessivamente, soprattutto in doti, alcuni milioni di lire austriache, “sebbene
tra i malhtusiani della città, si levino polemiche contro quest’uso tradizionale, che sortisce il risultato di favorire nozze precoci e sciagurate tra i poveri”. In quegli anni il confine tra carità tradizionale e filantropia scientifica “non separa tanto «partiti» contrapposti, quanto piuttosto attraversa la
coscienza di ciascun notabile, spostandosi in genere in direzione delle pratiche più tradizionali quanto più, per ragioni di età o di malattia, il benefattore sente prossima la morte” 12.
Anche la filantropia, naturalmente, non mirava ad una improbabile emancipazione delle classi subalterne, ma la carità doveva “risultare funzionale per
un verso alla pace sociale, per l’altro all’autocelebrazione di chi la promuoveva”. Ma al di là delle motivazioni, le associazioni per allestire gli asili d’infanzia per i bambini poveri o per la diffusione del mutuo insegnamento della scrittura e della lettura, le associazioni per l’istituzione delle casse di risparmio, per
il reinserimento nella società degli ex carcerati redenti, e per il mutuo soccorso
tra i lavoratori saranno “le concrete applicazioni pratiche della beneficenza
«scientifica», intesa a produrre le condizioni per una accettabile armonia tra le
classi”. Negli anni Quaranta dell’Ottocento associazioni come quelle milanesi
e torinesi riuscivano, attraverso l’azionariato cittadino, che prevedeva l’acquisto
di azioni a prezzi accessibili solo al notabilato, a distribuire migliaia di azioni
per aiuti ai liberati dal carcere o per «soccorsi invernali»13.
Ma il fenomeno dell’associazionismo a finalità pratica non si sviluppò
in egual misura in tutta l’Italia. La sua modica presenza nel Meridione ha
radici antiche. Infatti nel 1862, ad unificazione appena avvenuta, venivano
censite 175 società di mutuo soccorso tra Piemonte e Liguria, 83 in Lombardia, 66 in Emilia, 55 in Toscana e appena 28 nell’intero Mezzogiorno14.
Situazione analoga si registrava per i servizi, che oggi definiremmo sociali. Ad esempio mentre la carta d’Italia degli asili infantili, costruiti e gestiti dalla borghesia locale attraverso le associazioni volontarie, era fittamente
punteggiata nel Centro Nord, era muta o quasi da Roma in giù. Lo stesso
valeva per le Casse di risparmio, fiorenti già dagli anni trenta dell’Ottocento nel Regno di Sardegna, in Lombardia e in Toscana, del tutto assenti nel
Regno di Napoli.
In effetti, mentre le élites dell’Italia Centro-settentrionale avevano fatto
propri, con qualche lustro o decennio di ritardo, i modelli europei, le élites
del Sud restavano ancorate a modelli tradizionali e si mostravano poco sensibili alle risonanze delle nuove dottrine associative15.
12
Ivi, p. 211.
Ivi, pp. 211 e sgg.
14
A. Caracciolo, Stato e società civile. Problemi dell’unificazione italiana, Torino 1960,
p. 82, citazione tratta da Marco Meriggi, op. cit., p. 214.
15
Ivi, p. 215.
13
18
NELLO RONGA
Nelle regioni dove più si era sviluppato il nuovo associazionismo c’era
stata la presenza, negli anni della Restaurazione e fino al ’48, di uomini che
a lungo avevano soggiornato all’estero come Federico Confalonieri e Camillo
Benso di Cavour o che erano stranieri come Heinrichi Mylius e Gian Pietro Viesseux che operarono rispettivamente a Milano e a Firenze. Nelle altre regioni dove erano mancati gli uni e gli altri, del nuovo spirito di associazione non giunsero che “refoli affievoliti”16. Le donne furono escluse dalle
associazioni di tipo scientifico e in genere da tutti i “luoghi espressivi della
nuova socialità mista aristocratico-altoborghese degli anni Quaranta”, fu loro
consentito solo il “campo della socialità a indirizzo religioso” e “quello del
«virtuoso» esercizio della carità”, di tipo tradizionale, che divennero probabilmente, allora più che in passato, terreni soprattutto femminili17.
Secondo uno studio condotto dalla Caglioti si registra “una cronologia
profondamente diversa nell’evoluzione del fenomeno dell’associazionistico tra
Napoli, altre città dell’Italia settentrionale e soprattutto paesi come l’Inghilterra, la Germania e la Francia: Le forme dominanti dell’associazionismo e
della sociabilità a Napoli, tra la seconda metà del Settecento e la prima metà
dell’Ottocento sono l’accademia, il salotto e il casino nobiliare –e non il club
o l’associazione di programma. (...) La restaurazione borbonica, con la sua
paura della rivoluzione e la sua estrema diffidenza verso la libertà di associazione, impedisce che si creino sodalizi spontanei, autonomamente organizzati sia al centro che in periferia”18.
Dall’Unità alla legge Crispi del 1890
Al momento dell’Unificazione a parte le diversità tra le varie regioni,
la realtà economica dell’intera penisola era abbastanza precaria perché basata ancora in larga parte sull’agricoltura con aree marcatamente arretrate,
di conseguenza le realizzazioni sociali sul piano educativo, sanitario ed assistenziale avevano scarsa consistenza rispetto a quelle di altre nazioni europee (ad esempio Inghilterra, Francia ed Austria) e basate essenzialmente
su iniziative a carattere privato e caritativo.
A Napoli dopo l’Unità “si delinea quella struttura dualistica che ne resterà la maggiore caratteristica di lungo periodo: una grande industria moderna, in periodico affanno e per il procedere ciclico della spesa pubblica e
per la distrazione dei fondi verso le industrie settentrionali, e un tessuto di
piccole o medie attività, per lo più caratterizzate da un impianto capitalisti16
17
18
Ivi, p. 215.
Ivi, pp. 218-219.
Luigia Daniela Caglioti, op. cit., pp. 20-21.
CENNI SUL VOLONTARIATO E L’ASSOCIAZIONISMO NEL MERIDIONE D’ITALIA
19
co basato sul lavoro a domicilio, e ancora capace di competere sui mercati
internazionali seppure con posizioni difensive (pelli, guanti, calzature), cui
si affianca una miriade di botteghe artigiane. Mancano in tutta la provincia
i settori trainanti della rivoluzione industriale italiana, quelli tessili, così come
non procede l’evoluzione dei settori tradizionali verso piccole e medie attività capitalistiche.
Più che di risorse, la borghesia napoletana difettava dello spirito associativo necessario a far confluire i capitali mercantili e bancari verso le attività produttive e invece abbondava di una nefasta propensione all’arricchimento speculativo che ne brucerà periodicamente le risorse”19. Questa mancanza di cultura spiega perché non fu pienamente colta l’occasione dello
sviluppo industriale nemmeno dopo il varo della legislazione sociale e spiega anche, di conseguenza, perché anche l’associazionismo nel napoletano, che
rappresentava la punta più avanzata del capitalismo meridionale, si articolava ancora intorno alle associazioni corporative, alle strutture assistenziali e
previdenziali private che sopperivano all’inerzia dello Stato e contribuivano
alla stabilità politica e sociale20.
Nella ex capitale del Regno si svilupparono le società di mutuo soccorso di tipo professionale, che si richiamavano alle vecchie confraternite di
mestiere, e accorpavano i lavoratori delle arti, mentre “nelle province lo sviluppo dell’associazionismo si manifesta attraverso la sua capillare distribuzione sul territorio e non c’è borgo, casale, comune che non abbia la sua
associazione, laica o clericale che sia e, a volte, più di una”21.
Nel periodo della transizione dal regime borbonico a quello unitario furono emanati nelle province del Mezzogiorno due decreti tesi a limitare
l’ingerenza ecclesiastica nell’amministrazione delle opere pie laicali, il primo dal prodittatore Pallavicino il 21 ottobre 1860 ed il secondo dal luogotenente del regno il 17 febbraio 1861.
Al nuovo Regno fu applicata, nella sostanza, la legislazione piemontese. Subito dopo, il grafico dell’associazionismo napoletano registra un’impennata: analogamente a quanto avviene nel resto del paese, il fenomeno da
elitario diventa progressivamente di massa. Nel primo decennio dell’Unità
si assiste alla nascita dei primi circoli di élite su base volontaria e delle prime
società di mutuo soccorso22.
Nel 1861 fu effettuata la prima inchiesta sulle opere pie e ne furono
censite 17.000 con un patrimonio superiore al miliardo di lire, “più del dop-
19
Maria Luisa Cavalcanti, L’associazionismo operaio napoletano, in Ennio De Simone e
Vittoria Ferrandino, op. cit., pp. 441-442.
20
Ivi, p. 443.
21
Ivi, p. 446.
22
Luigia Daniela Caglioti, op. cit., p. 22.
20
NELLO RONGA
pio delle entrate statali e quasi metà di tutto il debito pubblico all’indomani
dell’unificazione, con una entrata lorda di 79,3 milioni, attorno al valore del
ricavato dell’imposta fondiaria”23.
Alla luce dei dati raccolti il 3 agosto 1862, fu promulgata la Gran Legge
che dava una forma unitaria alla disciplina delle Opere Pie, legge che già
all’indomani della sua emanazione e in pratica per trent’anni costituì l’oggetto di un dibattito serrato che vide confrontarsi il liberalismo moderato,
la sinistra democratica e il cattolicesimo sociale. La legge rappresentò un
punto fermo in una materia controversa e rispetto alla varietà di situazioni
delle realtà preunitarie che venivano ricondotte “a una disciplina pubblicistica e a una legislazione liberale, con l’obiettivo di un’istituzionalizzazione
del Terzo settore24 su tutto il territorio nazionale al di fuori di indebite ingerenze governative”25. La legge e il regolamento attuativo (regio decreto del
27 novembre 1862) istituirono presso ogni comune una Congregazione di
carità per amministrare i beni destinati ai poveri. La legge non si propose
la creazione di un sistema pubblico di assistenza, preferendo riconoscere le
istituzioni esistenti, principalmente di carattere ecclesiastico, e delegando loro
le relative funzioni sanitarie e assistenziali. L’istituzione delle Congregazioni di carità accentuò la visione “localistica” di questo sistema, che assegnava alle amministrazioni locali un ruolo di controllo e di gestione. Il limite
più evidente della legge “era rappresentato dall’insufficienza dei controlli,
gravi apparivano le responsabilità dei soggetti interessati: il ministero dell’Interno che non esercitava la vigilanza, le Deputazioni provinciali che non
erano in grado di assicurare la tutela né si preoccupavano del problema, i
comuni che erano generalmente restii nel proporre le trasformazioni pur previste dal dettato legislativo”26.
Questi interventi legislativi era rivolti a un Paese nel quale la situazione
dell’igiene e dell’assistenza sanitaria era drammatica in molte aree geografiche, lo stesso Parlamento ne era cosciente tanto che nel 1877 in occasione
dell’approvazione della legge che prevedeva una Inchiesta agraria, per indagare sui problemi della produzione, riferiti essenzialmente alla quantità e
qualità dei prodotti, fu previsto che, anche se in via subordinata rispetto alla
prima, essa avrebbe analizzato anche le condizioni della classe agricola. Fu
23
Edoardo Bressan, op. cit., p. 42.
L’espressione di Terzo settore è di origine recente, anche se nella sostanza esso è stato
presente nella storia italiana sin da suoi albori. Con quest’espressione si designano quelle strutture che non fanno parte del mercato né dello Stato “configurando una sfera di azione che non
è totalmente «privata» ma neppure assimilabile al «pubblico»; che non persegue un interesse
particolare, ma che al contempo non può essere intesa come surrogato delle istituzioni pubbliche”, cfr. Emanuele Rossi e Stefano Zamagni, Introduzione, in E. Rossi e S. Zamagni, op. cit.
p. 13.
25
Edoardo Bressan, op. cit., p. 33.
26
Ivi, p. 41.
24
CENNI SUL VOLONTARIATO E L’ASSOCIAZIONISMO NEL MERIDIONE D’ITALIA
21
nominata una Giunta parlamentare presieduta dal conservatore Stefano Jacini27 che condusse l’inchiesta, i cui risultati furono pubblicati negli anni 188085. I lavori furono caratterizzati dal dissenso tra l’intera Giunta e il vicepresidente della stessa, on. Agostino Bertani, il quale insisteva sulla “priorità dell’esame delle condizioni di vita dei contadini” per dare all’inchiesta anche un
carattere di denuncia della gravità delle loro condizioni di vita. “Il primo scontro sull’impostazione stessa dell’Inchiesta (per temi o invece per zone geografiche, come voleva Jacini) si risolse per Bertani in una sconfitta onorevole:
divisa la materia per compartimenti territoriali, gli si affidò, oltre all’indagine sulla circoscrizione ligure, un incarico speciale per lo studio dell’igiene del
contadino, evidentemente marginale rispetto all’insieme del lavoro”28. Bertani ampliò il più possibile l’oggetto del suo incarico speciale “passando dal
limitato terreno dell’igiene alle condizioni complessive dei lavoratori della
terra”. I risultati furono pubblicati postumi a cura di M. Panizza29.
La condizione dei contadini (che rappresentavano ancora la maggioranza della popolazione) risultò drammatica: l’analfabetismo andava dal 70 al
90% della popolazione nelle diverse aree del Paese; sul piano sanitario influivano sia la situazione igienica sia la diffusione di gravi patologie legate alle
pessime condizioni di vita e ad una alimentazione basata anche su cibi avariati30. I provvedimenti relativi alla salute pubblica, scriveva la Commissione
d’inchiesta, riguardano l’acqua potabile, le fogne, la sorveglianza sulle bevande e sui cibi posti in vendita. La difficoltà stava nel renderli esecutivi nelle
campagne. A tale scopo la Commissione suggeriva: “il Governo conferisca i
poteri necessari alle Autorità comunali e provinciali e assegni loro la necessaria responsabilità”. In merito alla presenza degli ospedali si osservava che
essi, ubicati nelle città, spesso costringevano gli ammalati del contado ad
27
Stefano Jacini, apparteneva a “una famiglia da più secoli proprietaria e fittavola di ricchi appezzamenti nel Cremonese, e dalla metà del Settecento attiva in proprio anche nel commercio della seta lavorata in una filanda fatta costruire nel podere di Casalbuttano”. Era la classica famiglia di quella borghesia rurale presente quasi unicamente in Lombardia. Stefano, grazie alla mentalità paterna, aveva avuto una educazione non chiusa nel solco della tradizione classicista, ma aperta ai contatti con l’estero. Aveva studiato, come gli altri due fratelli, nel grande
collegio internazionale di Hofwyl presso Berna, che era affiancato da un’azienda agricola modello e da un istituto agrario superiore, e noto per la sua ispirazione liberale. A questa esperienza si erano aggiunti numerosi viaggi in tutta Europa compiuti prima e dopo gli studi in giurisprudenza. Tra le nazioni visitate, l’Inghilterra gli aveva offerto maggiori punti di riferimento
politici ed economici, come avveniva da più generazioni per larga parte della classe dirigente
in formazione in Italia. Cfr. Giacomina Nenci, in Introduzione a Stefano Jacini, I risultati della
inchiesta agraria (1884), Torino 1976, pp. X e XI.
28
Cfr. Giacomina Nenci, in Introduzione, cit. pp. XV e XVI.
29
M. Panizza, Risultati dell’inchiesta istituita da A. Bertani sulle condizioni sanitarie dei
lavoratori della terra in Italia. Riassunto e considerazioni, Forzani, Roma 1890.
30
Il modo più sicuro, ad esempio, scriveva la Commissione, per diminuire la presenza di
questo morbo è quello di eliminare il granturco avariato dall’alimentazione umana, cfr. Stefano
Jacini, op. cit., p. 147.
22
NELLO RONGA
essere trasportati in carri d’ambulanza a grandi distanze. Si chiedeva un maggior controllo delle farmacie rurali dove spesso, nelle zone infestate dalla
malaria, si spacciavano per chinino sostanze che nulla avevano a che fare con
questo farmaco31. Le abitazioni rurali, poi, “per tre quarti almeno, non sono
né decenti né igieniche; e si noti bene, che la questione delle abitazioni comprende la massima parte della questione igienica delle campagne”32.
In provincia di Benevento, ad esempio, le condizioni economiche dei
coltivatori, alla fine del secolo, erano “quasi sempre insufficienti”, tanto che
dovevano ricorrere ai proprietari delle terre per anticipazioni e in denaro o
in derrate: “Essi abitavano in case anguste, in promiscuità con gli animali,
senza rispettare le più elementari norme igieniche e con un vitto spesso insufficiente, soprattutto nei mesi invernali”33. La vita media era di 27 anni,
non esistevano servizi civili e sanitari, l’assistenza medica era assicurata solo
nel capoluogo. In questa situazione un modo per risollevare le sorti dell’economia della provincia fu l’associazionismo nel mondo agricolo, che purtroppo
non riuscì a decollare nel clima di sfiducia che caratterizzava il mondo contadino. Vita breve ebbero La Lega dei lavoratori della terra, sorta nel 1906,
l’Unione cattolica cooperativa, del 1907, la Società anonima cooperativa di
miglioramento fra i lavoratori della terra del 1908. Migliore sorte ebbero
il Consorzio agrario cooperativo di Benevento sorto nel 1901, e alcune istituzioni creditizie di natura cooperativa34.
Nel 1880 fu costituita una Commissione d’inchiesta specifica sull’assistenza, presieduta da Cesare Corrente, che accertò l’esistenza di 21.866 opere
pie con un patrimonio complessivo lordo di 1.879,6 milioni di lire e una
rendita lorda di 90,4 milioni, aggiungendo a quest’ultima i contributi dei
comuni, delle province e dei privati e le rette (voci riferite alla categoria
degli ospedali) si raggiungeva un’entrata di 135,2 milioni35. I dati inoltre
mostrarono l’esistenza di una forte sperequazione tra le diverse aree geografiche, a sfavore particolarmente di quelle meridionali e in genere delle
campagne. I compartimenti settentrionali del Piemonte, della Liguria e del
Veneto detenevano “il 48,3% del patrimonio lordo complessivo, con una
popolazione pari però al 37% del totale; seguivano i compartimenti del
Centro con il 29% del patrimonio e il 23,8% degli abitanti; infine il Mezzogiorno, in cui risiedeva il 39,2% della popolazione del Regno, poteva
contare su una quota pari al 22,7% dei patrimoni di beneficenza. Il patrimonio pio della sola Lombardia corrispondeva alla metà circa di quello
31
Stefano Jacini, op. cit., pp. 144-145.
Ivi, p. 150.
33
Vittoria Ferrandino, Le società di mutuo soccorso nel Beneventano, in Ennio De Simone, Vittoria Ferrandino, op. cit. vol. II, p. 253.
34
Vittoria Ferrandino, op. cit. p. 256.
35
Edoardo Bressan, Percorsi cit., p, 43,
32
CENNI SUL VOLONTARIATO E L’ASSOCIAZIONISMO NEL MERIDIONE D’ITALIA
23
dell’intera Italia centrale e pareggiava da solo il totale di tutte le regioni
meridionali e insulari”36. La situazione di alcune aree del Mezzogiorno
appariva drammatica, configurando non solo una carenza di interventi, ma
un forte deficit di organizzazione sociale37.
La legge Crispi del 17 luglio 1890 e i regolamenti di attuazione del 1°
febbraio 1891 modificavano profondamente l’impostazione della legge del
1862 e stabiliva che la quasi totalità delle Opere pie diventavano Istituzioni
pubbliche di beneficenza ed erano accorpate nelle Congregazioni di carità,
che dovevano amministrarle in una “prospettiva di maggiore utilità sociale”;
da queste venivano esclusi i parroci e i sacerdoti in cura di anime. La legge nasceva dalla convinzione di Crispi che gli amministratori dei luoghi pii
dilapidavano il patrimonio dei poveri e lo utilizzavano per scopi impropri.
La concentrazione obbligatoria delle Opere pie e le trasformazioni coatte
delle stesse erano viste dal mondo cattolico come una sorta di socialismo
di Stato, dal momento che si faceva del governo il giudice supremo delle
necessità ed opportunità di riformare le istituzioni di carità con una coazione diretta. Particolarmente intransigenti furono i cattolici milanesi interessati a difendere il cospicuo patrimonio delle loro opere pie. Lo stesso pontefice Leone XIII intervenne ripetutamente sul tema, spostando la contesa dal
terreno legislativo a quello morale e religioso38.
La riforma crispina non impedì la continuità di antiche forme caritative
e nemmeno la nascita di altre iniziative filantropiche anche di natura religiosa. Rilevante era anche la presenza in campo assistenziale delle Società
di mutuo soccorso, forma di autotutela operaia di grande portata. Esse “passarono dalle 443, con oltre 111.000 soci, all’indomani dell’Unità alle 6.587
del 1895 con circa un milione di iscritti, sia pure con un forte squilibrio territoriale che penalizzava soprattutto il Mezzogiorno: questo picco fra gli anni
Ottanta e Novanta si legava non solo a necessità crescenti, ma anche a un
rinnovato dibattito, al riconoscimento giuridico, all’interesse del movimento
operaio e socialista”39. Anche la presenza cattolica, col cattolicesimo sociale, con una forte connotazione assistenziale, fu notevole.
Fra Ottocento e Novecento e fino alla prima guerra mondiale le opere
sociali private conobbero un notevole incremento a favore delle nuove povertà provocate dalla “modernizzazione economica e dall’industrializzazione del paese”. Numerose furono le iniziative di matrice laica e socialista40.
36
M. Romano, Alle origini dello Stato Sociale, in «Nuova Secondaria», 2, pp. 29-34, è
riportato da Edoardo Bressan, op. cit., pp 43-44.
37
Ivi, p. 44.
38
Ivi, pp. 48-49.
39
Edoardo Bressan, op. cit., p. 56.
40
A Milano, ad esempio, fu costituita la Società umanitaria, che si proponeva di offrire ai
diseredati una redenzione attraverso la formazione culturale e una preparazione in campo industriale e agrario.
24
NELLO RONGA
In quegli anni, sull’esempio della Germania bismarckiana, si sviluppò
una legislazione sociale destinata a coprire i rischi legati al lavoro nel settore del’industria: nel 1886 fu introdotta, su base volontaria, l’assicurazione
di malattia e quella pensionistica. Nel 1898 fu istituita la Cassa infortuni solo
a protezione degli operai dell’industria. Anche quest’ultima era una assicurazione volontaria, finanziata dai contributi dei dipendenti, integrata dall’intervento statale e da versamenti volontari degli imprenditori41. Da questi benefici furono esclusi i lavoratori dei campi a riprova dello scarso interesse
che la società aveva per le loro condizioni. Essi dovettero aspettare il 1917
per vedersi riconosciuto lo stesso trattamento,
Si faceva strada comunque, anche sulla scia di altri paesi europei, la
tendenza a sviluppare oltre alla beneficenza riparatrice o di consumo (assistenziale, cioè tesa a rendere la persona atta alla produzione, mercé l’istruzione, l’educazione e l’avviamento ad una professione) una beneficenza preventiva che operava “sul capitale, allo scopo di migliorare le condizioni o
di prevenire la miseria di chi già dal proprio lavoro ritrae mezzi bastanti per
la sussistenza attuale, e ciò mediante le istituzioni di risparmio, di assicurazione e di mutualità42. Nel nuovo modello di assistenza, alle Opere pie, divenute Istituzioni pubbliche di beneficenza, si chiedeva di far convergere la
beneficenza dove più urgente era il bisogno.
A Crispi, pur riconoscendo gl’innegabili progressi fatti nella pubblica
assistenza, venne imputato, particolarmente dai cattolici, di aver accentrato
l’assistenza nelle strutture statali e di aver sacrificato l’“indubbia vitalità della
società civile nel campo del self help e della protezione sociale”.
Nel 1900 fu realizzata un’altra indagine dal ministero dell’Interno che
riscontrava un incremento numerico e patrimoniale delle Opere pie rispetto
a quella del 1880, che ascendevano a 27.078 con un patrimonio lordo di
2.204.955.708 lire, tra fondi rustici e fabbricati, titoli garantiti dallo Stato e
altri proventi, canoni, redditi43.
All’inizio del nuovo secolo anche a Napoli si apre una fase di maggiore consapevolezza delle masse fino ad allora amorfe, anche per la presa di
coscienza degli ambienti socialisti che scendono dall’empireo delle ideologie e si muovono su un piano pratico, come facevano al Nord i segretariati
cattolici del popolo44. I sodalizi napoletani con le quote settimanali versate
dagli adepti, all’inizio del ‘900, garantivano ai soci infermi almeno la visita
41
Sulla storia della previdenza in Italia cfr. Francesco Barletta, La previdenza sociale in
Italia dal 1898 al 2004, in Ennio De Simone, Vittoria Ferrandino, op. cit. p. 215-248.
42
Ivi p. 59.
43
Pasquale Di Cicco, La pubblica beneficenza nel Mezzogiorno. Dalle Opere pie all’Ente
comunale di assistenza, in «La Capitanata, quadrimestrale della biblioteca provinciale di Foggia», Anni XXVI-XXXI (1988-1993) n. 1, p. 83.
44
Maria Luisa Cavalcanti, op. cit. p. 458.
CENNI SUL VOLONTARIATO E L’ASSOCIAZIONISMO NEL MERIDIONE D’ITALIA
25
del medico, che aveva anche lo scopo di accertare la presenza della malattia per l’erogazione del sussidio. Oltre all’assistenza sanitaria le associazioni provvedevano anche alle spese funerarie. Le attività previdenziali invece
potevano essere esercitate solo dalle associazioni più antiche e più solide che
godevano anche di sussidi pubblici45. Una caratteristica dei sodalizi napoletani era rappresentata dalle spese di gestione che arrivavano circa al 50%
delle entrate contro il 31% della media nazionale.
A Napoli il boom dell’associazionismo si realizza nell’ultimo ventennio
del secolo e riguarda sia i sodalizi di tipo culturale sia quelli ricreativi, politici, culturali, sportivi, di mutuo soccorso46. Essi però non hanno vita facile, molte società di mutuo soccorso hanno una “vitalità compromessa, ad ogni
piè sospinto, dalle discordie personali, dalla gara di potere tra i maggiorenti, dalla mancanza di pagamento delle quote sociali”47.
Da Giolitti al primo dopoguerra
Nel decennio giolittiano (1903-1914) si affermò “un’idea di assistenza
che attribuiva allo Stato e alle sue articolazioni periferiche il compito di assicurare un ordinato sviluppo sociale, in rapporto sia alle istituzioni sanitarie sia a quelle assistenziali”48.
Nel 1904 fu emanata la legge n. 390 del 18 luglio, seguita dal regolamento del primo gennaio 1905 con cui fu istituita presso ogni prefettura una
Commissione provinciale di assistenza e beneficenza e presso il ministero
dell’Interno il Consiglio superiore con un proprio servizio ispettivo49. Fu creata inoltre una Direzione generale della sanità distinta dalla beneficenza che
“introdusse un ulteriore elemento di razionalizzazione, come del resto accadeva per un primo disegno di politiche per l’infanzia”50. Negli anni successivi le Congregazioni di carità, soprattutto nei grossi centri dell’Italia centro-settentrionale, “diedero prova di grande dinamismo, con iniziative e programmi di più largo respiro che si legavano spesso ad amministrazioni comunali e provinciali sostenute da maggioranze ormai rappresentative delle realtà popolari e che si avviavano a svolgere a loro volta una diretta azione
45
Ivi, pp. 465-467.
Luigia Daniela Caglioti, op. cit., p. 27. Questi temi sono ripresi più ampiamente dall’autrice in Associazionismo e sociabilità d’élite a Napoli nel XIX secolo, Napoli 1996.
47
Ivi, p. 30.
48
ASN, PG, Relazione sullo spirito pubblico durante l’anno 1883, 23 febbraio 1884, f.
795 bis, citato da Maria Luisa Cavalcanti, op. cit., p. 61.
49
La commissione provinciale e il consiglio superiore furono aboliti nel 1923 con regio
decreto del 4 febbraio n. 214 essendosi dimostrati incapaci di raggiungere gli scopi per i quali
erano stati istituiti. Le attribuzioni delle commissioni provinciali furono trasferite alle giunte
provinciali amministrative ed al prefetto, e quelle del Consiglio superiore al Consiglio di stato.
50
Edoardo Bressan, op. cit., p. 61.
46
26
NELLO RONGA
assistenziale”51. Restavano estranee, a queste iniziative, molte realtà in modo
particolare nel Mezzogiorno.
Negli anni del riformismo possibile di Giolitti e del suo incontro con i
socialisti si ebbero, realizzazioni ambiziose come il suffragio universale
maschile ed enunciazioni di programmi quali ad esempio, il monopolio delle assicurazioni sulla vita con la quale finanziare l’assicurazione pensionistica obbligatoria agli operai. Intanto dalla società civile sempre più giungeva una richiesta di welfare che trovava un riscontro nei movimenti socialista, democratico-repubblicano e cattolico.
Un’occasione in cui fu verificata l’esistenza e la capacità di intervento
delle associazioni sia laiche che religiose, anche del Sud, fu il terremoto del
1908 che colpì le città di Messina e di Reggio Calabria provocando circa
100.00 morti. La calamità innescò un movimento di compassione e di solidarietà mai visto prima in Italia: “... quando la notizia della catastrofe del
28 dicembre si diffuse, volontari da tutto il paese si misero in viaggio verso il sud per dare una mano nelle operazioni di soccorso e ricostruzione. (...)
Comitati civici spuntarono come funghi nelle città italiane, grandi e piccole, per raccogliere e incanalare fondi e contributi di altra natura. Le organizzazioni già esistenti all’interno della società civile – circoli di tiro a segno, di automobilismo, di ciclismo, società di mutuo soccorso, congregazioni,
compagnie di canto, gruppi di operai e apprendisti – organizzarono eventi
di beneficenza e raccolte di fondi, dimostrando che il sentimento di fratellanza era penetrato molto a fondo nella società italiana”52. Ma chiaramente
si trattava di un fenomeno sorto sotto la spinta emotiva provocata anche dall’ampio spazio dedicato alla catastrofe da parte della stampa.
La realtà associativa restava ancora modesta nelle regioni meridionali. Al
culmine dello sviluppo mutualistico in Italia, tra i secoli XIX e XX, si contavano circa un milione di soci delle Società di Mutuo Soccorso, di queste nel
1904 il 77% era concentrato nelle regioni settentrionali e in Toscana. Tra gli
anni 1881-1990 il numero delle società in Campania era passato da 76 a 293,
con un aumento degli iscritti da 13.313 a 30.676, nel decennio successivo si
ridussero a 68 con 8.352 soci, segno che superata la fase acuta della crisi agraria, il mutuo soccorso perdeva la sua indispensabilità per i redditi più deboli.
La mortalità delle società di mutuo soccorso era molto alta, particolarmente nel
Mezzogiorno, a causa delle condizioni fallimentari dei bilanci, dovute alla riscossione di quote sociali modeste rispetto alle spese elevate di natura assistenziale e anche all’emigrazione dei contadini che provocava una improvvisa riduzione del numero dei soci53.
51
52
53
Ivi, p. 61.
John Dickie, Una catastrofe patriottica, 1908: il terremoto di Messina, Bari 2008, p. 8.
Vittoria Ferrandino, op. cit., p. 258.
CENNI SUL VOLONTARIATO E L’ASSOCIAZIONISMO NEL MERIDIONE D’ITALIA
27
Le funzioni delle Società di Mutuo Soccorso consistevano essenzialmente
“nell’assistenza gratuita ai soci e ai familiari in caso di malattia e nella concessione di un sussidio in occasione di inabilità al lavoro, per vecchiaia e
in caso di morte e nell’elargizione di doti alle fanciulle povere”54. In seguito, quando acquisirono un carattere decisamente rivendicativo, le funzioni
economiche assunsero un’importanza fondamentale. Esse andavano dal sostegno al socio disoccupato alla costituzione di cooperative di consumo, “che
mettevano a disposizione dei soci generi alimentari e beni primari a prezzi
inferiori a quelli di mercato”, e concessione di prestiti55. Il mutualismo apparve agli occhi della borghesia un fenomeno da tenere sotto controllo per
evitare che si facessero strada istanze sindacali e sovversive. Da qui l’approvazione della legge 15 aprile 1886 n. 3818 che fissò i compiti e le modalità per il loro riconoscimento giuridico.
Ma le richieste di riconoscimento furono scarse, perché le associazioni
erano gelose della loro autonomia.
Verso la fine della grande guerra a parziale ricompensa degli enormi
sacrifici richiesti alla popolazione, sia sul fronte dei combattimenti sia su
quello interno si vide l’estensione dell’assicurazione obbligatoria contro gli
infortuni ai contadini (1917) e si rese obbligatoria l’assicurazione per la disoccupazione ai salariati dell’industria. Il grosso sforzo operato dal Paese per
la produzione bellica registrò una impressionante espansione concentrata nel
triangolo industriale Milano-Genova-Torino, mentre la mancanza di investimenti e di miglioramenti tecnici nell’agricoltura portarono a un aumento del
divario tra Nord e Sud. Il malcontento contro la guerra provocò una reazione popolare che fu tenuta sotto controllo attraverso la restrizione della libertà:
fu concessa ai prefetti la possibilità di proibire riunioni, perquisire e chiudere associazioni e inviare al domicilio coatto le persone indesiderate56. La
guerra annullò in buona parte le conquiste sociali precedenti.
Anche nel napoletano nei primi due decenni del Novecento si ebbe uno
sviluppo industriale senza precedenti che rese quest’area geografica la più
industrializzata del Mezzogiorno. Segno di questa importante trasformazione fu anche la costituzione, nell’estate del 1917, dell’Unione regionale industriale, che registrare la nascita dell’associazionismo industriale nella provincia di Napoli57.
54
Anna Dell’Orefice, Il mutuo soccorso a Napoli, in Ennio De Simone, Vittoria Ferrandino, op. cit., vol. II, p. 296
55
Ivi.
56
Carlo De Maria, L’evoluzione del terzo settore dal Novecente a oggi (1915-2011), in
Emanuele Rossi e Stefano Zamagli, op. cit., p. 87.
57
Francesco Dandolo, Alle origini dell’associazionismo industriale a Napoli, in Ennio De
Simone, Vittoria Ferrandino, op. cit., vol. I, p. 176.
28
NELLO RONGA
Il fascismo
La centralità del socio e il suo potere decisionale sono alla base dell’etica
e dello spirito cooperativo. Il fascismo era portatore di una visone dello Stato
come unico organizzatore della società. Di conseguenza fu distrutto il patrimonio accumulato in precedenza proveniente dal riformismo socialista, dal
cattolicesimo e dalla repubblicanesimo mazziniano58.
Con l’avvento del fascismo sia le Società di Mutuo soccorso sia le Cooperative di matrice laica e cattolica furono travolte per far posto alle case
del fascio, “segnando la crisi dei due movimenti e le difficoltà di rimettersi
in piedi”59.
Nel 1923 esistevano nella provincia di Napoli 46 associazioni di mutuo
soccorso con 9.480 soci e 54 cooperative di consumo e di lavoro, con 800
iscritti. A parte il numero ristretto, queste associazioni “non si erano adoperate per la diffusione nelle masse operaie dei principi della previdenza, né
avevano assunto alcuna iniziativa per promuovere l’iscrizione dei soci alle
istituzioni pubbliche assistenziali”. Il fenomeno associativo meridionale era
assai debole e l’ambiente si caratterizzava per «l’assoluta impreparazione ai
problemi sociali in genere e a quelli della previdenza in specie»”60.
Il decreto legge 24 gennaio 1924, n. 64 “pose le associazioni operaie
sotto il controllo dei prefetti, autorizzati a scioglierle e a devolvere ad altri
il loro patrimonio”61. Le prefetture esercitavano rigidi controlli attraverso i
rapporti della questura per verificarne il carattere apolitico e l’attività, che
non doveva essere contraria al governo. La legislazione emanata per regolamentare l’attività sindacale, legge 3 aprile 1926 n. 563, sottrasse alle società operaie ogni valore di rappresentanza. Anche “se potevano continuare
a sussistere come associazioni di fatto, esse erano svuotate della loro principale funzione, la stipula dei contratti collettivi, e venivano sottoposte a rigidi controlli e a un regime di inquisizione poliziesca62.
Con l’approvazione della Carta del Lavoro il 21 aprile 1927 da parte
del Gran Consiglio il fascismo regolamentava lo stato corporativo, le modalità di svolgimento dell’attività sindacale, la definizione dei rapporti di
lavoro mediante il contratto collettivo, le modalità di determinazione del salario e sviluppava il tema dello Stato sociale: la previdenza, l’assistenza,
l’educazione e l’istruzione. Le prime realizzazioni pratiche dello stato sociale
si ebbero nel 1933 con la creazione degli istituti previdenziali: INPFS (Isti58
Carlo Di Maria, op. cit. p. 92.
Domenico De Marco, intervento al Convegno di studi in onore di Domenico De Marco, Benevento, 1-2 ottobre 2004, ora in. Ennio De Simone, Vittoria Ferrandino, op. cit. p. 5.
60
Anna Dell’Orefice, Ivi, p. 305.
61
Ivi, p. 298.
62
Ivi, p. 298.
59
CENNI SUL VOLONTARIATO E L’ASSOCIAZIONISMO NEL MERIDIONE D’ITALIA
29
tuto nazionale fascista per la previdenza sociale), l’INFAIL (Istituto nazionale fascista per l’assistenza degli infortuni sul lavoro)63.
L’istituzione di maggior successo fu l’Opera Nazionale Dopolavoro, costituita con legge 582 del 1 maggio 1925. Furono istituiti “organismi di dopolavoro statali e aziendali, diretti agli operai e ai ceti medi, finendo così
col raggiungere quei settori della società italiana dove il fascismo non era
presente, in particolare i ceti rurali del mezzogiorno. Il dopolavoro conobbe
un notevole sviluppo negli anni della crisi economica, divenendo uno dei
principali canali di organizzazione del consenso di massa del regime: il potenziamento delle attività extralavorative doveva coprire le difficoltà economiche più visibili e gli effetti più gravi della crisi”64. A Napoli e in provincia sorsero dopolavori nelle aziende più importanti: l’Alfa Romeo di Pomigliano, la Società Meridionale di Elettricità, la Compagnia Napoletana gas
ecc. Nel periodo autarchico furono istituiti anche dopolavoro rurali con lo
scopo di rinsaldare l’attaccamento alla terra delle masse dei coloni e braccianti e per promuovere l’incremento della produzione agricola65.
Il regime in occasione della stipula dei Patti Lateranensi con la Santa
Sede del 1929, concesse l’autonomia dallo Stato alle confraternite che avevano come scopo prevalente il culto.
Con la legge n. 847 del 3 giugno 1937 fu istituito l’Ente Comunale di
Assistenza (E.C.A.) acquisendo i beni delle preesistenti Congregazioni di
carità che furono abolite. Col trasferimento in mani pubbliche dei compiti
di assistenza, l’Ente venne dotato di uno statuto e si poneva gli obiettivi di
assistere coloro che si trovassero in condizioni di particolare necessità, e di
promuovere il coordinamento delle varie attività assistenziali esistenti nel
comune. Compiti sussidiari erano: curare gli interessi dei poveri, assumendone la rappresentanza legale davanti alle autorità amministrative e giudiziarie; promuovere i provvedimenti amministrativi e giudiziari di assistenza
e di tutela degli orfani e dei minorenni abbandonati, dei ciechi e dei sordomuti indigenti; amministrare le istituzioni di assistenza e di beneficenza ad
esso affidate, così come i lasciti e le donazioni. Venne disposto anche che i
lasciti e i legati che avevano come destinatari i poveri dovessero pervenire
all’E.C.A. In sostanza questi enti svolsero una funzione di beneficenza a livello comunale a favore delle famiglie povere o in temporanee difficoltà
economiche. Nel 1933 furono istituiti gli istituti della Previdenza sociale e
dell’Assicurazione contro gli infortuni sul lavoro diretti ai dipendenti del
settore privato.
63
64
65
Ivi, p. 299-302.
Anna Dell’Orefice, op. cit., pp. 303-304.
Ivi, p. 310.
30
NELLO RONGA
Dal dopoguerra a oggi
Dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, la struttura istituzionale repubblicana fu caratterizzata dal centralismo amministrativo dello Stato e dal centralismo dei partiti politici. Non trovarono spazio “le speranze
auto-gestionali di amministratori locali di tradizione socialista riformista o
di ispirazione sturziana”66.
La Costituzione repubblicana assegnò l’intera rappresentanza sociale ai
partiti e ai sindacati. Per l’associazionismo si previde solo il principio di libertà con l’articolo 18 che recita:
I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione,
per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale.
Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche
indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare.
L’articolo si riferisce espressamente alla libertà di associazione che presuppone un vincolo ideale fra gli associati e un carattere stabile e duraturo.
L’articolo due invece sancisce la centralità della persona e recepiva in maniera assai sfumata il principio della sussidiarietà:
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia
come singolo, sia nelle formazioni sociali ove svolge la sua personalità, e
richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Dopo la guerra incominciarono a sorgere le prime scuole di servizio sociale, divise sostanzialmente in tre raggruppamenti: quello cattolico (Onarmo),
quello laico di ispirazione cattolica (Ensiss), quello vicino alle posizioni liberalsocialiste (Cepas) sostenuto da Adriano Olivetti. Le scuole del Cepas ebbero
un forte radicamento al Sud, “dove i centri sociali fornivano servizi concreti ed
erano strutture di aggregazione, di incontro, di educazione popolare”67.
L’associazionismo prevalente si diffuse negli spazi offerti dalla casamadre, comunista o cattolica: giovani, donne, lavoratori, cooperatori, studenti,
consumatori avevano ciascuno la propria struttura associativa68.
Negli anni Cinquanta si segnalarono, comunque, correnti autonome di
impegno sociale, che contribuirono alla rinascita italiana in posizione indipendente dai partiti politici e dal potere pubblico. Furono tante le iniziative
in tutt’Italia: la prima Marcia della pace Perugia-Assisi del 1961 organizza66
Carlo De Maria, L’evoluzione del terzo settore, in Emanuele Rossi e Stefano Zamagni,
op. cit., p. 99.
67
Ivi, p. 106
68
Ivi, p. 102. Per un esempio di associazionismo femminile organizzato dai partiti, cfr. il
Capitolo di Antonietta Porzio a pag. 101.
CENNI SUL VOLONTARIATO E L’ASSOCIAZIONISMO NEL MERIDIONE D’ITALIA
31
ta dal filosofo antifascista Aldo Capitini, che promosse anche centri finalizzati a incentivare la partecipazione autonoma dei cittadini alla vita pubblica; la prima scuola di assistenti sociali fondata, nell’immediato dopoguerra,
da Guido Calogero; le attività dei sacerdoti don Primo Mazzolari, don Lorenzo Milani, padre Ernesto Balducci difensori dell’obiezione di coscienza;
la sperimentazione delle prime forme di azione non violenta con i braccianti siciliani che manifestavano contro la disoccupazione sistemando strade
dissestate, promosse da Danilo Dolci. Il settore che manifestò grande vivacità fu quello della cooperazione educativa e del lavoro con i bambini; alcune iniziative furono animate dalla Svizzera attraverso le Sepeg (Semaines
internationales d’etudea pour l’enfance victime de la guerra) che offrivano
a medici, educatori, operatori sociali e alle strutture educative e assistenziali dei paesi devastati dalla guerra incontri per discutere i problemi dell’infanzia e della gioventù.
Durante il ciclo economico 1958-63 si ebbe una trasformazione strutturale della società dovuta al miracolo economico: sorpasso degli occupati
nell’industria rispetto a quelli nell’agricoltura, piena occupazione, trasferimento di ampie fasce di popolazione dal Sud al Nord. Il Sessantotto con le agitazioni studentesche e l’autunno caldo segnò anche il ritiro di ampie fasce
di studenti e lavoratori dall’impegno sociale e l’aggrapparsi ossessivamente
alla dimensione politico-ideologica.
Negli anni Settanta con la riforma regionale e il decentramento di molti poteri dallo Stato si ebbe un fiorire di iniziative che portarono alla partecipazione di ampi strati della popolazione alla vita sociale attraverso i Consigli di Zona, di Quartiere, i Comitati di gestione delle scuole d’infanzia, delle biblioteche, ecc.
Nel 1971 per volere di papa Paolo VI nacque la Caritas, organismo pastorale della CEI (Conferenza Episcopale Italiana) allo scopo di promuovere “la testimonianza della carità nella comunità ecclesiale italiana, in forme
consone ai tempi e ai bisogni, in vista dello sviluppo integrale dell’uomo,
della giustizia sociale e della pace, con particolare attenzione agli ultimi e
con prevalente funzione pedagogica” (art.1 dello Statuto).
Con il trasferimento dell’assistenza sanitaria alle Regioni si ebbe nel
1978 la soppressione dell’ECA e il trasferimento dei beni residui e del personale ai comuni. Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Novanta ebbero un notevole sviluppo i movimenti di base, nati dalla svolta culturale
provocata prima dal Concilio Vaticano II, che diede un impulso importante
al cattolicesimo di base (le esperienze del Gruppo Abele, della comunità di
Capodarco ecc) poi dal Sessantotto con le lotte per i diritti civili, il femminismo, le aggregazioni su particolari obiettivi verso le categorie svantaggiate (ad esempio la Mensa dei bambini proletari di Montesanto, Napoli, organizzata dai militanti di Lotta continua).
32
NELLO RONGA
Anche la sfiducia verso i partiti politici registrata a partire dagli anni
Settanta giocò “un ruolo decisivo nel superamento di concezioni e pratiche
operative che avevano identificato nel collateralismo la relazione specifica
tra la vita istituzionale e le formazioni sociali. La crisi dei tradizionali partiti di massa diede, cioè, un impulso all’attivismo politico delle formazioni
sociali a tutti i livelli, dal comitato di quartiere ai grandi sistemi associativi”69.
Contemporaneamente e in stretta relazione col volontariato si diffusero
le cooperative di solidarietà sociale composte da volontari, da lavoratori –
in tutto o in parte retribuiti – e dai beneficiari degli interventi offerti70. Lo
scopo era quello di impegnare nella produzione dei servizi sociali soci lavoratori e volontari oltre a quello di creare occasioni di lavoro. Il raggio di
intervento andava oltre la compagine sociale e tendeva ad includere l’intera
comunità. Nei primi tempi le cooperative sociali71 ricevevano dei contributi
da parte della pubblica amministrazione a fronte dei servizi che rendevano
alle comunità. Successivamente con l’intensificarsi delle attività si giunse ad
una relazione di natura contrattuale, convenzione, in base alla quale l’ente
pubblico eroga un finanziamento costante per una prestazione concordata
fornita dalla cooperativa. Si realizza in tal modo un ampliamento dei servizi col sostegno degli enti pubblici.
Di fondamentale importanza fu la Legge-quadro sul volontariato dell’11
agosto 1991 n. 266 approvata a larghissima maggioranza dal parlamento che
ha avuto il merito di disciplinare in maniera chiara l’attività di volontariato.
L’articolo 1 recita:
La Repubblica italiana riconosce il valore sociale e la funzione dell’attività di volontariato come espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo, ne promuove lo sviluppo salvaguardandone l’autonomia e ne favorisce l’apporto originale per il conseguimento delle finalità di carattere sociale, civile e culturale individuate dallo Stato, dalle regioni, dalle province
autonome di Trento e di Bolzano e dagli enti locali.
Prosegue nell’articolo due specificando che “per attività di volontariato
deve intendersi quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tra69
Ivi, p. 115.
La cooperativa sociale è una forma d’impresa particolare senza scopo di lucro. La prima esperienza risalire al 1963, quando a Roè Volciano (Brescia), fu costituita la cooperativa S.
Giuseppe da Giuseppe Filippini. Era un’esperienza anomala nel panorama cooperativo, perché
impegnata a fornire solidarietà a chi ha bisogno di aiuto non tanto a perseguire uno scopo mutualistico tra soci.
71
Queste cooperative con la legge 381 del 23 ottobre 1997 assunsero la denominazio- ne
di cooperative sociali, in sostituzione di quella precedente di cooperativa di solidarietà sociale.
70
CENNI SUL VOLONTARIATO E L’ASSOCIAZIONISMO NEL MERIDIONE D’ITALIA
33
mite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche
indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà.
E per organizzazione di volontariato si intende “ogni organismo liberamente costituito al fine di svolgere l’attività di cui all’articolo 2, che si avvalga in modo determinante e prevalente delle prestazioni personali, volontarie e gratuite dei propri aderenti”.
I tratti fondamentali che la legge riconosce al volontariato sono: la partecipazione, la solidarietà e il pluralismo e deve intendersi per volontario chi
presta l’attività in modo personale, spontaneo e gratuito
Nonostante la legge sia arrivata tardi, quando il volontariato era ben radicato nella società italiana, fin dalla prima epoca unitaria, ha avuto comunque il merito di “giungere in un momento in cui si stavano ponendo le basi
per il passaggio dal welfare state72 alla welfare community, riconoscendo e
quindi promuovendo tutte quelle organizzazioni che da anni svolgevano attività di considerevole importanza senza alcuna copertura normativa, in settori diversi ma sempre connotati da situazioni di bisogno e comunque di fragilità”73.
Circa due mesi dopo fu approvata la legge 381/1991 che definì le Cooperative sociali come organizzazioni aventi lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini attraverso: a) la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi; b) lo svolgimento di attività diverse – agricole, industriali, commerciali
o di servizi – finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate.
Essi quindi contrariamente alle cooperative tradizionali, non forniscono i
propri servizi ai soci, ma a soggetti esterni.
Altra legge di fondamentale importanza per il Terzo settore è stato il decreto legislativo 460/1997 che ha regolamentato la normativa fiscale e tributaria di
tutti gli enti che hanno i requisiti per assumere la qualifica di ONLUS.
Il 2000 è stato un anno particolarmente importante per il Terzo settore
in quanto fu approvata la Legge quadro sui servizi sociali74, che ha assegnato
ad esso un ruolo di primo piano sancendo che alla gestione ed all’offerta
dei servizi provvedono i soggetti pubblici nonché, in qualità di soggetti at72
Nel primo caso lo Stato si propone di fornire e garantire i diritti e i servizi sociali; nel
secondo è la società solidale che si auto-organizza promuovendo l’erogazione di servizi, anche
in assenza della partecipazione della Pubblica Amministrazione. Successivamente l’affermazione del principio di sussidiarietà, attuato attraverso le sinergie fra tutti gli attori sociali, pubblici e privati, ha sancito il passaggio al nuovo modello di Welfare Mix, basato su di un sistema
di interventi a rete per promuovere un’etica della responsabilità capace di identificare e mettere in rete le risorse private, pubbliche, umane e familiari e quelle organizzative e finanziarie.
73
Paolo Addis, A. Elena Ferioli e Elena Vivaldi, Il terzo settore nella disciplina normativa italiana dall’Unità ad oggi, in Emanuele Rossi e Stefano Zamagni, op. cit. p. 186.
74
Legge n. 328 dell’8 novembre 2000 dal titolo Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali
34
NELLO RONGA
tivi nella progettazione e nella realizzazione concertata degli interventi, gli
organismi non lucrativi di utilità sociale, gli organismi della cooperazione,
le associazioni e gli enti di promozione sociale, le fondazioni e gli enti di
patronato, le organizzazioni di volontariato.
Un mese dopo fu approvata la legge 383/2000 che, in attuazione degli
articoli 2, 3, secondo comma, 4, secondo comma, 9 e 18 della Costituzione, dettava i principi fondamentali e le norme per la valorizzazione dell’associazionismo di promozione sociale e stabiliva i principi cui le regioni e
le province autonome devono attenersi nel disciplinare i rapporti fra le istituzioni pubbliche e le associazioni di promozione sociale, nonché i criteri
cui debbono uniformarsi le amministrazioni statali e gli enti locali nei medesimi rapporti.
Altro momento importante nella vita dell’associazionismo fu la modifica del Capitolo della Costituzione, del 18 ottobre 2001, che all’articolo 11875
prevede il principio di sussidiarietà e assegna all’autorità centrale una funzione essenzialmente sussidiaria, essendo ad essa attribuiti quei soli compiti
che le autorità locali non siano in grado di svolgere da sé. Nel nostro caso
la sussidiarietà prevede che le funzioni amministrative siano attribuite al livello di governo più vicino alle persone e che i cittadini possano, con autonome iniziative, svolgere attività di interesse generale come opere mutualistiche e sociali.
In merito al ruolo delle donne nel Terzo settore va evidenziato che, secondo un recente studio “è possibile affermare l’esistenza anche nel settore
non profit (settore generalmente noto per la sua democraticità) di una segregazione sia orizzontale che verticale”. La segregazione occupazionale sembrerebbe confermata dalla consistente presenza delle donne nei lavori di cura,
ossia in quei settori che hanno ad oggetto un servizio alla persona. “Dai dati
emerge che più del 74% della forza lavoro nell’ambito del settore della cooperazione sociale in Italia è costituito da donne. Questo confermerebbe l’esistenza di un fenomeno di segregazione orizzontale; ma vi è anche una segregazione verticale, in quanto i ruoli apicali sono generalmente ricoperti
dagli uomini”76.
75
“Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei
principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze. La legge statale disciplina forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alle lettere b) e h) del secondo comma dell’articolo 117, e disciplina inoltre forme di intesa e coordinamento nella materia della tutela dei
beni culturali. Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma
iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale,
sulla base del principio di sussidiarietà”.
76
Federica D’Isanto, Segregazione di genere e differenze salariali nel mercato del lavoro
italiano, Il caso delle organizzazioni non profit, Torino 2013, p.135.
CENNI SUL VOLONTARIATO E L’ASSOCIAZIONISMO NEL MERIDIONE D’ITALIA
35
Censimento 2011
Vediamo, per concludere, le caratteristiche del Terzo settore, fotografato dal censimento dell’industria, dei servizi e delle istituzioni non profit del
2011 e il confronto con i dati del Censimento del 2001.
Al 77 31 dicembre 2011 le istituzioni non profit attive in Italia sono
301.191, con una crescita pari al 28 per cento rispetto al 2001. Esse rappresentano il 6,4 per cento delle unità giuridico-economiche attive in Italia e il 3,4 per cento degli addetti (dipendenti) in esse impiegati. Indipendentemente dalla loro dimensione occupazionale le istituzioni non profit costituiscono, in alcuni settori, la principale realtà produttiva del Paese. Nel
settore delle attività artistiche, sportive, di intrattenimento e di divertimento il numero di istituzioni non profit attive (146.997) è superiore a quello
delle imprese (61.527) e delle istituzioni pubbliche (252). Significativo l’apporto delle istituzioni non profit anche nei settori della sanità e dell’assistenza sociale, con 36.010 istituzioni attive a fronte di 474 istituzioni pubbliche e di 246.770 imprese, costituite quasi interamente da lavoratori autonomi e liberi professionisti che svolgono attività mediche e paramediche
indipendenti. Le dimensioni del settore sono rilevanti anche in termini di
risorse umane impiegate. Le istituzioni che operano grazie all’apporto di
volontari sono 243.482, pari all’80,8 per cento delle unità attive (con un
incremento del 10,6 per cento rispetto al 2001) per un numero totale di 4
milioni 759 mila volontari. Le istituzioni che dispongono di lavoratori retribuiti a vario titolo sono 41.744 con addetti (pari al 13,9 per cento delle
istituzioni attive), 35.977 con lavoratori esterni (pari al 11,9 per cento) e
1.796 con lavoratori temporanei (0,6 per cento). Le risorse umane retribuite sono costituite da 681 mila dipendenti, 271 mila lavoratori esterni (lavoratori con contratto di collaborazione) e più di 5 mila lavoratori temporanei).
Rispetto al Censimento del 2001 cresce in misura significativa il numero di lavoratori temporanei (+48,1 per cento), di volontari (+43,5 per cento) e di lavoratori dipendenti (+39,4 per cento). Ancor più consistente è stato
l’incremento del numero di lavoratori esterni (+169,4 per cento). La loro
diffusione tra le istituzioni non profit è molto aumentata; infatti il numero
di istituzioni che si avvalgono di lavoratori esterni è aumentato del 106,8
per cento e quello delle istituzioni con lavoratori temporanei del 130 per
cento. In un settore caratterizzato dalla ampia presenza del lavoro volontario appare significativo l’incremento delle istituzioni non profit che si av77
9° censimento dell’industria e dei servizi e Censimento delle istituzioni No Profit. Primi risultati. In Istat, Censimento dell’industria e dei servizi 2011, primi risultati, 31 gennaio
2014, pp. 48-49.
36
NELLO RONGA
valgono del lavoro dipendente (+9,5 per cento). Anche la dimensione media in termini di dipendenti aumenta, passando da 12,8 dipendenti per istituzione non profit nel 2001 a 16,3 nel 2011.
La78 distribuzione territoriale delle istituzioni non profit mantiene le caratteristiche di relativa concentrazione nell’Italia settentrionale (157.197 unità pari al 52,2 per cento del totale nazionale) e di una minore localizzazione nel Centro (64.677 unità pari al 21,5 per cento) e nel Mezzogiorno
(79.317 unità pari al 26,3 per cento). La Lombardia e il Veneto si confermano le regioni con la presenza più consistente di istituzioni, con quote
rispettivamente pari al 15,3 per cento e al 9,6 per cento, seguite da Piemonte (8,6 per cento), Emilia-Romagna (8,3 per cento), Toscana e Lazio
(7,9 per cento). Le regioni con minore presenza di istituzioni sono la Valle
d’Aosta (0,4 per cento), il Molise (0,6 per cento) e la Basilicata (1,1 per
cento).
Rapportando il numero di istituzioni alla popolazione residente, si conferma la maggiore diffusione del settore nel Nord-est con 64,9 istituzioni ogni
10 mila abitanti. Il rapporto è anche elevato nel Centro (55,8) e nel Nordovest (52,6), mentre è più contenuto nelle Isole (44,4) e nel Sud (35,7). La
Valle d’Aosta è la regione che presenta il rapporto più elevato, con 104,1
istituzioni ogni 10 mila abitanti.
Nondimeno, sempre in rapporto alla popolazione residente, la presenza
di istituzioni non profit è nettamente superiore alla media nazionale anche
nelle Provincie Autonome di Trento e Bolzano (rispettivamente con 102,3 e
97,6 istituzioni non profit per 10 mila abitanti), in Friuli-Venezia Giulia
(82,1), Umbria (70,7), Marche (69,3) e Toscana (65,1).
Rispetto al 2001 in tutte le regioni italiane ad eccezione della Provincia autonoma di Bolzano vi è stato un incremento del numero di istituzioni
non profit. Più in particolare le istituzioni del settore sono aumentate in
misura notevolmente maggiore della media nazionale (+28 per cento) in
Basilicata (+41,5), Molise (+35,7 per cento), Abruzzo (+32,5 per cento),
Lombardia (+37,8 per cento), Veneto (+37,6 per cento) e in tutte le regioni
del Centro (+32,8 per cento).
Le79 risorse umane
Le istituzioni non profit italiane contano sul contribuito lavorativo di 5,7
milioni di persone, costituite in prevalenza da volontari (4.758.622, pari
all’83,3 per cento del totale), dipendenti (680.811, pari all’11,9 per cento),
78
79
Ivi, p. 50.
Ivi, pp. 51-52.
CENNI SUL VOLONTARIATO E L’ASSOCIAZIONISMO NEL MERIDIONE D’ITALIA
37
lavoratori esterni (270.769, pari la 4,7 per cento) e lavoratori temporanei
(5.544, pari allo 0,1 per cento).
In media l’organico delle istituzioni non profit attive in Italia si compone di 16 volontari, 2 dipendenti e 1 lavoratore esterno, ma la composizione interna delle diverse tipologie di risorse impiegate varia notevolmente in relazione alle attività svolte, ai settori d’intervento, alla struttura organizzativa adottata ed alla localizzazione.
A livello territoriale, le aree che presentano una maggiore diffusione
di istituzioni non profit registrano anche una maggiore densità di risorse
umane impiegate nel settore rispetto alla popolazione residente. Nel Nordest e nel Nord-ovest si rilevano i rapporti più elevati di volontari (pari
rispettivamente a 1.146 e 892 persone per 10 mila abitanti) e di addetti
(141 e 156 per 10 mila abitanti), mentre è il Centro a presentare il rapporto più elevato di lavoratori esterni e temporanei (pari a 60 ogni 10
mila abitanti).
La80 distribuzione per forma giuridica e regione evidenzia differenze
significative nella composizione del settore non profit sul territorio nazionale.
Le associazioni riconosciute hanno un peso più rilevante in Molise (32,7
per cento), Basilicata (30,5 per cento), nella Provincia Autonoma di Bolzano (27,8 per cento), in Valle d’Aosta (27,4 per cento), Sardegna (26,8 per
cento), Piemonte (26,4 per cento) e Calabria (26,1 per cento). Le associazioni non riconosciute sono relativamente più frequenti nella Provincia Autonoma di Trento (76,4 per cento), in Friuli-Venezia Giulia (73,1 per cento)
e Veneto (70,3 per cento). Le cooperative sociali sono presenti in misura sensibilmente superiore alla media nazionale in quasi tutte le regioni meridionali e specialmente in Campania (6,9 per cento), Sardegna (6,1 per cento),
Puglia e Sicilia (5,9 per cento). Le fondazioni sono relativamente più diffuse in Lombardia (3,9 per cento) e nel Lazio (2,5 per cento). Le istituzioni
con altra forma giuridica sono più diffuse nella Provincia Autonoma di Bolzano (8,5 per cento), in Valle d’Aosta (7,1 per cento), in Piemonte (6,5 per
cento) e Liguria (6,3 per cento).
80
Ivi, p. 53.
38
NELLO RONGA
Distribuzione delle associazioni per tipo di attività
e per area geografica in valori assoluti
Centro
Sud
Isole
Totale
Cultura e sport
Istruzione e ricerca
Sanità
Assist. Sociale. e prot. civile
Ambiente
Sviluppo economico
Tutela dei diritti
Filantropia e promozione
del volontariato
Cooperazione e solidarietà
internazionale
Religione
Relazioni sindacali e
rappresentanza di interessi
Altre attività
Nord Ovest Nord Est
52.969
4.645
3.448
7.438
1.651
1.995
1.805
50.563
3.789
2.166
5.705
1.754
1.518
1.463
42.252
3.252
2.388
4.595
1.270
1.775
1.862
31.437
2.452
1.768
4.452
979
1.417
1.153
18.620
1.401
1.199
2.845
639
753
539
195.841
15.519
10.969
25.044
6.293
7.458
6.822
1.672
1.289
852
666
368
4.847
1.305
1.606
1.014
1.217
850
1.482
248
1.660
148
817
3.565
6.782
3.632
717
3.520
336
3.784
315
3.459
155
2.019
114
16.414
1.637
Totali
82.883
74.314
64.677
49.855
29.462
301.191
Distribuzione delle associazioni per tipo di attività
e per area geografica in valori percentuali
Nord Ovest Nord Est
Centro
Sud
Isole
Totale
Popolazione %
Cultura e sport
Istruzione e ricerca
Sanità
Assist. Sociale. e prot. civile
Ambiente
Sviluppo economico
Tutela dei diritti
Filantropia e promozione
del volontariato
Cooperazione e solidarietà
internazionale
Religione
Relazioni sindacali e
rappresentanza di interessi
Altre attività
26,5
27,0
29,9
31,5
29,7
26,2
26,7
26,5
19,3
25,8
24,4
19,7
22,8
27,8
20,4
21,4
19,5
21,6
20,9
21,8
18,3
20,2
23,8
27,3
23,5
16,1
15,8
16,1
17,8
15,6
19,0
16,9
11,2
9,5
9,0
10,9
11,4
10,2
10,1
7,9
100
100
100
100
100
100
100
100
34,5
26,6
17,6
13,7
7,6
100
36,6
23,8
28,4
17,9
23,8
21,9
7,0
24,4
4,2
12,0
100
100
22,1
43,8
21,4
20,5
23,1
19,2
21,1
9,5
12,1
7,0
100
100
Totali
27,5
24,7
21,4
16,6
9,8
100
Nord-Ovest = Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Liguria.
Nord-Est
= Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna.
Centro
= Toscana, Umbria, Marche, Lazio.
Sud
= Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria.
Isole
= Sicilia, Sardegna.
Mia elaborazione sui dati del censimento 2011.
CENNI SUL VOLONTARIATO E L’ASSOCIAZIONISMO NEL MERIDIONE D’ITALIA
39
Dalle due tabelle riportate emerge che al Sud il Terzo settore si attesta
intorno al 16,6% del totale nazionale ed è inferiore al peso della sua popolazione che corrisponde al 23,5% di quella nazionale. Le percentuali peggiori, cioè con un peso inferiore a quello della popolazione, si registrano
nell’ordine: nella Cooperazione e solidarietà internazionale con una misera
percentuale inferiore al 7%, il 13,7% è impegnato nella Filantropia e la promozione del volontariato, il 15,8% si interessa dell’istruzione e della ricerca, il 15,6% dell’Ambiente contro una media del 27% circa del Nord, il settore nel quale il Sud supera la percentuale del Centro, del Nord Est (non è
un caso che gran parte dei rifiuti tossici sia stata interrata nelle nostre campagne) e quella corrispondente alla sua popolazione, e eguaglia quella del
Nord Ovest sono le associazioni che si interessano di religione.
Possiamo forse concludere affermando che al Sud l’associazionismo e
il volontariato hanno avuto in passato e continuano ad avere oggi una presenza inferiore a quella delle regioni del Centro e del Nord. Ovviamente le
ragioni sono molteplici ed hanno la loro origine nella storia del Meridione
degli ultimi secoli. La diversa consistenza economica della ricchezza delle
diverse regioni e il livello d’istruzione delle popolazioni hanno avuto il loro
peso. Lo stesso dicasi per la maggiore influenza sulla popolazione meridionale della chiesa rispetto a quella delle istituzioni statali.
40
RENATO BRIGANTI
COSTITUZIONE, CITTADINANZA ATTIVA E PARTECIPAZIONE NELL’ITALIA MERIDIONALE
41
COSTITUZIONE, CITTADINANZA ATTIVA
E PARTECIPAZIONE NELL’ITALIA MERIDIONALE
Renato Briganti
Nella società contemporanea, caratterizzata da forti spinte individualiste,
o meglio dalla ricerca di soluzioni personali, e solo personali, anche a problemi che poi sono collettivi, dedicare attenzione all’analisi di esperienze di
solidarietà e partecipazione può sembrare quasi folkloristico. Oltre a sembrare
uno studio di nicchia può apparire addirittura inutile. Questa impressione
viene ulteriormente amplificata nel sud Italia, ed in particolare in terre dominate dalla criminalità organizzata o dalla camorra intesa come sublimazione dell’egoismo, e del mors tua vita mea, dell’homo homini lupus.
In realtà, sia con uno sguardo di insieme più generale ma attento, sia
con approfondimenti puntuali in settori specifici o territori particolari, ci si
trova di fronte a dati ed esperienze sorprendenti. I primi, i dati, sono necessari per iniziare una riflessione macro su un tema così importante, ma restano pur sempre delle fredde cifre scritte su morti pezzi di carta o monitor
di pc. Le seconde, le esperienze vissute, ci consentono di vedere i volti degli uomini e delle donne che si impegnano per “l’altro da se”, e per migliorare il contesto in cui vivono con gli altri. Questo “dare volti” ai numeri è
molto utile in tutti i tipi di ricerche sociali ed anche economico/giuridiche,
ma in particolare in questo caso è fondamentale. Ho apprezzato molto nelle
tesi di laurea premiate dall’Associazione Sifo Ronga il metodo di analisi che
non si è fermato allo studio a tavolino, ma ha sempre privilegiato l’incontro, il confronto con le realtà monitorate nelle tesi.
Partendo dai numeri, non possiamo trascurare il dato del superamento
dei 10 milioni di italiani ed italiane impegnate in attività di volontariato e
solidarietà “continuativa” nel 2012. Per continuativa si intende ripetuta nel
tempo in modo costante e non estemporanea o legata alle festività natalizie.
È una attività prevalentemente “organizzata” con altri, anche se nelle forme
più disparate: associazioni riconosciute o non riconosciute, parrocchie o centri
sociali, cooperative o fondazioni o piccoli comitati locali, ecc, ecc.
Questo dato in aumento, sembrerebbe essere in netta controtendenza col
graduale abbandono della vita pubblica, testimoniato dalle sempre più alte
percentuali di astensionismo elettorale. Mi spiego meglio: rinunciare, anche
momentaneamente, al diritto di voto ed andare ad ingrossare il crescente
42
RENATO BRIGANTI
numero dei delusi e degli astenuti, in molti Paesi equivale ad una presa di
distanza dalla Res Publica, non solo dallo ”Stato apparato”, ma spesso anche dallo “Stato comunità”, e dalle questioni di interesse collettivo. Si abbandona la sfera pubblica per rinchiudersi in soddisfazioni individuali. Nel
nostro Paese (ed anche in altri Paesi interessanti per la verità, ma in questa
sede non si può approfondire la comparazione) invece la voglia di partecipazione non ha abbandonato la politica, ma solo i partiti, che sono soltanto
una delle forme di pratica delle attività di interesse collettivo. Quindi alla
fuoriuscita delle persone dalle sedi dei partiti (gli iscritti ai partiti non sono
mai stati così pochi nella storia repubblicana) ha fatto seguito in modo quasi
speculare un ingresso di persone nelle sedi di associazioni e comitati di vario tipo. E con queste persone è entrata la voglia di “partecipare”, di dare il
proprio contributo per cause anche piccole, ma simboliche.
Stiamo vivendo un tempo molto buio anche sul piano della qualità della rappresentanza politica, sia italiana che internazionale, ma stiamo anche
assistendo alla nascita di “minoranze creative” che emergono dalla società
civile e che sono espressioni della politica con la P maiuscola. Erroneamente
pensiamo che la cittadinanza attiva si esprima ogni cinque anni attraverso il
voto, ma la nostra Costituzione (articolo 1, comma 2) dice che “la sovranità appartiene al popolo”: non “deriva” dal popolo, o “nasce” dal popolo,
come affermano altre Costituzioni straniere, che è come dire “il popolo dà
vita alla sovranità e poi la trasferisce col voto ai propri delegati, ogni 4 o 5
anni, e poi il popolo può stare a casa”, ma i Padri costituenti hanno scelto
l’espressione forte “appartiene”, che è un termine molto preciso. In altre
parole la cittadinanza attiva si può e si deve praticare tutti i giorni, e a maggior ragione val la pena farlo in questo momento buio della storia politica
istituzionale, in cui i partiti (che dovrebbero essere “ascensori sociali”, che
portano le istanze dal popolo nelle aule del Parlamento) sono al minimo della
credibilità e della rappresentanza. Ma proprio in questo momento di crisi,
ci sono tante “buone pratiche” politiche esercitate dalla società civile organizzata. Ci sono sempre più persone che, per esempio, abitando vicino ad
un giardino pubblico abbandonato dalle istituzioni da dieci anni, vanno a
pulirlo, portano scope e palette, se necessario si autotassano e risolvono il
problema. Oppure persone che dedicano parte del loro tempo, ogni settimana, a dare conforto ad ammalati ricoverati in ospedale, o ai loro familiari,
per puro spirito solidale. Queste attività virtuose sono contagiose e diventano la buona Politica, come già diceva Socrate: inizia delle buone abitudini,
poi diventeranno consuetudini e pratiche facili da ripetere. E questo succede anche in regioni storicamente molto complesse come quelle meridionali,
dove è radicata una cultura della delega, frutto di secoli di dominazioni straniere e di sovrani che decidevano al posto dei sudditi. O dove il “maffìa”
COSTITUZIONE, CITTADINANZA ATTIVA E PARTECIPAZIONE NELL’ITALIA MERIDIONALE
43
di origine araba era un “capo-rione”, era quello che si occupava del territorio e che per questo doveva essere ripagato. Poi questo sistema è degenerato nel sistema mafioso e camorristico, ed ha mantenuto grosse fette di popolazione italiana nella paura e nell’isolamento.
In questa sede è certo difficile sintetizzare le tante concause della situazione meridionale, ma preferisco limitarmi a dire che proprio dove si sono
diffusi per anni il cosiddetto “familismo amorale” e la difesa degli interessi
di microbotteghe, si sta verificando una reazione d’orgoglio della popolazione
meridionale, e si registra una crescita significativa delle più disparate forme
di cittadinanza attiva. Proprio dove si sono sgretolate per anni le relazioni
interpersonali e dove si è distrutta la terra (sorvolo sulle inchieste di questi
giorni sulla terra dei fuochi...) sono nati comitati civici molto attivi. Si dirà
che è una reazione tardiva, che il popolo meridionale si è svegliato solo
quando è sbattuto violentemente di fronte alla realtà drammatica. Sta di fatto che, ad esempio nella regione Campania sono nate alcune delle principali iniziative di solidarietà sociale degli ultimi anni.
Per quanto riguarda il rapporto tra popolo sovrano e partecipazione, si
pensi ad un diagramma con quattro lati. Un lato è l’individualismo che porta
a risolvere i problemi da sé, soltanto se toccano direttamente il proprio interesse personale; un altro lato è la cultura della delega che facilmente degenera in metodi clientelari o corrotti; un altro ancora è la cittadinanza esercitata soltanto al momento del voto che ha generato una “casta” che fa il
proprio interesse e non si cura del bene comune. L’ultimo lato è costituito
da tutte le pratiche della democrazia della partecipazione. Quest’ultima costituisce quella reazione delle minoranze creative che stanno emergendo dal
momento buio che stiamo vivendo, e si stanno inventando una via di uscita
pacifica e nonviolenta alla crisi delle istituzioni e dell’economia.
Le principali forme della democrazia della partecipazione
La Costituzione italiana prevede fondamentalmente tre strumenti principali di democrazia diretta, che consentono al popolo di esercitare la sovranità che gli appartiene: le petizioni, le leggi di iniziativa popolare e i referendum. Sono le forme istituzionali classiche della democrazia partecipata.
Le petizioni sono le più blande, perché non sono vincolanti per il destinatario istituzionale, ma possono essere presentate da chiunque, senza limiti o
numeri minimi di firme, e possono avere diversi interlocutori ai diversi livelli istituzionali, ma sono strumenti deboli di pressione, e possono aumentare la loro incidenza solo se il numero di firme è alto. A Napoli, ad esempio, per la questione dei rifiuti, ci rivolgemmo al Comune, alla Regione, al
44
RENATO BRIGANTI
Governo senza ottenere risposta soddisfacente. Poi, presentammo una petizione anche all’Unione Europea e ci rispose subito: mandò una delegazione
a Napoli e ci diede ragione poiché, come avevamo sostenuto, in Campania
non era stata praticata la raccolta differenziata, né il recupero, né il riciclo,
prima di ricorrere a quella che deve essere l’estrema soluzione, cioè discariche e inceneritori, che invece sono diventati la norma, e soprattutto il business per le ecomafie.
Le leggi di iniziativa popolare sono più romantiche che efficaci. Rischiano di essere solo simboliche perché un gruppo di cittadini – occorre raccogliere almeno 50 mila firme – “si fanno un sol uomo” e presentano al Parlamento una proposta di legge che i rappresentanti eletti nelle due camere
non sono stati in grado di varare. Poi però quella proposta deve sottoporsi
all’iter di tutte le leggi, e la proposta inizia a fare la navetta tra Camera e
Senato, viene emendata, corretta, modificata, qualche volta cancellata, qualche altra resta in giacenza al termine della legislatura senza diventare legge. Per questo definivo simbolica e “potenziale” la possibilità del cittadino
di legiferare e di partecipare in modo diretto alla creazione di norme, perché il Parlamento mantiene saldamente il potere legislativo ed anche la possibilità di ignorare o rinviare all’infinito la legge di iniziativa popolare proposta dai cittadini. Anche se poi, alle seguenti elezioni i parlamentari ed i
partiti dovranno poi rispondere a quegli elettori per il loro comportamento,
quando gli chiederanno il voto.
Infine, ci sono i referendum, che sono un mezzo immediatamente efficace per abrogare e quindi modificare definitivamente una norma che il popolo sovrano non condivide: richiedono una raccolta di almeno 500 mila firme autenticate, la verifica della Corte costituzionale, per controllare la compatibilità con la Costituzione e poi, finalmente la votazione, che è valida solo
se i votanti sono il 50% più uno degli aventi diritto al voto. L’esperienza
del referendum per l’acqua bene comune è stata entusiasmante, perché abbiamo raccolto più di un milione di firme “senza soldi, senza partiti, senza
televisioni” e nonostante ciò, alle urne abbiamo raggiunto oltre il 57% delle italiane e degli italiani. È stata una grande dimostrazione delle possibilità
che scaturiscono dalla partecipazione.
Altre esperienze di democrazia partecipata
Il libro “Viaggio nell’Italia dei beni comuni”, curato da Paolo Cacciari,
racconta una ventina di esperienze concrete. Un esempio è la stessa casa
editrice che ha pubblicato il libro: un gruppo di ragazzi di Scampia hanno
rilevato la casa editrice “Marotta e Cafiero”, stampando secondo la filosofia del creative commons, cioè producono edizioni critiche, considerate beni
COSTITUZIONE, CITTADINANZA ATTIVA E PARTECIPAZIONE NELL’ITALIA MERIDIONALE
45
comuni, i diritti d’autore non sono riservati, ma possono essere utilizzati da
chiunque purché si citi la fonte, utilizzano solo carta riciclata e inchiostri
biodegradabili, con un’attenzione particolare all’ambiente, alle politiche sociali, a tutta la filiera della distribuzione. Un altro esempio è l’autogestione
del Teatro Valle, sulla cui falsariga a Napoli era sorto il Collettivo La Balena, che ha occupato gli spazi dell’ex Asilo Filangieri, sede del Forum delle
Culture, e che ha organizzato un calendario di attività culturali, mostre, spettacoli, concerti autogestiti, a sottoscrizione libera. In questo caso stiamo parlando, secondo il diritto vigente, di cittadini che occupano abusivamente un
edificio pubblico, quindi di un’azione illecita, ma se quell’edificio fosse considerato patrimonio di tutti (cosa che il Comune di Napoli ha provato a fare
dichiarando quell’immobile un bene comune) allora dovrebbe essere gestito
attraverso un processo partecipato. Il discorso si fa difficile e anche tecnico, perché il 6 gennaio la magistratura ha disposto lo sgombero di questo
edificio (contro il volere di 300 artisti e cittadini lì riuniti, ed anche contro
il parere del Comune), dimostrando che quella esperienza è molto diversa
dal Teatro Valle, occupato dopo che quel bene era stato dismesso dall’Ente
Nazionale Teatri Italiani. I miei studi sui beni comuni, per ora, si fermano
principalmente ai quattro beni fondamentali che anche i filosofi greci ci indicavano come essenziali, e non ho dubbi che siano beni comuni e quindi
da gestire in modo partecipato: l’acqua, l’aria, la terra e l’energia (il fuoco). In questi quattro macrocategorie di beni, che sono definibili e sono di
tutti, i casi in cui i cittadini si sono attivati ed hanno partecipato attivamente all’interesse collettivo sono interessantissime. Invece, giuridicamente è più
difficile definire il concetto di cultura o arte come bene comune. Chi decide che cosa può essere realizzato e cosa no dentro la struttura del Forum
delle culture? Quali criteri definiscono che cosa è cultura o arte e cosa no?
Quindi anche la partecipazione dei cittadini va studiata ancora meglio in
questi settori.
Da dove nasce la motivazione nelle esperienze di democrazia partecipata?
In parte ci sono motivazioni ideali o religiose, ma più spesso nasce dalle
necessità concrete, dall’esigenza di risolvere problemi di cui le istituzioni non
si fanno carico. Quando la democrazia della rappresentanza è in crisi e non
garantisce la dignità delle persone, molte reazioni nascono da situazioni concrete: il ragazzo disabile non ha più l’insegnante di sostegno, i servizi sanitari gratuiti diventano a pagamento, molti ragazzi sono senza lavoro perché
non ci sono politiche di sviluppo sul territorio. Spesso sono in gioco diritti
fondamentali, come nel caso dell’Ilva, dove oggi i cittadini lavoratori sono
costretti a scegliere tra il diritto al lavoro e il diritto alla salute, come conseguenza di scelte politiche fatte per interessi clientelari. La nostra Costitu-
46
RENATO BRIGANTI
zione stabilisce che i diritti fondamentali sono “indivisibili”, cioè spettano
tutti a tutti, quindi è incostituzionale mettere i tarantini di fronte all’alternativa o il lavoro o la salute. La Costituzione inoltre riconosce non soltanto
l’uguaglianza formale di tutti i cittadini davanti alla legge, ma anche l’uguaglianza “sostanziale” affermando che è compito dello Stato rimuovere gli
ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Se la democrazia della rappresentanza non funziona, i cittadini possono chiedere allo
“Stato apparato” di farsi carico di questo dovere, dalla Pubblica amministrazione, alla Magistratura, fino al Presidente della Repubblica (che è il garante della Costituzione). Se nemmeno il ricorso a questo livello istituzionale
funziona, allora sarà lo “Stato comunità” a dover intervenire e risolvere (sempre in modo pacifico e nonviolento) questi problemi drammatici che avvolgono il nostro tempo.
Tuttavia, è più facile lamentarsi o attivarsi quando il problema ci tocca
direttamente, ma esercitare veramente la cittadinanza attiva è cosa più seria
e impegnativa.
Anche qui bisogna distinguere e procedere per gradi. Intanto per essere
cittadini attivi prima bisogna informarsi, poi formarsi, cioè approfondire, e
solo dopo si può creare piena partecipazione. Quindi i gradini sono: Informazione, Formazione, Partecipazione. Altrimenti si cade nel confusionismo
sociale o negli sfogatoi che alleggeriscono un po’ le tensioni ma non risolvono i problemi. Se l’informazione, attraverso internet, è alla portata di tutti coloro che vogliano acquisirla, e può essere raggiunta anche individualmente, per fare formazione profonda occorre fare comunità, cioè uscire di
casa e verificare se nel proprio territorio, quartiere, palazzo, scuola ecc. è
possibile realizzare quell’iniziativa su cui si sono prese informazioni. Occorre
dialogare con le istituzioni, con i tecnici competenti, con gli abitanti del
quartiere o i vicini di casa o colleghi di scuola. Solo se ci sono informazione e formazione ci può essere partecipazione effettiva ed efficace e ottenere
quei risultati che sono il vero cambiamento sociale e politico duraturo.
L’altro aspetto è distinguere tra partecipazione e nimby (not in my back
yard, che vuol dire non nel mio giardino, non dietro casa mia). I fenomeni
di nimby non sono sincera e disinteressata partecipazione, perché sono risposte individuali: per esempio i cittadini di un comune chiedono che la discarica non sia fatta sul loro territorio, ma in quello del comune accanto. Oppure, cittadini che hanno capito che la diossina prodotta dall’inceneritore fa
molto male, protestano e sembrano “partecipare”, ma in realtà non dicono
“non fate l’inceneritore”, ma “non fatelo sotto casa mia”. Altra cosa, ad
esempio, è il piano rifiuti elaborato dal comitato Cittadini campani per un
piano sostenibile dei rifiuti secondo il quale gli inceneritori sono vietati ovunque, e le discariche devono essere collocate dove sia accertato che non va-
COSTITUZIONE, CITTADINANZA ATTIVA E PARTECIPAZIONE NELL’ITALIA MERIDIONALE
47
dano a percolare in falda acquifera, dove la cittadinanza locale abbia avuto
un bilanciamento di costi – benefici, dove l’impatto ambientale sia il minore possibile, e soprattutto dopo che si sia ridotta al minimo la percentuale
di rifiuti che arriva in discarica attraverso la raccolta differenziata porta a
porta e la riduzione a monte di tutto l’indifferenziato.
È chiaro che la fatica non è poca, ma i risultati ci sono e la qualità della
vita, oltre che della politica, cambia notevolmente. Del resto aveva ragione
don Lorenzo Milani quando spiegava con semplicità che se abbiamo un problema in comune e cerchiamo di uscirne da soli, si chiama “egoismo”, se
cerchiamo di uscirne insieme si chiama “la politica”. Naturalmente parlo della
politica alta, dei cittadini attivi e degli statisti che pensano alle future generazioni, non dei politicanti che pensano solo alle prossime elezioni.
48
FEDERICO D’AGOSTINO
GIOVANI E VOLONTARIATO NEL MEZZOGIORNO
49
GIOVANI E VOLONTARIATO NEL MEZZOGIORNO
IL RUOLO DEI GIOVANI
Federico D’Agostino
Nel vasto arcipelago delle associazioni dedite al volontariato ci sono
molte ricerche di carattere sociologico al Nord, meno al Sud. Il volontariato nel Sud spesso rientra nel magma di realtà nascoste, informali conosciute a livello locale, ma ignote al grande pubblico.
L’iniziativa di promuovere tesi di laurea su questo tema sta dando un
notevole contributo alla scoperta e al dissotterramento di questo filone di
attività, di associazioni che pongono al centro del loro impegno il dono, l’offerta di un impegno disinteressato per la comunità e la società civile in genere.
È un’attività che si pone all’interno della società civile, nell’ambito della
prepolitica, svolta prevalentemente da giovani, che non viene considerato un
lavoro nel senso formale del termine, ma il volontariato è una scuola di formazione anche professionale e di competenze specifiche che un domani non
lontano possono entrare nel curriculum e favorire l’inserimento professionale, anche se questa non è la finalità principale: si direbbe che è la ricaduta
secondaria di un’attività volta a promuovere solidarietà, sviluppo, cura, prossimità e anticipa interventi e soluzioni che spesso la politica ignora o vuole
ignorare.
Il volontariato si inserisce principalmente nella cultura giovanile: mentre sono inseriti nel sistema formativo scuola-università, molti giovani sentono il bisogno di impegnarsi nel campo del volontariato come forma di
solidarietà verso la comunità intesa anche come in senso globale, ma anche
per una “self realization”, un’autorealizzazione personale. L’inserimento nel
gruppo e nell’associazione aiuta a lavorare in “equipe” insieme cooperando
e coordinando i molti sforzi e impegni: autorealizzazione al presente e preparazione ad un futuro immediato.
Il volontariato risponde al bisogno di offrire qualcosa di gratuito agli
altri, perciò apre una prospettiva di prossimità di una società dove tutto è
monetarizzato, commercializzato in una logica di “do ut des” in termini
monetari. Rompe in parte il codice della società dei consumi in cui siamo
inseriti sotto il bombardamento continuo dei messaggi pubblicitari che ci
spingono a consumare di più, a cambiare prodotti, e ad aumentare bisogni
indotti e desideri che non si possono soddisfare anche volendo. Di qui scat-
FEDERICO D’AGOSTINO
50
ta il meccanismo di R. Merton basato sul “gap” tra mete che vengono prospettate e mezzi per raggiungerle: spesso i mezzi leciti non ci sono e la seduzione di quelli illeciti diventa forte nella mente e nei desideri di molti
giovani.
Perciò il volontariato andrebbe visto come una forma di servizio civile
a cui tutti i giovani sono chiamati per rispondere a quello che hanno ricevuto dalla comunità, dalla famiglia, dalla scuola: un servizio civile svolto nel
proprio ambiente, ma è preferibile se svolto fuori della propria cerchia familiare e ambientale per sperimentare una maggiore alterità e prossimità. Un
servizio civile in cui si dà un proprio contributo avendo appreso delle competenze e professionalità, inserite in un’associazione e un equipe. Perciò il
servizio civile dovrebbe rientrare nella sfera di una scelta volontaria ma incentivata al punto tale da essere difficile sottrarsi perché rientra nella formazione e socializzazione secondaria all’inserimento nella società, nell’integrazione socioeconomica, e nella dinamica del sistema centrale fatto di storia, leggi e legge costituzionale, norme e valori del paese di partenza e paese di arrivo dove si svolge il servizio.
Non si può lasciare nel limbo giovani in attesa di lavoro nell’ambivalenza e anomia, e depressione che tocca molti giovani tra nessuna prospettiva sul lavoro, abbandono degli studi ritenuti inutili e irrilevanti. Alla mercé di un tempo libero riempito di contatti e chat con le nuove tecnologie,
in una stasi che apre la strada al consumo di stupefacenti, di alcool, di gioco d’azzardo, sognando un mondo fatto di luci nell’apparenza dei media.
Nel Mezzogiorno oltre al volontariato formalmente riconosciuto e organizzato, c’è l’area del volontariato sotterraneo che è fortemente presente nell’azione di singole persone e piccoli gruppi secondari, che secondo modalità d’impegno diverso non sono strutturati in sistemi sociali istituzionalizzati, ma sono comunque rivolti a creare e mantenere una rete di solidarietà e
integrazione sociale più volte minacciata dalla crisi del “welfare state”. Si
può intravedere un continuum tra lo spazio della solidarietà primaria (rete
familiare, amicale, di vicinato, di gruppi dei pari etc.) che è tipica del familismo meridionale, e lo spazio della solidarietà secondaria (forme associative di volontariato cioè l’area del privato sociale)1.
Anche se il volontariato va ad inserirsi nei fallimenti e deficienze del
welfare state esso non ha lo scopo di sostituirsi al welfare state, ma di fatto
si rende complementare ad esso: anche nel welfare state perfettamente funzionanti come avviene nel Nord Europa non può fare a meno delle ricchezze delle innumerevoli forme di solidarietà e volontariato a livello micro e
macro che vanno ad operare nelle zone e nelle interstizi “liminali” della so1
F. D’Agostino, G. Di Gennaro, Monografia sull’area Napoletana in AA.VV., Volontariato e Mezzogiorno, vol.2, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1986 p. 520.
GIOVANI E VOLONTARIATO NEL MEZZOGIORNO
51
cietà. Le nuove povertà, e marginalità specialmente in relazione ai flussi
migratori, ma anche le nuove depressioni sociali e psicologiche offrono un
campo immenso all’aiuto, alla cura, alla prossimità.
Il volontariato entra nel dibattito e nella dinamica dell’utile, del superfluo, di quello che è necessario e di quello che è gratuito. La nostra società
si è economizzata, si è monetarizzata adottando il paradigma utilitarista della
società dei consumi in funzione della produzione la quale sarebbe in funzione del lavoro il quale permette la crescita dei consumi.
Siamo dentro questo circolo lavoro-consumo-produzione. L’uomo faber
ha smarrito l’homo sapiens: ha smarrito altri fondamentali elementi relativi alla qualità della vita, al senso e al significato della vita tra eros e thanatos, tra alfa e omega; ha smarrito il senso di essere umani aperti o chiusi
all’alterità per trasformarla in prossimità. Si è smarrito il valore del dono
che un grande sociologo M. Mauss ha posto al centro della sua analisi sociologica. Il dono che entra direttamente nella relazione simbolica, che non
esalta l’identità degli attori dello scambio, ma dove l’identità è posta sulla
relazione, dove il dono è un medium comunicativo, interattivo, che non
demanda ad una terza entità il denaro tutto il valore che oggi attribuisce
alla monetarizzazione. Il “denaro diventato un fine” non un mezzo in una
economia del dono: in questo ambito il volontariato scrive una pagina
importante nella visione del mondo, nella “weltanschaung” di M. Mauss.
Il volontariato mi dà l’immagine della foresta amazzonica, dove sono stato: certo essa è dominata dagli alti fusti cresciuti negli anni: ma quello che
è interessante osservare è il sottobosco, la mandria della foresta che cresce nella base e attorno agli alti fusti. Il volontariato è quel sottobosco, esprime la vitalità, la vivacità e la ricchezza di un nuovo mondo che nasce e
perciò trova nel mondo giovanile e nel volontariato il suo humus favorevole per crescere e svilupparsi. Perciò esso esprimendo un’alba e una primavera che si annuncia. Da qui nasce il problema della questione giovanile che diventa il centro della nuova società che emerge. Questa nuova
società nei suoi albori si vede nelle forme di volontariato che si sprigionano nella società; ad ognuno possiamo chiedere non che cosa ti aspetti dalla
società, dallo Stato, ma che cosa stai facendo per gli altri, per la tua comunità, per la grande società in termini di dono, altruismo, solidarietà, tempo
liberato per gli altri, facendo propria l’affermazione e la pratica che c’è più
gioia nel donare che nel ricevere. Queste considerazioni non appartengono
al discorso religioso, ma entrano nel vivo della costruzione di una società
civile riumanizzata.
Certo c’è molto volontariato ispirato religiosamente in Italia, c’è molto
volontariato nel mondo cattolico, ma anche nel mondo che non fa riferimento
alla chiesa cattolica. Ma a prescindere dall’ispirazione di fondo il problema
centrale è in che modo e in che maniera la nostra società può diventare più
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umana, più civile, più solidale, più giusta con un attrazione privilegiata agli
ultimi nella società. Il tema centrale del volontariato è di essere un’antenna,
una sentinella e un ausilio per annunziare e cooperare per una società più
giusta e più equanime, più fraterna. Sembra già l’eco della rivoluzione francese: libertà eguaglianza e fraternità, ma è anche il messaggio del cristianesimo; il concetto di rivoluzione culturale si rinnova nelle varie forme di volontariato proteso ad una maggiore giustizia sociale, ad uno sviluppo sostenibile, ad una prossimità più fraterna. Forse il volontariato poche volte è stato
visto in questi termini come una rivoluzione culturale permanente e persistente che rifiuta di lasciarsi imprigionare nella “gabbia di ferro” weberiana
della burocrazia: perciò l’elemento giovanile, l’immaginazione al potere è il
maggiore antidoto a questo processo di cristallizzazione e pietrificazione del
volontariato. Il ricambio generazionale è il più forte antidoto a questa sclerosi dell’azione gratuita.
È ovvio che molte azioni di volontariato che non riguardano solo i giovani, ma anche persone in età avanzata rispondono ad una pratica filantropica che attribuiscono un valore etico-morale salvifico al volontariato “secondo la nota analisi di M. Weber2, la pratica della “caritas” oltre a rispondere all’esigenza di protezione tra pari costituisce un importante strumento
di salvezza individuale pur assumendo un significato diverso a seconda del
tipo di religione dominante. È noto a questo punto la distinzione operata
sempre da M. Weber tra dottrine religiose improntate ad un’”etica delle buone opere” e quelle improntate ad un’etica della convinzione”: mentre nella
prima (tra cui la religione cattolica) la “caritas” costituisce un elemento chiave per la possibilità di redenzione dell’individuo, nelle seconde (tra cui le
dottrine protestanti) essa diviene l’espressione di una personalità morale globale che non è possibile valutare sulla base di alcuno specifico comportamento. Sotto l’influenza di diverse credenze religiose l’azione volontaria assume dunque significati e realizzazioni diverse, passando dalla dignità di
sacramento a quella di organizzazione razionale e impersonale “volta a esclusiva gloria di Dio”3.
Non so se questa motivazione di carattere religioso si possa applicare
negli stessi termini. Forse l’elemento della salvezza e della redenzione resta
un elemento latente, mentre si rende sempre più manifesta una motivazione
intramondana relativa alla giustizia sociale, alla solidarietà verso gli altri
specialmente i più bisognosi e all’autorealizzazione.
Inoltre il volontariato va visto non solo come Associazione e organizzazione, ma elemento fluido della prossimità sociale.
2
M. Weber: Economia e società, 2 vol. Comunità, Milano 1968, pp. 271-272.
Costanzo Ranci, Volontariato in Enciclopedia delle Scienze sociali, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, vol.VIII, 1998, p. 795.
3
GIOVANI E VOLONTARIATO NEL MEZZOGIORNO
53
Il volontariato entra nell’altra tipologia weberiana che passa attraverso
tre fasi fondamentali: 1. Lo stato nascente di un fenomeno, il volontariato
come forma spontanea, fluida di rendersi disponibile a dare una mano, di
offrire il proprio tempo e la propria professionalità in un’attività di aiuto e
solidarietà verso il prossimo specie in situazioni drammatiche quali alluvioni, incendi, naufragi, ma anche nelle tragedie familiari relative a morti, violenze e privazioni: il mare immenso della solidarietà, empatia e dono di se
si dispiega in tutta la sua forza in modo spesso inaspettato e imprevedibile.
È ovvio può capitare anche il contrario quando la gente si chiude nella sua
nicchia familiare in caso di pericolo. Seguendo il ragionamento di M. Weber dopo lo stato nascente c’è una seconda fase che è quella della “rootinization” quando abitualmente si entra in un rapporto di aiuto agli altri e si
sviluppa un “habitus” di essere sensibile, disponibile ad aiutare e offrire un
servizio. La routine non ha lo slancio del momento iniziale, ma offre la garanzia di una presenza e coinvolgimento costante e continuo in situazione
di aiuto e di carità. Terza fase del processo delineato da M. Weeber è quello della istituzionalizzazione che porta a gruppi e associazioni di volontariato, al terzo settore come organizzazione che offre servizi, professionalità,
interventi a livello locale, nazionale e internazionale. Anche questo è volontariato nella sua forma più matura e sviluppata che non sostituisce quella
spontanea e informale, ma spesso è l’evoluzione, o l’involuzione da quella
della fase iniziale.
Il rapporto asimmetrico è dato dal fatto che il volontariato si pone in
un rapporto dove l’altro dipende dal suo aiuto. L’apertura e la prossimità
all’alterità comporta una dipendenza che implica un dovere ma anche un
dono, dall’altra parte c’è sempre più la coscienza di un diritto da rispettare
e soddisfare: a questa coscienza di un diritto non corrisponde sempre il dovere del volontario. Sembrerebbe che questa relazione tra dovere e diritto
annulli la dimensione gratuita inerente al volontariato, anche se vogliamo
riconoscere che il dono implica un ricambiare, un obbligo. A questo punto
l’eliminazione dell’obbligo di ricambiare restituisce al volontariato la sua
natura di essere dono senza l’attesa del ritorno, del ricambiare, della gratitudine, della restituzione anche se resta la relazione asimmetrica e asincronica.
Perciò è una relazione dove il potere di dare viene trasformato nella gioia
di essere vicino e di aiuto alla persona bisognosa.
Indubbiamente l’azione volontaria implica una trasformazione del rapporto di potere ed una visione dell’altro come specchio di se stesso. È il
processo di immedesimazione, prossimità attuata attraverso il metodo dell’empatia che ritroviamo nell’interazionismo simbolico: è questo metodo che riduce l’alterità oppure la trasferisce in se stesso: “il sé come altro” è il titolo di un testo di P. Ricoeur. L’alterità trasferita o intravista nel sé permette
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il processo di avvicinamento e rende l’azione volontaria non un dare ma un
ricevere: l’azione donata ritorna riflessivamente sullo stesso come un atto
ricevuto. Questo atteggiamento e questa “weltanschauung” può attenuare e
annullare la tentazione del rapporto di potere che s’insinua nella dinamica
dell’azione volontaria verso gli altri.
Perciò il carattere della contrattualità risulta inesistente nel dono in cui
non c’è reciprocità perché il trasferimento è unilaterale, mentre lo scambio
simbolico contiene la reciprocità cioè uno scambio di beni e servizi, ma non
il carattere contrattuale. Emerge il carattere di dono interpersonale4.
Tocqueville visitando l’America nel ‘700 scopre la forza delle associazioni di volontariato nell’azione mediatrice tra individuo, famiglia e lo Stato e attribuisce a quelle associazioni intermedie e allo spirito religioso la
formazione dello spirito americano.
D’altra parte la formazione di associazioni di volontariato rappresenta un
“exit” dalla cerchia familiare per scoprire una dimensione sociale rivolta agli
altri in modo gratuito.
È ovvio che queste associazioni non risolvono il problema del lavoro,
né tolgono ai giovani il lavoro che è necessario per vivere dignitosamente
per sé e la propria famiglia. Addirittura la Repubblica Italiana è fondata sul
lavoro come elemento base che dà dignità e identità alle persone. Ma qui il
discorso si pone in maniera diversa. Le associazioni di volontariato che si
collocano all’interno della società civile scoprono e valorizzano energie che
spesso restano sepolte nella noia, l’apatia, l’ozio di chi vuole evitare la politica. Queste energie sepolte nella trama delle relazioni sociali e nel potenziale delle capacità giovanili se espresse in forme associative possono annunciare il superamento dell’apatia e l’uscita dal cerchio familiare che è tanto
protettivo quanto soffocante di quelle energie.
E qui entriamo nel vivo della questione meridionale che vive una crisi
economica politica e morale e anche di speranze come mai si è verificato
dal secondo dopoguerra in poi: una crisi che fa ripiombare i giovani nelle
vecchie pratiche del clientelismo, familismo e apatia sociale non vedendo
nessun futuro di potersi realizzare e intravedendo non solo una possibilità
di emigrazione in altri paesi non con la valigia legata con lo spago dei nonni
e bisnonni, ma alla ricerca di valorizzazione delle proprie capacità culturali
sulla base di studi fatti nelle scuole e università. È ovvio che non vanno ad
inserirsi in associazioni di volontariato ma cercano un lavoro che corrisponde
ai propri titoli di studio. Nel frattempo, e anticipando questa partenza le associazioni di volontariato sono una palestra di addestramento per acquistare
4
Rita D’Anna, Il volontariato nel Mezzogiorno: le vecchie e le nuove forme della solidarietà sociale. Tesi di laurea in sociologia 1990-1991, Università di Napoli Federico II, relatore
prof. Federico D’Agostino, p. 10.
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una professionalità e sviluppare una possibilità di preparare ad un lavoro in
equipe. Mi rendo conto che questo lavoro è difficile da fare in questo Mezzogiorno dilaniato e depresso, ma penso che nelle fasi adolescenziali e giovanili l’attività di volontariato vista come servizio civile è un fattore di sviluppo, di crescita e di valorizzazione delle proprie energie nello stesso momento in cui si svolge la formazione scolastica, universitaria o negli stage
in imprese, aziende o strutture pubbliche. Il recupero e la valorizzazione delle
proprie energie e competenze nell’area del Sud è l’unico fattore di sviluppo
e di speranza di fronte alla crisi di fiducia e di futuro che balena all’orizzonte. Oltre questa autorealizzazione c’è il vuoto spesso di valore, che apre
la strada al tunnel delle dipendenze.
La dinamica associativa va vista in funzione non solo di un dare gratuito, ma in funzione di una nuova costruzione dello spirito e dell’etica pubblica totalmente assente specialmente nel Mezzogiorno. È l’incontro con l’alterità e la diversità che apre a questa dimensione e il volontariato può favorire questa apertura e formazione.
L’attesa, l’inerzia, la mancanza di speranza e le seduzioni della società
dei consumi aprono il varco alle illusioni, alla disperazione, alla simulazione di un suicidio quotidiano in cui si consumano le potenzialità e le ricchezze
del mondo giovanile. L’uscita dalla politica non è la soluzione, come non
lo è accettare questa classe e clima politico. Di qui il bisogno di una nuova
costruzione sociale della polis, del bene comune, della res pubblica: l’azione e associazione volontaria apre a questa prospettiva, non chiude le persone nei limitati angoli dei loro destini, apre la speranza alla possibilità che
un altro mondo, società è possibile costruire. Perciò ci troviamo di fronte a
costrutti di società del futuro, di un nuovo modello di vita economico, politico e culturale. Anche se ci si sente parte di un microcosmo rispetto al paese e rispetto all’Europa che con i suoi diktat finanziari detta l’agenda. L’inizio della Comunità europea era partita dal sogno dei fondatori, questo sogno non si è realizzato compiutamente perché attende il contributo determinante dei giovani del volontariato che si stanno attrezzando per la leadership a livello locale, nazionale ed europeo.
La crisi del rapporto tra cultura, identità culturale e sviluppo socioeconomico e politico ci porta alla crisi dell’etica pubblica. Purtroppo la riduzione della res publica al politico partitico e la riproduzione di logiche clientelari, familistiche e di clan sono fattori di sottosviluppo che penetrano tutta la nervatura della società civile5.
Il volontariato si colloca in questo intreccio come una forza rivoluzionaria, come il carisma weberiano, per rompere questo intreccio e far intra5
F.D’Agostino, Identità culturale e sviluppo: una lettura sociologica del Mezzogiorno, in
M. Iadanza (a cura di), Chiesa e Società civile nel Mezzogiorno, Barca Roma 1992, p. 43
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vedere un nuovo modo di vedere la cosa pubblica. Il volontariato esce dalle maglie clientelari e si pone al servizio della collettività per rispondere ai
bisogni emergenti in quella comunità: il volontariato porta in azione una
nuova mentalità, una metanoia che sfugge da ogni tipo di corruzione per
esaltare il senso del servizio civile, la partecipazione al bene comune oltre
al proprio lavoro che gli dà il necessario per vivere dignitosamente, riserva
alla sfera pubblica una parte del proprio tempo, delle proprie professionalità in modo gratuito, e direi che riservare questo dono gratuito possa essere
considerato non un dono superfluo, ma può rientrare nella fondazione strutturale di una nuova società. Perciò il volontariato non va riferito solo al periodo giovanile, ma può attraversare tutto il ciclo della vita fino alla terza,
quarta età della vita. È questa una visione e prospettiva da prendere in seria considerazione.
Il volontariato è una forza associativa che entra nel vivo della società
civile che si innesta nella sfera pubblica pur restando fuori dall’agone politico. Il restare fuori dalla lotta politica implica uno stare dentro la partecipazione alla costruzione di un’ etica pubblica; così come pur essendo un’associazione che è fuori dalla logica del mercato e della monetizzazione e
commercializzazione della società tende a dare un’anima alla economia, al
lavoro nel senso di una maggiore giustizia sociale, nella riduzione della disuguaglianza sociale, nel segnalare e aiutare a sanare quelle ferite nel sistema economico che producono povertà ed emarginazione e indicare vie per
uno sviluppo sostenibile. Infine il volontariato può essere quella variabile
culturale che nella sua marginalità diventa forza propulsiva per la formazione
di una mentalità orientata al bene comune.
L’uscita dal particolare interesse e l’apertura sulla possibilità di chi sta
ai margini della società. Perciò nella costruzione di una nuova società è come
un frammento, come una pietra di scarto che entra nella costruzione delle
istituzioni sempre soggette ad una sclerosi e insensibili alle nuove povertà
e ai nuovi bisogni della società. Solamente un nuovo modo di essere presente e interagire con la popolazione sulla base del senso comune e della
competenza necessaria può ricucire i legami necessari per una società più
umana e svelare il potenziale di amicizia, solidarietà e prossimità, forme di
comunità capaci di rigenerare la nostra fragile democrazia6.
6
Eliasoph, Avoiding: Politics, Cambridge University press, Cambridge 1998, p. 11.
GIOVANI E VOLONTARIATO NEL MEZZOGIORNO
57
L’ASSOCIAZIONE
MARIA ROSARIA SIFO RONGA ONLUS
Giuseppina Ronga
L’Associazione Maria Rosaria Sifo Ronga fu costituita a Napoli il 22
marzo 2001 e porta il nome di una insegnante deceduta nel settembre del
1999 a seguito di un trapianto d’organo. Il primo problema operativo che
ci ponemmo fu quello di individuare le iniziative da intraprendere per raccogliere fondi e realizzare il nostro progetto prioritario: la costruzione, all’interno di un ospedale pubblico napoletano, di una casa ove dare gratuitamente accoglienza ai familiari degli ammalati provenienti da fuori provincia. Si stabilirono alcuni principi generali che caratterizzeranno in modo determinante le attività dell’Associazione: raccogliere i fondi attraverso l’organizzazione di eventi culturali, concerti, spettacoli ecc.
Il bilancio dell’Associazione al 31 dicembre 2001 era costituito dal contributo di un socio di 572.000 lire.
Il primo evento pubblico fu un concerto di musica da camera nella sala
delle conferenze di Villa Pignatelli il 17 marzo 2002. L’Associazione, in
quell’occasione, come pure in seguito, non vendeva i biglietti, ma distribuiva gli inviti chiedendo un contributo. In quella fase, particolare importanza fu data alla comunicazione, alla trasparenza delle nostre azioni, alla relazione con gli amici, i sostenitori e i conoscenti. Dopo il concerto la
dott.ssa Ida Maietta, funzionaria del Polo museale della città di Napoli della Soprintendenza, responsabile della gestione di Villa Pignatelli, ci comunicò che insieme ai suoi colleghi aveva fatto una colletta e ci invitava nel
suo ufficio per ritirarla. Negli stessi giorni ci pervenne un contributo dai
bambini di una scuola elementare di Napoli, la cui insegnante aveva conosciuto mia mamma. Il 27 ottobre del 2002 nell’auditorium del Polo Museale di Castel S. Elmo si tenne un altro Concerto, con la partecipazione di
un folto pubblico.
Immediatamente dopo il direttivo prese in considerazione l’opportunità
di ampliare le attività allo scopo di accelerare i tempi per raccogliere i fondi necessari. Si fecero strada varie ipotesi:
– chiedere agli artisti campani di donare all’Associazione opere d’arte da
mettere poi in vendita;
– organizzare un recital poetico;
58
GIUSEPPINA RONGA
– comprare dai teatri cittadini, in giorni di scarsa affluenza di pubblico, spettacoli da vendere poi a circoli ricreativi e alla rete dei nostri sostenitori
abituali.
Inoltre con lettere e con richieste di incontri ci rivolgemmo a vari ospedali cittadini, che dispongono di spazi a verde, per proporre l’ubicazione della
Casetta all’interno delle loro strutture. Inutile dire che nessuno si dichiarò
interessato alla nostra proposta. Non ricevemmo alcuna risposta.
Intanto il vice presidente dell’associazione, Mario Montano1, funzionario del Monaldi, convinse il direttore generale di quell’ospedale, prof. Tullio Cusano, ad incontrarci. Questi si mostrò interessato al progetto, ma manifestava seri dubbi sulla possibilità di raccogliere i fondi senza appoggi istituzionali e sulle modalità di gestione della Casetta che noi immaginavamo
autogestita da parte degli ospiti: due cose non frequenti nel Meridione.
Dopo vari incontri nei quali discutemmo in maniera più dettagliata il
progetto, il 31 ottobre del 2003, il prof. Cusano decise di mettere a disposizione un’area del Monaldi per la costruzione della Casetta. Nello stesso periodo la sezione territoriale della Campania dell’Associazione Nazionale Seniores Enel (Anse) si dichiarò disponibile ad effettuare la manutenzione ordinaria della Casetta qualora fosse stata costruita. Ritenemmo di aver raggiunto due accordi molto importanti: la definizione dell’ospedale ove ubicare la Casetta e la disponibilità a farne la manutenzione ordinaria da parte
di una struttura con una consolidata presenza sul territorio.
Un’altra cosa gradita del 2003 fu la decisione di Gian Manlio Gianturco di devolvere alla nostra Associazione il 50% degli emolumenti a lui spettanti per la vendita del volume Dialoghi con l’Essere, pubblicato a Napoli.
Nel corso dell’anno conoscemmo il critico d’arte Gerardo Pedicini che, convinto della validità del nostro progetto, si impegnò a raccogliere opere d’arte per finanziare la costruzione della Casetta; in circa due anni di lavoro,
coinvolgemmo pittori campani, di altre regioni e alcuni artisti stranieri. Tra
essi nomi noti dell’arte italiana quali Renato Barisani, Angelo Casciello, Riccardo Dalisi, Ciro De Falco, Alfredo Maiorino, Rosario Tornatore, Fabio
Donato ecc. e pittori amatoriali quali il giornalista Luciano Scateni di Rai
Tre e un gruppo di artisti dell’Ospedale Monaldi. Furono raccolte cento opere
e, grazie a Gerardo Pedicini, a Fabio Donato, che realizzò gratuitamente le
foto di tutte le opere, trasferendosi per alcuni giorni a casa del presidente
dell’Associazione e alla collaborazione di Daniela Esposito, esperta in progettazione grafica, realizzammo un catalogo della mostra che forse fu uno
dei più belli pubblicati a Napoli in quegli anni.
1
Mario purtroppo è morto prematuramente nel novembre del 2006 e non ha visto realizzato il progetto per il quale si era impegnato tanto.
L’ASSOCIAZIONE MARIA ROSARIA SIFO RONGA ONLUS
59
La prima mostra si svolse dal 22 maggio al 6 giugno 2005 presso la
Casina Pompeiana sita nella Villa comunale di Napoli e vide la partecipazione di oltre settecento visitatori. Nello stesso anno la ripetemmo a Salerno nel palazzo Genovese dall’8 al 29 ottobre grazie alla collaborazione di
amici salernitani e alla disponibilità dell’assessore alla cultura Ermanno Guerra. Altre iniziative minori furono la partecipazione con nostri progetti al
Maggio dei Monumenti di Napoli in vari anni, la vendita di biglietti a spettacoli teatrali a gruppi di amici dell’Associazione e la raccolta di fondi, il
21 marzo 2004, nella parrocchia S. Maria degli Angeli e S. Chiara d’Assisi
di Monteruscello (Pozzuoli) grazie alla disponibilità del parroco don Gennaro Leone.
Il 18 novembre 2005 l’Enel Cuore, dopo ripetuti incontri anche nell’ospedale Monaldi per visionare l’area della costruzione e verificare la disponibilità della Direzione ad accogliere l’opera, deliberò di erogarci un contributo subordinando l’accredito al possesso da parte nostra di tutti i fondi
occorrenti alla realizzazione del progetto.
Nel 2005 anche i dipendenti del Monaldi organizzarono una raccolta di
fondi. All’inizio del 2006 fummo contattati dalla professoressa Maria Teresa Del Zingaro, che aveva deciso di fare una donazione per la realizzazione
di un’opera di solidarietà per ricordare la figlia, Claudia Ruggeri2, prematuramente scomparsa. A luglio il prof. Mario Di Giovanni ci offrì un contributo in ricordo della moglie.
Nel corso del 2006 fu presentato pubblicamente il progetto, redatto da
me, in una conferenza stampa svoltasi nell’ospedale Monaldi. Il 26 luglio
2006 fu consegnata la richiesta di permesso a costruire all’ufficio Edilizia
privata del Comune di Napoli, ma nonostante diversi contatti e modifiche
apportate al progetto su indicazione dei tecnici comunali non avevamo risposta. Avemmo modo di conoscere e incontrare il consigliere comunale
Francesco Nicodemo3 il quale si dichiarò subito entusiasta del progetto e
disponibile a darci una mano. Non riuscendo a venire a capo del problema
con contatti informali Nicodemo presentò una interpellanza in Consiglio
Comunale all’assessore al ramo avv. Felice Laudadio per chiedergli di intervenire. Nulla cambiò, nonostante il parere favorevole espresso dall’assessore. Il 22 febbraio del 2007 finalmente giunse una nota del Comune con
la quale si respingeva la nostra richiesta con la seguente motivazione:
2
Claudia Ruggeri, nata a Lecce nel 1967 e finita tragicamente nell’ottobre del 1996, pubblicò in vita numerose liriche sulla rivista L’Incantiere. Nel 2006 fu stampato Inferno minore
con una introduzione di Mario Desiati, nel 2010 il volumetto La sposa barocca, con sette saggi sulla sua poesia.
3
Nel 2013 è stato nominato dal segretario Matteo Renzi membro della segreteria nazionale del Partito democratico.
60
GIUSEPPINA RONGA
Realizzare residenze per i familiari dei degenti non trova riscontro in
alcuna norma di settore; non è documentata e motivata la realizzazione di
n. 12 posti letto in relazione ad una struttura di tale rilievo; da ultimo l’intervento progettato, collocato nell’area di pertinenza dell’ospedale, sottrae
rilevante quota di verde al parco.
Avevamo 10 giorni di tempo per presentare le osservazioni eventualmente corredate da documenti. Seguirono giorni molto burrascosi. Intanto il presidente dell’Associazione si recò dall’assessore all’Edilizia privata e in un
incontro, molto concitato, con la sua segreteria, fece presente che case di
accoglienza per familiari di ammalati esistono in vari ospedali pubblici dell’Italia centro-settentrionale; se nessuna norma di settore ne prevede esplicitamente la costruzione nessuna esclude la loro esistenza, inoltre, evidenziò che negli ospedali napoletani esistono agenzie bancarie, bar, spacci di generi alimentari, ecc. nemmeno esplicitamente previste.
Durante l’incontro, giunse l’assessore che sentendo una discussione
molto animata si fermò per conoscerne i motivi. Gli venne ricordata la
pratica di concessione edilizia della quale si era occupato anche lui. Garantì il suo impegno per risolverla ed era convinto delle motivazioni addotte. Ci consigliò di presentare il ricorso, confermando il suo appoggio.
Questo fu elaborato e consegnato il 6 marzo, inviandolo per conoscenza
anche al sindaco e all’assessore. In esso, oltre a far presente che strutture
simili a quella che volevamo realizzare, sono presenti negli ospedali pubblici di Udine, Trieste, ecc. facevamo notare che nessuna norma di settore
vieta di costruire queste strutture e la presenza di case simili in tanti ospedali “lascia supporre che sia consolidata la convinzione che esse svolgano
una funzione sociale importante e siano ritenute strumentali all’attività
ospedaliera allo scopo di alleviare le sofferenze degli ammalati e dei loro
familiari”. In merito alle dimensioni della Casetta l’Ufficio comunale aveva osservato che era troppo piccola in “relazione ad una struttura di tale
rilievo” (il riferimento era alla capacità ricettiva del Monaldi), da parte
nostra, si evidenziò che, in assenza di parametri oggettivi, si era fatto riferimento alle dimensioni di strutture simili esistenti al Nord. Circa, infine,
l’annotazione che la Casetta avrebbe sottratto una “rilevante quota di verde
al parco” sottolineammo che questa avrebbe occupato una superficie inferiore a 200 mq in un parco di circa 145.000 mq di cui 80.000 a verde”
con una incidenza dello 0,25%.
Il ricorso non fu accolto ma nemmeno respinto, seguirono giorni di speranze e di delusioni consumati anche in incontri con l’assessore, decisamente
favorevole al progetto, con i tecnici del Comune che sembravano invece intenzionati a non farlo assolutamente passare attestandosi su una interpretazione letterale della norma, probabilmente ipotizzando anche chi sa quale
L’ASSOCIAZIONE MARIA ROSARIA SIFO RONGA ONLUS
61
obiettivo recondito ci fosse dietro al progetto e con tecnici esterni per valutare le iniziative da intraprendere.
Alla fine il consigliere comunale dott. Francesco Nicodemo presentò una
interpellanza al sindaco, on. Rosa Iervolino Russo, nella quale faceva presente che una associazione napoletana aveva raccolto i fondi per costruire
una casetta di accoglienza all’interno dell’ospedale Monaldi, la cui direzione era favorevole, che la struttura avrebbe dato ospitalità gratuita agli ospiti
e che sarebbe stata gestita esclusivamente dal volontariato laico senza oneri
per la pubblica amministrazione. Se la richiesta non fosse stata accolta l’associazione avrebbe devoluto la somma raccolta a qualche ospedale dell’Italia centro-settentrionale disposto a costruire al proprio interno la Casetta. La
ricerca dell’ospedale sarebbe avvenuta tramite qualche trasmissione televisiva nazionale o tramite la stampa. L’interpellanza era dirompente. L’immagine della città ne avrebbe ricevuto certamente qualche danno.
L’intervento del sindaco fu immediato. L’Ufficio tecnico ritenne a quel
punto che la pratica dovesse passare attraverso il vaglio della Commissione
edilizia, che si riunì ad aprile ed espresse parere favorevole. Il 19 giugno 2007,
dopo un anno dalla presentazione della richiesta, ottenemmo il permesso a costruire. Nei mesi successivi stipulammo i contratti per la costruzione della Casetta con una ditta di Alessandria (dicembre 2007) e con una ditta napoletana
per la costruzione del basamento sul quale allocarla (febbraio 2008). Intanto il
pastificio Lucio Garofalo SpA di Gragnano, a seguito di un concorso a premi
denominato Garofalo firma il cinema, ci regalò 3.580 buoni d’ingresso al cinema che riuscimmo a distribuire raccogliendo circa 6.000 euro.
Nel febbraio 2008, dopo l’inizio dei lavori, che dovevano concludersi
in breve tempo essendosi impegnata la ditta costruttrice della casetta a consegnarcela e montarla entro 90 giorni, chiedemmo un finanziamento alla
Regione Campania per l’acquisto dei mobili e l’avvio dell’attività; a febbraio
dell’anno successivo ci comunicarono Che in seguito alla valutazione espressa dall’Osservatorio Regionale del Volontariato nel corso della seduta del
30 dicembre 2008, con Decreto Dirigenziale n. 1464 del 30 dicembre 2008,
il progetto”Casa di accoglienza” presentato da cotesta associazione non è
stato ammesso a contributo con la seguente motivazione,(a parte quella di
carattere tecnico che era chiaramente specioso) La accennata attività di assistenza alle famiglie rimane nel generico e non presenta aspetti innovativi e di forte valenza progettuale.
Il nostro progetto non interessava alle istituzioni e per giunta era generico e non presentava aspetti innovativi. Infatti Napoli e la Campania pullulano
di Casette di accoglienza per i familiari degli ammalati ospedalizzati!
Fortunatamente alle difficoltà incontrate nei rapporti con la pubblica
amministrazione fecero riscontro alcune elargizioni inaspettate: nel luglio del
2008 la Troncone SpA ci diede un contributo di 7.000 euro e a novembre
62
GIUSEPPINA RONGA
dello stesso anno la Fondazione Banco di Napoli, su segnalazione dell’Anse, ci erogò l’importo di 10.000 euro.
Il 15 ottobre 2008 ebbero termine i lavori di montaggio della Casetta, iniziammo quelli di posa in opera dei pavimenti, dei servizi igienici e degli impianti elettrico e di riscaldamento. Il saldo di cassa al 9 settembre 2008 ci
consentiva di completare i lavori della costruzione della Casetta ma non di
appaltare i lavori per la sistemazione esterna, per l’acquisto dei mobili e di
elementi di conforto per il soggiorno degli ospiti (lavatrice, televisore, ecc.).
Paradossalmente (dal momento che l’ospitalità sarebbe stata gratuita e
dunque da parte degli ospiti non sarebbe giunto alcun contributo economico certo) si decise di iniziare quanto prima l’attività di accoglienza eventualmente utilizzando un numero ridotto di stanze arredandole con mobili dismessi, ma in buono stato, tali da consentire una permanenza dignitosa. L’Associazione in quel momento aveva bisogno di una spinta psicologica: la Casetta doveva entrare in funzione. Nell’assumere questa decisione si stabilì
anche che l’inaugurazione sarebbe stata rimandata a una data successiva e
che contemporaneamente avremmo organizzato un evento celebrativo anche
per raccogliere fondi. Il 2008 si chiuse con tante soddisfazioni ma anche con
alcune grandi preoccupazioni perché era chiaro a tutti i consiglieri dell’Associazione che, nonostante il gran lavoro svolto, molto restava ancora da fare.
Il 2009 si aprì con un miracolo: l’accredito di 17.479 euro relativi al 5
x 1000 del 2006, che vennero utilizzati quasi completamente per effettuare
i lavori di sistemazione esterna della Casetta già progettati. Nel corso della
primavera-estate 2009 i lavori della Casetta procedettero. La sistemazione
esterna era quasi completata ed era stato fatto l’ordine dei mobili, anzi erano stati anche pagati, e ci sarebbero stati consegnati e montati nel novembre 2009. È importante ricordare che dell’intera somma per la costruzione
e la messa in funzione della Casetta nulla è stata dato da Enti pubblici, né
sono stati coinvolti amministratori o politici che, in seguito, avrebbero potuto condizionarne la gestione.
Il 6 dicembre 2009 per la prima volta venne convocata una riunione del
Consiglio direttivo nella Casetta che, per quanto necessitasse di ulteriori completamenti e delle relative autorizzazioni per iniziare l’attività, era praticamente pronta all’apertura. Era necessario, pertanto, redigere un Regolamento, in base ai criteri che avevamo sempre affermato: gratuità dell’ospitalità
e autogestione da parte degli ospiti. Fu confermato che i requisiti per l’accoglienza sarebbero stati esclusivamente la provenienza da fuori provincia
e il ricovero di un familiare nell’ospedale Monaldi, escludendo qualsiasi elemento di valutazione quale il reddito degli ammalati o la natura della malattia per evitare di inserire elementi soggettivi che potevano dar spazio a
valutazioni non sempre obiettive. Per la redazione del Regolamento ci si
impegnò a realizzarlo in tempi brevissimi. L’apertura della Casetta ovviamen-
L’ASSOCIAZIONE MARIA ROSARIA SIFO RONGA ONLUS
63
te avrebbe attraversato un periodo di sperimentazione per valutare le effettive criticità e porvi rimedio con le modifiche di una procedura che, in quella
fase, era solo ipotizzabile.
La prima riunione del 2010 avvenne il 7 gennaio e fu convocata di nuovo
nella Casetta con la partecipazione anche del gruppo delle volontarie che avrebbero rappresentato l’Associazione nella gestione della Casetta: un ruolo che il
direttivo ritiene molto importante perché ad esse veniva e viene demandata la
responsabilità di sovrintendere settimanalmente, a rotazione, alla gestione della
Casetta: dal loro stile di conduzione sarebbe dipesa la qualità della risposta
degli ospiti. Nella medesima riunione si specificarono e si discussero, coinvolgendo il gruppo delle volontarie, altri aspetti relativi ai criteri di accettazione e
più in generale a situazioni particolari che si sarebbero comunque potuto determinare. Si confermò una procedura di accettazione semplice: si sarebbero accolti tutti coloro che nella fascia oraria 10.00-13.00 si fossero presentati con i
requisiti previsti, fino a coprire la disponibilità della Casetta. Era esclusa qualsiasi intermediazione da parte di chicchessia. Non sarebbero state accettate
prenotazioni per evitare rischi di comportamenti clientelari. Ogni ospite doveva
rassettare la propria stanza e contribuire a pulire gli ambienti comuni.
All’inizio dell’attività un primo turno sarebbe stato effettuato dal presidente
per organizzare le procedure da seguire e analizzare e risolvere le eventuali
difficoltà. Dopo sarebbe andato in funzione l’avvicendamento delle quattro
Responsabili di turno che nella prima fase sarebbero state affiancate dal presidente. Si ribadì altresì la necessità di proseguire nell’organizzazione dell’inaugurazione della Casetta e del concerto musicale nell’Auditorium di Castel S.
Elmo. Si prese atto, infine, che erano stati richiesti tutti i permessi necessari per
l’apertura al pubblico della Casetta il cui ottenimento non avrebbe dovuto tardare, per cui l’apertura della Casetta sarebbe stata ormai prossima.
I tempi per l’ottenimento dell’idoneità dei locali dal Distretto sanitario
48 e dell’autorizzazione ad iniziare l’attività dalla Polizia Amministrativa del
Comune di Napoli furono brevissimi, e la gentilezza dei funzionari veramente
encomiabile. Per la prima volta ci eravamo imbattuti in strutture che funzionano egregiamente. Infatti il 28 marzo 2010 la Casetta aprì le sue porte
ai primi ospiti.
Dalla nascita dell’Associazione erano trascorsi quasi 9 anni! Forse troppi!
Ma questo è stato il tempo necessario e oggi la Casetta è una realtà.
Per molti è difficile convincersi che questa sia un’esperienza di volontariato laico senza patrocini di alcun genere. Eppure la verità è semplicemente questa.
Il 26 aprile Adalberto Fornario presentò nel cinema Modernissimo il suo
libro RacCorti, storie brevi e brevissime che sembrano film, con i disegni
di Guido Della Giovanni, Edizioni Jamm, e decise, di devolvere l’incasso
della serata alla nostra Associazione.
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GIUSEPPINA RONGA
Il direttivo si riunì il 3 settembre per prendere atto che tutto procedeva
in modo soddisfacente, molte cose si riteneva che potessero essere migliorate e alcune altre questioni erano da approfondire per comprenderle meglio.
L’affluenza degli ospiti, in una prima fase, fu molto variabile; essi provenivano più numerosi da alcuni reparti, meno da altri, probabilmente perché alcuni settori dell’ospedale soddisfano solo esigenze di carattere provinciale.
Nell’indirizzare i familiari degli ammalati alla Casetta forse alcune abitudini
consolidate del personale ospedaliero svolgevano un’azione frenante. Adesso
l’affluenza sembra più costante e spesso i posti letto sono tutti occupati. Le
scelte fatte sulle modalità di gestione della Casetta, quali le condizioni per
l’accoglienza, il regolamento adottato, nonché la turnazione delle volontarie
Responsabili di turno vengono confermate perché ritenute valide. Intanto organizzammo in collaborazione con la direzione del Monaldi l’inaugurazione
della Casetta per il 12 novembre. La settimana precedente si svolse un concerto a Castel S. Elmo con la partecipazione di oltre 700 persone, tra le quali
non poche erano quelle che ci erano state vicine dal primo concerto a Villa
Pignatelli. In una pausa del concerto la prof. Marisa Mansi lesse alcuni brani
dai commenti degli ospiti, lasciati nel nostro librone.
Nel Novembre 2012 si tenne l’inaugurazione con la partecipazione del
sindaco di Napoli, on. Rosa Iervolino Russo, del sen. Raffaele Calabrò in
rappresentanza dell’on. Stefano Caldoro, presidente della Regione, del direttore generale dell’azienda ospedaliera Cotugno-Monaldi dott. Antonio Giordano, del precedente direttore generale del Monaldi prof. Tullio Cusano, del
dott. Francesco Nicodemo, dell’Enel Cuore, dell’ing. Eugenio Serra presidente e di Pasquale Cutino vicepresidente dell’Anse Campania, della stampa e
di oltre 200 amici dell’Associazione.
Dal 28 marzo 2010 ad oggi la Casetta ha accolto circa 1200 persone. Ogni
anno, l’Associazione continua a organizzare un concerto con l’intento di rinnovare quel rapporto di affetto e di amicizia che ha unito tante persone nel corso
di questi anni e che ci ha consentito di realizzare il progetto della Casa di Accoglienza Maria Rosaria Sifo Ronga ed ora di gestirlo nel modo previsto.
Dal 2012 si è deciso di istituire, grazie anche ai proventi del 5 x mille,
delle borse di studio per tesi di laurea sul volontariato e l’associazionismo
nell’Italia meridionale.
La Casetta e il Regolamento
La Casetta dispone di sei camere da letto con dodici posti più una culla, del
soggiorno, della cucina, di tre bagni e della lavanderia ed offre ospitalità gratuita ai familiari degli ammalati ed ai pazienti in day hospital degli ospedali
Monaldi, Cotugno e CTO, residenti al di fuori della provincia di Napoli.
L’ASSOCIAZIONE MARIA ROSARIA SIFO RONGA ONLUS
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Di norma viene ospitato un solo familiare per ogni ammalato. In casi
eccezionali, se c’è disponibilità, può essere accolta anche una seconda persona che dovrà, comunque, lasciare il posto letto se, nei giorni successivi,
giungono altri ospiti. Le Volontarie e i volontari offrono la propria attività
senza alcun compenso. L’ospitalità è offerta a titolo gratuito, ma poiché l’Associazione non chiede contributi agli enti pubblici, all’ospite viene chiesto
di lasciare, se può, alla fine della permanenza un contributo, per le spese di
gestione. L’Associazione provvede a comunicare, giorno per giorno, alla
Questura di Napoli il nome e i dati anagrafici dei nuovi arrivati.
Ad ogni ospite vengono consegnate le chiavi del cancello di accesso,
della porta della Casetta e della camera dov’è il letto assegnatogli. Per nessun motivo l’ospite può far entrare nella Struttura altre persone (parenti,
ammalati o estranei). Solo le Volontarie possono autorizzare l’accesso nella
Casetta. Si consegna, inoltre, la biancheria da letto che egli depositerà nell’apposito sacco, ubicato nella lavanderia, al momento della partenza4. Tutti
sono tenuti a mantenere pulita, ordinata e con decoro la camera dove sono
ospitati e il bagno che utilizzano e, assieme agli altri, contribuire a rassettare gli ambienti comuni: cucina, soggiorno, corridoio, lavanderia e pianerottolo esterno. Non è superfluo ricordare che questa norma chiediamo di rispettarla a tutti indipendentemente dal sesso. Le porte delle camere durante
l’assenza degli ospiti non devono essere chiuse a chiave per consentire l’accesso alle Volontarie che controllano ogni mattina lo stato della stanza.
L’ospite può cucinare i propri pasti utilizzando le stoviglie esistenti e provvedendo a lavarle subito dopo. Si raccomanda, per motivi di sicurezza, di
spegnere i fuochi subito dopo l’uso.
Ad ognuno viene assegnata in cucina un ripiano della dispensa ove custodire i propri alimenti. Nella Casetta e nel giardino è assolutamente vietato fumare. Ogni sera gli ospiti mettono fuori al cancello il sacchetto della
spazzatura (umido), mentre quelli del vetro, della carta e della plastica vanno svuotati quando sono pieni. Tra le 10 e le 13 di ogni giorno l’ospite,
possibilmente, deve contattare la Volontaria di turno per eventuali comunicazioni. Il mancato rispetto delle norme suddette comporta l’obbligo per le
Volontarie di invitare l’ospite a lasciare immediatamente la Struttura. Gli
ospiti se vogliono possono lasciare un ricordo sul loro soggiorno nella Casetta nel librone sito nel soggiorno5.
4
La biancheria da letto viene lavata gratuitamente dall’American Laundry, grazie alla squisita cortesia dei suoi dirigenti.
5
I commenti lasciati dagli ospiti nel primo anno sono stati pubblicati in Napoli 2011,
un’esperienza di volontariato laico, Napoli 2011, disponibile anche sul sito
www.associazionesiforonga.it. Altri commenti sono stati pubblicati dall’Azienda dei Colli in Casa
di accoglienza Maria Rosaria Sifo Ronga, Napoli s.d., ma novembre 2013.
66
GIUSEPPINA RONGA
Le volontarie ogni giorno controllano che gli ospiti rispettino le norme
previste e che la Casetta sia tenuta pulita e in ordine. A tutti ricordano che
alla cortesia mostrata nell’accoglienza corrisponde una rigidità nel chiedere
all’ospite di lasciare la Casetta e trovare asilo altrove se non rispetta le norme,
Ad oggi possiamo affermare che i nostri 1200 ospiti non ci hanno creato difficoltà particolari nella gestione della Casetta.
L’ASSOCIAZIONE MARIA ROSARIA SIFO RONGA ONLUS
ESPERIENZE
I
ASSOCIAZIONISMO E VOLONTARIATO
PER I BAMBINI E I GIOVANI
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IMMACOLATA SAVIANO
IL CANTIERE GIOVANI DI FRATTAMAGGIORE (NAPOLI)
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IL CANTIERE GIOVANI DI FRATTAMAGGIORE (NAPOLI),
UN ESEMPIO CONCRETO DI EDUCAZIONE
NON FORMALE1
Immacolata Saviano
Quello dei centri di aggregazione giovanile è un percorso che ha visto
difficoltà e trasformazioni politiche e sociali, ma in cui mai è venuta meno
la capacità di offrire ai giovani spazi di incontro e di partecipazione, di costruzione identitaria e di cittadinanza.
Contesti dove si sono sviluppati il senso di appartenenza alla comunità,
dove i giovani hanno elaborato e sviluppato nelle sue mille espressioni il loro
desiderio di protagonismo all’interno delle relazioni sociali.
Poiché viviamo in una società che si consuma nella cultura del presente, senza radici, è bene avere consapevolezza che i centri di aggregazione
giovanile non sono l’intuizione di una stagione o il frutto imprevisto di una
situazione, ma costituiscono l’evoluzione pensata e progettata di un cambiamento sociale che ha visto le amministrazioni locali assumere la questione
giovanile come ambito nel quale la valorizzazione, a partire dagli anni ‘70,
dei giovani è una risorsa della comunità.
Per molti anni i giovani avevano fatto aggregazione negli ampi cortili
delle case alternando il poco tempo libero alla scuola e al lavoro dei campi, negli oratori e centri giovanili delle parrocchie, in spazi più o meno attrezzati, come i campetti delle periferie e dei borghi o in modo informale
sulla piazza del villaggio o del quartiere urbano davanti al classico ritrovo
ambientale che certificava identità e appartenenza.
I centri di aggregazione diventano progressivamente lo spazio in cui si
tesse la trama delle relazioni giovanili.
La prima percezione è che in una società complessa il contrasto alle
solitudini si realizza generando incontri che danno significato al tempo libero, alla compagnia, alla scoperta del “noi”, al fare dei giovani per realizzare percorsi ed eventi, opportunità e spazi di libertà: lo spazio dei giovani
quali soggetti sociali a tutto campo; cittadini alle prese con la conquista del
1
La tesi Partecipazione sociale ed educazione non formale. Competenze teoriche ed esperienze pratiche per migliorare l’efficacia delle metodologie educative indirizzate ai giovani italiani e stranieri, è stata discussa nell’anno accademico 2009/2010 all’Università degli Studi Suor
Orsola Benincasa di Napoli, Facoltà di scienze della formazione, Corso di laurea magistrale in
Scienze della formazione continua, Cattedra di Pedagogia Sociale, Relatore prof. Enricomaria
Corbi.
70
IMMACOLATA SAVIANO
proprio progetto di vita, della propria presenza e del proprio riconoscimento nella comunità.
I centri spesso contribuiscono a dare senso alla vita dei giovani, diventano uno degli spazi in cui riconoscersi.
Il luogo dove ritrovarsi è sinonimo dell’identità: il gruppo aperto o chiuso che pone radici nel centro di aggregazione lo elegge a simbolo del suo
essere gruppo.
Questi centri sono luoghi della compagnia per un incontro, della ricerca e della scoperta dell’identità, del senso di sé, della relazione che produce benessere.
Connettono interessi, fanno incontrare aree con domande comuni, pongono i giovani nella condizione di realizzare azioni confrontandosi con la
fatica, le complessità, gli ostacoli.
Li fanno gioire delle conquiste, delle relazioni positive generate, aprono spazio di protagonismo alla voglia di esserci dentro le relazioni sociali.
Non è facile per gli adolescenti far gruppo, se si intende non solo scambio affettivo, ma anche il sostegno reciproco alla progettualità e l’agire in
gruppo dentro l’ambiente.
E non è facile aggregarsi, se si pensa non solo al rifugiarsi in qualche
“massa” ma all’interscambio tra gruppi nel dar luogo a esperimenti di “nuova
socialità”.
È opinione diffusa e consolidata che la transazione adolescenziale rappresenta per un ragazzo o una ragazza il dover far fronte a una serie di compiti evolutivi e criticità di notevole portata che possono essere affrontati e
superati con successo, anche in relazione alle risorse socio-educative e opportunità di crescita che il territorio mette a disposizione degli adolescenti.
Si tratta di un processo nel quale si dovrebbero coniugare le problematiche e le difficoltà che i ragazzi incontrano abitualmente nell’adolescenza
con la responsabilità e capacità della comunità adulta di riconoscere gli adolescenti in quanto portatori di diritti di crescita, di cittadinanza e di bisogni
che esigono attenzione, competenze sociali ed educative.
Ogni comunità adulta, che vive in un determinato territorio dovrebbe
stare attenta all’età adolescenziale in quanto età che prepara e costruisce gli
adulti di domani.
Purtroppo, spesso non è così, sarebbe necessario, invece, un mondo adulto capace di intenzionalità educativa verso gli adolescenti, di relazioni significative, di ascolto e dialogo, di proposte e riferimenti.
Si tratta di operare attraverso iniziative e proposte culturali e sociali
capaci di stimolare processi di consapevolezza psicologica, pedagogica e
sociale negli adulti che rivestono ruoli sociali impegnativi e importanti, quali
genitori, gli insegnanti, i responsabili di organizzazioni e associazioni (del
tempo libero, formative e culturali etc.).
IL CANTIERE GIOVANI DI FRATTAMAGGIORE (NAPOLI)
71
È uno scenario che richiede necessariamente di costruire in sinergia, da
una parte nell’ambito di strategie finalizzate a sviluppare opportunità per gli
adolescenti e dall’altra orientate agli adulti, in modo che si possa cogliere
una dimensione di coerenza e continuità, nella direzione della costruzione di
patti comunitari di tipo socio-educativo.
Emerge quindi la conferma che la costruzione dell’identità per gli adolescenti avviene attraverso le relazioni che si intrecciano con altri adolescenti
e con gli adulti.
I centri di aggregazione giovanili sono definiti dei luoghi di convergenza educativa, dove l’adolescente viene stimolato al rapporto con la società.
Essi, rispetto alle agenzie educative, si sono caratterizzati per non puntare alla costituzione di un unico gruppo, aggregato attorno all’adulto e alla
sua proposta, ma per costituire un luogo di accoglienza, incontro e convivenza rivolto ad una pluralità di gruppi “naturali”, favorendo la loro interazione e stimolando, attraverso l’azione di mediazione svolta dagli operatori,
un confronto con dimensioni relazionali più complesse con gli adulti, la realtà territoriale e le istituzioni locali.
I centri, in quanto osservatorio privilegiato dei bisogni adolescenziali,
hanno saputo modificarsi negli anni per adattarsi alle criticità emergenti del
mondo giovanile.
Essi in quanto esperienza aggregativa, mantengono tuttavia la loro specificità nel panorama delle opportunità a favore degli adolescenti: si presentano come laboratorio relazionale nell’ambito del quale l’adolescente si sperimenta, soprattutto in termini di relazioni, con i coetanei e con figure adulte che cercano di porsi in maniera significativa; riconoscono gli adolescenti
come “co-costruttori di esperienze” e non come “consumatori di proposte”,
riportando al centro dell’attenzione la loro soggettività e la capacità di interlocuzione con gli adulti attraverso la negoziazione di regole e lo sviluppo di proposte partecipate; l’aggregazione educativa è così promotrice di
protagonismo giovanile che avvicina l’adolescente al confronto con il proprio territorio e con le differenti culture che sono al suo interno; propongono occasioni e condizioni dove esercitare una competenza fondamentale ai
fini educativi: quella di significare (dare un senso) e di condividere le esperienze vissute non soltanto nei centri di aggregazione ma, più in generale,
nei percorsi di vita, stimolando in tal modo a elaborare i propri vissuti attraverso l’integrazione della dimensione emotiva con quella logico-razionale e la dimensione soggettiva e individuale con quella oggettiva e sociale;
favoriscono la costruzione di nuove appartenenze al contesto territoriale, la
costruzione di coesione e legami, in rapporto ad uno spazio fisico di riferimento ma, più in generale, in rapporto al proprio territorio.
Offrono l’opportunità di vivere del tempo veramente libero, in cui gli
adolescenti possano star bene senza dover rispondere (come succede in altri
72
IMMACOLATA SAVIANO
contesti di tempo libero e divertimento) ad aspettative o richieste di performance o prestazioni.
Valorizzando l’ otium (cioè l’ozio inteso in senso positivo), l’adolescente
può sospendere l’azione per dare spazio alla relazione e di conseguenza,
anche al confronto sia con il gruppo dei pari sia con l’adulto; i centri obbligano gli adolescenti a rapportarsi con il limite e le regole, ma, anche con
la possibilità di progettare, osare, avventurarsi; possono essere un luogo dove
sperimentare, attraverso la cura e il riscontro dell’altro, la crescita del Sé e
dell’autostima (promozione del volontariato giovanile).
Essi offrono uno spazio strutturato, ma aperto a modificazioni tali da
poter essere interpretati da ognuno come luoghi con identità differenti.
Nell’ambito dei centri di aggregazione l’educatore/animatore non si pone
come modello da seguire bensì come riferimento, un tutor nel percorso assolutamente personale e spontaneo della crescita di ognuno.
L’educatore è disponibile, offre indicazioni, scambia opinioni, rielabora
e negozia i significati e le regole e situazioni nuove, ma è ben lungi dall’offrire se stesso come persona da imitare.
Detto questo, deve essere chiara in ogni operatore la consapevolezza di
avere un ruolo di carattere educativo e di rappresentare l’idea di un adulto
possibile, capace di rendere conto, all’interno dello spazio educativo dei propri comportamenti e atteggiamenti.
A fronte di tale approccio, i ragazzi sono liberi di individuare, dentro e
fuori dal contesto di aggregazione, delle figure adulte o dei pari con i quali
confrontarsi e ai quali riferirsi nella costruzione della propria identità.
Il centro di aggregazione non è né una casa, né una scuola, ma il tempo giornaliero trascorsovi dai ragazzi e dalle ragazze incontrati è nella maggior parte dei casi superiore a quello passato con i propri familiari tanto da
poter affermare che le responsabilità affidate a questi contesti dovrebbero
rivendicare uno spazio che finora non è stato sufficientemente riconosciuto.
Se si aggiunge che, in virtù della dichiarata intenzionalità educativa, i
carichi di responsabilità vengono commisurati al profilo e al ruolo sociale
che si va via via delineando in ogni adolescente, è facile comprendere come
all’interno di questi spazi di sperimentazione sia possibile usufruire, proporzionalmente all’età, di opportunità differenti.
In particolare, le proposte animative prevedono un’adesione di primo
livello, nella quale i ragazzi possono decidere se partecipare o meno e in
cui l’unica responsabilità loro attribuita è relativa all’eventuale prodotto elaborato e alla continuità dell’adesione alla proposta.
Un secondo livello si concretizza quando si passa a offrire agli adolescenti
l’opportunità di andare oltre, aderendo a modalità di partecipazione che poggiano su una progressiva assunzione di responsabilità e sull’attribuzione di ruoli
differenti ai diversi soggetti per il perseguimento di un progetto comune.
IL CANTIERE GIOVANI DI FRATTAMAGGIORE (NAPOLI)
73
Il metodo animativo stesso propone uno stile partecipativo motivato e radicato sulle effettive capacità e sul riconoscimento delle potenzialità degli adolescenti, restituendo loro porzioni di potere sempre maggiori mano a mano che
aumentano consapevolezza del proprio ruolo e fiducia nelle proprie possibilità.
Nel corso del 2003 Cantiere Giovani ha realizzato un progetto finanziato
dall’Assessorato alla Legalità e Sicurezza della Provincia di Napoli.
L’Assessorato alla Sicurezza Urbana della Regione Campania ha incluso il progetto “C.A.T .– Centro d’Aggregazione Territoriale” tra i vincitori
del secondo bando per l’Assegnazione di finanziamenti agli Enti Locali per
la realizzazione di progetti integrati di sicurezza urbana.
Il Comune di Frattamaggiore con tale progetto ha avuto l’opportunità di
continuare ad offrire una serie di servizi rivolti alla promozione della cultura della legalità, al rispetto delle diversità, all’integrazione e al potenziamento
del senso di appartenenza alla comunità.
Inoltre, le azioni si sono ampliate promovendo ulteriori attività in spazi
pubblici all’aperto e nelle scuole, coinvolgendo attivamente altri partner, quali, appunto le scuole, i servizi sociali, i Centri di Giustizia Minorile e le forze
dell’ordine, in interventi mirati alla diminuzione dell’insicurezza, all’ordinata
e civile convivenza ed al miglioramento delle condizioni di vita della città.
Il centro di aggregazione “Il Cantiere” ottiene il riconoscimento del
Consiglio d’Europa come secondo miglior progetto sulla non violenza e la
cittadinanza attiva giovanile, nell’edizione 2004 del concorso “Young Active Citizens”.
Il Cantiere è un luogo d’incontro giovanile, dove far amicizia, condividere passioni e pensieri, confrontarsi con altre realtà, essere aggiornato di
opportunità di formazione, lavoro e tempo libero e dove imparare modi di
esprimere la propria creatività.
Esso propone all’interno di un contesto organizzato che impone vincoli
(regole, orari...) ma anche risorse (psicologiche, pedagogiche e strutturali) che
possono essere liberamente utilizzate dai giovani (autoctoni ed immigrati) per
una relazione significativa tra coetanei, tra adolescenti e adulti.
Il Centro può continuare ad assumere alcune sfide che il mondo giovanile esprime in ordine ai bisogni di acquisire le parole per discutere, progettare, per sperimentare nuove forme di cittadinanza e tessere nuove mappe concettuali adeguate a disegnare nuovamente il presente; sviluppare criticità creativa oltre il conformismo e per superare il senso di disagio e confusione appartenente alla crescita giovanile.
I destinatari del centro sono principalmente:
Adolescenti
Giovani
Giovani con inabilità intellettive
Giovani segnalati dai Servizi Sociali
74
IMMACOLATA SAVIANO
Giovani segnalati dai Centri di Giustizia Minorile
Immigrati
Cittadini in generale
Le azioni del centro sono:
1. Promozione di spazi disponibili alla libera espressione ed aggregazione
Si Propongono azioni di aggregazione per ragazzi in grado di offrire
opportunità di partecipazione e promozione delle relazioni, attraverso l’offerta di spazi dotati di materiale per l’intrattenimento (tavolo di ping pong,
calcio balilla, giochi di società, videogames, televisore e materiale per la libera espressione).
2. Promozione di un Punto Info-giovani
Lo scopo è di rendere disponibili le informazioni necessarie allo sviluppo
culturale e sociale in un luogo dove i ragazzi si aggregano spontaneamente.
Il servizio prevede: la consultazione di periodici, giornali e riviste, di
materiale informativo per la scuola, la formazione, il lavoro, la cultura e il
tempo libero, con la possibilità di accedere ad internet.
3. Promozione di Corsi di lingua italiana per stranieri
Imparare l’italiano è il primo passo per avvicinarsi e sentirsi parte della comunità.
I corsi sono suddivisi in due livelli per due giorni settimanali e sono
organizzati, oltre che da insegnanti di lingua italiana, da un gruppo di giovani volontari.
4. Costruzione di un luogo di integrazione e di attività interculturali
La presenza di stranieri è sempre più visibile e lo dimostra anche il progressivo aumento di immigrati che partecipano ai corsi di italiano offerti dal
centro ed alle altre attività organizzate per creare opportunità di confronto e
scambio interculturale.
Portare avanti questo servizio significa offrire concrete possibilità di
conoscere la diversità ed imparare ad apprezzarla, attivare processi di integrazione, promuovere tra gli immigrati la cultura della legalità e la civile
convivenza.
5. Promozione di uno Sportello immigrati
Consultazione materiale informativo su leggi di riferimento, sanità, offerte di formazione e lavoro, collegamenti con altri servizi per l’immigrazione in Campania.
IL CANTIERE GIOVANI DI FRATTAMAGGIORE (NAPOLI)
75
6. Definizione di un’area artistico-espressiva
Viene messo a disposizione di chi è alla ricerca di altri modi di esprimersi, uno spazio, ubicato in una delle strade principali della città, offrendo
un’opportunità all’artista, e più in generale favorendo la promozione culturale sul territorio.
7. Incontri di Informazione e Formazione
Con cadenza periodica, gli iscritti al centro sono invitati a partecipare
ad incontri e dibattiti che vertono su argomenti che gli stessi utenti segnalano all’equipe di lavoro del centro.
8. Ospitalità Associazioni
Il centro è aperto di pomeriggio, pertanto nelle altre ore della giornata
lo spazio viene offerto in maniera gratuita alle altre associazioni del territorio che hanno il problema di non avere una sede per svolgere le proprie attività.
9. Le attività laboratoriali
L’offerta di saperi laboratoriali costruiti sul “saper essere” e “saper fare”,
in grado di favorire l’acquisizione di specifiche competenze comunicative e
simboliche dalla forte valenza socializzativa.
Tra i laboratori attivati: Giornalistico, Audiovisivo, Fotografia, Inglese,
Teatro, etc.
Di cosa si occupa il Centro il Cantiere ?
Di Politiche giovanili coniugando nuove forme di progettazione territoriale alla naturale vocazione al cambiamento dei giovani favorendo il contatto e l’interazione tra giovani di diversa estrazione sociale, culturale e geografica accrescendo la visibilità, accessibilità, trasparenza e trasversalità della
conoscenza offrendo un articolato sistema di esperienze e di attività finalizzate alla promozione della cittadinanza attiva e all’acquisizione di capacità
di partecipazione e responsabilità.
Di politiche sociali attraverso opportunità di partecipazione, promozione della relazione e di recupero della socialità, aumentando il senso di
autostima, valorizzando l’informazione e la conoscenza come strumenti
di emancipazione sociale e costruzione di percorsi autonomi di asserzione attivando e potenziando sul territorio, interventi mirati all’individuazione, prevenzione al riassorbimento delle situazioni di crisi e di rischio
psico-sociale.
Di immigrazione promuovendo la convivenza interculturale, l’inte-grazione sociale e civile degli stranieri favorendo il rispetto della diversità tra
76
IMMACOLATA SAVIANO
la popolazione locale e gli immigrati realizzando servizi utili alla conoscenza del territorio e all’inserimento sociale degli immigrati.
Di sicurezza e legalità diminuendo la percezione di insicurezza tra immigrati stranieri e la popolazione locale adottando strumenti ed azioni volte
alla crescita delle relazioni personali e di gruppo per lo sviluppo del vivere
in comunità, promuovendo attività mirate di natura preventiva rivolte anche
ai gruppi potenzialmente più esposti ai fenomeni di criminalità istituendo una
rete preventiva a maglie larghe che connetta gli Enti locali, le Autonomie
Scolastiche, la giustizia, le realtà del Terzo settore e tutti gli attori impegnati
come cittadini attivi.
Il centro lavora affinché i ragazzi possano sperimentare, rinforzare e affinare le proprie abilità sociali all’interno delle relazioni e delle azioni che
esso promuove.
Per abilità sociali intendiamo quelle competenze attraverso le quali diventa possibile costruire azioni e progettazioni che realizzano obiettivi e che
integrano energie individuali e collettive in funzione di una convivenza democratica.
Come non pensare al centro come una sorta di agorà giovanile in cui
si costruiscono esperienze di ordinaria convivenza: si gioca, ci si esprime,
si comunica, ci si associa, ci si diverte e si passa il tempo.
IL CANTIERE GIOVANI DI FRATTAMAGGIORE (NAPOLI)
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LA SOCIALIZZAZIONE SECONDARIA.
IL CASO DELLA FONDAZIONE FAMIGLIA DI MARIA
DI S. GIOVANNI A TEDUCCIO (NAPOLI)1
Gennaro Ravellino
L’autore di questa tesi lavora come educatore nel quartiere S. Giovanni
a Teduccio di Napoli dal 2005, ha studiato la socializzazione secondaria attraverso l’analisi di casi della Fondazione famiglia di Maria. Il lavoro parte
dai processi connessi alla socializzazione primaria, dell’impatto e dell’importanza della famiglia, che è la più rilevante agenzia di socializzazione, per
poi trattare della socializzazione secondaria approfondendo l’argomento attraverso la scuola, i media e il gruppo dei pari che contribuiscono al processo di socializzazione e di formazione della personalità. Segue una parte
empirica che inizia da una interessante analisi della condizione socio-economica del quartiere della quale riportiamo un ampio stralcio:
Il territorio di riferimento in cui si svolge l’azione progettuale rivolta
ai minori a rischio è caratterizzato da un alto tasso di abbandoni scolastici: il quartiere di S. Giovanni a Teduccio della periferia di Napoli è un territorio fertile per la criminalità organizzata. Guardando al disagio sociale
di un quartiere difficile come questo, in cui i bambini sono la parte più debole, si è perso di vista l’importanza del ruolo della relazione con l’adulto
sullo sviluppo emotivo e cognitivo del bambino. Da qui nasce la necessità
di rispettare i bisogni fondamentali dei bambini: organizzare le attività rispetto a questi, favorire l’integrazione tra “territorio-scuola-famiglia”. Tale
modalità di intervento è importante per favorire la risoluzione dei conflitti
che emergono prima nella famiglia, poi tra le strade del quartiere e poi nella
scuola e all’interno dei gruppi classe. Riconoscendo il ruolo primario della
scuola, come agenzia educativa e l’immane e prezioso lavoro che gli insegnanti svolgono accuratamente per dare ai bambini la giusta formazione,
l’attività svolta dall’educatore vuole contribuire a ridurre (insieme alla scuola
e alla famiglia) il disagio sociale dei bambini. Molto spesso la scuola diventa il terreno in cui questo disagio si manifesta, infatti, ci troviamo di fron1
La Tesi in Sociologia dei processi culturali e comunicativi La socializzazione secondaria: il gruppo dei pari. il caso dell’opera pia famiglia di Maria, S. Giovanni a Teduccio (Napoli) è stata discussa all’Università degli studi di Salerno, corso di laurea in scienze dell’educazione, nell’anno accademico 2010-2011, relatrice la prof.ssa Emiliana Mangone. Il testo riportato è stato elaborato dal curatore.
78
GENNARO RAVELLINO
te a classi composte da più “eccezioni”: bambini allontanati dalle famiglie
per gravi problemi, qualcuno che si assenta spesso da scuola senza apparenti motivi, bambini con difficoltà relazionali significative. Le attività svolte dalle associazioni e dagli educatori intendono sostenere la scuola nell’
accogliere i bisogni dei bambini. Il disagio sociale può essere causa di disturbi di apprendimento e di relazione, ma la relazione stessa, il modo di
comunicare emozioni, di rapportarsi agli altri possono a loro volta creare
disagio. Per questo le attività che vengono svolte per i bambini cercano di
favorire le relazioni tra coetanei e fornire ai minori gli strumenti necessari
per la relazione con gli altri. I bambini danno molta importanza alla relazione, al rapporto con gli altri, in particolare a quello che viene costruito
con il gruppo dei pari e per questo è necessario favorire e promuovere una
formazione che favorisca i rapporti interpersonali. Proprio da una relazione sbagliata nascono i momenti di disagio, di perdita dell’autostima e di
solitudine. Essere esclusi, incompresi, considerati diversi, isolati dal gruppo, accusati ingiustamente, trattati male, essere indifferenti agli altri sono
aspetti che i bambini rifiutano chiedendo una scuola centrata sulla persona
capace di creare relazioni positive che li aiutino ad avere maggiore fiducia
nella vita, negli altri e in sé stessi. Da qui nasce l’importanza di collaborare con la scuola e con le famiglie per promuovere un clima sereno tra i
bambini all’interno dei gruppi classe, dove si propongono iniziative, si gioca, si collabora e soprattutto ci si ascolta. L’ascolto, così come il ruolo delle
emozioni nell’apprendimento, sono momenti fondamentali dell’educazione,
perché permettono di esprimersi liberamente sapendo che c’è un interlocutore attento e coinvolto. Tutto questo è volto ad assicurare un valido supporto ai genitori che, per motivi di lavoro o altro, non possono essere presenti nella vita dei loro figli così da assicurare loro il graduale sviluppo
psico-affettivo indispensabile per la loro crescita. È quindi importante che i
minori abbiano uno spazio extrascolastico in cui siano i protagonisti delle
attività ludico-didattiche e nel quale confrontarsi con i pari, nella speranza
che questi percorsi li formino in modo adeguato. Questa analisi è frutto di
accurate indagini ed esperienze acquisite negli anni nel lavoro di educatore: diverse attività educative svolte con l’associazione “Clemisian” e la fondazione “Famiglia di Maria” hanno messo in evidenza le svariate esigenze
del territorio. Emerge una realtà sociale contemporanea che mostra i segni
di una crisi dell’educazione e dell’istruzione e della necessità di una scuola obbligata ad uscire dalla rigidità istituzionale e divenire più flessibile sul
piano dell’educazione e dell’istruzione. Ad affiancare la scuola sono presenti
molte agenzie ma nel caso specifico emerge l’importanza che possono rivestire i centri di accoglienza residenziali e semiresidenziali che con il proprio lavoro possono ammortizzare le problematiche di una società in costante
evoluzione e cambiamento ed intervenire a sostegno delle famiglie cercan-
LA SOCIALIZZAZIONE SECONDARIA
79
do di colmare differenti lacune. In molti casi le famiglie sono assenti a causa
di una sub-cultura molto forte in cui i genitori non comprendono l’importanza dell’istruzione e seguono poco la crescita ed il percorso scolastico dei
propri figli. I quartieri a rischio sono cosi definiti a causa della presenza
della sub-cultura che prevale sulla cultura sociale e diventa terreno fertile
per la malavita organizzata. (...) Essa è fortemente radicata in questi quartieri a rischio e risulta difficile riuscire a sradicarla. Si sviluppa una cultura ghettizzata, con regole di comportamento e ruoli ben definiti che minano la crescita e lo sviluppo del bambino: portano a fenomeni come la dispersione scolastica, a carenze dello sviluppo cognitivo, deficit di tipo relazionale causati dalla perdita di uno o di entrambi i genitori che sono reclusi oppure morti a causa di faide tra clan rivali. Molti adolescenti sono
orgogliosi del gruppo in cui si identificano, che fornisce loro un senso di
appartenenza ad una comunità che va a colmare le carenze familiari e tendono a nutrire un rifiuto per i gruppi che considerano esterni o diversi dal
proprio. Attraverso questo rifiuto non riescono ad individuare gli aspetti
positivi di ciò che li circonda all’esterno e delle persone che cercano di aiutarli ed accettano e si lasciano sopraffare da quelli negativi e da persone
che attraverso la propria personalità e il potere che gli viene dato li sfruttano per arricchirsi. Con la presenza di una cultura vicina ai livelli di analfabetismo è molto alto lo sviluppo della delinquenza e per questo si tende
a parlare di minori a rischio. Nel quartiere di San Giovanni a Teduccio (e
come in tutti gli altri in cui è fortemente presente la sub-cultura) risulta difficile venire fuori da soli dal modello di vita che si prospetta e superare le
difficoltà che circondano il bambino. Spesso non si sviluppa la volontà di
volerne venire fuori perché non si conosce un modello di vita alternativo e
al contrario quello che vivono le famiglie si presenta come unico modello
possibile. Questo non vuol dire che nelle generazioni che verranno a formarsi saranno tutti delinquenti e analfabeti ma che un contesto sociale di
livello molto basso non favorisce la crescita e lo sviluppo sociale. È necessario intervenire per cercare di ridurre sempre di più il fenomeno della delinquenza. Su questo aspetto intervengono i centri residenziali e semiresidenziali che si propongono, con il proprio intervento, di migliorare la condizione di vita mostrando un modello di vita alternativo; essi forniscono la
visione di un mondo differente da quello in cui si è radicati nei quartieri a
rischio: mostrando un’alternativa si può accendere una fiamma nel bambino e successivamente nell’adolescente e renderlo consapevole che non esiste un’unica strada percorribile e in cui il proprio destino sia già segnato
dalla nascita. Egli può scegliere, ma questa scelta viene minata dai pericoli e dalle tentazioni del proprio quartiere che condiziona la stessa famiglia
che è la prima agenzia di socializzazione che sceglie per il bambino. L’intervento educativo, necessita della collaborazione della famiglia, della scuola,
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GENNARO RAVELLINO
e dello stesso quartiere e pone la prospettiva di un percorso molto difficile
da seguire che ha bisogno di costanza dell’intervento educativo, impegno e
pazienza. In questi quartieri spesso le famiglie non seguono il percorso scolastico del bambino a causa dell’assenza di strumenti adeguati (alfabetizzazione ai minimi livelli) e non hanno consapevolezza della crescita e del
miglioramento che può comportare l’istruzione e l’educazione, elementi che
possono essere l’asse portante per l’ inserimento sociale. Questi centri affiancano, ed in certi casi sostituiscono le famiglie svolgendo un lavoro di
tutoraggio ma essi hanno bisogno ugualmente del sostegno delle stesse famiglie che ne sono coinvolte. L’assenza delle famiglie presenti nei quartieri
a rischio dove è fortemente radicata la sub-cultura è legata a differenti fattori: il primo può essere individuato nel fatto che in questo contesto è poco
presente una sana cultura ed educazione sessuale che faccia comprendere
l’importanza di rapporti sessuali controllati e dei rischi che possono comportare sul piano personale e sociale. In linea generale nella cultura sociale,
che è sradicata dalla sub-cultura è diffusa la necessità di una vita sessuale
controllata che non comporti rischi personali che vadano ad intaccare la
crescita dell’individuo e la propria affermazione professionale. In genere,
rifacendosi ai propri modelli familiari, i giovani frequentano i vari livelli
dell’istruzione scolastica fino a quelli che ritengono più opportuni, poi in
una seconda fase cercano un lavoro ed un legame sentimentale. Una volta
realizzati i propri progetti si passa all’esigenza di crearsi una famiglia e di
avere dei figli. Tutto secondo un progetto costruito il cui apice non è necessariamente il matrimonio, ma come abbiamo visto secondo nuovi equilibri sociali, esso può essere anche il fenomeno della convivenza o di crescere
un figlio per proprio conto. Fatta questa premessa, vediamo che nelle subculture non emerge questa progettualità ma si vive alla giornata progettando in relazione al proprio modello sub-culturale. Anche in questo caso si
osservano i propri modelli familiari: sorelle che hanno avuto figli e si sono
sposate in età prematura, padri o madri assenti perché in detenzione, fenomeni di intrecci familiari dovuti a litigi, divorzi, relazioni extraconiugali gestite negativamente e fughe d’amore. I bambini si trovano spesso coinvolti
nelle retate mattutine delle forze dell’ordine assistendo a perquisizioni, alle
scenate o all’arresto dei proprio genitori, dei fratelli, di zii o altri parenti
che vengono portati bruscamente, ma giustamente via con la forza. Essi si
trovano coinvolti nei discorsi degli adulti che forniscono loro un immagine
deformata della giustizia e delle forze dell’ordine. Lo “sbirro”, così chiamato, viene visto come un nemico. In questo scenario non c’è l’esigenza di
evadere dal contesto e di raggiungere una crescita personale ma si finisce
per sposare la stessa visione del mondo della famiglia ed un grosso senso
di appartenenza. I bambini non hanno la forza e lo sviluppo psichico per
fare delle scelte importanti, per cui possiamo vedere che molte adolescenti
LA SOCIALIZZAZIONE SECONDARIA
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tendono ad avere per scelta e per negligenza dei figli già in età molto giovanile, questo perché non hanno ricevuto un’istruzione sessuale e hanno
seguito l’esempio espresso dal proprio modello familiare e dal contesto della
sub-cultura presente. Questo comporta un fenomeno che dal punto di vista
biologico è del tutto naturale, ma sotto l’aspetto sociale determina cambiamenti ed instabilità. Per quello relativo alla sub-cultura propone dei rituali
già radicati che si manifestano e si ripropongono nel tempo. Avere dei figli
comporta dei cambiamenti, ma averli da adolescente comporta un cambiamento che intaccherà profondamente la propria vita. In questo contesto avere
dei figli è per le giovani ragazze oggetto di realizzazione personale, che ha
la priorità su tutto il resto. Il rischio è quello di abbandonare la scuola per
dedicarsi totalmente a svolgere, il ruolo di madre. In molti casi, senza
un’adeguata istruzione, si finisce per svolgere un’unica attività lavorativa
possibile che è quella di cameriera per alcune ore dai vicini o per chi ne
ha bisogno. Lo stesso vale per i padri che sono così costretti a dedicarsi al
lavoro e in molti casi sono nulla facenti oppure già coinvolti in atti di delinquenza e piccole azioni criminali che porteranno alle conseguenze accennate in precedenza (arresto e detenzione). Lasciare la scuola significa trascurare l’istruzione e quindi l’acquisizione di competenze linguistiche e logico matematiche di base portando al fenomeno di un alfabetizzazione presente solo ai minimi livelli. La scuola è anche un luogo dove si costruiscono le relazioni sociali che vengono poi a manifestarsi anche all’esterno: è
un luogo di crescita sociale dove sono presenti ragazzi di differenti famiglie che si confrontano tra di loro e che mostrano il proprio modello culturale e familiare. L’abbandono della scuola comporta la costruzione di un
rapporto legato solo alla sub-cultura che mette difficilmente le persone in
condizione di relazionarsi con contesti e codici linguistici differenti. Stiamo
parlando di bambini e adolescenti che spesso bruciano le tappe della crescita e si ritrovano già dei piccoli adulti, che ne hanno viste già di tutti i
colori: conoscono quelli che sono i consultori dove possono parlare con i
propri genitori tenuti in reclusione oppure in comunità di riabilitazione, conoscono le droghe perché le hanno viste spacciare alla porta accanto oppure dalla propria famiglia. Un altro aspetto può essere legato al livello
culturale che non favorisce la crescita del bambino. Famiglie pressoché ignoranti ma lavoratrici, in cui i genitori lavorano tutto il giorno e non possono seguire i figli a scuola e durante la giornata. Essi sono obbligati a trascurare i figli i quali finiscono per autogestirsi: tornano da scuola e non
studiano, restano per strada e scelgono amicizie che con il tempo possono
rivelarsi anche sbagliate, vanno a scuola spesso privi di libri e quaderni.
Senza i genitori, che non possono seguirli, senza regole precise rischiano
di cacciarsi in disavventure frequentando falsi modelli e finendo in giri poco
raccomandabili. Non essendo seguiti trascurano la scuola e ben presto non
82
GENNARO RAVELLINO
hanno alcuna intenzione di continuare. Dopo diverse bocciature riescono
stentatamente a conseguire la licenza media con notevoli lacune linguistiche e logico-matematiche ma in altri casi abbandonano anche prima. Dopo
aver superato l’età dell’obbligo scolastico abbandonano gli studi. In questa
situazione risulta necessario l’intervento di politiche sociali adeguate a sostegno di queste famiglie ed è sicuramente rilevante il lavoro che può essere svolto dai centri residenziali e semiresidenziali.
Gli operatori della fondazione Famiglia di Maria si propongono di intervenire a tutela dei minori a rischio seguendo uno specifico percorso socio-educativo. “Esso accoglie minori a rischio che vanno dalla scuola primaria e secondaria di I grado fino alla scuola secondaria di II grado abbracciando fasce d’età che vanno dai sei ai 16 anni”. L’attività ha inizio dalle 8
del mattino quando i minori sono accolti nell’istituto o prelevati da un pulmino dalle rispettive case. Dopo la colazione sono accompagnati a scuola
da dove vengono col pulmino alla fine delle attività scolastiche riaccompagnati nella struttura semiresidenziale per il pranzo. “Un momento importante, dice Rivellino, dove si apprendono le norme di comportamento da tenere a tavola: rispetto per il compagno che si trova a fianco, rispetto per gli
oggetti sul tavolo, controllo della propria voce e capacità di mangiare cercando di non sollevare eccessivamente il tono della voce.” Alla fine del pranzo i ragazzi insieme al loro gruppo di appartenenza accedono agli appositi
locali per le attività didattiche.
La tesi si sviluppa poi analizzando il caso di due ragazzi, indicati come
Fortunato e Orlando e “mostra come il contesto esterno all’ambiente Fondazione possa influire negativamente quando, terminate le scuole medie, i
minori non sono più seguiti costantemente”. Fortunato, così chiamato per
indicare la sua fortuna a riuscire a distinguersi dalla parte negativa del contesto sub-culturale in cui è inserito, è il più piccolo di quattro fratelli, il padre è sempre impegnato nel lavoro mentre la madre si occupa delle faccende domestiche, i fratelli sono adulti e spesso impegnati nel lavoro non hanno tempo per seguirlo. Egli passa la maggior parte del tempo con la sorella
che per lui è una figura di forte riferimento. Vive nel rione detto Bronx per
le sue caratteristiche che minano l’equilibrio del bambino e tendono ad annullare il lavoro svolto dagli educatori della Fondazione. Nei lavori di gruppo
è tra gli elementi più influenti ma non si impone mai come un leader. In
seconda media perde il padre a seguito di una malattia; conseguita la licenza si iscrive a un istituto di Scienze sociali e nel 2011, anno della discussione della tesi, frequenta il quarto anno. “Fa spesso visita alla Fondazione
e chiede dell’educatore: il rapporto è rimasto inalterato e le sue visite sembrano quasi un modo attraverso il quale il ragazzo vuole esprimere la sua
gratitudine per tutto quello che è stato fatto per lui”.
LA SOCIALIZZAZIONE SECONDARIA
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Orlando è un bambino che vive in un rione non molto distante dalla
Fondazione, egli è il secondo di quattro fratelli, il padre fu ucciso per una
vendetta trasversale quando lui frequentava le elementari, la sua famiglia è
molto povera e la madre non riesce a seguire i figli come dovrebbe e Orlando spesso frequenta cattive amicizie. La partecipazione alla vita della
Fondazione gli consente di evitare i pericoli della strada e del quartiere e
di trovare nell’educatore una figura di riferimento. I suoi problemi si acuiscono quando non è in Istituto e trascorre le giornate e le serate per strada
senza alcun vincolo di orario. Col passare del tempo Orlando assimila le
regole da seguire nel gruppo di lavoro della Fondazione anche se continua
a porsi spesso in maniera violenta, senza però mai diventare manesco. Riesce a inserirsi nel gruppo e risulta particolarmente attivo e affidabile nelle
attività ludiche. Quando muore il padre di Fortunato egli gli è molto vicino
e lo aiuta, evidentemente perché rivive la sua esperienza. Riesce a conseguire la licenza media e si iscrive alla scuola alberghiera nella speranza di
diventare pizzaiolo. Lontano dalla Fondazione però si trova solo, continua
ad avere in una prima fase rapporti con la struttura, ma poi se ne allontana
fino ad essere risucchiato dal vortice della malavita. Partendo dallo spaccio
della droga giunge alla rapina e finisce, come molti ragazzi del quartiere,
in carcere.
I due casi evidenziano come i ragazzi se non sono inseriti in una famiglia che cerca di migliorare la propria esistenza rischiano di perdersi e di
lasciarsi alle spalle tutto quello che di buono hanno costruito in una struttura semiresidenziale.
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TIZIANA PAGANO
GIOCANDO
SI IMPARA.
PROGETTO
SOCIO-EDUCATIVO
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GIOCANDO SI IMPARA. PROGETTO SOCIO-EDUCATIVO
DELL’ASSOCIAZIONE CLEMISIAN,
SAN GIOVANNI A TEDUCCIO (NAPOLI)1
Tiziana Pagano
Anche Tiziana Pagano lavora in un ente educativo e presso un’ associazione di volontariato operanti a Napoli nel quartiere di S. Giovanni a Teduccio; è impegnata anche come collaboratrice redazionale per testate giornalistiche e siti web. Nella sua tesi analizza l’influenza sui minori dai tre ai
sedici anni del quartiere “che la società e, in particolar modo, i mass media
hanno sulla loro vita quotidiana, sui loro processi di socializzazione e quindi sul loro percorso di crescita”. Nell’ultima parte della tesi prende in considerazione il caso di un bambino inserito nel progetto “Giocando si impara” dell’associazione di volontariato CLEMISIAN2, che opera sul territorio,
per dimostrare che “ i mass media sono, al giorno d’oggi, agenzie di socializzazione che trasmettono valori devianti”. La Pagano riflette sui cartoni
animati di nuova generazione e ne ricava la convinzione che essi offrano
“modelli di comportamento totalmente negativi, pieni di violenza e distaccati dalla realtà, totalmente diversi dai cartoni animati di una volta dove i
protagonisti erano bambini e ragazze normali, con le loro storie di amicizia
e di onestà”.
È presentata la storia di Ben e il progetto socio-educativo “Proseguendo le Relazioni Significative”, realizzato in una scuola materna del quartiere a rischio San Giovanni a Teduccio, e mirante a “favorire lo sviluppo dello
schema corporeo ed un sano equilibrio con se stesso e l’ambiente circostante
attraverso il gioco”.(...) “Durante queste attività, scrive la Pagano, un bambino, che chiameremo Ben, si rifiutava di giocare: era strano vedere un
bambino di 3 anni che non aveva voglia di giocare con gli amici. Ma mano
1
La Tesi in Sociologia dei processi culturali e comunicativi, Media, socializzazione e vita
quotidiana è discussa all’Università degli studi di Salerno, corso di laurea in Scienze dell’educazione, nell’anno accademico 2010-2011,relatrice prof.ssa Emiliana Mangone. Il testo riprodotto
è stato elaborato dal curatore.
2
«Il nome “CLEMISIAN” è l’acronimo composto dalle iniziali dei nomi dei soci fondatori dell’ associazione. Potevamo scegliere qualsiasi altro nome ma abbiamo preferito questo per
consolidare l’unione tra le persone che hanno deciso di mettersi in gioco per cercare, insieme,
di attuare progetti a favore delle fasce di popolazione disagiate del quartiere napoletano... e penso
sia questo lo spirito dell’associazionismo!», cfr. Pressagency L’associazionismo contro le regole della strada, posted 20 novembre 2011. Intervista di Tiziana Pagano a Silvia Cacace, presidente Clemisian, 6 gennaio 2014.
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TIZIANA PAGANO
a mano che i giorni passavano e le lezioni di psicomotricità si susseguivano, io e un’altra educatrice vedevamo in Ben uno strano atteggiamento: si
relazionava con gli amici facendo strani movimenti che imitavano il combattimento e quando si arrabbiava forzava le espressioni del viso per far
comprendere il suo stato d’animo. Confrontandoci con le insegnanti su questo
aspetto, ci spiegarono che Ben si comportava sempre così, si escludeva dal
resto del gruppo e si relazionava con loro imitando il personaggio del suo
cartone animato preferito: “Ben 10”, Benten come lo chiamano i bambini.
Io e la collega decidemmo di trovare un modo per coinvolgere Ben nelle
attività. Mano a mano riuscimmo a coinvolgerlo e cercavamo sempre di riprenderlo quando si relazionava agli altri come il suo personaggio dei cartoni animati. Un giorno, decidemmo di proporre ai bambini il gioco delle
sedie, aggiungendo alla classica versione una variante: i bambini dovevano ascoltare la favola che noi educatrici raccontavamo e prestare attenzione alla parola d’ordine “Seduti”, parola che doveva indicare loro il comando
di sedersi. Ben partecipò e perse ma non disse niente. La lezione successiva, dopo una settimana, iniziò a piangere quando vide me e l’altra collega
perché non voleva giocare. Quando gli chiedemmo il perché lui rispose, piangendo, che non voleva giocare perché non poteva perdere: Benten non perde mai e neanche lui doveva perdere. Aveva totalmente perso il contatto con
la realtà. Gli spiegammo che lui non era “Ben 10” ma in quel momento,
sentendo quelle parole, lui guardò l’orologio-giocattolo che aveva sul polso
e cominciò a fare un’espressione forzata in viso: l’orologio è lo strumento
attraverso il quale il suo personaggio si trasforma da bambino in supereroe e con quella smorfia Ben sperava di trasformarsi. A quel punto, preoccupate dell’influenza negativa che il cartone animato aveva avuto su Ben,
iniziammo a fargli comprendere realmente che lui non era il personaggio dei
cartoni animati ma una persona, un bambino. La nostra “opera di convinzione” funzionò anche perché gli amici di classe iniziarono a ripetere le
nostre parole: “Tu non sei Benten, sei un bambino, anche io sono un bambino”. Informammo le insegnanti e la coordinatrice del progetto dell’accaduto che, a loro volta, informarono i genitori. Dalle settimane successive,
Ben ebbe un cambiamento radicale che è possibile osservare ancora oggi,
durante la continuità del progetto: adesso gioca con piacere, non piange più
quando perde e ripete “Una volta si vince e una volta si perde!”. Ora guarda ancora il cartone animato di Ben 10 ma con la consapevolezza che lui
e il personaggio sono due persone distinte o meglio, lui è una persona mentre il cartone animato è solo finzione. Il caso di Ben dimostra non solo la
negatività dei cartoni animati di oggi ma soprattutto quanto possa essere
dannoso lasciare un bambino da solo dinanzi alla Tv. È importante che gli
adulti siano presenti durante la visione di cartoni animati o film per aiutare i bambini nella comprensione di ciò che è finzione e ciò che è realtà”
GIOCANDO
SI IMPARA.
PROGETTO
SOCIO-EDUCATIVO
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La Pagano tratta poi della TV dedicata ai giovani e ne ricava la convinzione che essi siano influenzati negativamente dai programmi trasmessi:
Per quello che concerne i contenuti dei film che vengono trasmessi in
prima serata, si assiste ultimamente ad una proliferazione di pellicole che
mettono in risalto le organizzazioni criminali: quale effetto possono avere
questi film sulla formazione degli adolescenti? Di sicuro non positiva, soprattutto sui minori a rischio cioè quei ragazzi che vivono in condizioni socio-economiche difficili, tali da portarli verso la criminalità organizzata. È
questo il caso dei minori seguiti nel progetto socio-educativo “Proseguendo le Relazioni Significative”, svolto presso il 62° C.D “Vittorino da Feltre” a San Giovanni a Teduccio, Napoli, e rivolto agli studenti delle medie.
In questo progetto, svolto in orario curriculare, vengono seguiti dei minori
che non riescono a seguire la classica lezione frontale e vengono per questo segnalati dai docenti: questi ragazzi hanno problemi familiari, hanno tutti
uno o più parenti in carcere, rischiano quindi di seguire la stessa strada.
Attraverso una didattica alternativa, questi ragazzi portano avanti il programma ministeriale ma con maggiore attenzione a quelle che sono le loro
lacune e le loro esigenze non solo didattiche ma soprattutto sociali. Si cerca di far capire loro come si vive correttamente in una società, che il mondo che conoscono loro (quello dell’illegalità) non è l’unico che esiste e,
soprattutto, che è sbagliato. Difficile combattere con quelle che sono le regole sociali che i genitori hanno insegnato loro, i valori di “rispetto” verso le figure dei criminali che per loro sono veri e propri modelli da imitare. Un mondo, quello della criminalità, che molte volte viene mostrato erroneamente in Tv, soprattutto da film e telefilm. I ragazzi del progetto hanno sempre avuto una profonda ammirazione per il film “Il Camorrista” del
1986 che racconta la storia del famoso Professore Vesuviano, potente boss
della Camorra: anche se l’intento del film non è certo quello di esaltare le
imprese di questo personaggio (o almeno si spera), i minori a rischio come
quelli seguiti nel progetto hanno interpretato in modo errato il film. Loro
sono affascinati da questo mondo criminale che non fa che rendere più emozionante un mondo che già conoscono fin troppo bene, purtroppo. Conoscono
i dialoghi a memoria, ammirano le imprese che vengono raccontate, sognano
di diventare come i protagonisti, ne condividono gli ideali. Sensazioni analoghe ha suscitato anche il telefilm “Il capo dei capi”, la serie andata in
onda nel 2007 e che invece racconta la storia del mafioso Totò Riina: anche in questo caso è passato un messaggio sbagliato ai ragazzi. Non capivano che il telefilm intendeva celebrare il lavoro delle forze dell’ordine che
hanno catturato il famoso latitante, per loro veniva celebrato il mafioso e
la mafia. Era ricorrente la frase “Io da grande voglio diventare un camorrista/un mafioso così faccio un sacco di soldi e divento famoso”. Il lavoro
di noi educatori si concentrava quindi sull’intento di far comprendere loro
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TIZIANA PAGANO
che si sbagliavano, la società e quindi la televisione non possono celebrare
personaggi criminali che fanno del male agli altri. Ma il punto è: i ragazzi
del progetto si sbagliavano davvero? Oppure la televisione ultimamente tende
effettivamente a celebrare personaggi negativi pur di fare audience e incurante degli effetti negativi che questo comporta? Le organizzazioni criminali
come la Camorra e la Mafia fanno parte della nostra storia, purtroppo: è
quindi necessario fare in modo che tutti, soprattutto le nuove generazioni,
sappiano il danno che esse fanno alla nostra società e alle persone che ci
vivono. Ma, probabilmente, è sbagliata la strada. Non dovrebbero esistere
film chiamati “Il Camorrista” o serie televisive intitolate “Il capo dei capi”
perché in questo modo la televisione rende protagonisti, e quindi degni di
fama, personaggi che continuano ancora oggi a danneggiare la società. Si
dovrebbe invece insistere su titoli come “Giovanni Falcone”, “Paolo Borsellino”, “Annalisa Durante”, “Don Peppe Diana”, “Giancarlo Siani”,
“Don Pino Puglisi” e così via: si, purtroppo sono tanti i titoli ai quali ispirarsi perché sono tante le vittime delle mafie. Certo, è innegabile che sono
stati girati molti film in onore di questi personaggi, soprattutto sul giornalista Siani, sugli uomini di legge Falcone e Borsellino e su Don Pino Puglisi: su quest’ultimo è doveroso ricordare “Alla luce del Sole”, il toccante
film del 2005 con Luca Zingaretti. Il punto è che questi dovrebbero costituire il solo e unico “format” di film consentiti sulle mafie: le nuove generazioni sono troppo fragili. La fiducia nelle istituzioni è fin troppo compromessa e i film che celebrano personaggi delle mafie potrebbero portare ad
una rapida ed irrimediabile discesa sociale. Sono tante le discussioni proposte all’interno del gruppo di “Proseguendo le Relazioni Significative” per
far comprendere ai ragazzi la crudeltà della criminalità organizzata, tanti
sono i tentativi di dialogo e di confronto su questi temi che per loro sono
davvero troppo vicini e troppo presenti nella loro vita quotidiana: non è facile lottare contro quello che è il loro modo di vivere, il loro modo di pensare, la loro quotidianità appunto. Lo scopo del progetto è però quello di
offrire loro un momento di dialogo e di confronto con realtà diverse da quella criminale, per far comprendere che è possibile e giusto vivere in modo
diverso, nel rispetto degli altri”.
(...)
Una possibile soluzione: le attività educative
Soprattutto per i bambini, è importante che essi non trascorrano troppo
tempo da soli davanti alla Tv. Questione non di facile soluzione dato che
molti genitori lavorano e non possono occuparsi dei figli all’uscita da scuola. Ecco che la Tv diventa una babysitter alla quale affidare i pargoli du-
GIOCANDO
SI IMPARA.
PROGETTO
SOCIO-EDUCATIVO
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rante gli orari in cui essi si trovano da soli: questo significa nessun controllo dei programmi scelti e quindi distorsione della realtà in caso di contenuti non appropriati alla loro età. Forse anche per questo le generazioni di oggi
sono più inclini alla violenza. Fenomeni di bullismo e di baby gang sono
ormai all’ordine del giorno e protagonisti sono sempre più spesso bambini
appartenenti a famiglie del tutto rispettabili, per niente dediti alla criminalità ma che non trascorrono abbastanza tempo con i figli che crescono da soli
o, peggio, rifacendosi ai modelli forniti dalla televisione.
Una soluzione sarebbe quella di agevolare la relazione dei bambini con
i gruppi dei pari: piscina, calcio, teatro o qualsiasi altra attività che possa
favorire i processi di socializzazione, fondamentali per i minori. Dato che
non tutti i genitori possono permettersi iscrizioni a palestre o ad altri sport,
esistono sul territorio (specialmente nella città di Napoli) alcune associazioni o enti educativi che affiancano scuola e famiglia nel processo educativo.
L’associazione CLEMISIAN è un organizzazione di volontariato presente
da anni sul territorio partenopeo e che si occupa di attività socio-educative
rivolte ai minori della VI Municipalità di Napoli. Uno dei suoi progetti, “Giocando si impara” offre una continuità giornaliera nella formazione dei bambini: l’attività di psicomotricità propone per i bambini dai 3 ai 6 anni un
legame con il percorso “Ludoteca”, proposto anche ai ragazzi più grandi insieme a quello di “Accompagnamento scolastico”. I genitori possono quindi
affidare i figli ad educatori con esperienza decennale: in questo modo essi
possono gestire le attività lavorative evitando di lasciare i figli con la Tv –
babysitter. Le attività di ludoteca offrono, attraverso il gioco, regole importanti per il vivere in società conciliandole con l’aspetto ludico: i bambini imparano giocando e attraverso le attività di manipolazione e pittura. L’accompagnamento scolastico invece offre un valido supporto scolastico ai minori
cercando di motivarli al successo scolastico e alla fiducia in loro stessi.
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RACHELE TARANTINI
IL PROGETTO MARE (MINORI A RISCHIO DI ERCOLANO)
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IL PROGETTO MARE (MINORI A RISCHIO DI ERCOLANO)
UN INTERVENTO SUL CAMPO
DI EDUCAZIONE SOCIO AFFETTIVA1
Rachele Tarantini
È noto che “l’uomo è un animale sociale”. La dimostrazione palese di
quest’affermazione è data dai numeri che la nostra specie ha raggiunto nel
nostro Pianeta. La sua sopravvivenza, seppur legata al caso e alla necessità,
è stata consentita, infatti, dallo sviluppo dell’intelligenza sociale, della capacità di cooperare e di difendersi strategicamente in gruppo. Pertanto è naturale comprendere come l’aiuto volontario abbia rappresentato, e rappresenti
ancora oggi, un’importante risorsa per l’uomo e per il suo benessere, soprattutto laddove il welfare istituzionale è storicamente in parte assente e in parte
carente (come nel Mezzogiorno d’Italia). Negli ultimi anni, poi, è stata riconosciuta grande rilevanza alla formazione dei volontari che operano in
qualità di helper e di caregiver in ogni ambito della società e che sempre
più spesso sono guidati o si rivolgono ai professionisti del sociale (psicologi, educatori,etc.), per affrontare problematiche o situazioni caratterizzate da
lieve o forte complessità.
Il mio lavoro di tesi si inserisce proprio in tale ambito, proponendo da
una parte la presentazione teorica di una metodologia di intervento, finalizzata a rendere efficace l’azione volontaria rivolta ai minori; dall’altra, un
esempio di applicazione di tale costrutto nell’ambito dei minori a rischio (Il
progetto M.A.R.E. - Minori a Rischio di Ercolano).
L’obiettivo generale della tesi è stato infatti quello di dimostrare la validità di un percorso di educazione socio-affettiva, costruito integrando dei
costrutti che solitamente vengono adoperati singolarmente in tale ambito,
ciascuno dei quali tiene conto di un aspetto particolare della dinamica personale ed interazionale.
Gli obiettivi specifici del percorso educativo, invece, sono stati quelli di:
sollecitare la conoscenza e la gestione positiva delle emozioni (in particolar
modo delle emozioni negative, rabbia, paura, tristezza); migliorare le relazioni interpersonali, sia nel rapporto coi pari che tra minore e adulto; migliorare le abilità pro-sociali.
1
La tesi Progetti e percorsi di educazione socioaffettiva per minori a rischio. Un intervento di campo nella prospettiva di psicologia di comunita’ è stata discussa all’Università Suor
Orsola Benincasa di Napoli, Facoltà di Scienze della formazione, corso di laurea in Scienze
dell’educazione, Cattedra Psicologia di Comunità, relatore prof. Cosimo Varriale.
92
RACHELE TARANTINI
L’educazione socio-affettiva è una metodologia finalizzata al potenziamento delle risorse personali e all’acquisizione delle competenze sociali, in
altre parole a «star bene con sé stessi e con gli altri»2. Gli obiettivi che persegue sono: 1) autoconsapevolezza emozionale; 2) efficace gestione delle
emozioni; 3) automotivazione; 4) percezione corretta delle emozioni altrui
(empatia); 5) gestione efficace delle relazioni interpersonali 3-4. Questa metodologia è rivolta a giovani di tutte le età (dalla materna all’università); a
insegnanti, affinché acquisiscano e utilizzino tale metodo; a genitori, affinché aiutino i loro figli a capire e a gestire le proprie emozioni; a educatori
in generale e a coordinatori di gruppi del terzo settore, nonché a tutti coloro che sono in associazioni che si rivolgono a giovani 5-6-7-8-9.
L’educazione socio-affettiva, in una prospettiva psicologica di comunità, è quindi adoperata come strategia di empowerment e di promozione del
benessere, capace di migliorare: a) le capacità di riconoscimento ed espressione dei bisogni e delle emozioni di ciascuna persona; b) la fiducia e la
stima in sé stessi; c) la qualità dei rapporti all’interno di un determinato
contesto. Tale metodologia, per le sue potenzialità, viene a costituire un potente strumento di prevenzione soprattutto a livello primario. Infatti, tra le
cause più frequenti del disagio giovanile ritroviamo: la mancanza di autostima e fiducia negli altri; l’incapacità di comprendere emotivamente le conseguenze dei propri comportamenti sugli altri. Per quanto riguarda, invece,
la prevenzione secondaria e terziaria, l’educazione socio-affettiva può fornire supporto e stimolo, per rafforzare le potenzialità emotive delle persone
a rischio o in fase di reinserimento. Diverse indagini condotte negli Stati
Uniti e in Europa dimostrano che tale strumento, potenziando la competenza interpersonale, permette di resistere alla pressione del gruppo a fumare,
a bere, ad assumere droghe o a compiere comportamenti devianti. È risultato, inoltre, utile a ridurre i tassi di abbandono scolastico e di delinquenza
minorile; a motivare docenti e studenti; a migliorare nello studente autostima e capacità creative e quindi il suo profitto; risolvere alcuni problemi personali che affliggono i ragazzi nella pubertà e nell’adolescenza, impedendo
loro di concentrarsi sugli studi10.
2
Francescato D., Putton A., Stare meglio insieme, Milano, 1995.
Goleman D., Intelligenza emotiva, Milano, 1996).
4
Varriale C., Alfred Adler: psicologo di comunità, Napoli, 2005.
5
Francescato D., Putton A., Stare meglio insieme, Milano, 1995.
6
Francescato D., Putton A., Cudini S.,Star bene a scuola, Roma. 2009.
7
Francescato D., Tomai M., Mebane E. M., Psicologia di comunità per la scuola, l’orientamento, la formazione, Bologna, 2004.
8
Francescato D.,Stare meglio insieme nei piccoli gruppi, a scuola, nei contesti produttivi
e no profit, Bologna, 2007.
9
Varriale, 2005
10
Francescato D., Tomai M., Mebane E. M., Psicologia di comunità per la scuola, l’orientamento, la formazione, Bologna, 2004.
3
IL PROGETTO MARE (MINORI A RISCHIO DI ERCOLANO)
93
Il contesto di riferimento della tesi è stato rappresentato dalla Psicologia di comunità e dalla Psicologia individuale. Entrambe le discipline studiano l’uomo inserito nel suo ambiente, allo scopo di prevenirne il disagio
e promuoverne il benessere.
La Psicologia di comunità sostiene con forza l’importanza di aiutare e
sostenere le persone nei loro ambienti naturali e nei sistemi sociali, e vede
nella qualità del rapporto fra individuo e ambiente, l’elemento determinante
per il benessere o il malessere di una persona11. L’importanza relativa alla
prevenzione e alla promozione del benessere nasce storicamente nel secolo
scorso, all’interno di una progressiva presa di coscienza del fatto che i disturbi mentali potessero essere attribuibili a elementi del contesto sociale
(come gli stili di vita; l’assistenza sanitaria; l’ecologia e le condizioni di vita;
le caratteristiche sociali e della società), piuttosto che a fattori individuali
(ossia genetici ed associati fattori biologici)12.
La Psicologia individuale (elaborata da Alfred Adler) afferma che il
benessere dell’individuo dipende dall’azione di tre dinamiche (il sentimento d’inferiorità, l’aspirazione alla superiorità, il sentimento sociale). Secondo Adler, il sentimento d’inferiorità è connaturato all’uomo ed è nel contempo strettamente legato al tentativo di superare tale stato. Tale meta personale (causa finalis) spinge verso il futuro e dà allo stile di vita di ciascuno unità e coerenza, ma anche i caratteri di unicità e irripetibilità13.
Nell’individuo esiste quindi una forza (l’aspirazione alla superiorità) che
muove cognizioni, emozioni, comportamenti, da una condizione di minus
ad una di plus. Il sentimento di inferiorità e l’aspirazione alla superiorità
rappresentano due fasi dello stesso fenomeno psicologico, ovvero l’affermazione del se, che è propria tanto dei bambini quanto degli adulti. Il
sentimento sociale (definito da Adler «barometro della normalità››) permette invece la vita di gruppo e ciò favorisce il miglioramento dell’individuo.
Nessun uomo infatti può vivere in uno stato di isolamento. Tale sentimento, anch’esso innato, ha però bisogno di essere promosso fin dalla nascita
e diretto verso la madre, poi verso la cerchia familiare, e infine verso la
società. Ad esso si oppone la“volontà di potenza”, ossia l’aspirazione alla
superiorità sfociata nel desiderio di dominare gli altri. Dall’intreccio della
Dinamica interiore del sé (sentimento di inferiorità/aspirazione alla superiorità) e della Dinamica sociale (sentimento sociale) deriva ciò che Adler
ha definito stile di vita, che si struttura fra i 4 e i 6 anni e tende a man-
11
Francescato D., Tomai M., Mebane E. M., Psicologia di comunità per la scuola, l’orientamento, la formazione, Bologna, 2004.
12
Santinello M., Dallago L., Vieno A., Fondamenti di psicologia di comunità, Bologna,
2009.
13
Varriale, C., La dimensione psicologica di comunità, Napoli, 1996.
94
RACHELE TARANTINI
tenersi stabile per il resto della vita, a meno che non si confronti con fattori di notevole entità14.
Il metodo integrato di Francescato e collaboratori ha rappresentato il
paradigma di riferimento da arricchire con ulteriori curricoli. Tale modello
ha il suo fondamento teorico nella psicologia umanistica e comprende principalmente l’utilizzo del Metodo Gordon e del circle time, insieme ad una
serie di esercizi psicomotori. Il Metodo Gordon (o Metodo senza perdenti)
viene impiegato per la costruzione di una relazione efficace tra educandoeducato. La sua efficacia si basa sull’acquisizione della capacità di concepire qualsiasi relazione come uno scambio tra persone (con i propri difetti, i
propri limiti ma anche desideri, bisogni e sentimenti), indipendentemente dal
ruolo che ciascuno si trova ad esercitare (genitore o figlio, insegnante o alunno, dirigente o dipendente, e così via). Questa capacità consente: a chi esercita “il potere”, di viverlo con autorevolezza (quindi con soddisfazione dei
propri bisogni e di quelli dell’altro); a chi la recepisce, di trovarsi in una
posizione di confronto e reciproca accettazione. Sul piano pedagogico, in
particolare, si presenta come terza via all’educazione, in alternativa al Metodo Autoritario e al Metodo Permissivo.
Il circle time (dall’inglese “tempo del cerchio”) è una tecnica di intervento di gruppo mirata a favorire la conoscenza reciproca, la comunicazione e la cooperazione fra tutti i membri del gruppo (minore-minore e adulto-minore) e creare un clima di rispetto reciproco, in cui ognuno soddisfi il
proprio bisogno, sia di appartenenza che di individualità15. Durante il circle
time, i partecipanti siedono in cerchio e discutono un argomento o un problema proposto dal bambino/ragazzo (anche più bambini/ragazzi) o dall’educatore. L’insieme dei partecipanti al circle time costituiscono un piccolo gruppo di discussione con una struttura: 1) a bassa gerarchia (l’educatore assume il ruolo di «facilitatore›› della discussione, ma nessuna funzione autoritaria); 2) di tipo formale (luogo, tempo e norme che regolano la discussione restano costanti); 3) con l’obiettivo di creare un clima collaborativo e
amichevole fra i membri.
L’educazione corporea è finalizzata a migliorare nel minore le sue capacità di contatto con sé stesso, con l’ambiente che lo circonda e con gli
altri, a sviluppare la fantasia e la creatività personale16.
La psicologia razionale-cognitiva e la sua trasposizione in chiave educativa, operata da Mario Di Pietro, hanno permesso di trasferire ai minori la conoscenza che il pensiero influenza emozioni e comportamenti, e che è possibile
modificare i pensieri irrazionali per stare meglio con sé stessi e con gli altri.
14
15
16
Varriale, C., La dimensione psicologica di comunità, Napoli, 1996, cit. pp. 59-67
Francescato D., Putton A., Cudini S., Star bene a scuola, Roma. 2009.
Francescato D., Putton A., Cudini S., Star bene..., cit. p. 9-11
IL PROGETTO MARE (MINORI A RISCHIO DI ERCOLANO)
95
Infine, adoperando il curricolo di educazione all’altruismo di Michele De
Beni, abbiamo riflettuto sull’importanza delle dinamiche prosociali presenti
nell’essere umano e indispensabili per il suo benessere e per la sopravvivenza
della sua stessa specie.
Per quanto attiene alla progettazione, abbiamo utilizzato un approccio
concertativo-partecipativo, inquadrando ciascuna tappa del progetto in un’ottica di ricerca azione. L’approccio “concertativo o partecipato” parte da
un’ipotesi di cambiamento di una data realtà che è confrontata, negoziata,
concertata con i destinatari; viene data maggiore rilevanza alla tappa di attivazione e, a partire da questa, le varie tappe si influenzano reciprocamente. Inoltre, abbiamo adoperato un disegno pre-sperimentale, con un solo gruppo e due prove: pre-test e post-test. I disegni pre-sperimentali vengono così
chiamati perché utilizzati per esplorare nuovi problemi, o per mettere a punto
eventuali nuove ipotesi. Siamo ricorsi all’utilizzo di strumenti quantitativi e
qualitativi tipici della Psicologia di Comunità, quali: il questionario, la scala di atteggiamento, l’intervista, l’osservazione partecipante, il focus group,
l’analisi di comunità.
Per la valutazione è stato adoperato un approccio costruttivista coerente
all’approccio alla progettazione: sia nella fase di testing (mediante la somministrazione del T.V.S.V.P./ Test di Valutazione dello Stile di Vita del Preadolescente di Cosimo Varriale); che nella valutazione del comportamento dei
minori in itinere (mediante una griglia di osservazione)
Il T.V.S.V.P. consente di indagare le dinamiche adleriane dell’Aspirazione
alla superiorità (As), del Sentimento di inferiorità (Si) e del Sentimento Sociale (Ss). Il test è costituito da 30 vignette, in ciascuna delle quali è raffigurato sulla sinistra un individuo o un gruppo di individui (bambini o adulti), nell’atto di dire alcune parole ad un soggetto (rappresentato sempre come
un preadolescente) collocato sulla destra. Il soggetto a destra – nel quale chi
risponde può identificarsi- è raffigurato con in alto un “fumetto” vuoto. Gli
stimoli grafici sono poco strutturati (con figure stilizzate, asessuate e senza
volto), affinché il soggetto possa proiettare le sue caratteristiche: idee, atteggiamenti, bisogni, ansietà, conflitti, etc.17). Le risposte vengono articolate in
due macro-dimensioni: Dinamica interiore del sé (DIS) e Dinamica sociale
del sé (DSS). La Dinamica interiore del sé (DIS) include le risposte che si
riferiscono all’Aspirazione alla superiorità (As) oppure al Sentimento d’Inferiorità (vedi Tabella: DIS). Viene valutata la direzione della risposta, se
concerne l’Aspirazione alla superiorità (As) potrà essere Aggressiva (Ag)
oppure Difensiva (Di); mentre nel caso si tratti di risposta di Sentimento di
inferiorità (Si), potrà essere del tipo Inferiorizzazione di ruolo (Ir) oppure del
17
Varriale C., Marengo A.,Valutazione dello stile di vita e intervento educativo: Metodologie e tecniche psicodiagnostiche su base adleriana in ambito scolastico, Napoli, 1994.
96
RACHELE TARANTINI
tipo Inferiorizzazioni familiari (If). La Dinamica sociale del sé (DSS) include quelle risposte che si riferiscono al Sentimento sociale (Ss) del soggetto
e che possono essere di tipo Affiliativo (Af), di tipo Collaborativo (Co) e
di Chiusura (Ch) verso il mondo esterno. Il prevalere nei punteggi (parziali
o totali) di valori negativi, indica un prevalere del Sentimento di inferiorità
(di tipo Ir e/o If) e delle sue dinamiche nell’ambito della Dimensione interiore del sé (DIS) ed il prevalere della Chiusura nell’ambito della Dinamica
sociale del sé (DSS). Viceversa, il prevalere nei punteggi (parziali o totali)
di valori positivi indica un prevalere dell’Aspirazione alla superiorità (di tipo
Ag e/o Di) e delle sue dinamiche nell’ambito della Dimensione interiore del
sé (DIS) ed il prevalere del Sentimento sociale (di tipo Af e/o Co) nell’ambito della Dinamica sociale del sé (DSS).
La scelta del test T.V.S.V.P. è stata dettata dalle caratteristiche del contesto di somministrazione che imponevano: 1) brevità dei tempi di somministrazione; 2) facilità di lettura ed interpretazione dell’informazione richiesta; 3) e la valutazione contemporanea della dinamica intrapersonale e interpersonale. Altri strumenti valutativi ricercati, ma non rispondenti ad una
o più delle caratteristiche suddette sono: la Scala di Autostima di Alice Pope
(che consente di valutare soltanto la dinamica intrapersonale); il Test Multidimensionale dell’Autostima ed il Test delle Relazioni Interpersonali di Bruce
Bracken (si tratta di due test a risposta multipla, rispettivamente formati da
150 e 35 items).
La griglia di osservazione del comportamento comunicativo ha consentito la valutazione del comportamento quotidiano di ogni componente del
gruppo sperimentale, mediante tredici items (Rispetta le idee dei compagni;
È tranquillo e disponibile; Rispetta le regole; Ascolta chi sta parlando; Motiva i suoi interventi; Partecipa alla discussione; etc.).
Per la valutazione dei descrittori sono state utilizzati tre indicatori:
SI (sempre), se il comportamento si è verificato in maniera significativa nel corso dell’in-contro;
P (qualche volta), se il comportamento si è verificato in maniera non
significativa nel corso dell’incontro;
NO (mai), se il comportamento non si è mai verificato.
Inoltre è stato adoperata la lettera A per indicare i bambini fisicamente
assenti.
Infine, a ciascun indicatore è stato assegnato un punteggio crescente, con
un punteggio massimo per la risposta SI e minimo per la risposta NO.
Il progetto M.A.R.E. prende il nome dall’acronimo Minori A Rischio di
Ercolano. Tale progetto ha coinvolto 8 minori a rischio dell’età di 8 anni,
residenti in una delle aree più degradate della città di Ercolano dov’è forte
la presenza camorristica ed elevato il rischio di violenza e devianza. Il progetto è stato strutturato in 4 fasi.
IL PROGETTO MARE (MINORI A RISCHIO DI ERCOLANO)
97
La prima fase ha riguardato l’analisi di comunità, attraverso l’elaborazione dei vari profili: territoriale, demografico, delle attività produttive, istituzionale, dei servizi, antropologico, psicologico, del futuro. Sono stati utilizzati vari strumenti per la ricerca: osservazione; ricerche su internet; consultazione di documenti ufficiali; interviste ai responsabili di varie istituzioni (Uffici del Comune, Ufficio per l’impiego; Scuole; Parrocchie; Associazioni). Si è passati poi allo studio dell’area suburbana di nostro interesse,
per rilevarne non soltanto le problematiche e i bisogni, ma soprattutto per
valutare i punti di forza sui quali innestare un possibile cambiamento per
migliorare le condizioni di vita di coloro che vi abitano. Gli strumenti utilizzati in questa fase sono stati: la passeggiata; un’intervista libera alla gente del posto; un’intervista libera ad giovane viceparroco, un’intervista libera
ai dirigenti delle scuole primaria e secondaria di primo grado presenti nell’area suburbana.
Nella seconda fase è avvenuto il primo contatto con la comunità oratoriana
che ci ha consentito di inserire il percorso di educazione socio-affettiva all’interno del campo estivo organizzato dai volontari della durata di due settimane,
che per il sesto anno consecutivo vedeva coinvolti una sessantina di minori a
rischio (appartenenti alla fascia di età compresa tra gli 8 e i 13 anni) e una
ventina di volontari. Nell’incontro successivo è stato organizzato un focus
group nel quale veniva sinteticamente presentato il percorso di educazione socio-affettiva, sia al responsabile che ai volontari partecipanti al campo, e veniva
chiesto loro di esprimere informazioni, domande, dubbi a riguardo. Successivamente è stata valutata la modalità di scelta del gruppo sperimentale, motivata
dall’esigenza di lavorare con un piccolo gruppo e dalla volontà di evitare che
il criterio adottato, rappresentasse un fattore di discriminazione per i non partecipanti. Alla fine (dividendo i partecipanti in base all’età e considerando il
gruppo di numero inferiore rispetto agli altri), la scelta è caduta sul gruppo
avente 8 anni, composto da 11 bambini (4 femmine e 7 maschi), di cui solo 8
sono risultati i partecipanti effettivi (2 femmine e 6 maschi). Successivamente
è stata elaborato un questionario per la richiesta di dati anamnestici (nome,
cognome, età, caratteristiche fisiche, caratteristiche di personalità, situazione
scolastica, situazione familiare), riguardanti i componenti del gruppo sperimentale, somministrato al responsabile dell’oratorio. Dalle informazioni raccolte è
risultato che ciascun minore aveva un nucleo familiare caratterizzato da estremo
disagio sociale e culturale. Per questo motivo le attività e i giochi sono stati modificati (evitando riferimenti espliciti a situazioni che potessero creare uno stato
di disagio emotivo) nel pieno rispetto della storia personale dei singoli partecipanti. Inoltre si è provveduto a scegliere e/o a adattare le attività in relazione
allo spazio aperto caratterizzante il setting (l’espressione “tempo del cerchio”
è stata presentata con un enorme scritta colorata; sono stati utilizzati, inoltre:
una lavagna, un tappeto disteso sull’erba, tavolini e sedie).
98
RACHELE TARANTINI
La terza fase è stata quella di attivazione del percorso. Nel corso dei 10
incontri (della durata di 50 minuti ciascuno, in cui venivano svolte due attività diverse) sono state alternate attività ludiche, autonarrazione, momenti di dialogo e confronto tra i minori. Il primo incontro, in particolare, ha rappresentato
il momento del primo contatto con il gruppo sperimentale: i bambini sono stati
invitati a sedersi in cerchio ed è stato loro comunicato di stare a proprio agio,
di sentirsi liberi di esprimere eventuali bisogni e richieste (proprio tale approccio ha permesso che alcuni di loro decidessero di non partecipare al percorso
educativo, in piena libertà e senza sentirsi rifiutati o giudicati negativamente).
È seguito poi un momento di autopresentazione: il facilitatore ha invitato i bambini a comunicare agli altri il proprio nome e altre informazione di sé stessi che
preferivano. Di seguito è stato presentato lo slogan che sintetizzava il significato del percorso che insieme avremmo compiuto: “Emozioni e Pensieri possono essere amici o nemici. Impariamo a renderli amici”. Alcune domande
hanno introdotto l’attività di esplorazione iniziale riguardante le emozioni: è
stato chiesto “Cosa fosse un’emozione e quali emozioni conoscessero”; poi,
mostrando le Carte Emotive di Di Pietro, ciascuno è stato invitato ad indicare
l’emozione rappresentata nell’immagine. Infine è stato somministrato il test
T.V.S.V.P., per valutare lo stile di vita di ciascun bambino prima del percorso.
Una parte degli incontri ha riguardato un aspetto specifico del rapporto tra pensieri ed emozioni (es: I Attività – “Sensazioni del corpo- Sensazioni del cuore”;
II Attività – “Così penso, così mi sento”); un’altra parte ha riguardato lo sviluppo della capacità empatica e della pro-socialità (es: II Attività – “Ascoltami...
ti racconto”; II Attività – “Non aver paura, ti guido io”).
Questa fase inoltre ha previsto la somministrazione del T.V.S.V.P. e la
raccolta di informazioni (attraverso una griglia di osservazione) sul comportamento comunicativo assunto in itinere dai componenti del gruppo sperimentale e sulle attività svolte (mediante un diario di bordo).
La quarta ed ultima fase ha riguardato la valutazione dei risultati del
testing e degli esiti complessivi del percorso.
In fase di Pre-test è emersa la prevalenza di valori positivi, sia per quanto riguarda le dinamiche nell’ambito della Dinamica interiore del sé (DIS),
sia nell’ambito della Dinamica sociale del sé (DSS). Nello specifico la tabella consente di dedurre: il prevalere dell’Aspirazione alla superiorità, con
risposte di tipo aggressivo (Ag) e delle sue dinamiche nell’ambito della Dimensione interiore del sé (DIS); ed il prevalere del Sentimento sociale, con
risposte di tipo collaborativo/valutativo (Co), nell’ambito della Dinamica
sociale del sé (DSS). Inoltre, relativamente alla dimensione del Sentimento
d’inferiorità prevalgono risposte di inferiorizzazione di ruolo (Ir). La medesima valutazione concerne i risultati del Post-test, per quanto attiene alla
valutazione delle due macrodimensioni (DIS e DSS). Inoltre si evince un
incremento del punteggio sia nella DIS che nella DSS: nello specifico del-
IL PROGETTO MARE (MINORI A RISCHIO DI ERCOLANO)
99
l’Aspirazione alla superiorità nella direzione Ag (risposte di tipo aggressivo); e del Sentimento sociale nella direzione Co (risposte di tipo collaborativo/valutativo). Diminuiscono invece: il punteggio dell’ Aspirazione alla
superiorità, nella direzione Di (risposte di tipo difensivo); il punteggio del
Sentimento d’inferiorità (SI), sia nella direzione di inferiorizzazione di ruolo (Ir) che nella direzione di inferiorizzazione familiare (If); il punteggio del
Sentimento sociale nella direzione Af (ma non in maniera significativa) e
nella direzione Ch (risposte di chiusura).
Dalla valutazione complessiva emergono due dati interessanti. Il primo
concerne il fatto che il gruppo sperimentale era già caratterizzato positivamente nella fase di input, sia nell’ambito della Dimensione interiore del sé
(DIS), sia nell’ambito della Dinamica sociale del sé (DSS). Il secondo è il
dato positivo che emerge a conclusione del percorso educativo, risultante non
solo dall’incremento delle macrodimensioni succitate, ma soprattutto dal decremento dei punteggi relativi al Sentimento d’inferiorità, in entrambe le
direzioni, e della Chiusura per quanto attiene al Sentimento Sociale.
Tali risultati sono stati confermati dalla valutazione del comportamento
assunto in itinere. I comportamenti presentati nella griglia di osservazione
sono stati classificati in un’apposita tabella in base al valore medio che ciascun comportamento ha assunto nell’arco temporale in cui è stato strutturato il percorso di ricerca Nella parte alta della classifica, tra i comportamenti che hanno ottenuto maggior punteggio positivo (1<n<2) sono emersi: 1)
Rispetta le idee dei compagni; 2) È tranquillo e disponibile; 3) Rispetta le
regole; 4) Ascolta chi sta parlando; 5) Motiva i suoi interventi; 6) Partecipa
alla discussione; 7) Alza la mano per chiedere di intervenire.
Mentre i comportamenti che hanno ottenuto un punteggio inferiore ad
uno (n<1), sono stati: 1) Chiede informazioni, pareri, suggerimenti; 2) Fornisce informazioni, pareri, suggerimenti; 3) Rilancia suggerimenti.
Infine, i comportamenti che hanno ottenuto un punteggio negativo (n<0),
sono stati: 4) Incoraggia la partecipazione; 5) È aggressivo nella comunicazione; 6) Crea confusione.
Dai risultati della valutazione, avvenuta in itinere, emergono caratteristiche positive dal punto di vista relazionale. Tale dato, conferma il fatto che
il gruppo fosse già in origine positivamente caratterizzato nella Dinamica
sociale del sé (DSS).
In conclusione possiamo ritenere di aver dimostrato la validità del lavoro compiuto, dal punto di vista sia teorico che pratico, seppure non si
esclude: da una parte, la possibilità di arricchire e migliorare quello che potremmo definire un nuovo paradigma nell’ambito dell’educazione socio affettiva (ad esempio mediante una ricerca che ricorra all’utilizzo del disegno
sperimentale); dall’altra, l’applicazione di tale percorso in contesti educativi
formali.
100
ANTONIETTA PORZIO
L’UDI E LA SALVEZZA DEI BAMBINI DI NAPOLI
101
L’UDI E LA “SALVEZZA” DEI BAMBINI NAPOLETANI.
VALORE SOCIALE DELLA MATERNITÀ E POLITICHE
PER L’INFANZIA (1944-1975)1
Antonietta Porzio
Gli anni dell’immediato dopoguerra sono caratterizzati da vasti movimenti di solidarietà nazionale e popolare. Uno dei principali campi d’intervento
è costituito dall’assistenza all’infanzia. Le iniziative per l’infanzia affamata,
spaventata, che la guerra aveva prodotto, si alimentano, infatti, di una grande solidarietà popolare nella quale confluiscono i contributi di molte organizzazioni, di singoli cittadini e soprattutto di donne. Anche l’Udi2 si impegna notevolmente in questo settore. In particolare, essa figura tra le associazioni alle quali le autorità dell’Italia liberata, le Commissioni di controllo alleate e, successivamente, le strutture governative e le amministrazioni
locali fino al 1947 riconoscono un ruolo nella gestione dell’assistenza, soprattutto rivolta all’infanzia3.
Sin dalla sua fondazione, il Comitato d’iniziativa dell’associazione crea
una Commissione per la salvezza dei bambini. In un’intervista pubblicata su
“L’Unità”, Marisa Cenciari, Maria Martini- Muso e Giuliana Nenni chiedono l’appoggio del governo, dei municipi, delle autorità alleate alle attività
che le donne dell’Udi svolgeranno a favore dell’infanzia. Esse sostengono
la necessità di salvare i bambini da un “irrimediabile deperimento”4 .
Al terzo punto del programma dell’associazione, diffuso nel 1945 in
occasione del primo Congresso, si afferma che “l’Udi impegnerà le sue energie nella difesa dei fanciulli, sia dal punto di vista sanitario che educativo,
e richiederà che siano garantite loro condizioni di vita che ne permettano un
normale sviluppo fisico e spirituale. [...] L’Udi si interesserà a tutte le istituzioni che si propongono la tutela dell’infanzia e offrirà loro la sua collaborazione. Sosterrà che tutte le forme di assistenza siano estese alle madri
nubili e a quelle sposate, ai bambini legittimi come a quelli illegittimi. E
1
Tesi in Storia Contemporanea discussa nell’anno accademico 2006-2007 all’Università di
Napoli Federico II, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea in lettere – indirizzo moderno –, relatore prof.ssa Gabriella Botti.
2
L’Unione donne italiane nasce a Roma il 12 settembre 1944 per iniziativa di alcune esponenti del movimento antifascista allo scopo di promuovere la mobilitazione politica delle donne.
3
M. Michetti, M. Repetto, L.Viviani, Udi, laboratorio di politica delle donne. Idee e materiali per una storia, 1984, Cooperativa Libera Stampa, p. 63.
4
La grande campagna dell’Udi per la salvezza dell’infanzia italiana, “L’Unità”, 6-10-1944.
102
ANTONIETTA PORZIO
chiederà che la direzione delle istituzioni infantili sia affidata a persone competenti dal punto di vista tecnico, sanitario e pedagogico”5.
Nell’ambito delle attività che l’Udi struttura in un vero e proprio calendario annuale (così da garantire una continuità di presenza e di immagine
dell’associazione) numerose sono quelle che riguardano i bambini. Tra esse
figurano la celebrazione della giornata internazionale dell’infanzia (1° giugno), l’assistenza estiva attraverso la gestione di campi solari, colonie, campeggi, il rientro a scuola, l’assistenza invernale, la distribuzione di pacchi
dono, l’organizzazione di feste natalizie. “Siamo nel dicembre 1945: il più
gelido, il più nero, il più gelato. Guardate nelle case della povertà affamata
e assiderata: là dove manca il cencio che ricopre le membra e il tozzo che
richiuda la bocca del bimbo piangente. [...] Ora dove l’opera del governo
non può giungere, giunge l’Udi. [...] Queste donne di ogni fede, che nei giorni dell’oppressione erano messaggere e animatrici di resistenze armate, oggi
in mezzo a difficoltà quasi insuperabili, hanno promosso la costituzione del
Comitato Assistenza Invernale a cui hanno aderito altre associazioni.
Queste donne attendono a resuscitare quello che sembra sommerso nelle rovine di una tragica pace: le scuole, gli asili d’infanzia, i centri di assistenza diano vestiti, legna, medicine. [...] Le donne del Comitato assistenza
pacchi per il Natale, certe della solidarietà nazionale”6.
Tra le iniziative di solidarietà rivolte all’infanzia negli anni del dopoguerra assumono particolare rilievo le campagne di ospitalità familiare ai
bambini più colpiti dalla guerra e bisognosi di assistenza. Per problemi pratici (la difficoltà di trovare in quei tempi di distruzione e penuria altre soluzioni), ma soprattutto “per una fantasia che poggia sulla concezione dell’infanzia felice, si pensa di ospitare i bambini delle zone più sfortunate
non in istituti, bensì presso famiglie di zone non tanto più fortunate ma
soprattutto più ricettive ad accogliere “gente di fuori” bisognosa non come
un corpo estraneo ad accettarla e inserirla pienamente nel contesto familiare e sociale”7.
L’iniziativa, che ha luogo dal 1945 fino agli inizi degli anni Cinquanta,
conosce il massimo sviluppo tra il ’46 e il ’47 (nel periodo esaltante della
vittoria della repubblica, della Costituente, delle affermazioni elettorali delle sinistre)8 e vede impegnate sul piano nazionale l’Udi e le organizzazioni
5
“Quaderni Flap” n. 7, 1978 e “Noi Donne” n. 6/7, 1945, in M. Michetti, M. Repetto, L.
Viviani, Udi, laboratorio di politica delle donne, cit., p.40 .
6
Albero di Natale, “L’Unità”, 9-12-1945.
7
D. Gagliani, Welfare State come umanesimo e antipatronage. Un’esperienza delle donne
nel secondo dopoguerra, in D. Gagliani (a cura di), Le donne e la sfera pubblica, Bologna,
CLUEB, 1995, pp.170-171.
8
A. Minella, N. Spano, F. Terranova, Cari bambini vi aspettiamo con gioia ... Il movimento di solidarietà popolare per la salvezza dell’infanzia negli anni del dopoguerra, Milano,
Teti editore, 1980, p. 36.
L’UDI E LA SALVEZZA DEI BAMBINI DI NAPOLI
103
politiche della Sinistra e in alcuni casi anche organismi amministrativi comunali e provinciali, altri enti e istituzioni. I trasferimenti coinvolgono circa 70.000 bambini.
I primi a compiere l’esperienza sono quelli milanesi, per iniziativa di
alcuni rappresentanti del PCI, tra cui Teresa Noce. Quest’ultima, rientrata dal
campo di sterminio di Ravensburg, riprende il suo posto ai vertici del Partito comunista nella delegazione Alta Italia e, in quanto responsabile del lavoro femminile, mostra particolare attenzione verso i problemi delle donne
e dell’infanzia. Per l’inverno del 1945 si preoccupa di trovare ospitalità per
i bambini più bisognosi di Milano presso le famiglie dei “compagni dell’Emilia”. Inizialmente il progetto riguarda i figli di coloro che erano stati in carcere o i figli dei partigiani, ma la disponibilità di oltre quattromila famiglie
emiliane consente di coinvolgerne tanti altri9.
L’iniziativa, che consente al Partito comunista di ottenere un grande
consenso popolare, soprattutto a Napoli, quando il progetto verrà esteso ai
bambini della città, viene gestita dalle donne dell’Udi. Nella riunione della
direzione del partito in cui si discute la proposta relativa ai bambini milanesi, la stessa Teresa Noce dichiara: “Il problema è di vedere se la cosa bisogna farla come Partito o come Udi. Si sarebbe dell’avviso che l’iniziativa
dovrebbe essere del Partito, anche perché attraverso il Partito si può esercitare un controllo sulle Federazioni. Noi vogliamo fare una cosa che effettivamente popolarizzi il nostro Partito e quindi vogliamo fare una cosa seria,
con un senso di responsabilità. Però alla base, potremmo interessare alla
questione anche l’Udi10.
In Emilia, oltre ai bambini di Milano, trovano ospitalità anche quelli di
Torino.
Nel V congresso nazionale del Partito comunista tenuto a Roma dal 26
dicembre del 1945 al 6 gennaio del 1946, Palmiro Togliatti, dopo aver elogiato l’iniziativa di solidarietà popolare verso i bambini di Torino e di Milano, ne propone l’estensione alle regioni meridionali, alla cui arretratezza
storica si aggiungono le devastazioni e le sofferenze della guerra11. Nella
seduta del 31 dicembre Raoul Silvestri, uno dei tredici delegati della federazione di Frosinone, chiede aiuto per i bimbi di Cassino, una delle città più
distrutte d’Italia. In tale clima in tutto il Nord Italia si moltiplicano le offerte di ospitalità a tal punto che il 5 gennaio si delibera di destinare 9.000
9
T. Noce, Rivoluzionaria professionale, Milano, La Pietra, 1974, p. 342.
Riunione della direzione del 16 ottobre italiano, in Archivio Partito comunista Italiano,
Verbali della Direzione,1945,II, 32/1, cit. in A, Rossi-Doria, La donna sulla scena politica,in
Storia dell’Italia Repubblicana,volume primo, La costruzione della democrazia, Torino, Einaudi, 1994, p. 803.
11
Cfr. A Minella, N. Spano, F. Terranova, Cari bambini, vi aspettiamo con gioia ...,cit.,
p. 36.
10
104
ANTONIETTA PORZIO
opportunità ai bambini napoletani dopo aver soddisfatto le richieste di Cassino e di Roma12.
Napoli, città colpita da oltre 100 bombardamenti
Napoli è la prima grande città ad essere liberata, ma è anche tra le più
colpite dal conflitto. Dal 10 giugno 1940 la città subisce oltre 100 incursioni aeree, inizialmente condotte di notte contro obiettivi di carattere militare
e poi effettuate di giorno da grosse formazioni volanti americane, con intenti apertamente terroristici, per provocare la paralisi del porto, la cessazione
delle attività produttive. Tra le più violente, quelle del 4 e del 28 aprile 1943,
del 29 maggio, del 2 giugno, del 15 e 17 luglio, la devastante incursione
del 4 agosto e il bombardamento del 24 dello stesso mese13.
Il paesaggio urbano che si presenta all’arrivo degli alleati il primo ottobre 1943 è così descritto nel Rapporto Hume: “Al tempo del nostro arrivo la città era in oscuramento. Non vi era corrente elettrica, gas, fognature,
mezzi per raccogliere i rifiuti, la possibilità di seppellire i morti, segnalazioni antiaeree, telefoni, servizi di ambulanze, servizi antincendi, telegrafo,
servizio postale, vetture tranviarie, pullman, taxi, funicolari, ferrovie e regolare rifornimento d’acqua. L’acqua era scarsa a tale punto che la popolazione non ne aveva più di un quarto a persona. Gli ospedali erano stati spogliati dalle loro attrezzature e rifornimenti. La biblioteca e le altre parti dell’antica università erano fumanti rovine. Nessuna scuola era aperta. I tribunali non erano in funzione. Il grande porto, secondo in Italia, era quasi interamente distrutto. Tutte le banche erano chiuse e il sistema finanziario della
città completamente bloccato. Vi era immondizia nelle strade e tutti i negozi erano chiusi14”.
La città viene liberata dal nemico, ma con esso non scompaiono tanti
problemi, anzi ne nascono di nuovi. A seguito della liberazione Napoli viene occupata dagli alleati e ad una situazione già catastrofica si aggiungono
altra violenza e degrado. L’occupazione alleata si rivela complessa e ambivalente. Ai numerosi casi di fraternizzazione si affiancano, infatti, svariate
forme di violenza: furti, rapine, stupri. Diffusissimi sono il mercato nero e
la prostituzione15.
12
Ibidem.
G. Gribaudi, Guerra totale. Tra bombe alleate e violenze naziste. Napoli e il fronte
meridionale 1940-1944, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, p.12.
14
Col. Edgar E. Hume, Region 3 (Fifth Army) 9 September 1945-15 December 1943, cit.
in A. Papa, Napoli: il trauma della liberazione in Salerno Capitale, Istituzioni e società, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 1986, p. 409.
15
M. Porzio, Arrivano gli alleati! Amori e violenze nell’Italia liberata, Laterza, Roma- Bari,
2011; G. Chianese, Quando uscimmo dai rifugi. Il Mezzogiorno tra guerra e dopoguerra (19431946), Carocci, Roma, 2004; P. De Marco, Polvere di piselli, Napoli, Liguori 1996.
13
L’UDI E LA SALVEZZA DEI BAMBINI DI NAPOLI
105
“L’Unità” del 14 settembre 1944 invita a guardare Napoli “dietro il paravento della miseria”. Così Matilde Serao aveva chiamato il Rettifilo, e scrive:
“nei quartieri vecchi e sporchi dove ci sono bambini laceri e affamati, ragazze
dalle facce stanche e invecchiate sotto la vernice di assurdi rossetti” 16.
In tale contesto si diffondono le malattie legate al meretricio di migliaia
di minorenni napoletane. “Bambine malate e gravide a tredici anni e persino
a dieci anni e mezzo. L’altro giorno è stata ricoverata una bambina di dodici
anni battuta violentemente dal padre che non riesce a guadagnare più di 2000
lire al giorno, mentre la sorella quattordicenne ne guadagna quasi 5000 con i
negri”17.
Il freddo invernale è reso ancora più insopportabile dalla mancanza di
indumenti adatti e calzature adeguate. I tessuti e il cuoio per anni sono stati
riservati, infatti, alle esigenze delle Forze Armate, portando il costo dei capi
di abbigliamento a livelli insostenibili per la maggioranza della popolazione. I napoletani si servono di cappotti e di vestiti completamente consunti e
rattoppati e calzano scarpe inadatte alla stagione o adattate alla meno peggio. Stevenson nel suo rapporto rimane colpito dalle condizioni in cui a
Napoli camminano i bambini e le donne e scrive: “Le scarpe sono praticamente impossibili a trovarsi. La maggior parte dei bambini sono scalzi e la
maggior parte delle donne portano zoccoli di legno o di sughero e un suono caratteristico delle città italiane oggi è il “clop, clop, clop” delle calzature di legno”18.
La scarsa nutrizione priva, poi, il corpo del calore necessario, rendendolo
particolarmente sensibile al freddo. Grave è, infatti, a Napoli la situazione alimentare, critica già prima dello sbarco degli alleati. Al loro arrivo, anche a
causa del pessimo stato delle vie di comunicazione e per la situazione del
porto, la città è ridotta letteralmente alla fame. Le autorità alleate sono assillate
dalla necessità di privilegiare il trasporto di armi e di forniture militari necessarie per sostenere in conflitto ancora in atto. Razionano, perciò, i pochi generi
che sono in grado di assicurare limitando inizialmente la distribuzione quotidiana a 150 grammi di pessimo pane e 40 di pasta ancora più scadente. Si
sopravvive soltanto grazie alla borsa nera, ben presto organizzata in grande
stile con la cooperazione determinante dei militari alleati19. La scarsa nutrizione, la tubercolosi, le malattie respiratorie, l’insalubrità dell’ambiente sono le
16
Il paravento della miseria, “L’Unità “, 14-9-1944.
Ivi.
18
Rapporto di A. Stevenson per conto della Foreign Economic Administration, cit. in P.
De Marco, Polvere di piselli, p.172, cit.
19
A. Ghirelli, Napoli italiana. La storia della città dopo il 1860. Torino, Einaudi, 1977,
p. 269; G. Gribaudi, Napoli 1943-1945. La costruzione di un’epopea, in “Italy and America
1943-1944: Italian, American and Italian-American. Experiences of Liberation of the Mezzogiorno”, Atti del convegno tenutosi presso l’Università del Connecticut, hartford, 21-23 aprile 1995,
Città del Sole, Napoli, 1997, pp. 297-329.
17
106
ANTONIETTA PORZIO
principali cause della morte infantile, il cui indice è elevatissimo: il 25% di cui
il 12% avviene nel primo anno di vita20. Nel 1944 il numero delle morti supera
quello delle nascite. In un’indagine dello stesso anno effettuata dall’Ufficio
sanitario del Comune di Napoli su diecimilaottocentotre ragazzi dai sei ai quindici anni, si legge che in generale il peso medio e l’indice toracico sono sotto
la soglia della normalità. Il 23,8% dei bambini risulta anemico e denutrito,
l’1,27% è affetto da tracoma, un’infezione batterica della cornea e della congiuntiva, l’1,37% è malato di scabbia, lo 0,70% ha una grave carenza vitaminica, detta “ipovitaminosi da povero”.
La stessa indagine evidenzia anche l’aspetto psicologico del dramma
che i ragazzi sono costretti a vivere. Le anomalie psichiche sono legate
alla debilitazione e alla miseria, ma soprattutto allo stato di abbandono
morale21. Di fronte a tale situazione bisogna correre ai ripari. La prima
emergenza da affrontare è quella di togliere i tanti bambini dalla strada.
Oltre i ragazzini costretti dalla miseria a lavorare, c’è, infatti, il drammatico problema dei bambini, che, a causa della chiusura di molti asili, si
vedono girovagare per le strade. J. H. Burns scrive: “Napoli è il più vasto
vivaio di bambini del mondo. Appena fuori dalle fasce, eccoli subito per
la strada. Imparano a camminare ed a parlare nei rigagnoli. Molti sembrano viverci. Via via che il coprifuoco veniva spostato ad ora sempre più
tarda, i bimbi di Napoli passavano le serate sui marciapiedi. Se dovesse
rimanermi impressa nella memoria una sola immagine del caleidoscopio
napoletano, sarebbe quella di un fratello e di una sorella di età inferiore ai
dieci anni addormentati sul marciapiedi nel sole con un pezzo di pane nero
rosicchiato accanto a loro”22.
Lo stesso autore descrive così gli scugnizzi che invadono le strade di
Napoli: “Non erano bambini, quegli scugnizzi, ma saggi, mesti, beffardi folletti. Vendevano Yank e Stars and Stripes. Si appiattavano fuori della mensa per comperare le mie razioni. Facevano i mezzani per le sorelle che mi
spiavano dietro il balcone del primo piano. Vendevano amuleti e distintivi
divisionali nelle strade. Si improvvisavano imbonitori di dolciumi che sembravano ciambelle o frittelle ma avevano il gusto della cartapesta arrostita.
Rubavano tutto con una destrezza, una furberia ed una costanza che mi facevano pensare alle antiche favole arabe23.
“La Voce” del 4 ottobre 1944 denuncia l’incresciosa situazione degli
scugnizzi a Napoli, che definisce “falsi cenciosi che si industriano nei mestieri più strani, molte volte spinti dagli stessi familiari e che spesso mo20
“La Voce”, 12- 1-1946.
G. Chianese, Napoli: Questione urbana e lotte sociali, in AA.VV., Italia 1945-1950.
Conflitti e trasformazioni sociali, Franco Angeli, Milano 1985, p. 105.
22
J. H. Burns, La Galleria, Milano, Garzanti, 1949, pp. 279-280.
23
Ivi, p. 280.
21
L’UDI E LA SALVEZZA DEI BAMBINI DI NAPOLI
107
strano al passante mucchi di biglietti di banca frutto di attività clandestine”. Si propongono come rimedi l’innalnzamento dell’obbligo scolastico a
14 anni, la garanzia di almeno un piatto caldo per gli scolari e, soprattutto,
la restituzione dei tanti edifici scolastici ancora occupati da uffici civili o
militari24. Le scuole elementari, ad esempio, che prima della guerra potevano ospitare circa 100.000 alunni, ora possono raccoglierne soltanto 30.000.
Istituti molto capienti quali il Principe di Napoli e il De Amicis, sono,
infatti, occupati25.
Agli edifici non liberi vanno aggiunti quelli non disponibili perché sinistrati. La stampa dell’epoca denuncia soprattutto la mancanza di vetri alle
finestre. È ancora la stampa a denunciare la drammatica situazione: “Tante
scuole si sono riaperte senza banchi, senza vetri, con un inverno umido. (...)
Le aule senza vetri sono un non senso, sono i germi della malattia e dell’epidemia, sono un delitto, la negazione della civiltà”26.
Le strade pullulano anche di bambini molto piccoli, ai quali le famiglie,
quando ci sono, hanno difficoltà a procurare il cibo giornaliero. Si tratta,
spesso, di bimbi abbandonati. Di fronte a tale situazione varie sono le iniziative di associazioni femminili, che cercano di prendersi cura dei piccoli
organizzando mense e attività ludiche. È quanto fa, ad esempio, la Sezione
femminile comunista nel quartiere Avvocata27.
L’Udi di Napoli sposa sin dal suo nascere la causa dell’assistenza all’infanzia. Si batte subito per l’apertura di asili in ogni luogo della città, ma
non riceve adeguati appoggi dalle autorità. A tal fine, nel dicembre 1944,
lancia un appello per ottenere la refezione calda, “perché l’Udi vuol evitare
ad ogni costo che centinaia di bambini siano domani minorati in conseguenza
dell’alimentazione deficiente”28.
In occasione del Natale 1944, l’associazione organizza per i bimbi dei
soldati dei prigionieri e dei profughi, la festa dell’albero di Natale, aprendo una sottoscrizione ed invitando tutti i cittadini a inviare doni e offerte
presso la sede di Via S. Bartolomeo29. Tale iniziativa consente a circa 400
bambini bisognosi, “laceri, scalzi e denutriti” di sorridere alla vista dell’albero e all’apertura dei doni30. Per tale ricorrenza la distribuzione di doni ai
bambini più poveri e la festa dell’albero di Natale si ripeteranno ogni anno.
Un’altra iniziativa è costituita dagli appelli dell’associazione alle famiglie
affinché ospitino nel giorno di Natale un bambino povero della città.
24
25
26
27
28
29
30
I ragazzi di Napoli, “La Voce”, 4-10-1944.
Il problema delle scuole, “La Voce”, 24-10-1944.
I vetri e le scuole, “La Voce”, 14-11-1944.
Fanciulli abbandonati, “La Voce”, 9-12-1944.
Asili e nidi per i nostri bambini, “La Voce”, 9-12-1944.
“La Voce”, 2-12-1944.
“La Voce”, 30-12-1944.
108
ANTONIETTA PORZIO
A favore dell’infanzia napoletana l’Udi organizza, in collaborazione con
altre associazioni, mense gratuite, come quelle destinate a 600 bambini (settembre 1945) nei locali di via Misericordia sulla base dei viveri UNNRA31.
Nel I Congresso provinciale dell’Udi, tenuto nella sala del chiostro di
S. Maria La Nova nell’ottobre del 1945, Ramaglia fa una relazione sulle
attività assistenziali dell’Udi, soffermandosi su quelle rivolte ai bambini. In
tale occasione viene proposto un miglioramento dei nidi e dei giardini d’infanzia32.
Il comitato per la salvezza dei bambini di Napoli
La campagna per i bambini di Napoli interessa diverse regioni del Centro
e Nord Italia. Giungendo quasi come un dono di Natale, essa ha inizio nell’inverno del 1946 e coinvolge circa 12.000 piccoli napoletani. Più tardiva
rispetto alle altre, questa campagna è quella più estesa e duratura, impegna
il maggior numero di comitati unitari, enti locali e famiglie, lasciando un
segno profondo in tutto il Paese. Di essa ha scritto un’ampia testimonianza
uno dei principali organizzatori dell’iniziativa, Gaetano Macchiaroli, “un
grande intellettuale dal costante e coerente impegno civile e culturale che per
tutta la vita ha sostenuto le ragioni del Mezzogiorno e che ha saputo dar
lustro e continuità alla vita politica e intellettuale di Napoli, della regione e
del Sud”33.
L’editore napoletano a proposito della situazione di Napoli nel dopoguerra aveva scritto: “C’è, nella grande tragedia di questo dopoguerra italiano,
una tragedia che è di Napoli in particolare: meno estesa nello spazio, certo,
ma forse anche più intensa di orrore. Solo, disgraziatamente, c’è anche di
questa tragedia, una retorica già tutta conformata e diffusa, quanto basti a
renderne superficiale e fuggitivo il senso delle coscienze, così naturalmente
obliose di molta parte degli uomini d’oggi”34.
Il valore politico e morale che tale esperienza rappresenta per tutto il
Mezzogiorno, e non solo per la città e per il movimento operaio a Napoli, è
sottolineato nella prefazione dell’opuscolo di Macchiaroli da Eugenio Doni31
“Il Risorgimento”, 24-9-1945.
Parlano le donne, “La Voce”, 9-10-1945.
33
L’ex presidente della Regione Campania, Antonio Bassolino, così definisce Macchiaroli
in occasione della scomparsa, avvenuta il 6 ottobre 2005, in La città in lutto per l’addio a
Macchiaroli, “Il Mattino”, 7-10-2005. Nello stesso numero vedi pure T. Marrone, Macchiaroli,
coscienza del sud; M. Valenzi, Le battaglie nella Napoli liberata; Tessitore, Un marxista nel
segno di Croce; vedi poi Macchiaroli, editore gentiluomo, “ Il Corriere del Mezzogiorno”, 710-2005.
34
G. Macchiaroli, Tragedia di Napoli, 1946, cit. in A. Profeta, Gaetano, Maestro suo
malgrado. L’altra Napoli degli anni sessanta. Scritti, racconti, testimonianze e documenti, Napoli, Imprint Edizioni, 2006, pp. 200-201.
32
L’UDI E LA SALVEZZA DEI BAMBINI DI NAPOLI
109
se, ex segretario della federazione napoletana del Partito comunista. Egli sostiene che, anche attraverso tale iniziativa, Napoli comincia a reagire alla grave
situazione del dopoguerra, mettendo in campo gli operai, gli intellettuali, il
popolino, le forze produttive che nel corso di un trentennio, partendo da un
rapporto difficile e talvolta antagonistico, diventeranno i protagonisti di un
grande e unitario movimento per il progresso produttivo e civile della città.
La scelta dei comunisti a Napoli fu di non separarsi da essa e dalle sue contraddizioni, superando, con impegno durato per anni, l’iniziale chiusura dei
quartieri “monarchici” verso la classe operaia contribuendo a unire le forze
progressiste di Napoli e Napoli nel Paese.
Se si riflette bene, questa linea è già lì, nello slancio con cui i comunisti si buttano nell’“avventura” di organizzare il soggiorno dei bambini poveri in Emilia. C’è la volontà di rompere l’ostilità del popolino nei confronti
della classe operaia, c’è la fiducia che il “centro” di Napoli può diventare
una forza consapevole e organizzata per il riscatto della città; c’è l’intuizione che i bisogni di Napoli non possono isolarsi e contrapporsi al resto del
Paese, come tenterà di fare il sovversismo di Lauro, ma debbono proiettarsi
fuori della città, diventare problemi nazionali: un’ispirazione di fondo, un filo
unitario che percorre la storia di questo trentennio”35.
Il 19 dicembre 1946 si costituisce il Comitato per la salvezza dei bambini di Napoli di cui fanno parte: Mario Alicata, direttore de “La Voce”,
Enrico Altavilla, commissario dell’Onmi, Luigi Auricchio, direttore della clinica pediatrica dell’Università degli Studi, Elena Buonocore, esperta di organizzazione assistenziale, Francesco Cerabona, ex ministro dei trasporti del
partito democratico del lavoro, Lidia Croce (uscirà dal gruppo dopo pochi
mesi), Gaetano Generali, presidente della sezione credito del Ceim36, Gaetano Macchiaroli (essenziale per il coordinamento dei trasporti), Francesco
Scaglione, provveditore agli studi, Maria Antonietta Macciocchi, (militante
del PCI) che assume il ruolo di segretaria del Comitato37. Fanno parte della
segreteria: Gennaro Rippa che assicura al Comitato un rapporto costante con
gli ambienti operai, Luciana Viviani che subentra nel Comitato ad Elena
Buonocore, Litza Cittanova38.
Il Comitato si propone di far ospitare i bambini più bisognosi della città presso famiglie nelle campagne dell’Italia centrosettentrionale meno pro35
G. Macchiaroli, Un’esperienza popolare del dopoguerra per la salvezza dei bambini di
Napoli, Napoli, Arte tipografica, 1979.
36
Centro economico italiano per il Mezzogiorno, costituito il 9 luglio 1946 per affrontare
i problemi della ricostruzione.
37
G. Buffardi, Quel treno lungo lungo, Il Comitato per la salvezza dei bambini di Napoli
1946-1947, Napoli, Dante & Descartes, 2010, pp. 31-32.
38
Moglie di Maurizio Valenzi, allora vicesegretario della federazione comunista napoletana. Cfr. L. Valenzi, Qualcosa su mia madre, Napoli, Regione Campania, Assessorato Pari opportunità, 2007.
110
ANTONIETTA PORZIO
vate dalla guerra (dove migliori sono l’ambiente e il cibo), reperire sedi operative nel centro e nella periferia, provvedere alla scelta dei bambini.
L’iniziativa della sua costituzione è di Giorgio Amendola, che viene eletto presidente. L’annuncio dell’evento appare in un articolo dello stesso Amendola su “La Voce” del 22 dicembre. “Il dovere più imperioso è quello di
salvare i bambini di Napoli, il nostro patrimonio più prezioso, la garanzia
del nostro domani. [...] Convinti della necessità di agire di fare qualche cosa,
ci siamo raccolti in un primo gruppo di pediatri, insegnanti, uomini e donne di buona volontà per lavorare uniti per i bimbi di Napoli. Fiduciosi che
altri cittadini di ogni classe sociale e opinione politica vorranno unirsi a noi,
ci siamo proposti un primo obiettivo pratico: strappare per questi duri mesi
invernali qualche migliaio di bimbi al freddo e alla fame inviandoli presso
famiglie che possono offrire loro una generosa ospitalità. [...] quest’anno
abbiamo pensato di convogliare verso Napoli, la più devastata tra le grandi
città, il movimento di solidarietà e abbiamo lanciato un appello che sarà
accolto, come già testimoniano le autorevoli adesioni dei sindaci di Bologna, Modena, Reggio Emilia, mentre altre ne stanno giungendo. [...] Ma se
possiamo contare sulla solidarietà attiva dei lavoratori del Nord e del Centro Italia, c’è un lavoro non facile che spetta a noi, a Napoli; [...] un lavoro
difficile che esige mezzi finanziari, cure, attenzioni infinite”39.
Giorgio Amendola si assume il compito più difficoltoso, quello di ottenere l’ospitalità presso le famiglie. Il prestigio di dirigente politico e militare della resistenza gli apre subito le porte delle amministrazioni comunali di
Bologna come di Torino40.
All’appello da lui lanciato rispondono, poi, in tanti, dall’Umbria alle
Marche, alla Toscana, alla Liguria, alla Lombardia, al Piemonte, al Veneto,
all’Emilia, “una terra organizzata per salvare i bambini”, come “La Voce”
intitola un servizio di Alberto Iacoviello, uno dei giornalisti più impegnati
per il successo dell’iniziativa41.
Non facile si presenta il compito di trovare delle sedi nella città di Napoli così gravemente distrutta dai bombardamenti. La volontà di strappare
tanti bambini alla miseria e alla fame spinge ad occupare in maniera furtiva
qualsiasi locale risulti temporaneamente libero, come nel caso della sede
amministrativa di una grande industria conserviera a S. Giovanni a Teduccio. Non si riesce ad ottenere il fitto dei locali e si approfitta allora del riposo pomeridiano del custode per entrarvi e sostituire la serratura. All’arrivo della polizia un centinaio di donne di Barra impedisce l’ispezione degli
uffici occupati. Ad opporsi sono Macchiaroli e soprattutto Litza Cittanova
39
40
41
“La Voce”, 22-12-1946.
G. Macchiaroli, Un’ esperienza popolare del dopoguerra, cit., p. 3.
Ibidem.
L’UDI E LA SALVEZZA DEI BAMBINI DI NAPOLI
111
che siede nel vano tra la sala d’ingresso e gli uffici interni e impedisce agli
agenti di entrarvi, rispondendo in francese alle loro domande. I due militanti,
denunciati “per aver organizzato e diretto a capo di una banda di persone
rimaste sconosciute, l’occupazione dei locali”, vengono poi assolti, perché i
locali sono ormai utilizzati per una grande mensa popolare gratuita per i
bambini di Barra e di San Giovanni, quando la causa viene discussa.
Una seconda sede, quella centrale, viene costituita a piazzetta Augusteo.
Qui il portiere dell’edificio (legato a Francesco Fezza, segretario della federazione comunista di Giugliano42) si mostra accondiscendente all’occupazione
dei locali, all’interno dei quali vengono ospitati migliaia di bambini del centro della città. La sede centrale viene poi trasferita temporaneamente a piazza
Dante n. 52 e poi a via Roma n. 205. La difficoltà di reperire le sedi riguarda anche i sottocomitati (corrispondenti ai vari quartieri della città) e così
si ricorre alle abitazioni dei componenti i sottocomitati43. La gestione concreta dell’operazione viene delegata alle donne. Un grosso contributo è dato
dalle donne dell’Udi. “Fu un momento fondamentale della nostra esperienza politica, le donne dimostrarono di saper organizzare loro in prima persona tutto quello che era necessario, dimostrarono di saper organizzare e dirigere un’impresa straordinaria anche dal punto di vista materiale”44.
Tra i problemi che le militanti si trovano ad affrontare vi è quello di
convincere le famiglie a lasciar partire i bambini. Questo è il compito più
arduo, perché la maggior parte dei genitori è analfabeta, non si è mai allontanata da Napoli, non ha rapporti con la classe operaia. Le condizioni dei
trasporti sono precarie e non funziona il telefono interurbano (ignoto alle
famiglie del popolo!). A ciò si aggiunge l’assurda propaganda di “cacciatori
di streghe” che cercano di ostacolare l’iniziativa, attribuendo ai promotori
intenti demoniaci45. “Furono messe in giro voci sui nostri propositi di tagliare
le mani ai bambini o di avviarli in Unione Sovietica donde non sarebbero
tornati, come i prigionieri di guerra. [...] Da parte di fascisti, monarchici,
democristiani, cominciò una corale denigrazione contro i comunisti, con una
vera campagna di terrore, questo perché le mamme diffidassero, sottraessero i figli “a chi li mandava a vendere chi sa a chi”46. In un articolo pubblicato su “La Voce” si legge che “nei primi giorni i bambini arrivavano persino ad avere paura di mangiare: avevano detto loro che sarebbero stati av42
G. Buffardi, “Quel treno lungo lungo...” Il Comitato per la salvezza dei bambini di
Napoli, cit., pp. 65-66.
43
“La Voce”, 2-3-1947.
44
Testimonianza di M. Macciocchi, in M. Mafai, L’apprendistato della politica. Le donne
italiane nel dopoguerra, Roma, Editori Riuniti, 1979, pp. 139-140.
45
Cfr. A, Minella, N. Spano, F. Terranova, Cari bambini vi aspettiamo con gioia, cit., pp.
5-6.
46
G. Macchiaroli, Un’esperienza popolare del dopoguerra, cit., pp. 3-4.
112
ANTONIETTA PORZIO
velenati. Altri avevano paura di tirar fuori le mani. Avevano detto loro che
le avrebbero tagliate”47. Lorica Filippi, che a Voltana48 si era occupata dell’accoglienza dei bambini che giungevano dal sud, ricorda: “I primi giorni i
bambini scappavano, quando dovevamo accendere il forno per cuocere il
pane, perché avevano paura49”. Lina Porcaro, militante del PCI che dà un
grosso contributo all’iniziativa, ricorda: “Le persone avevano paura, abbiamo mandato prima i nostri per far vedere, c’erano anche le mie sorelle che
io non avrei mandato, avevano perso anche la mamma... ma era proprio per
far invogliare gli altri”50.
Questa resistenza viene vinta grazie alla capacità delle donne, soprattutto
dell’Udi. Per facilitare l’opera di persuasione il Comitato cerca l’appoggio
dei parroci (che conoscono bene le famiglie), ma questi chiedono invano il
benestare della Curia vescovile, nonostante l’impegno degli organizzatori51.
Contro la diffidenza il Comitato rivolge anche inviti a medici e sacerdoti a
recarsi alla sede di via Roma per informarsi del funzionamento dell’iniziativa. Mentre si registrano defezioni nel Comitato promotore, come quello di
Enrico Altavilla, Elena Buonocore, Lidia Croce, un forte appoggio giunge
dalle cliniche universitarie. La clinica pediatrica diretta dal professor Luigi
Auricchio arriva a schedare circa quindicimila bambini, tra i quattro e i nove
anni52.
La “Croce rossa” offre il suo appoggio, così come le farmacie per la
fornitura gratuita dei medicinali e l’azienda tranviaria per gli autobus53. Il
sindaco di Napoli Giuseppe Buonocore, monarchico, mette a disposizione
alcuni locali nelle sezioni municipali per ospitare i bambini, il provveditore
agli studi offre varie aule scolastiche dove i bambini vengono muniti di documenti prima di partire. La partenza del primo scaglione di bambini, circa
1000, tra i cinque e i dieci anni, viene fissata per il 28 gennaio 1947 alle
ore 10,30 dalla stazione centrale54. Il raduno è a piazza Carlo III. Da qui ci
si sposta al vicino Albergo dei poveri dove i bambini vengono muniti di una
medaglietta di riconoscimento e di un numero di matricola. Assistiti dalle
volontarie dell’Udi e da quelle del Comitato i bambini fanno la doccia, la
colazione e vengono dotati di un piccolo corredo: un abito nuovo, un paio
di scarpe, calzini, un paltoncino per i maschietti, un cappotto di pelliccia per
47
“La Voce”, 8-5-1947.
Frazione del comune di Lugo (Ra).
49
G. Rinaldi, I treni della felicità. Storie di bambini in viaggio tra le due Italie, Roma,
Ediesse, 2009, p. 140.
50
Intervista di A. Porzio fatta il 20 ottobre 2005 a Lina Porcaro, militante del Pci.
51
G. Macchiaroli, Un’esperienza popolare del dopoguerra, cit., p. 5.
52
Vengono esclusi i bambini al di sotto dei quattro anni per evitare che il brusco cambiamento climatico potesse causare problemi di salute.
53
Ivi, pp. 8-9.
54
“Il Risorgimento”, 28-1-1947.
48
L’UDI E LA SALVEZZA DEI BAMBINI DI NAPOLI
113
le bambine ed un cappello55. “Li andavamo a lavare all’albergo dei poveri,
nel sottoscala, umido, bagnato, li lavavamo, pettinavamo, e i ragazzi avevano l’imbarazzo della scelta nel vestirsi, sceglievano quello che gli piaceva,
i cappottini di pelliccia56...”.
I cappotti vengono forniti dal ministro dell’assistenza post-bellica. Il resto
del materiale viene messo a disposizione soprattutto dai commercianti.
I piccoli vengono poi sistemati su appositi autobus, fanno la refezione
alla mensa dei ferrovieri e prendono posto sugli undici vagoni del treno in
sosta al binario 1257. Gli spostamenti avvengono con estrema cautela, facendo
corrispondere ogni aula dell’Albergo dei poveri ad un autobus e ognuno di
questi ad un vagone ferroviario.
Ciò nonostante, all’atto della partenza accade un inconveniente che la
fa slittare di circa due ore. Le mamme dei bambini, infatti, sottraggono i
cappotti ai figli in partenza per darli ai fratelli che restano a casa. L’episodio potrebbe compromettere la partenza con conseguenze gravi sull’organizzazione dei viaggi successivi e sulla già discussa reputazione dei “comunisti” organizzatori. La prontezza di questi ultimi consente, però, di evitare il
peggio. Si procede rapidamente ad una nuova “numerazione” dei bambini
che, al momento del lancio dei cappotti, sono già seduti secondo l’ordine
di elenchi opportunamente predisposti. In tal modo, alle 16,50 il treno, con
destinazione Bologna e Modena inizia la sua corsa tra le note dell’inno dei
lavoratori e il commosso commiato dei parenti58. Il viaggio è particolarmente
animato, vista la vivacità degli insoliti passeggeri che si divertono anche a
tirare i freni, interrompendo più volte la corsa. Questi comportamenti, oltre
a ritardare l’arrivo, rendono difficili i rapporti col capotreno. In Toscana e
in Emilia ad ogni stazione c’è un comitato dell’Udi a rifornire i bambini di
latte e viveri59. Giunti a Bologna, ricevono il saluto del sindaco della città,
Giuseppe Dozza, che sale sul treno. Il ristorante offre pasti caldi a tutti. È
sera e fa molto freddo, per cui si decide che la distribuzione dei bambini
avverrà soltanto la mattina dopo. Così avviene, dopodiché il treno prosegue
con notevole ritardo per Modena, dove tutti vengono accolti con lo stesso
calore e la stessa perfezione organizzativa. I bambini, stanchi e affamati,
vengono rifocillati con latte e biscotti alla Casa del Popolo. Donne dell’Udi,
rappresentanti del Partito comunista e di altri partiti curano l’opera di smistamento nei vari paesi della provincia. La distribuzione dei bambini è com55
“La Voce”, 28-1-1947.
Intervista di A. Porzio fatta il 20 ottobre 2005 a Lina Porcaro. Le due sorelle minori,
Giulia e Maria, soggiornano per circa quattro mesi presso due famiglie di S. Patrizio, frazione
di Conselici (Ra).
57
“Il Risorgimento”, 29-1-1947.
58
Ivi.
59
“La Voce”, 31-1 1947.
56
114
ANTONIETTA PORZIO
movente. Un bambino, Mario Musella, appare felice tra le braccia di una
contadina modenese. Alla domanda “Cosa vuoi dire a tua madre e a tuo
padre?”, egli risponde “Pateme nun o’ tengo. A mamma mia voglio dicere
che stongo buono e ch’ha voglio bbene”60. Qualche bambino ha in tasca una
lettera indirizzata alla famiglia di destinazione. “Sono una povera madre che
si permette di pregare a mani giunte affinché i fratelli dell’Italia settentrionale aiutino il mio bambino”. O ancora: “Mio figlio ha perso la mamma tre
anni fa sotto al bombardamento; siamo in otto in famiglia ; io sono disoccupato e nessuno lavora. È con dolore che lascio partire mio figlio, ma so
che voi, generosi emiliani, sarete loro come dei genitori”61.
L’elevato numero di richieste spinge ad organizzare per circa altri mille
bambini una nuova partenza che viene fissata per il 13 febbraio. L’annuncio viene dato da Maurizio Valenzi durante una conferenza stampa, nel corso della quale (oltre a sottolineare il successo dell’iniziativa dovuto soprattutto all’impegno profuso da tutti coloro che vi avevano contribuito) lancia
una grande sottoscrizione cittadina per sostenere i costi delle partenze successive. Annuncia, inoltre, che anche altri paesi, come la Francia e la Svizzera, hanno chiesto di ospitare i bambini napoletani62.
Altri appelli alla generosità degli enti e dei cittadini vengono ripetuti nei
mesi successivi, per poter organizzare altre partenze. Le risposte non tardano ad arrivare. Tra le altre, l’annuncio dell’azienda Autofilotranviaria del
Comune di Napoli della maggiorazione di 2 lire sui biglietti del 2 e 3 aprile “allo scopo di incrementare la raccolta dei fondi necessari per la realizzazione della lodevole iniziativa del Comitato Promotore per la salvezza dei
bambini napoletani”63.
Per il 30 marzo, Giornata del bambino, un folto gruppo di donne, coordinato da Maria Antonietta Macciocchi e Luciana Viviani, si organizza per
chiedere un contributo agli spettatori dei teatri, ai clienti dei caffè e delle
trattorie64. In occasione del Natale del 1947, su proposta di Litza Cittanova,
viene organizzata una grande lotteria attraverso la vendita di quadri di importanti autori65. La mostra viene allestita nella galleria d’arte la “Florida”,
messa gratuitamente a disposizione dal proprietario Enrico Accinni. Il catalogo dei 96 dipinti reca in copertina il ritratto di un bambino, un’opera del
1936 di Maurizio Valenzi.
Per il secondo viaggio l’appuntamento è a piazza Mario Pagano, presso
la scuola Angiulli. Alle donne napoletane dell’Udi e del Comitato si uniscono
60
A Modena una mamma per ogni bambino, “La Voce”, 1- 2-1947.
Mille scugnizzi arrivano in Emilia, “L’ Unità”, 2-2.1947.
62
“La Voce”, 11-2-1947.
63
“Il Risorgimento”, 2-4-1947.
64
“La Voce”, 30-3-1947.
65
Si tratta soprattutto di artisti napoletani ma figurano anche lavori di Craemer, Mafai,
Mirko, Sotgiu, ecc.
61
L’UDI E LA SALVEZZA DEI BAMBINI DI NAPOLI
115
alcune mamme di Modena e Bologna, ospiti a Napoli per una settimana66.
“Quando poi nei primi tempi non arrivano le lettere, il prete, le famiglie
preoccupate ...”67. Ma dall’Emilia le famiglie scrivono. La famiglia Panza di
Bonporto, in provincia di Modena, scrive così alla famiglia Schibeci di Napoli “Giovanni ha dormito un giorno e una notte interi, ora invece è allegro
e si fa capire abbastanza. Il primo giorno cerca Tonino, il fratello che è nella
casa qua vicino. È presso gente che vogliono molto bene ai bambini. Anche noi ne abbiamo e perciò la compagnia non gli manca e neppure le cure.
Lo abbiamo già vestito con maglie e calze di lana perché non vogliamo che
soffre il freddo. Il mangiare non gli manca e neppure i dolci ed ha un bel
lettuccio caldo. [...] Dobbiamo sapere se Giovanni ha cominciato la scuola
e se dobbiamo mandarlo. Lui dice che a casa ci andava ma che non sa scrivere. Noi non troviamo nessuna difficoltà, faremo come voi avrete a piacere. Vi preghiamo di stare tranquilli perché i bambini sono presso della brava gente. La nostra famiglia è composta di 24 persone. Lavoriamo un grande podere e perciò il mangiare non ci manca”68.
Successivamente viene stabilito che la posta giungerà settimanalmente
al Comitato centrale, dove viene ritirata il sabato dai delegati di ciascun sottocomitato e consegnata alle famiglie la domenica mattina69.
Un’altra modalità che consente di stabilire il contatto con i bambini è
costituita dai collegamenti radiofonici. Il 26 aprile 1947 dal teatro comunale di Modena parlano i bimbi napoletani. A Napoli nelle piazze, nei bar e
nelle botteghe si radunano in tanti per ascoltare70.
Dopo circa quattro mesi di permanenza i bambini fanno ritorno a Napoli. Il 15 maggio ritornano i primi trecento. “I bambini si presentano con
aspetto sano. Il volto abbronzato è veramente assai diverso dal piccolo volto emaciato di quattro mesi fa. [...] Tra le persone che osservano, un carabiniere modenese in licenza a Napoli che ha cominciato a dirci “Bisognava
vederli quando arrivarono a Modena!”71. I bambini hanno cambiato persino
l’accento. Alle domande dei giornalisti poste in dialetto napoletano, come era
avvenuto alla partenza, rispondono con spiccato accento emiliano, aggiungendo: “Ma perché non parli italiano?”72. Questo particolare viene subito
notato da una donna presente che dice: “chist’ so partuti cu ‘na lingua e so’
turnati cu n’ata!”73. In alcuni casi i bambini sono accompagnati dalle mam66
67
68
69
70
71
72
73
“La Voce”, 12-2-1947.
Intervista di A Porzio a Lina Porcaro fatta il 20 ottobre 2005.
“La Voce”, 7-2-1947.
“La Voce”, 2-3-1947.
“La Voce”, 27-4-1947.
“Il Risorgimento”, 16-5-1947.
“La Voce”, 16-5-1947.
Ibidem.
116
ANTONIETTA PORZIO
me del Nord. Tra queste, Elena Civili mostra con orgoglio il quaderno del
“suo” bimbo e gli fa leggere il sillabario. Ha imparato tutto in quattro mesi74.
Tra gli accompagnatori di questo primo gruppo di bambini che tornano dall’Emilia, vi è don Ivo Silingardi, cappellano militare. Appena sceso dal treno si rivolge ai giornalisti napoletani presenti dicendo: “Hanno raccontato
tante strane cose qui a Napoli! [...] Ho potuto constatare personalmente che
sia dal punto di vista materiale, sia da quello spirituale, stavano benissimo”75.
In Emilia tanti sacerdoti partecipano all’iniziativa, evidenziando la non unanimità dell’atteggiamento della Chiesa di fronte ad essa. Non va poi dimenticata la grande partecipazione del Cif76 a questo movimento.
L’accoglienza che viene riservata al primo scaglione è calorosissima. In
ogni sezione viene organizzata una festa: a S. Carlo all’Arena viene allestito
un teatrino con un palcoscenico, a Secondigliano “nella piazza c’era tutto il
paese e l’autobus arrivato come portato in braccio dalla gente”, a Ponticelli
più di mille persone rimangono ad aspettare dalle 8 alle 1277. Il numero delle domande aumenta sensibilmente. La mole di lavoro spinge il Comitato ad
ampliare la sua struttura esecutiva. Solo dai “quartieri spagnoli”78 affluiscono poche domande. La motivazione viene individuata nella propaganda che
la “Pachiochia” (forse per le forme abbondanti del suo corpo)79 conduce contro
il Comitato80. Si tratta di una “capopopolo”, ossia di una di quelle donne che
per la maggiore combattività, capacità di persuasione, coraggio fisico assumono un ruolo dirigente nelle lotte femminili del dopoguerra, per ripristinare in ogni quartiere la normalità81. La Pachiochia è una monarchica, che gode
di grande prestigio nel suo quartiere. Si era distinta nell’assalto alla federazione comunista in via Medina l’11 giugno 1946. Il suo vero nome è riportato su “La Voce” del 28 aprile 1947, in occasione del viaggio in Emilia che
è inviata a compiere, affinché potesse vedere con i suoi occhi e riferire la
verità. Si chiama Giuseppina Eroica, “la popolana più nota di Montecalvario, grossa e imponente”82. Durante il viaggio i giornalisti hanno modo di
apprezzare l’intelligenza e la preparazione della donna: “Ci ha parlato del
mercato nero napoletano collegandolo alla disoccupazione e alla miseria, così
come avrebbe fatto uno studioso di problemi sociali”83. In Emilia viene rice74
75
76
77
78
79
Ibidem.
Ibidem.
Centro italiano femminile nato nel 1944 per iniziativa delle donne democristiane.
“La Voce”, 19-5-1947.
Si tratta dei vicoli a monte di via Toledo.
M. A. Macciocchi, Duemila anni di felicità. Diario di un’eretica, Milano Bompiani, 2001,
p. 105.
80
81
82
83
G. Macchiaroli, Un’esperienza popolare del dopoguerra, cit., pp. 15-16.
M. Mafai, L’apprendistato della politica, cit., p. 42.
“La Voce”, 28-4-1947.
Ibidem.
L’UDI E LA SALVEZZA DEI BAMBINI DI NAPOLI
117
vuta da dirigenti amministrativi e politici, ha modo di vedere come l’ “Emilia rossa”, bersaglio preferito delle calunnie monarchiche, ha accolto i figli
di Napoli e ne viene conquistata84. Insieme a lei parte una delegazione di 23
mamme in visita ai propri figli. Queste trascorrono due giorni nella stessa
casa che ospita i piccoli. La visita in Emilia da parte dei genitori dei bambini è un fatto frequente. Tra questi, Gaetano Foria e Francesca Rame che dopo
il viaggio tranquillizzano in una lettera tutte le altre famiglie napoletane ed
esprimono la loro “eterna” gratitudine alle famiglie bolognesi che li hanno
ospitati85.
Un altro deterrente alle partenze è costituito dall’esistenza di un vero
e proprio racket che utilizza i bambini orfani di padre o illegittimi, per
chiedere l’elemosina o per piccoli traffici illegali, contro una modesta paga
alle madri povere. La partenza di alcuni di questi bambini determina la reazione di un “uomo di rispetto” che dopo un incontro con Cacciapuoti86
presso la sede del partito capisce di non avere a che fare con un comitato
di “dame di carità”87. Il 24 marzo 1947, 900 bambini partono alla volta
della Toscana e della Liguria88. In quest’ultima regione la mobilitazione per
ospitare i bambini napoletani assume un rilievo particolare, soprattutto per
il ruolo svolto da alcune amministrazioni comunali socialcomuniste. Tra esse
si distingue Genova, “non tanto come sede operativa, quanto come centro
di stimolo, di sostegno, di riferimento per il movimento popolare e per la
cittadinanza, nel nome della solidarietà civile e dei più nobili valori della
tradizione operaia e repubblicana della città”89. All’appello del sindaco comunista, Giovanni Tarello, rispondono in tanti90. La macchina organizzativa
funziona perfettamente anche in questa occasione e il Comitato si assume
il compito di raccogliere le sottoscrizioni anche per il mantenimento di quei
bambini che non trovano posto nelle famiglie91. Una parte di essi viene
sistemata nell’Albergo del fanciullo, gli altri a Villa Perla92. Come in Emilia, i bambini vengono accolti al loro arrivo con grande gioia dalle famiglie liguri. “L’Unità” del 26 marzo 1947 commenta: “di fronte a questo
spettacolo di amore e di profonda solidarietà, l’Italia non può non risorgere, affidata a queste donne, a questi uomini, a questo popolo lavoratore che
84
G. Macchiaroli, Un’esperienza popolare del dopoguerra, cit., p. 16.
“La Voce”, 25-3-1947.
86
Segretario della federazione Comunista napoletana.
87
G. Macchiaroli, Un’esperienza popolare del dopoguerra, cit., p.17.
88
“La Voce”, 25-3-1947.
89
A. Minella, N. Spano, F. Terranova, Cari bambini, vi aspettiamo con gioia, cit., p. 83.
90
Aderiscono al comitato: l’Anpi, l’Eca, l’Enal, l’Udi, il Cif, l’Auxilium, la Camera di
commercio, i sindacati, tutti i partiti della Resistenza e il Sibi (Salviamo i bimbi d’Italia)
91
“La Voce”, 30-3-1947.
92
Si tratta di un collegio creato a Genova ad opera delle donne della Resistenza con l’appoggio del Cln Liguria.
85
118
ANTONIETTA PORZIO
si assume l’alto, difficile compito di riparare alle tragiche conseguenze del
fascismo93.
Anche la Toscana si distingue per l’ospitalità offerta ai bimbi napoletani, non tutti provenienti da Napoli. Molti vengono da vari centri del napoletano (come Castellammare di Stabia, Boscotrecase, Caivano) o vengono da
altre province della Campania (come Benevento e Avellino)94.
Altri 200 bambini ricevono ospitalità in Francia presso famiglie italiane
emigrate. Essi al ritorno, dopo quattro mesi di permanenza, si presentano
“con aspetto florido e ben vestiti”95. La gratitudine delle mamme napoletane alla delegazione di donne francesi che ha riaccompagnato i bambini viene espressa nella sede del partito d’Azione da Luciana Viviani. Quest’ultima vede nell’iniziativa “un grande segno di amicizia” augurando che si possa
instaurare “un legame duraturo tra Francia e Italia”96.
L’iniziativa di solidarietà verso i bambini partenopei si svolge anche in
luoghi molto più vicini. Secondo le schede socio-sanitarie tanti bambini hanno bisogno di mare e perciò vengono organizzate colonie permanenti a San
Giorgio a Cremano, Portici, Torre del Greco, Torre Annunziata, Bagnoli, sul
litorale flegreo97.
L’organizzazione di colonie estive per ragazzi continua ad occupare le
donne dell’ Udi nel corso degli anni successivi. Ciò emerge anche dalla documentazione dell’archivio dell’Udi di Napoli che fa riferimento a soggiorni estivi organizzati negli anni Settanta a marina di Ascea per conto del comune di Napoli98.
93
“L’Unità”, 26-3-1947.
A. Minella, N. Spano, f. Terranova, Cari bambini, vi aspettiamo con gioia,cit., p. 86.
95
“La Voce”, 12-10-1947.
96
Ibidem.
97
A. Minella, N. Spano, F. Terranova, Cari bambini, vi aspettiamo con gioia, cit., p. 80.
98
Archivio Storico Provinciale Udi Napoli, Soggiorni estivi organizzati dall’Udi (19741978-1979) fas. 254, B 26, f. 215.
94
L’UDI E LA SALVEZZA DEI BAMBINI DI NAPOLI
119
MASSERIA SOCIALE E DIDATTICA “TERRA D’INCONTRO”
CASAMASSIMA (BARI)1
Daniela Carofiglio
Sebbene negli ultimi anni si sia registrato un lieve aumento del benessere di una parte della popolazione, tale crescita però non ha di certo riguardato alcune categorie di cittadini considerati più deboli, fra cui adulti e minori con precedenti penali.
Tra i fattori di tale decrescita è emerso sempre di più il complessivo
indebolimento delle reti di protezione sociale con conseguenti rischi di isolamento ed esclusione. Inoltre, ad aggravare questo problematico quadro sociale e antropologico, vi sono le negative tendenze socio – occupazionali
nonché l’arrestarsi del quadro socio – economico, fattori che hanno così
aumentato il rischio di illegalità e di recidività in particolar modo in alcune
aree urbane e rurali. Tale impoverimento ha riguardato tutti i settori ma in
modo particolare quello agricolo, decretando così la crisi e in molti casi anche la chiusura delle possibilità di formazione professionale. Diviene opportuno sottolineare inoltre, come sotto il profilo delle cosiddette infrastrutture
sociali alcune regioni d’Italia, tra le quali la Puglia e la Campania, si caratterizzano per una situazione alquanto carente.
A tal proposito diviene fondamentale la promozione di attività diversificate coadiuvanti attività produttive, agricole e artigianali, raccolte all’interno
di un’idea progettuale che abbia come scopo quella di favorire e garantire
il re-inserimento delle fasce più deboli tra i quali i detenuti minori e adulti,
gli ex-detenuti e di conseguenza l’intero nucleo familiare di appartenenza.
All’interno di questo complesso scenario socio–economico–occupazionale
rientra la mission della Masseria Sociale “Terra d’Incontro” che vuole accrescere le nuove ed alternative politiche di prevenzione al disagio adolescenziale e adulto, riconoscere il rischio di devianza e favorire la ri-socializzazione e la re-integrazione sociale della persona.
Tale progetto, nato dal sogno di quattro giovani ragazzi che hanno deciso di unire le loro diverse professionalità per cercare di rispondere ai bi1
Azienda agricola individuale Carofiglio Simona beneficiaria del finanziamento pubblico
Programma Sviluppo Rurale Regione Puglia 2007/2013 Asse III Misura 311, Azione 2-3 /SEB
GAL SUD-EST BARESE. Nel corso della premiazione delle tesi di laurea nel 2012 siamo venuti a conoscenza di questa iniziativa nel comune di Casamassima, i cui promotori ci hanno
chiesto di darne notizia.
120
DANIELA CAROFIGLIO
sogni di coloro i quali vivono particolari situazioni di debolezza, Carofiglio
Daniela in qualità di Pedagogista, Grazia Loiacono - Architetto, Massimo
Loiacono - Artigiano e Artista e Anna Mariella - Assistente Sociale, sta assumendo sempre più concretezza. Il progetto è stato pensato circa due anni
fa e ad oggi è diventato fonte di orgoglio, passione, creatività e soprattutto
solidarietà. Non è di certo casuale la denominazione data alla Masseria Didattica e Sociale “Terra d’Incontro”2 il cui obiettivo primario diviene quello
di dare una risposta alle esigenze dei minori e degli adulti che si trovano in
situazione di disagio socio - ambientale, di ritardo e dispersione scolastica,
di disoccupazione, di rischio di emarginazione e per i quali si ravvisa la
necessità di un supporto educativo e di un modello positivo che stimoli i
rapporti familiari e sociali evitandone l’allontanamento dal proprio nucleo
familiare.
L’azione principe su cui è centrata in particolar modo la Masseria Sociale è quella rivolta a coloro i quali vivono per diverso tempo una condizione di restrizione della libertà personale. Se nella tradizione carceraria secolare e spesso nel senso comune, la pena comportava la totale passività e
la completa soggezione del detenuto, i recenti ordinamenti configurano l’esperienza della detenzione e delle pene alternative come opportunità per riscattarsi attraverso la presa di coscienza degli errori commessi3.
La pena diviene così strumento per responsabilizzare il detenuto verso
se stesso e verso gli altri. Da questo si evince che il trattamento rieducativo
non deve limitarsi ad un compito di mero intrattenimento, ma deve essere
auto-educativo e capace di promuovere l’intenzionalità del soggetto, gli orientamenti professionali e la consapevolezza riguardo a ciò che si sta realizzando
a favore della loro reintegrazione sociale.
“Terra d’Incontro” diviene così luogo di accoglienza e incontro, volto
a rispondere al disagio esplicito tramite l’inserimento socio-lavorativo, la
sperimentazione e il potenziamento dell’offerta dei servizi per il contrasto
alle varie forme di disagio e devianza.
Accanto alla Masseria Sociale, “Terra d’Incontro” diviene anche Masseria Didattica la cui finalità è quella di creare e accrescere il legame tra il
mondo urbano e quello rurale diventando punto d’incontro tra le diverse
culture. La Masseria, che sarà aperta a chiunque voglia visitarla, ha il fine
di favorire la promozione e l’educazione delle diverse tradizioni ed usanze
2
Azienda Agricola Individuale di Carofiglio Simona - Masseria Sociale e Didattica “Terra d’Incontro” situata nel Comune di Casamassima (Ba) contrada Via degli Alberi [email protected]
3
Art. 27 della Costituzione: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte.”
MASSERIA SOCIALE E DIDATTICA
“TERRA D’INCONTRO”
121
della cultura contadina nelle nuove generazioni e nella società in genere,
cercando di soddisfare anche le esigenze e le abilità di ciascuno.
L’esperienza in Masseria insegnerà ai visitatori a conoscere ed apprezzare la campagna, la vita naturale, la provenienza dei cibi, la diversità dei
prodotti alimentari, il rispetto per la natura e la valorizzazione della comunicazione e della socializzazione.
L’obiettivo diviene quello di offrire un’alternativa di sviluppo territoriale imperniato nella rivalutazione e nello sviluppo dell’ambiente rurale, con
la riscoperta del mondo agricolo e con l’innovazione del ruolo dell’agricoltore, nelle attività agro-turistiche, nella produzione e vendita dei prodotti
agro-alimentari, nella didattica e nell’educazione ambientale, nella riscoperta e fruizione dei beni culturali ed architettonici; il tutto affiancati anche da
una crescita formativa del territorio che accompagni i giovani, le donne e i
minori nella direzione richiesta dai mercati e verso una migliore qualità della
vita.
La Masseria Didattica intende aprire le porte alle scuole, ai gruppi organizzati e ai soggetti singoli in un’ottica di multifunzionalità e di offerta
di nuovi servizi.
Concludendo, la Masseria Didattica diviene così un grande laboratorio
a ciclo aperto nel quale è possibile unire l’apprendimento teorico a quello
pratico, accostando l’esperienza del contadino al desiderio di conoscenza,
dando origine cosi ad una interazione educativa.
Per Ottobre 2013 si prevede l’inaugurazione della Masseria Sociale e
Didattica “Terra d’Incontro” e l’inizio di una nuova ed innovativa esperienza.
122
NELLO RONGA
CENNI SUL VOLONTARIATO E L’ASSOCIAZIONISMO NEL MERIDIONE D’ITALIA
123
II
IL VOLONTARIATO NELLE CARCERI, NEI CENTRI
DI ACCOGLIENZA PER GLI IMMIGRATI E NELLA GESTIONE
DEI BENI CONFISCATI ALLA CAMORRA
124
ANNA MARIELLA
“IL
CARCERE POSSIBILE”. L’ASSOCIAZIONE FRATELLO LUPO
125
“IL CARCERE POSSIBILE”.
L’ASSOCIAZIONE FRATELLO LUPO
NELL’ISTITUTO PENALE MINORILE FORNELLI DI BARI1
Anna Mariella
Il titolo “Il carcere possibile”, oltre a ricordare quello della mia tesi discussa presso l’Università del Salento in Puglia, è stato accuratamente scelto per risvegliare un’idea di carcere presente ma mai concretamente usata,
un’idea positiva e pertanto diversa.
Importante è la pena che deve sempre tendere alla ri-socializzazione
del reo, importanti sono i luoghi in cui tale pena viene scontata ma fondamentale è che tali luoghi siano aperti alla società. Luoghi che, anche per
struttura, non devono essere estranei ad essa ma che rappresentino una parte
della società stessa dove i rapporti di comunicazione e di relazione tra i
detenuti, fra questi e la Polizia Penitenziaria e l’intera Area Trattamentale
non si riducano a precari rapporti di sudditanza. È quindi importante che
le istituzioni totali, così come venivano chiamate da E. Goffman2, siano
considerate appartenenti alla sfera delle agenzie educative presenti sul territorio, dove quindi i vari rapporti tra le figure siano come quelli tra Educatore ed Educato.
Parlare quindi di questione carceraria da un po’ di anni non è più un
argomento nuovo, anche se in alcuni suscita solo una curiosità. Nei molte1
La tesi di laurea Il carcere possibile è stata discussa all’Università del Salento, Facoltà
di Scienze Sociali, Politiche e del Territorio, corso di laurea in Servizio sociale, anno accademico 2009-2010, relatore prof. Antonio Marsella.
2
Erving Goffman, sociologo di origine canadese, studioso delle forme di interazione umana
in cui descrive cinque tipologie generali di istituzioni totali:
– le istituzioni nate a tutela di incapaci non pericolosi (istituti per ciechi, sordomuti, disabili, anziani, orfani, indigenti)
– le istituzioni ideate e costruite per recludere chi rappresenta un pericolo non intenzionale per la società (ospedali psichiatrici, sanatori)
– le istituzioni finalizzate a recludere chi rappresenta un pericolo intenzionale per la società (carceri, campi di prigionieri di guerra)
– le istituzioni create per lo svolgimento di un’attività funzionale continua (navi, collegi,
piantagioni, grandi fattorie)
– le istituzioni che richiedono il distacco volontario dal mondo (conventi, monasteri).
Secondo Goffman le istituzioni totali sono luoghi in cui gli internati vivono delle condizioni di esclusione totale dalla società, hanno regole comuni e vivono reclusi per un periodo di
tempo diversificato a seconda della decisione presa nei loro confronti, trascorrendo parte della
loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato.
126
ANNA MARIELLA
plici contesti quali convegni, seminari, tavole rotonde e workshop spesso si
è parlato dei diritti dei detenuti, del rispetto della loro dignità umana e della funzione rieducativa della pena3.
Molto spesso chi ha deciso di trattare certi argomenti è stato definito
mafioso, perché per l’opinione pubblica è impensabile parlare di un trattamento diverso, che tenga quindi conto di tali principi; perché il reo è colui
che ha sbagliato e per tale ragione deve essere solo punito!
Molti si chiedono: “... perché chi ammazza, spaccia, violenta, etc... deve
essere reinserito nella società? E la persona offesa da chi viene accolta e
sostenuta?... ” Questo costituisce infatti una delle tante carenze presenti nella
nostra società in quanto, se non pochi privati e/o singole persone, lo Stato
si prende effettivamente cura delle vittime? Se sì, in che modo interviene?
In uno scenario sempre più confuso, in un momento storico in cui il bisogno è di tutti e non appartiene più solo a poche classi e/o persone, l’intervento dello Stato non deve e non può più solo abbracciare determinate questioni,
ma tutte; lo Stato come affronta le problematiche dei detenuti sia all’interno del
carcere che nella società, in particolar modo se stranieri? Come può favorire
un effettivo reinserimento del reo adulto all’interno del proprio nucleo familiare
dove dovrà riappropriarsi del ruolo genitoriale e di quello coniugale? Le strutture presenti sul territorio favoriscono effettivamente il recupero dei minori
autori di reati? La società come accoglie queste persone? Tante sono le domande emerse durante i vari incontri, in particolar modo quelli durante i quali sono intervenuti direttamente i detenuti lasciati liberi di esprimersi; molte di
queste domande però sono ancora in attesa di una risposta...
In riferimento a quanto fino ad ora discusso rientra l’idea di Carcere
Possibile, un carcere nuovo, positivo non utopico ma che guarda al futuro
con uno sguardo positivo e propositivo ma spesso ancora oggi sottovalutato
e per certi aspetti volutamente represso: quello del Volontariato.
Nel corso degli anni tali attività di aiuto e di sostegno messe in atto da
soggetti privati, generalmente in modo gratuito e per ragioni di solidarietà,
giustizia sociale, altruismo, etc... hanno avuto un crescente sviluppo. Si è così
passati da un volontariato di frontiera posto ai margini della società, formato
da persone organizzate in maniera informale e prive di alcun riconoscimento legislativo al volontariato sul campo, in cui il volontario è posto al centro della società ed ha la possibilità di esprimere la sua idea, presentare proposte, partecipare alla programmazione degli interventi ed essere attivo nel
percorso di ri-educazione4.
3
Art. 27 della Costituzione: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte.”.
4
Anna Mariella, “Il Carcere Possibile”, cit. p. 40.
“IL
CARCERE POSSIBILE”. L’ASSOCIAZIONE FRATELLO LUPO
127
La presenza dei volontari in tutti i bisogni delle persone e nello specifico all’interno del carcere, non ha però ancora ottenuto un doveroso riconoscimento nonostante i passi avanti fatti in materia legislativa5.
Il volontariato penitenziario è sempre stato presente nel carcere ma è
con la Riforma Penitenziaria, legge 354 del 25/7/1975 art. 17 e 786, che esso
acquisisce una nuova dignità insieme alla consapevolezza di poter giocare
un ruolo importante nel processo che dovrebbe condurre al pieno reinserimento nella vita sociale di chi, per le ragioni più diverse, è stato privato della
propria libertà. Tale consapevolezza cresce con la Legge Gozzini7, grazie alla
quale si sono moltiplicate le possibilità di azione dei volontari sia all’interno del carcere che all’esterno, sul territorio, nel tentativo di creare un nuovo rapporto tra Carcere e Società.
È proprio su questo aspetto che voglio concentrare il mio intervento, che
definirei di maggiore creatività.
Usando un po’ la fantasia, facendo lo sforzo di ritornare un po’ bambini e cercando di togliere quindi dalla nostra mente qualsiasi tipo di sovrastruttura, proviamo ad immaginare cos’è il volontariato e chi è il volontario. Immaginiamo un “ponte” a “doppia corsia di marcia”, dove le “macchine” che circolano trasportano “oggetti preziosi”.
Nella nostra immaginazione e giocando un po’ con le metafore, il “ponte” costituisce il Volontariato che unisce il dentro e il fuori, il Carcere e la
Società. Le “macchine” rappresentano invece il Volontario che ha il dono di
trasportare “oggetti preziosi”, ossia le Emozioni delle persone che incontra
5
Legge dell’11 agosto 1991 n. 266: “Legge quadro sul volontariato”.
Art. 78 della Legge 354/75, Assistenti volontari:
1. L’amministrazione penitenziaria può, su proposta del Magistrato di Sorveglianza, autorizzare persone idonee all’assistenza e all’educazione a frequentare gli istituti penitenziari allo
scopo di partecipare all’opera rivolta al sostegno morale dei detenuti e degli internati e al futuro inserimento nella vita sociale.
2. Gli assistenti volontari possono cooperare nelle attività culturali e ricreative dell’istituto sotto la guida del Direttore, il quale ne coordina l’azione con quella di tutto il personale
addetto al trattamento.
3. L’attività prevista nei commi precedenti non può essere retribuita.
4. Gli assistenti volontari possono collaborare con i centri di servizio sociale [ora: “uffici locali di esecuzione penale esterna”] per l’affidamento in prova, per il regime di semilibertà e per l’assistenza ai dimessi e alle loro famiglie.
Art. 17 della Legge 354/75, Partecipazione della società esterna all’azione rieducativa:
1. La finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando ed organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all’azione educativa.
2. Sono ammessi a frequentare gli istituti penitenziari con l’autorizzazione e secondo le
direttive del Magistrato di Sorveglianza, su parere favorevole del Direttore, tutti coloro che avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di potere utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera.
3. Le persone indicate nel comma precedente operano sotto il controllo del Direttore.
7
Legge Gozzini del 10.10.1986 n. 663.
6
128
ANNA MARIELLA
ed ha il dovere di custodirle e al tempo stesso di veicolarle al fine di farle
conoscere.
Durante gli anni di volontariato svolto con l’Associazione “Fratello
Lupo” 8 presso l’Istituto Penale Minorile “Nicola Fornelli” di Bari, dove sono
reclusi minori sottoposti a procedimenti penali e con un’età compresa tra i
quattordici e i ventuno anni, tra le varie attività proposte agli ospiti della
struttura ho potuto rendermi conto che il carcere non li ha solo privati della
libertà. È emersa in loro una grande difficoltà nel sapersi fare trasportare dalla fantasia e nell’identificarsi in un luogo o in un tempo concreto, in quanto spesso tendono a perdere gli obiettivi e cresce in loro un forte pessimismo nei confronti della vita e quindi in tutte le accezioni ad essa connesse:
lavoro, famiglia, amici, amori. Sono convinti che pur avendo scontato la loro
pena, la società sarà dura nei loro confronti, cercherà di etichettarli come
delinquenti, soggetti deviati e chiuderà loro tutte le porte. Ho avuto la sensazione che quelle mura di cinta li avesse deprivati dei sogni, delle aspettative e dei desideri adolescenziali. Pertanto, compito del volontario diviene
quello di aiutarli a riflettere sul significato della pena, che non deve essere
concepita solo come espiazione del reato commesso ma come momento di
accettazione e superamento degli sbagli, al fine di non cadere in azioni recidive e cominciare a creare le basi per una vita migliore – diversa che per
loro parte da qui ma cresce e si sviluppa fuori. Importante però, è sensibilizzare al tempo stesso la società tutta alle emozioni e ai pensieri dei detenuti spesso non così distanti dalle nostre.
La forza del volontariato diviene così quella di custodire e accrescere
le emozioni emerse, guidarle per poi veicolarle nella società al fine di farle
conoscere e apprezzare. La loro presenza in carcere quindi non vuole più
essere di supplenza alle assenze dello Stato, ma è legata ad un territorio stanco di delegare e che desidera sempre di più colmare la distanza tra il “dentro” e il “fuori”. Il senso di libertà insito nel volontariato permette di creare
relazioni più umane e dignitose e non schiave del ruolo o della burocrazia;
aspetti da cui invece l’Operatore Sociale non può prescindere.
Il volontario penitenziario si spoglia da qualsiasi pregiudizio, non ha
bisogno di conoscere a tutti i costi la storia di un detenuto in quanto il suo
aiuto, morale e materiale, non è subordinato a questo. Non ha un preciso
protocollo operativo, non deve necessariamente acquisire un titolo o seguire
un preciso percorso di studi accademici, ma è spinto da una forza innata,
da un profondo senso civico e solidaristico. È doveroso sottolineare però,
8
L’associazione di volontariato “Fratello Lupo” opera presso la Casa di Reclusione di Turi
e Altamura, la Casa Circondariale di Bari e l’Istituto Penale Minorile “Nicola Fornelli” di Bari.
Inoltre non è la sola che svolge questo tipo di volontariato penitenziario, ricordiamo a tal proposito l’associazione di volontariato “Carcere vi.vo.” del centro San Vincenzo de Paoli che opera
negli istituti di Poggioreale, Pozzuoli e Secondigliano.
“IL
CARCERE POSSIBILE”. L’ASSOCIAZIONE FRATELLO LUPO
129
l’importanza nell’avere almeno una formazione generale corrispondente alla
tipologia di volontariato scelto, alle persone che si andrà ad incontrare e alla
normativa vigente.
Il volontario non è colui che ha tanto tempo libero, come molti pensano, ma è colui che ha deciso di dedicare con coscienza e responsabilità del
“tempo liberato” a chi “vive dentro” e pertanto non ha voce per parlare, non
ha arti per muoversi ma ha solo un piccolo cuore che ha bisogno di essere
innaffiato prima di inaridirsi completamente. Il volontario penitenziario è
colui che con semplicità mostra una strada diversa e per alcuni detenuti nuova, cercando di far crescere in loro anche solo la curiosità di volerla conoscere.
Concludendo: “È come far volare un aquilone: all’inizio bisogna correre forte tenendolo ben stretto nella mano, in alto tanto quanto il nostro
braccio ci consente, finché l’aria non comincia a sollevarlo. Solo adesso puoi
mollare la presa, ma è importante continuare a correre mantenendo il filo
corto. Questo è il momento più difficile e faticoso ed è quello determinante
per la riuscita del volo. Quando l’aquilone ha preso quota lo si affida alla
forza del vento perché lo sostenga. Ora non è più necessario correre con
lui. Bisogna solo allungare il filo piano piano, controllando sempre che non
perda quota. L’aquilone andrà sempre più in alto e, col naso all’insù, lo si
potrà ammirare austero, luccicante al sole. Un filo invisibile lo sostiene. E
lungo quel filo corre l’amore autentico che non si spezza, l’amore che dà
vita, che mai abbandona.”9
Riferimenti autobiografici
Sono Anna Mariella vivo in un paese della Provincia di Bari e svolgo la professione di Assistente Sociale presso il Centro Antiviolenza del Comune di Bari “La luna
nel pozzo” gestito dalla Cooperativa C.R.I.S.I. L’idea di scrivere una tesi sul volontariato penitenziario nasce in primis dalla passione e dedizione rivolta al mondo del sociale, a tutti coloro che vivono in situazioni di bisogno esplicito e non. Inoltre, sia
grazie all’intero percorso di studi liceali e accademici e al percorso di vita personale
la mia attenzione si è sempre più rivolta a coloro i quali vivono in condizioni di restrizione della libertà personale. Forte era in me il desiderio di conoscere e comprendere la dimensione del carcere, sentire le emozioni in esso recluse e conoscere i luoghi di vita dei suoi “abitanti”, in quanto spinta da un profondo valore Cristiano e in
particolar modo Francescano, ereditato dalla mia famiglia di origine.
È nato così il desiderio non solo di scrivere una tesi quale conclusione del percorso di studi iniziato, ma una tesi che avesse un senso nella mia vita e magari anche in coloro i quali si accostano a leggerla.
9
http://www.volontariatoseac.it/
130
ANNA MARIELLA
“IL
CARCERE POSSIBILE”. L’ASSOCIAZIONE FRATELLO LUPO
131
LA COOPERATIVA DI EX DETENUTI MADE IN JAIL DI ROMA
E IL RIUTILIZZO SOCIALE DEI BENI CONFISCATI
ALLA CAMORRA 1
Lucia Savo Sardaro
La cooperativa sociale2 Seriarte Ecologica “Made in Jail3” è una cooperativa formata da 6 persone ex-detenute che producono t-shirt con scritte
e disegni stampati in serigrafia. Le scritte sulle magliette parlano in maniera ironica e creativa di tematiche sociali, con immagini e slogan espressione della realtà carceraria.
La cooperativa nasce alla fine degli anni 80 da un’idea di un gruppo di
detenuti di Rebibbia dell’Area omogenea (dissociati dal terrorismo), con
l’obiettivo di creare opportunità di inserimento lavorativo al di fuori delle
mura carcerarie e di “risocializzare al lavoro” e per questo motivo organizza in carcere laboratori e corsi di serigrafica.
L’obiettivo è di fornire un aiuto concreto a detenuti ed ex-detenuti nel
difficile percorso di reinserimento lavorativo e sociale.
Nel 1990, al termine della pena, i soci della cooperativa si trasferiscono all’interno del carcere minorile romano di Casal del Marmo, dove orga-
1
La tesi Il riutilizzo sociale dei beni confiscati alla mafia è stata discussa all’Università
degli Studi di Cassino, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di laurea in Programmazione e
Gestione delle Politiche e dei Servizi Sociali, Cattedra di Sociologia del mutamento sociale, anno
accademico 2009/2010, relatore prof. Maurizio Esposito. Di questa tesi si pubblica integralmente
il quarto capitolo relativo alla cooperativa sociale Made in Jail, scelto dal curatore.
2
Legge 8 novembre 1991, n. 381 “Disciplina delle cooperative sociali” e successive modificazioni.
Art. 1 (Definizione). Le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità per la promozione umana e l’integrazione sociale dei cittadini attraverso:
a) la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi (Cooperative di tipo A);
b) lo svolgimento di attività diverse – agricole, industriali, commerciali o di servizi – finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate (Cooperative di tipo B).
Art. 4 (Persone svantaggiate). Si considerano persone svantaggiate gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex degenti di istituti psichiatrici, i soggetti in trattamento psichiatrico, i
tossicodipendenti, gli alcolisti, i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, i
condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione previste per gli articoli 47, 47-bis,
47-ter, e 48 della Legge 26 luglio 1975, n. 354, come modificati dalla Legge 10 ottobre 1986,
n. 633.
Le persone svantaggiate devono costituire almeno il 30% dei lavoratori della cooperativa
e, compatibilmente con il loro stato soggettivo, essere soci della cooperativa stessa.
3
Fabbricato, prodotto in carcere.
132
LUCIA SAVO SARDARO
nizzano, a titolo di volontariato, corsi di formazione professionale di stampa serigrafia e dove operano per dieci anni (1990-2000).
Il successo delle iniziative attuate dalla cooperativa non solo tra i giovani partecipanti, i detenuti, ma anche tra il pubblico, i consumatori, ha promosso l’avvio della stessa anche nel penitenziario di Villa Andreini di La
Spezia per tre anni (1998-2000) e successivamente nell’Istituto minorile di
Quartucciu di Cagliari (estate ‘96).
Dal 2000 ad oggi la Cooperativa Made in Jail svolge la sua attività all’interno della III Casa Penale di Rebibbia dove organizza corsi di serigrafia (I.C.A.T.T).
L’I.C.A.T.T., Istituto a custodia cautelare attenuata, III Casa Circondariale di Rebibbia, è un istituto penitenziario a custodia attenuata che, ospita
detenuti tossicodipendenti che hanno chiesto di partecipare volontariamente
ad un programma avanzato di recupero e riabilitazione. La struttura, nata nel
1991, si trova all’interno del polo penitenziario di Rebibbia il quale si distingue per le sue caratteristiche architettoniche che si discostano dallo stereotipo del carcere tradizionale. L’obiettivo è quello di privilegiare una serie differenziata di interventi “a rete” capaci di rispondere alle esigenze di
giovani detenuti motivati ad uscire dal disagio della droga e a riconsiderare
il proprio stile di vita.
La III Casa circondariale di Rebibbia, dove si attua il progetto di serigrafia della cooperativa Made in Jail, offre ai propri ospiti la possibilità
di essere accolti in una struttura ricca di opportunità trattamentali che consentono a chi accede, di essere aiutato ad individuare un percorso terapeutico-riabilitativo personalizzato. Particolare rilievo assumono in questo percorso quelle attività che aiutano i ragazzi a sviluppare la creatività come la
serigrafia, il teatro, la musica, il mosaico, organizzate in questo istituto.
Dal 2001 la cooperativa gestisce un punto vendita a Roma, in via Tuscolana, realizzato in un ex negozio di abbigliamento confiscato il 13 gennaio 2000 ad un clan mafioso e concesso in comodato d’uso gratuito alla
cooperativa Made in Jail dal Comune di Roma.
Il negozio della cooperativa Made in Jail offre felpe e t-shirt prodotte
dai detenuti nei laboratori della Terza Casa Circondariale di Rebibbia e dagli ex-detenuti soci della cooperativa nel punto vendita stesso.
A partire dal 1999 l’attività commerciale è stata implementata tramite
un negozio virtuale (www.madeinjail.com), che permette di acquistare prodotti anche on-line e far conoscere in questo modo l’attività e i prodotti
della cooperativa, frutto del lavoro di detenuti ed ex-detenuti, anche fuori
dall’Italia.
La cooperativa, inoltre, da qualche anno organizza e partecipa anche a
mostre d’arte contemporanea in cui espone e presenta i propri lavori e organizza la vendita anche partecipando a fiere, manifestazioni e feste estive.
LA COOPERATIVA DI EX DETENUTI MADE IN JAIL DI ROMA
133
La ricerca sul campo. Analisi delle interviste
La ricerca da me condotta si struttura all’interno di un incontro con i
soci della Cooperativa Made in Jail attraverso un contatto faccia a faccia,
in cui ho potuto osservare il loro lavoro di serigrafia su t-shirt, incontro che
è avvenuto all’interno del loro laboratorio-punto vendita, un ex negozio di
abbigliamento confiscato e appartenuto in passato a un clan mafioso.
Lo strumento utilizzato per reperire le informazioni sull’attività da loro
svolta e sulle loro considerazioni relative all’importanza simbolica del lavoro in un bene confiscato, è stata l’intervista semi-strutturata con domande
aperte per consentire agli intervistati di esprimere liberamente e senza interferenze le loro opinioni e consentire la rilevazione di atteggiamenti e orientamenti.
Tuttavia non si può parlare di un vero e proprio campionamento per il
numero non elevato di persone intervistate, ma piuttosto di un case study.
Il contenuto delle domande è stato indirizzato verso la rilevazione di
alcuni punti salienti attraverso:
a) quesiti incentrati sulle considerazioni intorno al lavoro svolto nella
cooperativa come fattore di reinserimento sociale;
b) quesiti sull’importanza del riutilizzo sociale dei beni confiscati;
c) quesiti sugli obiettivi e sul tipo di prospettive future degli intervistati.
Il lavoro come fattore di reinserimento
Il processo di reinserimento nella società è una problematica e una questione importante per chi esce dal carcere.
Un detenuto inserito nel mondo del lavoro a fine pena è infatti meno
portato a commettere nuovamente reati, perciò è importante far crescere il
numero degli inserimenti lavorativi, al fine di accompagnare il percorso postpena del soggetto.
Il fattore lavoro riveste, quindi, un ruolo determinante come strumento
efficace di riabilitazione degli ex-detenuti che imparano a relazionarsi con
il mondo esterno e, funge nello stesso tempo da leva per diffondere la cultura delle regole tra gli stessi.
Lo stesso Ordinamento Penitenziario (art. 15 comma 1) considera il lavoro come elemento cardine del trattamento rieducativo e il lavoro diviene
quindi, strumento finalizzato alla rieducazione e al reinserimento sociale, secondo la logica ispiratrice contenuta nell’articolo 27 della Costituzione.
Promuovendo l’inclusione sociale dell’ex-detenuto, si favorisce il reinserimento della persona e la riduzione della reiterazione a delinquere. Tuttavia la partecipazione del detenuto è un fattore determinate per il successo
del percorso di cambiamento e del reinserimento.
134
LUCIA SAVO SARDARO
Al lavoro viene riconosciuta “una capacità di promozione del soggetto”,
per così dire, oggettiva e catalizzatrice che ne fa il cardine insopprimibile
di qualsiasi tecnica di reinserimento sociale e questo, è quanto emerso dalle
riflessioni degli ex-detenuti intervistati, che vedono nel lavoro la molla per
reinserirsi nella società.
“Una delle problematiche maggiori a parte il contesto carcerario, quando uno finisce la detenzione è comunque trovare lavoro, la riabilitazione, la
reintegrazione per quanto riguarda la società”.
Proprio l’esigenza di vedere concretizzato il reinserimento nel tessuto
sociale e vedere così attuato l’articolo 27 della Costituzione, ispira la creazione della cooperativa Made in Jail che attraverso l’ideazione e la realizzazione di magliette originali offre un’opportunità occupazionale tangibile per
detenuti ed ex-detenuti.
“...Imparare un mestiere è un punto cruciale di quella rieducazione citata dall’articolo 27 della Costituzione. Però in realtà è disatteso, non si fa
nulla per recuperare le persone... e l’esigenza è stata quella di inventare il
lavoro”.
“La cooperativa “Made in Jail” nasce nel 1988. Dopo cinque anni di
carcere e un po’ di tempo per poter riflettere, per poter ricominciare a vivere da libero cittadino, nel 1989 approfittai dell’occasione concessami dal
Dott. Giuseppe Makovec, di poter trasmettere le mie conoscenze sulla serigrafia ai detenuti minorenni del carcere di Casal del Marmo a Roma; il Dott.
Makovec ne era appunto direttore. La serigrafia mi era familiare già dalla
seconda metà degli anni settanta; prima ancora di finire in galera, avevo
lavorato in uno studio di alta moda imparando a stampare stoffe pregiate,
lo studio Picone. Nei primi anni novanta, assieme ad altri detenuti a Rebibbia, alcuni di loro diventeranno poi soci fondatori della cooperativa Made
in Jail, iniziammo a stampare e vendere t-shirt con l’aiuto del quotidiano il
Manifesto; dal carcere al mercato esterno”.
“...Ritornare in carcere da ex-detenuto, nel nuovo ruolo di insegnante,
fu appassionante. Mi chiedevo se il carcere, in carcere, la fantasia, la creatività, l’immaginazione potessero essere anestetizzati dall’oggettiva avvilenza, dall’impossibilità di autodeterminare un solo giorno della propria esistenza. Mi chiedevo se il carcere potesse produrre altro da se”.
“...La nostra testimonianza di questi anni, le produzioni di immagini serigrafate su t-shirt, carta ed altre superfici nei laboratori delle carceri di
Casal del Marmo dal 1990 al 2000, Quartucciu Cagliari nell’estate 1996,
LA COOPERATIVA DI EX DETENUTI MADE IN JAIL DI ROMA
135
Villa Andreini La Spezia dal 1998 al 2000 e Terza Casa Rebibbia dove lavoriamo a tutt’oggi, ha fatto crescere, nei detenuti impegnati nei nostri laboratori, la consapevolezza dell’importanza del lavoro di gruppo. Nella collaborazione è possibile infatti sperimentare il rafforzamento dell’io e la fiducia nella ricchezza del potenziale umano, che l’individuo conserva nonostante l’annullamento proprio della condizione di prigionia”.
Il lavoro è considerato la base del reinserimento sociale dell’ex- detenuto non solo da un punto di vista meramente economico, ma soprattutto
perché esso concorre alla realizzazione personale e all’uscita dalla devianza.
“Quindi sicuramente avere un lavoro o trovare subito lavoro come si
esce dal carcere, è un bel trampolino di lancio.”
Il lavoro rappresenta quindi un mezzo di riscatto sociale, anche in situazioni in cui sussistono più forme di disagio o devianza.
“...Noi siamo da un bel po’ di anni nella Terza Casa penale di Rebibbia, la terza casa penale è quella per la tossicodipendenza e stupefacenti,
quindi la pena è la detenzione, ma poi c’è la problematica più grossa che
è quella della tossicodipendenza, nel senso che fin quando non riesci a risolvere quella, a capire perché stai male, difficilmente ci si può rimettere
in carreggiata, quindi è ancora più problematica, c’è un forte disagio in
più”.
“Il lavoro che facciamo in carcere è quello di insegnare la serigrafia.
Il presidente della cooperativa và in carcere e gli fa fare l’attività da
vent’anni. E l’attività è assolutamente gratuita, è volontariato”.
“Gli si trasmettono i rudimenti della serigrafia, cioè l’incisione del telaio, l’uso dei colori, il tipo di colori, la stampa vera e propria perché poi
una quota la stampano anche loro lì, è piccola però la quota di stampa, non
hanno una vera e propria produzione”.
Le esperienze positive di reinserimento lavorativo potrebbero costituire
esempi di “storie a lieto fine”, sovente percepite come irrealizzabili da parte di tutti gli ex detenuti.
“Poi chiaramente sta alla persona insomma, se ha voglia di recuperarsi,
perché comunque la maggior parte dei risultati non sono positivi, io perché
mi sono rotto le scatole della vita che facevo, ma tante altre persone che
136
LUCIA SAVO SARDARO
sono passate attraverso la cooperativa si sono riperse nel nulla con pochissimo tempo, nel giro di qualche settimana, perché è una problematica soggettiva. Noi potenzialmente possiamo farli lavorare però poi alla fine non è
che puoi fargli da psicologo o curargli le problematiche che hanno, è sempre soggettiva la cosa, dipende dalla persona, se ha voglia di integrarsi, di
uscire dal circuito deviante o meno”.
“...Quindi non è il lavoro. Il lavoro contribuisce a farti incamminare in
una strada positiva, però dipende dal soggetto”.
Le interviste hanno fatto emergere come l’aspettativa più comune per
reinserirsi nella società sia avere una attività da svolgere e, allo stesso tempo gli intervistati, hanno sostenuto che il lavoro serve per impiegare in modo
più redditizio e formativo il tempo, progettare il ritorno alla vita fuori, essere realizzati e riallacciare i rapporti con il mondo esterno.
“...Sicuramente il lavoro di serigrafia è bellissimo, nel senso che è particolare, è molto semplice, però chiaramente ha dei tornaconti molto forti
dal punto di vista psicologico”.
“...Dal punto di vista materiale alla fine fai fatica perché non si guadagna chissà che, però dall’altra parte il vantaggio di avere piena libertà
e l’autonomia personale e il fatto che non hai nessuno, non c’è il datore di
lavoro che ti pressa è fondamentale, c’è una sorta di libertà.”
LA COOPERATIVA DI EX DETENUTI MADE IN JAIL DI ROMA
137
L’ASSOCIAZIONE TENDA
di San Damiano di Villa Castelli (Brindisi).
UNA CASA DI FUGA PER LE DONNE VITTIME DI TRATTA
E DI ACCOGLIENZA PER IMMIGRATI1
Giovanna Barletta
Giovanna Barletta nella tesi discussa all’Università di Pisa riporta l’esperienza della Tenda di San Damiano che opera a Villa Castelli in provincia
di Brindisi. Quest’associazione è stata costituita nel 2010 da studenti e lavoratori spinti dal “desiderio di non passare oltre” e di non ignorare “le grida
e le speranze di dignità che non trovano alcun eco nei nostri paesi e nelle
nostre vite quotidiane”.
Diamo la parola alla Barletta:
“Circa tre anni fa, insieme ad un gruppo di amici, studenti e lavoratori, abbiamo deciso di avvicinare particolari forme di povertà presenti nelle
province di Brindisi e Taranto.
La palese violazione dei diritti fondamentali dell’uomo e il desiderio di
non passare oltre, ignorando il problema, ci hanno spinti ad avvicinare donne vittime di tratta per prostituzione. Abbiamo, così, scoperto un fenomeno
vasto e complesso nelle sue dinamiche, oltre ogni nostra immaginazione. In
questi anni abbiamo incontrato perlopiù ragazze nigeriane cui proponiamo,
attraverso un lavoro in rete con altre associazioni e cooperative ed il programma di tutela nazionale, la fuga dalla tratta e l’assistenza sanitaria.
Le difficoltà, i rischi incontrati e il desiderio di fare meglio, ci hanno
spinti a costituirci come associazione, senza personalità giuridica.
Da circa un anno il Comune di Villa Castelli, paese nel quale risiedo,
ci ha concesso in comodato d’uso gratuito dei locali, che abbiamo adibito
a casa di fuga per le donne vittime di tratta e di accoglienza per gli immigrati regolari che, usciti dai centri di prima accoglienza di Bari e di Brindisi, popolano le nostre stazioni.
In questa casa, gestita secondo un regolamento interno, offriamo ai ragazzi possibilità lavorative, di studio della lingua italiana, di inserimento
nella vita sociale del paese e li seguiamo, inoltre, nel disbrigo delle pratiche per il rinnovo dei permessi di soggiorno e documenti vari.
1
La tesi di laurea Le associazioni non riconosciute: l’autonomia statutaria, la disciplina
del codice civile e le garanzie costituzionali, è stata discussa nell’anno accademico 2009-2010
all’Università di Pisa, facoltà di giurisprudenza, corso di laurea specialistica in giurisprudenza,
relatore prof. Luciano Bruscuglia. Il testo è stato elaborato dal curatore.
138
GIOVANNA BARLETTA
Alle donne che hanno deciso la fuga, offriamo ospitalità per il tempo necessario per l’organizzazione del recupero psicofisico in un centro specializzato.
Cerchiamo di fare formazione, informazione ed autoformazione, proponendo attività che coinvolgano le cittadinanze o i soli soci.
Abbiamo deciso, all’unanimità di costituirci, in data 3 marzo 2010 come
associazione non riconosciuta, dopo aver passato al vaglio i singoli punti,
valutata la corrispondenza tra gli obiettivi che l’associazione si pone e quanto espresso nello statuto, esaminati i singoli ruoli interni, abbiamo valutato
l’adeguatezza dello statuto alle intenzioni, ai desideri, ai propositi e alle intuizioni dei proponenti l’associazione stessa”.
Riportiamo alcun articoli dello Statuto che ci sembrano particolarmente interessanti.
“Il 3 marzo 2010 presso la sede della costituenda associazione “Tenda
San Damiano” i soci sottoscrittori dell’atto costitutivo della stessa, di cui
io sono parte, si sono riuniti per leggere ed approvare lo statuto.
Passati al vaglio i singoli punti, valutata la corrispondenza tra gli obiettivi che l’associazione si pone e quanto espresso nello statuto, esaminati i
ruoli interni all’Associazione è stata votata l’adeguatezza dello statuto alle
intenzioni, ai desideri, ai propositi, alle intuizioni di noi proponenti l’associazione stessa.
All’unanimità lo statuto è stato accettato senza riserva alcuna.
ART. 1 – COSTITUZIONE
È costituita una libera associazione denominata “Tenda San Damiano”.
Le sue finalità istituzionali sono di natura ideale e le attività svolte per realizzarle non hanno scopo di lucro.
L’associazione, di ispirazione cristiano-cattolico, è apartitica e apolitica ed è regolata dagli articoli 36 e seguenti del codice civile, nonché dal presente statuto.
Il suo logo riprende nella forma la croce di San Damiano e i colori che vengono utilizzati sono: il rosso per i contorni e il blu per creare l’ombreggiatura.
All’interno della croce è rappresentata una strada che partendo da due mani in
basso che tentano di ricongiungersi, termina in una tenda, stilizzata di colore oro.
I colori della strada sono dapprima scuri (nero, grigio), per poi divenire più chiari (verde) in prossimità della tenda.
ART. 4 – SCOPO ED ATTIVITÀ
L’associazione Tenda San Damiano, nata dal desiderio di non passare oltre, intristita dal vuoto in cui si levano le grida e le speranze di dignità che non trovano
alcun eco nei nostri paesi e nelle nostre vite quotidiane; poggiando sulle capacità,
possibilità, intuizioni, speranze, dubbi, difficoltà, formazione umana e cristiana di noi
L’ASSOCIAZIONE TENDA DI S. DAMIANO DI VILLA CASTELLI (BRINDISI)
139
soci fondatori, persegue finalità di solidarietà sociale a favore delle vittime di tratta
e degli immigrati, nonché di tutte le persone che versano in situazioni di disagio e
svantaggio, per la promozione dei diritti inviolabili dell’uomo e la sensibilizzazione
sociale e culturale.
Gli obiettivi che l’associazione si pone vengono svolti mediante attività ritenute
dall’associazione, opportune ed utili per il raggiungimento dei fini statutari, e sono
di seguito menzionati a titolo esemplificativo e non tassativo.
Promuovere una rete di servizi ed opere per favorire la solidarietà sociale, l’integrazione ed il miglioramento delle condizioni sociali ed economiche di vari soggetti, donne e uomini vittime di tratta ed immigrati; diversamente abili, anziani, tossicodipendenti, minori e comunque tutti i soggetti che fanno parte di categorie socio-economiche svantaggiate.
Promuovere attività di formazione di operatori sociali; corsi di aggiornamento
teorico-pratico per educatori.
Svolgere attività editoriale: pubblicazione di un giornalino informativo e di atti
di seminari e di studi compiuti.
Promuovere la tutela dei diritti umani collaborando con realtà e soggetti esterni, tra cui la Pubblica Amministrazione, Usl, Questura e Prefettura, Studi Legali; ma
anche con soggetti e realtà che operano già in tali ambiti, associazioni di volontariato, cooperative sociali, campi di accoglienza.
Promozione attività di vario genere per attuare gli scopi prefissati, nei confronti
dei soggetti di cui l’associazione si occupa. In particolare si organizzano e si curano
corsi di lingue, unità di strada, accompagnamento sanitario, assistenza domiciliare,
inserimento lavorativo e sociale, attività sportive e ricreative e ogni altra attività ritenuta utile al raggiungimento degli scopi prefissati.
Gestione di strutture attraverso le quali gli scopi dell’associazione possono essere esercitati e promossi, sia di proprietà, sia eventualmente affidate all’associazione da enti pubblici e enti privati. In particolare si tratterebbe di case di prima e di
seconda accoglienza, strutture ricreative e sportive e ogni altra possibile tipologia di
locale affine.
Promuovere attività varie, sia di tipo occasionale, come ad esempio mostre, concorsi ed altri eventi simili, nei limiti e nelle modalità previste dalla Legge, per reperire fondi utili a sostenere le attività istituzionali, che possono essere direttamente connesse o accessorie per natura a quelle statutarie, in quanto necessarie ed integrative
delle stesse.
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LUCA DE CRISTOFARO
NCO, MICROFISICA DELLA NUOVA CUCINA ORGANIZZATA
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NCO: MICROFISICA
DELLA NUOVA CUCINA ORGANIZZATA1
Ristorante pizzeria di San Cipriano d’Aversa
Luca De Cristofaro
Intro
L’idea di porre una lente d’ingrandimento su questo tema nasce dalla
volontà personale di sapere, conoscere e capire i meccanismi e il ‘backstage’ del format di Nuova Cucina Organizzata, ristorante pizzeria sociale di
San Cipriano d’Aversa gestita dalla cooperativa sociale ‘Agropoli’ che ironicamente riprende l’acronimo e parte del nome dalla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, la mafia nata negli anni ‘80 nel napoletano.
Una realtà operante nel casertano attraverso l’eno e l’ecogastronomia, perché propone prodotti biologici, di qualità e locali e rispettosi dell’ambiente.
Inoltre, alcuni di questi prodotti provengono dalle terre confiscate ai clan del
casertano e gli stessi profitti vanno ad assicurare il mantenimento, oltre che
del locale, anche di un bene confiscato, un immobile ubicato sempre nel
sanciprianese. Ancora, parte del personale, camerieri, aiuto-cuoco, ecc. sono
ragazzi e ragazze con delle disabilità.
Corpo estratto
Si comincia a conoscere l’esperienza di Nuova Cucina Organizzata già
dalla strada che si percorre per arrivare al locale. All’uscita della superstrada un vistoso pannello stradale (Benvenuti a Casal di Principe Città nativa
di Don Peppe Diana. Uniti nella Legalità si Cresce), ai piedi della rampa,
in memoria di don Peppe Diana, parroco anticamorra ammazzato il giorno
del suo onomastico, San Giuseppe, il 19 marzo 1994, a 36 anni, nella sacrestia della chiesa San Nicola di Bari in Casal di Principe mentre si accingeva a celebrare la santa messa. Stesso giorno della festa del papà e della
festa di San Giuseppe. Da quel punto bisogna attraversare tutta Casal di Principe per giungere al locale. Dà sempre l’effetto di una città fantasma e proprio in riferimento a questo potremmo meglio dire che Casale sembra una
1
Tesi di laurea discussa all’Università di Napoli Suor Orsola Benincasa, Facoltà di Scienze
della Formazione, Corso di laurea Scienze della Comunicazione, Cattedra di Sociologia delle
Produzioni Territoriali, anno accademico 2011.2012, relatore prof. Ciro Tarantino.
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LUCA DE CRISTOFARO
città che si nasconde: mura alte, abitazioni squadrate e attaccate tra loro, piccoli incroci stradali affiliati a una miriade di vicoli e viuzze. Sembra quasi
labirintica e alcune di queste vie sono vicoli ciechi. Non ci sono edifici alti
volti a manifestare la potenza e il potere sulla città se non quelli della Chiesa
o di qualche boss. Sono proprio la fede e la religiosità che danno forza non
solo ai credenti ma anche ai camorristi. È risaputo che il legame tra fede e
mafie sia forte e inscindibile e lo dimostrano, agli arresti, le abitazioni dei
superboss ‘guarnite’ di santini, crocifissi, statue di santi, bibbie, ecc.
Certo, Casal di Principe non è solo camorra, anticamorra, amministrazioni sciolte per infiltrazioni mafiose, Esercito in strada e ‘Rocco Babà’. C’è
dell’altro ovviamente.
A Casale, così come a San Cipriano d’Aversa, vi sono migliaia di persone che conducono una vita normale, con un lavoro onesto e dei figli da
mandare a scuola.
Tornando al locale. Sulla facciata esterna si può scorgere un graffito con
scritto ‘180 volte grazie Basaglia’, in riferimento alla legge 180/78 dello
psichiatra Bruno Orsini. Ispiratore della legge fu Franco Basaglia, anch’egli
medico psichiatra, che permise ai soggetti con disabilità di vivere una vita
nuova attraverso la chiusura dei manicomi e l’inserimento in contesti sociali e lavorativi. L’inserimento in questi contesti avviene, nel caso di N.C.O.,
attraverso i bandi P.T.R.I. (Progetti Terapeutico Riabilitativi Individualizzati) sostenuti dai BS (Budget di Salute) che hanno inaugurato una nuova formula di inclusione sociale. Nei suddetti bandi vengono coinvolti la Regione, l’ASL competente, le cooperative e le famiglie.
Alle soglie del 2000, furono chiamati dall’allora governatore della Regione Campania Antonio Bassolino tre medici psichiatri, Franco Rotelli,
Angelo Righetti e Giovanna Del Giudice, tutti e tre di ispirazione basagliana, con lo scopo di sperimentare questa metodologia nell’ASL di Caserta.
È dunque grazie a loro che oggi esiste Nuova Cucina Organizzata.
L’edificio, inoltre, possiede un’altra caratteristica: l’energia trasmessa dai
pannelli solari posti sul tetto della struttura garantiscono un’autosufficienza
di 14 Kw/h.
All’interno un’accoglienza molto familiare con sedie in vimini, pareti e
soffitta in legno, mazzetti e trecce di aglio e cipolla appesi, camino, un quadro con una foto di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Antonino Caponnetto, le t-shirt appese alle pareti, con le frasi ‘Per chi ha fame di diritti’ e
‘Panza chiena Camorra vacante’. Il primo slogan sta ad indicare la riappropriazione e l’affermazione dei diritti di ogni cittadino. Per una sazietà di diritti, non di privilegi. Il secondo, invece, simboleggia il fatto che andando
da N.C.O. e consumando prodotti provenienti dalle terre confiscate ai clan
è come se svuotassimo la camorra, cioè, come se le togliessimo il respiro,
l’aria, gli spazi.
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“N.C.O. nasce con delle radici sociali il 1 agosto 2007 in uno stabile a
San Cipriano non confiscato alla camorra ma in affitto grazie a un gruppo
di medici triestini di ispirazione basagliana come Rotelli, Del Giudice e Righelli che insieme a Basaglia implementano un sistema sociosanitario di riconversione della spesa sanitaria e quindi si passa dalle cliniche private ad
attività sociosanitarie”, ha detto Giuseppe Pagano, socio della cooperativa
sociale onlus ‘Agropoli’ e fondatore del progetto N.C.O., che ha aggiunto
“quando decidiamo di aprire questo gruppo di convivenza, formato dai ragazzi disabili, i nostri vicini di casa non sono molto felici di questa idea,
sono spaventati, ma gli diciamo che non devono preoccuparsi. Il tutto si
evolve quando noi comunque andiamo avanti col gruppo di convivenza e i
ragazzi iniziano a uscire per strada e a conoscere le persone. Diventano ragazzi liberati. Quando le persone iniziano a vivere gli si accende una luce
negli occhi. È come se fosse una fiamma che contagia. I nostri vicini passano dalla preoccupazione e la paura alla condivisione. Cioè quella preoccupazione, quella diffidenza che era non conoscenza e che si scioglie come
neve al sole. Davanti a cosa? Davanti ai volti, ai ragazzi, agli sguardi. Da
socialmente pericolosi, così come figura nelle proprie cartelle cliniche, in
realtà oggi sono diventati socialmente attivi”.
L’idea della ristorazione nasce così: “Vicino a questo gruppo di convivenza arrestano uno dei trenta latitanti più pericolosi d’Italia, detto ‘Cuoll
e’ pinto’. In quei giorni, in una nostra riunione, ci chiediamo com’era possibile che la nostra comunità percepiva come pericoloso chi si trovava in
difficoltà e invece dava ospitalità a chi stava uccidendo il futuro dei propri
figli e della propria terra. All’interno di questo ragionamento stavamo pensando, visto che i ragazzi cominciavano a star meglio, a un’attività lavorativa. Pensammo appunto alla ristorazione perché tra noi, chi faceva il cameriere per mantenersi agli studi, chi l’aiuto cuoco, sarebbe stato più disponibile e avrebbe trovato più semplice poter dare una mano”, ha continuato Pagano.
Perché questo nome – “Passiamo da Nuova Camorra Organizzata a Nuova Cucina Organizzata perché non vogliamo più che i camorristi si organizzino per la gestione del territorio ma che siano le persone per bene che
inizino a fare rete tra loro. La N.C.O. nasce in una situazione particolare,
quando Roberto Saviano venne a Casal di Principe e inveiva contro i superboss, Schiavone, Zagaria, Iovine, dicendo loro di andarsene. Non è stato
semplice debuttare con questa attività in quel contesto dove c’era molta tensione. La N.C.O. è partita da questa convinzione: far sì che le persone non
delegassero alla camorra la gestione del territorio, ma stesso le persone per
bene si prendessero di nuovo in mano la gestione di questa terra a partire
dall’amore nei suoi confronti. N.C.O. non vuole essere nient’altro che una
penisola. Noi siamo contro le isole nelle quali si sbandiera la bravura per-
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LUCA DE CRISTOFARO
sonale. È nelle isole che si perde. La vera forza di questo sviluppo e di questa attività è perché ci sono tante realtà, le scuole, le università, i giovani.
O è un’esperienza che si allarga o è un’esperienza che muore”, ha detto sempre Pagano.
Aspetti positivi e aspetti critici – “Un elemento positivo è sicuramente
la folta partecipazione con le persone di questo territorio, mentre il problema maggiore riscontrato è che le istituzioni ce le dobbiamo trascinare perché non ci stanno oppure non hanno la capacità di capire e di disegnare
percorsi. Quando proviamo a vendere i nostri prodotti è problematico perché associano questi territori ai rifiuti. Se noi parliamo di agricoltura c’è
bisogno anche di parlare di una mappatura dei territori e verificare quali sono
i terreni inquinati e non inquinati e su quelli non inquinati dobbiamo fare
produzione di agricoltura di nicchia, di alta qualità e biologica così da dare
prospettiva non solo alle cooperative che operano sui beni confiscati ma
anche agli agricoltori che oggi sono stretti nella morsa di un mercato che li
vuole morti perché in competizione con produzioni industriali di grande entità che non riusciremo mai ad eguagliare. Sui terreni inquinati, invece, incentivare prodotti ‘no food’ come cotone, canapa per i vestiti, fioristica o
vivaistica. Una pluralità di cose che non producono danni alla salute. Il
mercato dove si affaccia N.C.O. ha orizzonti positivi ma abbiamo bisogno
che le istituzioni affianchino questo mercato. Devono creare un marchio di
qualità ed assicurare la certificazione dei prodotti. Dobbiamo entrare nell’ottica che chi vuole mangiare sano deve mangiare campano. O disegniamo
questa strada o il rischio è che se impoveriamo questo territorio moriamo
stesso noi cittadini insieme al territorio”, ha concluso.
La cooperativa Agropoli e N.C.O. – A fine anni ‘90 Giuseppe Pagano
è impegnato nel sociale con una delle parrocchie del posto per aiutare i disabili. Nasce così, nel luglio 2000, la cooperativa sociale onlus ‘Agropolicittà dell’agro’ con la sorella di Giuseppe, Silvia, che fa da legale rappresentante dal 2006.
La cooperativa, supportata dalla legge 328/00, grazie alla metodologia
dei Progetti Terapeutici Riabilitativi Individualizzati sostenuti dai Budget di
Salute gestisce il ristorante pizzeria Nuova Cucina Organizzata e si è gradualmente specializzata nel rispondere ai bisogni socio-sanitari di persone che
non possono più contare sulla rete di supporto familiare e che hanno bisogno di un’abitazione e la progressiva personalizzazione della stessa.
“Queste persone, con il loro lavoro, – ha affermato Silvia Pagano – possono sentirsi parte attiva della società. Il modello di N.C.O. può estendersi
ovunque a partire dai beni confiscati che diventano sociali grazie alla diffusione di un modello basato sulla cultura e sul riscatto del territorio”. “Il nostro sogno – ha aggiunto – è veder rivoluzionata la mentalità di un territo-
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rio, fin troppo individualista, ed indirizzarlo verso l’importanza del bene
comune”.
Tra i maggiori risultati raggiunti vi è quello del 2010, quando a una delle
persone che aveva completato il proprio iter terapeutico e riabilitativo, è stata
conferita la cittadinanza onoraria del comune di San Cipriano d’Aversa, per
essere stato un ‘Maestro di vita’ per l’intera comunità.
Oggi, Giuseppe Pagano afferma che “la malattia è un business per lo
Stato. Ci ritengono un pericolo perché abbiamo sovvertito un percorso economico e sociale che vede il malato mentale chiuso in una struttura, nient’altro che un paziente sedato e improduttivo, senza possibilità di riscatto.
Il nostro modello è la prova che un percorso diverso è possibile: quando un
giovane con problemi mentali termina la scuola dell’obbligo trova il vuoto
ed è costretto a stare in strutture che non lo riabilitano o per strada. Il fatto
che lo Stato non faccia nulla per loro, fuorché mantenerli, senza prospettive, crea le condizioni per il proliferare della criminalità. Certo, la pizza di
N.C.O. è buona, ma non cambia le cose: un welfare diverso, ma soprattutto
un’economia diversa, sono necessari, altrimenti le azioni della magistratura
e della polizia risulteranno inutili se la politica in questo senso resta miope.
Non vogliamo altri martiri come don Peppe Diana. Abbiamo bisogno di una
nuova classe dirigente, formata da quella marea di giovani che non si sono
rassegnati a ciò che hanno intorno”.
“N.C.O. è legata ai beni confiscati – ha detto Antonio De Rosa, responsabile amministrativo della cooperativa – perché con i proventi realizzati dalle
attività di ristorazione ci siamo autoristrutturati un bene confiscato, sito in
via Ruffini, dove sorge un gruppo di convivenza”.
“La cooperativa – ha continuato De Rosa – invece, ha cominciato a
gestire i P.T.R.I. solo nel 2002. Con questi, lo Stato attraverso la Regione e
l’ASL dà dei fondi ad un soggetto e questo decide autonomamente quale
percorso di cura scegliere che non è né generico né già formalizzato ma parte
solo dai bisogni che quel soggetto esprime. Proprio per questo sono anche
individualizzati. Questo progetto si muove su quattro assi: socialità/affettività; apprendimento/espressività; casa/habitat sociale; formazione e lavoro.
Tutti e quattro gli assi vengono realizzati attraverso il gruppo di convivenza. Nuova Cucina Organizzata contribuisce a formare il percorso socio-sanitario di otto ragazzi dei quali quattro vengono impiegati in sala. Il locale
funziona a pranzo come mensa, sia interna alla cooperativa sia aperta ai ragazzi dei campi di volontariato di Libera, mentre la sera come ristorante pizzeria aperta a tutti. La nostra realtà è particolare perché è legata da un lato
ai beni confiscati e dall’altro si pone alla fine di un percorso terapeutico riabilitativo e non esistono realtà tipiche come la nostra. Molte persone ci hanno
detto che noi abbiamo operato un modello. Qui alcuni dei ragazzi lavorano
e abitano nello stesso luogo. Le persone che hanno un problema diventano
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LUCA DE CRISTOFARO
una risorsa che va ad alimentare un contesto socioeconomico, in tempi di
crisi, e un percorso virtuoso che si autosostiene. Questo modello è vantaggioso per il semplice fatto che va a smuovere e a coinvolgere il territorio.
N.C.O. inoltre promuove il territorio dando l’idea della qualità e del biologico. Noi proponiamo un’alternativa perché in un contesto del genere bisogna proporre attività di qualità. L’alternativa è la qualità”, ha concluso De
Rosa che poi ha accennato anche agli aspetti critici affermando che “Il nuovo
spaventa e fa paura. Le criticità sono sempre iniziali e la prima paura che
abbiamo dovuto sconfiggere è stata l’indifferenza perché all’inizio si è soliti storcere sempre il naso dinanzi al nuovo”.
Il bene confiscato – La cooperativa è stata assegnataria di un bene confiscato nel luglio 2009, con comodato d’uso ventennale, da parte del consorzio ‘Agrorinasce’, consistente in una villa su tre piani con annesso giardino, e su cui è attivo da maggio 2010 il presidio di Libera di San Cipriano d’Aversa.
Il bene, intitolato a Domenico Noviello (imprenditore sanciprianese purosangue e vittima innocente della camorra assassinato nel 2008 per aver
denunciato il racket), è stato inaugurato proprio a maggio 2010 dopo un intenso lavoro di ristrutturazione e manutenzione e grazie ad un investimento
di oltre sessanta mila euro da parte della stessa cooperativa.
Al primo piano è stato allestito un gruppo di convivenza per disabili
psichici in cogestione con l’ASL di Caserta sempre nell’ambito della metodologia P.T.R.I.
Al piano rialzato vi è un centro polifunzionale per giovani mentre nel
piano interrato vi è una piccola palestra per poter svolgere attività motoria
per i disabili. Il giardino è stato attrezzato per attività ludiche, musicali e
artistico culturali e il muro perimetrale è stato oggetto del progetto ‘Buchiamo i muri dell’indifferenza’ che consiste nella realizzazione di un’opera d’arte
a testimonianza degli ideali che spingono la società civile a riappropriarsi
del territorio inteso come bene comune.
L’immobile di via Ruffini è stato confiscato nel 2004 al clan del boss Pasquale Spierto. “Sembrava Alcatraz – ha detto Pagano – perché la villa era circondata da filo spinato e muri alti. Un fortino. I muri li abbiamo bucati perché
pensiamo che le persone se stanno bene non vanno via. È tutto aperto e nessuno
scappa. Questa è diventata una piazza e un bene comune. Il bene confiscato o
diventa un bene comune o non è un bene. Diventa un bene privato in quel caso.
L’azione dirompente di questo bene è stato non aver paura della comunità e la
forza di questa si basa sulla capacità che ha la stessa comunità nel rafforzare le
relazioni, e sono stati proprio i bambini e i ragazzi che ci hanno inculcato e
trasmesso i valori. Il beneficio è stato reciproco perché gli aspetti positivi sono
stati tratti sia da parte loro che da parte nostra”.
NCO, MICROFISICA DELLA NUOVA CUCINA ORGANIZZATA
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Come nascono il sequestro e la confisca dei beni in Italia – Tappa fondamentale è la legge 31 maggio 1965, n. 575 e leader del processo di sequestro e confisca è l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata istituita
con decreto legge nel febbraio 2010.
Sempre secondo i dati in possesso dell’Agenzia, nel comune di San Cipriano d’Aversa vi sono venticinque tra beni immobili in gestione e destinati, consegnati e aziende in gestione e uscite dalla gestione. Sul podio, per
la provincia di Caserta, salgono Castelvolturno con 111 beni; al secondo
posto Casal di Principe con 81 e sul gradino più basso Teano con 44 beni
destinati consegnati.
Inoltre, dei 104 comuni della provincia casertana, ben 43 sono inseriti
nell’elenco dell’Agenzia. Pertanto, ognuno di questi 43 comuni ha almeno
un bene immobile o un’azienda confiscata.
Secondo il rapporto del 9 gennaio 2012 del Centro studi Fondazione
Pol.i.s. i beni confiscati in Campania ammontano a 1817 con un’incidenza
del 13,9% sul totale dei beni confiscati in Italia. E la nostra regione è la
seconda della lista dopo la Sicilia e prima della Calabria. Non scherza la
Lombardia con 1078 beni. Ultime, invece, le regioni Marche, Basilicata e
Molise.
L’impegno di Libera – Erede della legge n. 575 del 31 maggio 1965 è
la legge n. 109 del 7 marzo 1996 presentata dall’on. Giuseppe Di Lello Finuoli, ed altri, il 15 dicembre 1994 con l’allora premier, Lamberto Dini.
La proposta di legge trovò terreno fertile grazie alle petizioni e all’impegno dell’associazione di don Luigi Ciotti ‘Libera. Associazioni, Nomi e
Numeri contro le mafie’ nata il 25 marzo 1995.
Altro tassello fondamentale per la legislazione antimafia italiana e campana è il protocollo d’intesa ‘Don Giuseppe Diana’ tra Ministero dell’Interno e Regione Campania stipulato a Casal di Principe il 31 luglio 2008 ‘per
la destinazione e l’utilizzo a fini sociali e produttivi dei beni confiscati alla
criminalità organizzata’.
Il turismo sociale – La cooperativa, ha promosso con il Comitato don
Peppe Diana, Libera e le scuole, un tour sui beni confiscati con giovani provenienti da tutta Italia nel periodo estivo. Si tratta di campi di volontariato
e di studio che l’associazione Libera da qualche anno sta programmando in
tutta Italia e presso i presidi Libera siti nei vari comuni sul territorio nazionale, quindi, maggiormente, in quei luoghi martoriati dalle mafie, soprattutto nel profondo Sud.
Non a caso, di tutti i campi che vanno dal Veneto alla Puglia, almeno
un terzo sono svolti in Campania e più della metà in tutto il Sud Italia. Al-
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LUCA DE CRISTOFARO
cuni dei campi, inoltre, vengono organizzati in collaborazione anche con altre
associazioni.
L’iniziativa è denominata ‘E!state Liberi!’ e conta ogni anno migliaia di
partecipanti. Giovani che sostituiscono ad una vacanza rilassante un’esperienza formativa ma comunque attenta al divertimento, alla relazione, alla socialità, al territorio e agli spazi dei partecipanti mettendoli in contatto sia con
la popolazione sia con i parenti di vittime innocenti della criminalità organizzata facendoli assistere a testimonianze esclusive e da pelle d’oca.
“L’obiettivo principale dei campi di volontariato sui beni confiscati alle
mafie – si legge dal sito di Libera – è quello di diffondere una cultura fondata sulla legalità e giustizia sociale che possa efficacemente contrapporsi alla
cultura della violenza, del privilegio e del ricatto. Si dimostra così, che è possibile ricostruire una realtà sociale ed economica fondata sulla pratica della
cittadinanza attiva e della solidarietà. Caratteristica fondamentale di ‘E!State
Liberi’ è l’approfondimento e lo studio del fenomeno mafioso tramite il confronto con i familiari delle vittime di mafia, con le istituzioni e con gli operatori delle cooperative sociali. L’esperienza dei campi di lavoro ha tre momenti di attività diversificate: il lavoro agricolo o attività di risistemazione del bene,
la formazione e l’incontro con il territorio per uno scambio interculturale”.
Il bene confiscato sanciprianese è sede ogni anno anche del Festival
dell’impegno civile ‘Le terre di Don Diana’.
A proposito del Festival – Promosso dal Comitato Don Peppe Diana e
dal Coordinamento Provinciale di Libera Caserta, consiste in una sfilza di
manifestazioni realizzate sui beni confiscati alla criminalità organizzata nei
mesi di giugno, luglio ed agosto attorno alla musica, al teatro, alle mostre,
al cinema, all’enogastronomia e agli innumerevoli dibattiti e presentazioni di
libri riempiti da nomi e cognomi che danno lustro alla lotta contro tutte le
mafie: magistrati, parenti di vittime innocenti della camorra, giornalisti di
frontiera, sindacalisti, artisti, Istituzioni, cooperative.
Il Festival, a partire da San Cipriano d’Aversa, si ramifica nelle province di Napoli, Caserta ed Avellino.
Il cibo è più forte della camorra – Con e mediante il cibo si comunica, ci si conosce, si dibatte, si litiga, si creano avversioni e simpatie.
Tra le tante iniziative nelle quali ha partecipato anche Nuova Cucina
Organizzata vi è quella ideata dal Comitato Don Peppe Diana, ‘Facciamo
un pacco alla camorra’ risultato di un progetto in rete che vede coinvolte
cooperative sociali nel riuso produttivo e sociale dei beni confiscati alla camorra coltivando e trasformando i prodotti delle Terre di don Peppe Diana,
che oggi hanno tutti i requisiti della qualità e vogliono porsi all’attenzione
di un commercio equo e sostenibile.
NCO, MICROFISICA DELLA NUOVA CUCINA ORGANIZZATA
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Inaugurata nel dicembre 2010 con la vendita di circa 2000 pacchi, venne sperimentata già nello stesso periodo dell’anno precedente dove furono
venduti circa 800 confezioni natalizie realizzate con prodotti che provenivano
da diverse cooperative e associazioni.
Con quest’iniziativa è stato possibile anche l’inserimento lavorativo di
persone svantaggiate nelle attività di recupero e gestione degli stessi beni
confiscati.
“La nostra esperienza, – ha aggiunto De Rosa – ha rappresentato e rappresenta per il nostro territorio non una novità ma una rivoluzione silenziosa che è partita con un nuovo modo di fare welfare e che ha messo al centro la persona con i suoi bisogni e le sue potenzialità e l’ha resa protagonista della sua cura e della sua salute che passa anche attraverso la riappropriazione di dignità e di diritti”.
Le cooperative che hanno contribuito a fare il ‘pacco’ sono: coop. soc.
‘Eureka’ di San Cipriano d’Aversa; coop. soc. ‘Un fiore per la vita’ di Aversa; coop. soc. ‘Al di là dei sogni’, di Maiano di Sessa Aurunca; coop. soc.
‘Le Terre di don Peppe Diana’ sui terreni confiscati alla camorra a Pignataro Maggiore; coop. soc. ‘Agropoli’ di San Cipriano d’Aversa; coop. soc. ‘Lazzarelle’, presso la casa circondariale femminile di Pozzuoli; coop. soc. ‘Altri orizzonti by J. E. Maslo, di Castelvolturno.
“L’obiettivo – ha detto ancora De Rosa – è promuovere il territorio e
il bene confiscato. Da N.C.O. mangi prodotti sia provenienti dal territorio
a km 0 sia prodotti coltivati sui beni confiscati. N.C.O. ha come obiettivo
quello di un’attività imprenditoriale inserita nel contesto per promuovere il
contesto”.
Da dove proviene il grano? – Il grano per le pizze della Nuova Cucina
Organizzata viene raccolto sui terreni confiscati a Francesco Schiavone meglio conosciuto come ‘Cicciariello’, cugino e omonimo del più famoso Sandokan, capo dei casalesi, a Santa Maria La Fossa, nell’hinterland casertano.
Lo stesso grano viene lavorato per fare la pasta a marchio Nuovo Commercio Organizzato del pacco di ‘Facciamo un pacco alla camorra’. Sei ettari
di terreno convertiti al biologico e strappati alla camorra con 400 quintali
di ‘oro giallo’ coltivati.
Tutti questi prodotti quindi compongono il menù di N.C.O.: un menù
buono, pulito e giusto come il motto del guru della enogastronomia italiana, Carlo Petrini, fondatore e presidente di Slow Food Internazionale. Buono perché con tali prodotti si garantisce la qualità, il diritto al piacere e alla
felicità; Pulito perché essendo prodotti biologici o in riconversione al biologico non sono soggetti a modifiche di sostanze chimiche, sono prodotti totalmente naturali e non stressano e depauperano il territorio; Giusto perché
si garantisce il riscatto, la memoria delle vittime innocenti di camorra e
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LUCA DE CRISTOFARO
l’amore per la propria terra così come nel menù di N.C.O. con la pizza ‘Don
Peppino’ che rimanda al ricordo e all’impegno di Don Peppe Diana.
C’è N.C.O. e N.C.O. – Il nome dell’attività Nuova Cucina Organizzata
si rifà a quello della Nuova Camorra Organizzata che seminò il terrore negli anni ‘70 e ‘80 in queste terre con il boss Raffaele Cutolo e la sorella,
Rosetta, considerata la cassiera dell’organizzazione. Il fondatore è quindi
Cutolo, detto anche ‘il sommo’ o ‘il professore’, nato a Ottaviano, ai piedi
del Vesuvio, nel 1941.
La struttura della mafia cutoliana, che si opponeva a Cosa Nostra, è piramidale con al vertice, ‘il Vangelo’, cioè Cutolo; poi i suoi bracci destri detti
‘Santisti’ (Corrado Iacolare, Vincenzo Casillo, Pasquale Barra, Antonino
Cuomo); al di sotto gli ‘Sgarristi’, cioè i capizona e ancora i ‘Picciotti’, ossia, gli affiliati e la manovalanza di killer denominati ‘Batterie’.
Nasce come banda carceraria nel carcere di Poggioreale a fine anni ‘70
e nel 1980 contava già 7000 affiliati. Nel corso della sua ‘carriera’, Cutolo,
stringe rapporti con la Sacra Corona Unita, la ‘ndrangheta e le bande lombarde di Renato Vallanzasca e Francis Turatello.
Il tramonto di Nuova Camorra Organizzata avvenne alla fine degli anni
‘80 quando molti dei boss furono uccisi o arrestati e questa venne soppiantata dalla ‘Nuova Famiglia’, una confederazione di clan del centro di Napoli. Prima del declino totale di Cutolo e dei suoi fedelissimi ci fu la guerra con la Nuova Famiglia che in sei anni provocò la morte di quasi mille
persone.
Ma Nuova Cucina Organizzata non è nulla di tutto questo e l’unico elemento che ha in comune con la N.C.O. di Cutolo è, appunto, l’acronimo.
Dalla N.C.O. di San Cipriano la simbologia è il volano, la locomotiva
e l’azione trainante della lotta anticamorra e del riscatto sociale.
Ciononostante, negli anni, questo tipo di realtà sono state oggetto di
minacce. “L’anno scorso – ha precisato Pagano – alcune cooperative sono
state minacciate nei terreni confiscati alla camorra. Denunciammo ma poi
continuarono con le intimidazioni. La prima volta ruppero delle recinzioni
e la seconda minacciarono i ragazzi di andar via da quel bene e di non ritornarci più. Ma denunciammo anche questo attraverso varie iniziative. Dopodiché colpirono ancora: questa volta tagliando i tubi di irrigazione del
pescheto compromettendo il raccolto. Per il raccolto serviva una corposa
quantità d’acqua che ci fu fornita dai vicini della terra che diedero l’acqua
alla cooperativa. È stato bello pensare che la forza di quell’azione fu la condivisione e la solidarietà dei vicini perché avevano capito cosa stavamo facendo e nel capirlo ci diedero una grossa mano”.
Sul come resistere una lezione l’ha data ancora De Rosa: “Abbiamo lavorato molto sulla rete. Più ne siamo meglio è. In questo contesto la scelta
NCO, MICROFISICA DELLA NUOVA CUCINA ORGANIZZATA
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di marketing è l’unione, il gruppo, a differenza di quando sei solo perché
sei individualizzabile e di conseguenza eliminabile”.
Dunque, minacce particolarmente gravi non ve ne sono state e potremmo chiederci il perché provando a dare anche delle motivazioni.
Le mafie, in questi territori, sono ben nascoste nei vari comparti della
società e ciò potrebbe quasi far pensare che tutto e tutti sembrano collusi
con il fenomeno camorristico.
Anche se, andando nello specifico, il confine tra camorra e anticamorra, ad eccezione di quei casi di devota anticamorra, sembra sottilissimo. Ciononostante, i padri fondatori, i veterani delle camorre di queste terre convivono con un sistema criminale ben incatenato e quindi è come se questi individui e queste famiglie siano inimitabili e non si possano emulare perché
inediti, quasi rari, proprio perché introvabili e nascosti.
E proprio perché rari sono desiderati, ma dalla giustizia, dai magistrati,
dalle forze di polizia, dalle leggi e dai parenti delle vittime innocenti della
criminalità organizzata.
Le minacce, allora, convivono con la paura e, allo stesso modo, anche
chi fa anticamorra in maniera un po’ più ‘esposta’ deve convivere con essa.
Ma questo non significa entrare nel terrore, nel panico e quindi pensare di
cambiare strada. Anzi, deve fungere da stimolo per andare avanti, per continuare a fare sempre di più.
Per quale motivo allora N.C.O. non ha subito minacce? Forse perché i
camorristi detengono una scala di rischi, di vari livelli, dal più basso al più
alto. Più si sale nella scala di rischi più faranno di tutto, a poco a poco, per
eliminarti. Ma le mafie dopo gli anni delle stragi si sono evolute e di conseguenza hanno modificato il loro approccio nei confronti di chi si pone contro di loro.
Una cucina pazza – Quelli che oggi ci sembrano luoghi giurassici, prima, invece, reggevano in piedi tutto il sistema psichiatrico italiano: i manicomi. Questi luoghi, che oggi sembrano misteriosi e leggendari, in realtà, fino
alla fine degli anni ‘70, raccoglievano migliaia di persone, esseri umani,
definiti malati di mente e quindi condannati a vita a consumare la propria
esistenza in questi luoghi chiusi che prima venivano messi allo stesso livello delle carceri.
Da una parte i devianti mentali colpevoli soltanto di essere nati in un
determinato modo, dall’altra i devianti criminali che invece, per scelta o
necessità, sono colpevoli di aver commesso atti criminosi.
È in questi luoghi che si celebra la morte totale dell’individuo e nei quali
si assiste a un vero e proprio genocidio mentale. A queste persone non viene data la possibilità di crescere socialmente e culturalmente così da uscirne migliorati al termine del proprio ‘percorso riabilitativo’ perché conside-
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LUCA DE CRISTOFARO
rati uomini e donne di serie B, senza diritti né dignità. Considerati la ‘spazzatura’ della società per secoli e quindi rinchiusi nei manicomi, luoghi cupi,
tristi e senza alcuno stimolo da fargli recepire.
Per fortuna, oggi, le cose sono cambiate, in meglio ovviamente.
Se per le carceri la situazione rimane, in Italia, molto critica, per quanto riguarda l’ambito psichiatrico, i manicomi, questi, non esistono più.
Chiusi, distrutti, riconvertiti in altri contesti sociali e sociosanitari. Rimane solo un ricordo indelebile per gli uomini e le donne che vi hanno vissuto.
I cambiamenti che ha apportato la nuova concezione di ‘malato’ da parte
della neopsichiatria o, meglio conosciuta come l’antipsichiatria, sono stati
grandiosi.
Il vuoto che hanno lasciato i grandi della psichiatria, i ‘mammasantissima’, tra cui Franco Basaglia, è stato colmato da altri medici professionisti.
Prima uomini e quindi sensibili, poi medici.
Alla Nuova Cucina Organizzata è possibile toccare con mano e con gli
occhi gli sforzi, i risultati e l’impegno di tutte quelle persone che da anni
lottano per far sì che determinate persone possano rivivere in un contesto
ancor più significativo: un contesto anticamorra.
Il destino dei ragazzi della Nuova Cucina Organizzata viene illuminato
e protetto dal promotore della riforma psichiatrica in Italia: Franco Basaglia,
psichiatra e neurologo veneziano, ispiratore della cosidetta legge 180, nota
come ‘Legge Basaglia’, che rivoluzionò il sistema degli ospedali psichiatrici italiani riconsegnando ai ‘pazzi’ i diritti umani appartenenti a ogni essere
umano sanciti nelle carte costituzionali di ogni paese democratico al mondo, in Europa e nella nostra Costituzione.
Laureato in medicina e chirurgia all’Università di Padova, nel 1952 si
specializza in ‘Malattie nervose e mentali’ presso la clinica neuropsichiatrica di Padova.
Dopo aver ottenuto la libera docenza in psichiatria, per le sue idee rivoluzionarie non viene bene accolto in ambito accademico e nel 1961 vince il concorso per dirigere l’ospedale psichiatrico di Gorizia rinunciando così
alla carriera universitaria.
A Gorizia, s’iniziano ad applicare nuove regole di organizzazione e di
comunicazione all’interno dell’ospedale, vengono eliminate le contenzioni
fisiche e le terapie di shock, s’incomincia a prestare attenzione alle condizioni di vita degli internati e ai loro bisogni. La vita comunitaria dell’ospedale si arricchisce di feste, gite, laboratori artistici. Si aprono spazi di aggregazione sociale e si aprono le porte dei padiglioni e i cancelli dell’ospedale.
Nel 1969 Basaglia lascia Gorizia e, dopo due anni, si trasferisce a Parma dove dirige l’ospedale di Colorno.
NCO, MICROFISICA DELLA NUOVA CUCINA ORGANIZZATA
153
Nell’agosto del 1971, invece, diviene direttore del manicomio di Trieste.
Basaglia istituisce subito, all’interno dell’ospedale psichiatrico, laboratori di pittura e di teatro. Nasce anche una cooperativa di lavoro per i pazienti, che così cominciano a svolgere lavori riconosciuti e retribuiti. Ma
ormai sente il bisogno di andare oltre la trasformazione della vita all’interno dell’ospedale psichiatrico: il manicomio per lui va chiuso e al suo posto
va costruita una rete di servizi esterni, per provvedere all’assistenza delle
persone affette da disturbi mentali.
Nel gennaio 1977 viene annunciata la chiusura del manicomio ‘San Giovanni’ di Trieste entro l’anno e cominciano a nascere i primi centri di salute mentale.
L’anno successivo, il 13 maggio 1978, in Parlamento viene approvata
la legge 180 di riforma psichiatrica.
Nel 1979 Basaglia parte per il Brasile, dove, attraverso una serie di seminari raccolti successivamente nel volume Conferenze brasiliane, testimonia la propria esperienza: “...la cosa importante è che abbiamo dimostrato
che l’impossibile diventa possibile. Dieci, quindici, vent’anni fa era impensabile che un manicomio potesse essere distrutto. Magari i manicomi torneranno a essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma ad ogni modo
abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in altra maniera, e
questa testimonianza è fondamentale. Non credo che il fatto che un’azione
riesca a generalizzarsi voglia dire che si è vinto. Il punto importante è un
altro, è che ora si sa cosa si può fare. È quel che ho detto già mille volte:
nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, noi non possiamo vincere perché è il potere che vince sempre. Noi possiamo al massimo convincere. Nel momento in cui convinciamo, noi vinciamo, cioè determiniamo una
situazione di trasformazione difficile da recuperare”.
Franco Basaglia muore a soli 56 anni, nel 1980, per un tumore al cervello e solo poco più di un anno dall’istituzione della sua legge che ha consentito la rivendicazione dei diritti delle vite dei così detti ‘pazzi’. Questi,
sono tornati a vivere e a essere presi in considerazione da quei ‘normali’ che
li consideravano non uomini, ma cartelle cliniche. E basta.
Con la legge Basaglia si modifica la legge del 1904, la quale asseriva
che il malato di mente è pericoloso per sé e per gli altri.
Dal 1968 poi le successe la legge Mariotti, la l. 431/1968, del ministro
Luigi Mariotti, con la quale il ‘malato di mente’ è una persona con una
malattia pari alle altre. Inoltre, figura l’istituzione di alcune attività preventive e riabilitative al di fuori delle mura del manicomio.
L’identikit sui P.T.R.I. – Come abbiamo già accennato i P.T.R.I. sono i
Progetti Terapeutico Riabilitativi Individualizzati sostenuti da Budget di Salute ossia percorsi integrati atti a soddisfare i bisogni che richiedono unita-
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LUCA DE CRISTOFARO
riamente prestazioni sanitarie e azioni di protezione sociale; essi sono rivolti a utenti con disabilità sociale conseguente a malattie psico-organiche o a
marginalità socio-ambientale.
Sono cogestiti dal servizio pubblico (ASL/Comuni) e da soggetti del
privato sociale, individuati sulla base di un apposito elenco (realizzato ai
sensi di un avviso pubblico costantemente aperto).
L’obiettivo prioritario è la progressiva trasformazione, nel limite di tre anni,
dei bisogni e interventi sanitari a rilevanza sociale in bisogni e interventi sociali
a rilevanza sanitaria, investendo e promuovendo l’inclusione e il mantenimento
nel corpo sociale delle persone con disabilità sociale grave.
La metodologia prevede due tipologie di azioni interdipendenti: una prima, relativa all’erogazione delle prestazioni sociosanitarie integrate; una seconda, comprendente tutte le azioni finalizzate allo sviluppo socioeconomico delle comunità territoriali di appartenenza degli utenti.
I P.T.R.I. prevedono tre livelli di intensità progettuale (alta, media e
bassa) ognuno dei quali della durata massima di 12 mesi. Inoltre, la durata
complessiva dei P.T.R.I., relativi al singolo utente, non possono essere superiori ai 36 mesi, durante i quali l’obiettivo progettuale è il passaggio degli
utenti da una tipologia di contratto d’intensità maggiore ad una di minore
intensità.
Il progetto, avviato agli inizi del 2000 dall’allora ASLCe2 (l’ex Azienda Sanitaria Locale di Caserta 2 che insieme all’ex Azienda Sanitaria Locale di Caserta 1, nel 2009, si sono accorpate nell’unica ed attuale ASL Caserta), nel 2008, secondo il modello di cogestione dei P.T.R.I., ha preso in
carico 783 persone svantaggiate rispetto alle 627 del 2006. Ad oggi, invece, si contano 1200 persone.
Dall’assegnazione del bene confiscato nel 2010 il destino di N.C.O. è
stato disturbato da parte di soggetti terzi che hanno tentato di metter loro i
bastoni tra le ruote. E questo destino riguarda i PTRI che costano molto
meno di un percorso in una struttura sanitaria o sociosanitaria. Possono costare infatti, a seconda della situazione del soggetto, da un minimo di 22 euro
giornalieri, a una situazione media di 48 euro giornalieri per finire ai 78 euro
massimo al giorno.
I costi relativi a strutture sociosanitarie invece ammontano a più di 100
euro al giorno offrendo un servizio, in termini di crescita dell’utente, inferiore a quello previsto dai P.T.R.I.
“Non a Brescia ma a San Cipriano d’Aversa” – La frase che ripete spesso Pagano cita due mondi quasi opposti. Brescia, città del Nord Italia, e San
Cipriano d’Aversa, piccolo comune del casertano, martoriato dalla camorra,
dall’indifferenza e dall’omertà.
Paolo, Pasquale, Alessandra, Felicia, Gianluca, Lina, Carmine, Claudio:
NCO, MICROFISICA DELLA NUOVA CUCINA ORGANIZZATA
155
sono solo alcuni nomi dei ragazzi che lavorano da N.C.O. e che si svegliano ogni mattina per pulire la sala e il cortile, per apparecchiare i tavoli, per
cucinare e servire.
Ognuno con un ruolo diverso ma tutti con lo stesso obiettivo: tenere
stretti i propri diritti e i propri sogni come quello di Paolo, diplomato, da
quattro anni al servizio di N.C.O., a cui piacerebbe lavorare nel settore turistico. Poi c’è la grinta di Pasquale, aiuto cuoco, da due anni al ristorante
N.C.O. felice di aver imparato l’arte della cucina.
Poi c’è Gianluca. La vita di Gianluca è emozionante e ci si stupisce ogni
volta ad ascoltarla. Da una breve parentesi militare, si ritrova ex tossicodipendente. Ha lasciato tante cose prima di arrivare a Nuova Cucina Organizzata: la droga, le slot machines, il lavoro, l’amore.
Oggi, però, ne ha recuperate tante altre. Ha recuperato la voglia di crescere, l’autostima, il rispetto, l’ironia, il sorriso, la voglia di vivere onestamente.
Oggi Nuova Cucina Organizzata non è solo lotta anticamorra e non è
solo cucina. Oggi N.C.O. è riscatto, è togliere il fiato alla criminalità organizzata e strappare, dalle sue grinfie, gli uomini onesti. Oggi N.C.O. è restare in questa terra e lottare per ogni suo granello.
“Una delle cose più brutte che ricordo – ha detto Giuseppe Pagano –
sono quei tanti amici, persone per bene, persone che davano l’anima, che
arrivati ad un certo punto si sono sentiti quasi traditi da questa terra e se
ne sono andati quasi sbattendo i piedi. Queste sono cose che ti fanno riflettere tantissimo e ti fanno capire che la camorra non ha solo ammazzato delle
persone e avvelenato dei terreni ma ha condizionato la vita stessa di questa
terra. Ci ha tolto le persone migliori”.
Che mondo sarebbe senza NCO? – Sarebbe sicuramente un mondo con
altre esperienze ma senza l’originalità della realtà di cui abbiamo parlato.
Abbiamo analizzato la storia di Nuova Cucina Organizzata, fatta di persone, volti e nomi comuni che non hanno nulla a che fare con i personaggi
famosi. Si tratta di persone umili, semplici e dietro i riflettori. Fanno parte
ancora di un’Italia che non riesci a vedere in televisione, sul grande schermo o sulle grandi testate, ma le vedi tutti i giorni lavorare, sorridere, fare
del bene a sé e agli altri. E, almeno loro, i ‘matti’ di N.C.O., non si ritengono diversi rispetto a tutti gli altri cittadini sanciprianesi e casalesi, diversamente invece da chi ha paura della diversità. Tutto questo è scaturito oltre che dalla non conoscenza anche dal disinteresse e dall’indifferenza. Si
ha paura del diverso. Bisogna partire dalla socio-diversità e da quel che diceva Edmund Burke, filosofo irlandese del ‘700, “Perché il male trionfi è
sufficiente che i buoni rinuncino all’azione”.
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MARIA RITA CARDILLO
IMMIGRARE A CASERTA. L’ESPERIENZA DEL CENTRO SOCIALE EX CANAPIFICIO
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IMMIGRARE A CASERTA.
L’ESPERIENZA DEL CENTRO SOCIALE EX CANAPIFICIO1
Mariarita Cardillo
Il contesto italiano: da Paese di emigranti a terra di immigrati
“Il 12 per cento delle persone che partono dalle coste della Libia e dalla Tunisia non arriva in Europa. Il 12 per cento significa che tra 182 passeggeri su questo camion, 22 moriranno. E se di questo si salveranno tutti,
del prossimo ne moriranno forse 44. Oppure 66 di quello che verrà dopo.”
Arrivano sulle nostre coste con mezzi di fortuna, di notte, al buio, attraversando il deserto e il Mediterraneo. La maggior parte entra in Italia in
treno, in pullman, in aereo con un visto d’ingresso o un permesso temporaneo. Sono ragazzi e ragazze provenienti prevalentemente dall’Europa dell’Est
e dall’Africa, giovani, giovanissimi. La scelta di emigrare e lasciare il proprio Paese, lontani dalla famiglia, dai figli, dagli affetti non è mai una scelta facile. Scappano da guerre, soprusi, sfruttamento, fame, povertà; lasciano
Paesi economicamente disastrati alla ricerca di un futuro migliore. Si affidano a trafficanti senza scrupoli, o pagano costosi visti d’ingesso alle corrotte ambasciate locali: un viaggio può costare dai 2mila a 12mila euro. Sono
i risparmi di una vita, risparmi che andranno a pagare un viaggio che non
si sa dove e come finirà. La maggior parte sa perfettamente di poter morire
in mare, nel deserto ma, a volte, la voglia di vivere è più forte della consapevolezza di poter morire.
Da Paese di emigranti a terra di immigrati l’Italia ha visto, tra gli anni
Settanta e Ottanta dello scorso secolo, cambiare il suo ruolo nel panorama
politico ed economico mondiale, diventando una delle mete dell’immigrazione internazionale. Negli ultimi anni gli sbarchi di immigrati e profughi a Lampedusa hanno acceso i riflettori sul fenomeno dell’immigrazione, alimentando spesso la paura del “diverso” tra la società civile. Li chiamano “clandestini” ma la maggior parte degli immigrati in Italia non è in condizione di clandestinità, essendo “clandestino” chi entra senza alcun documento in uno Sta1
Tesi di laurea magistrale discussa all’Università degli studi di Roma “La Sapienza”, Facoltà di Lettere, Filosofia, Scienze umanistiche e Studi Orientali, corso di laurea in Editoria e
Scrittura, Giornalismo d’inchiesta, anno accademico 2011-2012.
158
MARIA RITA CARDILLO
to diverso dal proprio. Nonostante il “bombardamento mediatico” degli ultimi anni abbia fatto passare l’idea di un numero enorme di presenze, il numero
di clandestini presenti sul territorio è sempre stato contenuto, con un sensibile aumento dovuto agli sbarchi degli scorsi anni. Sono invece molti di più gli
“immigrati irregolari”, i cosiddetti overstayers, coloro i quali entrano con un
regolare documento d’ingresso e alla scadenza del documento restano sul territorio straniero, cercando di trovare il modo di rinnovarlo e di rimanere in
Italia. Il fenomeno migratorio ha subito negli anni cambiamenti radicali coinvolgendo Paesi e scenari sempre diversi, in particolar modo negli ultimi decenni in corrispondenza delle trasformazioni della società mondiale e in relazione alla globalizzazione dell’economia che ha accentuato il divario tra i Paesi
del Sud e del Nord del mondo. I movimenti di popolazione hanno avuto scansioni diverse nel tempo e nello spazio, dando vita a una serie di fasi caratterizzate da particolari fenomeni storici, politici ed economici. L’Italia è stata,
per circa un secolo, uno dei maggiori paesi d’emigrazione ed è solo durante
la seconda metà degli anni settanta che ha iniziato ad essere meta di flussi
d’immigrazione provenienti, in particolare, dal Maghreb e dai paesi dell’Europa orientale facenti parte dell’ex blocco socialista. All’inizio del 2011, come
si evince dai dati forniti dal Dossier Statistico Immigrazione della Caritas, i
cittadini stranieri in Italia hanno superato i 4 milioni e mezzo con un’incidenza
sul totale della popolazione del 7,5%. Il numero sale se si tiene conto delle
oltre 400 mila persone regolarmente presenti ma non ancora registrare all’anagrafe, e delle migliaia di persone che vivono in maniera irregolare o che attendono il rinnovo del permesso di soggiorno. La componente prevalente resta quella europea con il 53% di immigrati provenienti soprattutto dall’Europa dell’Est, seguono L’Africa (21,6%), L’Asia (16%), L’America (8,1%) e una
insignificante percentuale dell’Oceania (0,1%). Nonostante nel corso degli
ultimi anni si sia assistito a un “recupero” di popolazione straniera da parte del
Mezzogiorno (nel corso del 2010, infatti, l’incremento registrato per il Mezzogiorno è stato dell’11,6%, a fronte di un dato nazionale medio pari al 7,9%),
al 1° gennaio 2011 in Italia gli stranieri regolarmente iscritti alle anagrafi dei
comuni si concentrano ancora nelle regioni del Nord e del Centro del paese,
dove risiede complessivamente l’86,5% delle persone. Il Nord accoglie da solo
il 61,3% delle presenze, il Centro il 25,2%, mentre quote molto minori di presenza caratterizzano le regioni del Sud (9,6%) e le Isole (3,9%).
Caratteristiche e peculiarità del fenomeno migratorio in Campania
In questo scenario in continua evoluzione, la Campania rappresenta un
contesto particolare nel quale, spesso, gli immigrati si ritrovano a dover
convivere con criminalità e l’illegalità diffusa. Definire il modello delle migrazioni in Campania è oggi molto complesso sia dal punto di vista del-
IMMIGRARE A CASERTA. L’ESPERIENZA DEL CENTRO SOCIALE EX CANAPIFICIO
159
l’articolazione territoriale, sia per alcuni aspetti particolari che differenziano
questa dalle altre regioni d’Italia. La regione è passata dall’essere esclusivamente una terra di transizione a un’area di stabilizzazione di molti migranti
e delle loro rispettive famiglie. Tra il 2005 e il 2010, il numero dei residenti
stranieri nella regione è aumentato del 77,4% con un incremento percentuale annuo del 17,1%, collocandosi al settimo posto tra le regioni italiane, con
164.268 stranieri residenti (3,6% del dato nazionale). Nel corso degli ultimi
dieci anni l’immigrazione straniera in questa regione, infatti, non solo è fortemente cresciuta in termini quantitativi, ma ha assunto delle connotazioni
abbastanza specifiche che consentono di riconoscere una sorta di modello
campano dell’immigrazione. Tali connotazioni riguardano, in particolare, il
ruolo svolto dagli immigrati nell’economia locale e la loro prevalente collocazione all’interno del settore dell’economia informale. Una delle particolarità del territorio campano, e di gran parte del meridione, è infatti, la massiccia diffusione del lavoro sommerso e l’alta quota di pratiche illegali di
cui il ricorso a immigrati è divenuto quasi un tratto costitutivo. Migliaia di
immigrati sono infatti sfruttati nel turpe “mercato delle braccia”, costretti a
lavorare in nero, principalmente nell’edilizia ed in agricoltura, con paghe
sempre più basse (anche sotto i 20 euro a giornata) e in condizioni di sicurezza inesistenti. Sono i cosiddetti kalifoo (termine libico che significa letteralmente “schiavo alla giornata”), presenti in tutte le “piazze” del lavoro
nero, nella conurbazione tra Napoli e Caserta, da Casal di Principe a Baia
Verde (Castel Volturno), da Villa Literno a Licola, Afragola, Scampia, Quarto,
Caivano, Qualiano, Marano, Villaricca e Giugliano. Una recente ricerca Fillea (edili) e Flai (agricoltori) della Cgil, relativa ai primi mesi del 2011, ha
rivelato che in Campania il 55% delle aziende agricole è irregolare e oltre
1.600 braccianti sono irregolari. Il quadro non migliora nel settore edile dove
il 63% dei cantieri non è in regola, il 25% dei lavoratori edili non ha un
regolare contratto lavorativo e su 5.542 aziende controllate, 3.665 (pari al
66,1% del totale considerato) sono state le violazioni riscontrare, in particolare rispetto alla sicurezza sul lavoro.
Facendo riferimento ai dati Istat, gli stranieri presenti in Campania rappresentano il 26,5% del totale meridionale, precedendo nell’ordine Sicilia
(22,9%) e Puglia (15,5%).Per quanto concerne, invece i vari contesti provinciali, Napoli si conferma la città con la maggiore presenza straniera con
il 46,2%, anche se c’è stato un incremento delle altre province rispetto ad
anni passati in cui Napoli rappresentava un polo esclusivo di richiamo. Negli ultimi anni, infatti, si sono aperti spazi nella attività di commercio ambulante e in gran parte della regione sono emerse possibilità di lavoro nelle
aree rurali, nei servizi alle imprese, nonché la richiesta di manodopera edile; nella stragrande maggioranza dei casi, però, si è trattato di lavori precari, dequalificati e al limite dello sfruttamento. Inoltre l’emersione di una
160
MARIA RITA CARDILLO
domanda, da parte delle famiglie, sempre più articolata ed orientata a soddisfare carenze del sistema welfare locale, ha costituito un potente elemento di richiamo, mente nell’ultimo decennio, soprattutto con l’espandersi delle
comunità cinesi, si è assistito a un forte sviluppo delle attività autonome. Alle
spalle del capoluogo di regione si conferma la provincia di Salerno, che annovera il 23,2% degli immigrati residenti in regione. Segue la provincia di
Caserta, dove risulta essersi stabilito il 20,0% dei migranti residenti in Campania e che ha delle caratteristiche particolari che analizzeremo in maniera
approfondita. Le ultime due province per numero di immigrati residenti si
confermano essere Avellino (6,9%) e Benevento (3,8%).
La provincia di Caserta e l’area di Castel Volturno
La provincia di Caserta, in particolare, fin dai primi insediamenti ha
rappresentato una delle aree a maggior concentrazione di stranieri immigrati. Si colloca, infatti, al terzo posto per distribuzione territoriale degli immigrati nella regione Campania, e al primo posto per incidenza della popolazione immigrata su quella autoctona. Inoltre la provincia di Caserta ha la
maggiore percentuale di richiedenti asilo e rifugiati della regione. La sola
città di Castel Volturno ha fatto registrare nel 2010 una percentuale del 12,1
di incidenza del numero di stranieri sulla popolazione residente, nettamente
superiore alle altre città campane. Il comune di Castel Volturno, che si estende lungo il litorale domitio in provincia di Caserta, per le sue caratteristiche e peculiarità rappresenta certamente una particolarità nel contesto italiano. Da luogo di passaggio a luogo di ancoraggio e stabilizzazione, la “Castel Volturno Area”, come spesso viene definita, ha subito una serie di cambiamenti e modifiche dovute proprio alla presenza persistente di comunità
straniere – soprattutto di origine africana -, che hanno contribuito a cambiare
il volto della città e dell’economia locale. Come per il resto della regione,
il fenomeno dell’immigrazione nella provincia di Caserta ha avuto inizio
negli anni ’80 con l’arrivo di lavoratori immigrati provenienti prevalentemente dalle regioni del Magreb. Gli stranieri, attirati dalla possibilità di trovare
un facile impiego nel settore dell’agricoltura giunsero nell’area del Comune
di Castel Volturno e nelle campagne di Villa Literno, soprattutto durante la
stagione estiva, per la raccolta dei pomodori. I primi immigrati, infatti, cominciarono ad arrivare a Castel Volturno in seguito alla grande speculazione edilizia che caratterizzò tutta la zona. Tra la fine degli anni cinquanta e
gli anni sessanta i grandi imprenditori edili, la maggior parte collusi con la
camorra, iniziarono a mettere “le mani sulla città”, individuando il litorale
come un’ottima area di espansione dei loro progetti speculativi. Risultato: il
litorale domitio nel giro pochi anni fu ricoperto da un’immensa colata di
cemento. In un clima di abbandono e disinteresse da parte delle istituzioni
IMMIGRARE A CASERTA. L’ESPERIENZA DEL CENTRO SOCIALE EX CANAPIFICIO
161
nazionali e soprattutto locali, caratterizzate, spesso, da condizionamenti camorristici, a Castel Volturno è dilagata la speculazione e l’abusivismo edilizio sfrenato: campi agricoli resi edificabili, chilometri di pineta demaniale e
di spiagge distrutte, che hanno creato danni irreparabili per l’ecosistema
marino e la balneazione, tutt’oggi impraticabile. A Pinetamare i Coppola,
famiglia di imprenditori molto potenti, costruirono il più grande agglomerato urbano abusivo d’Occidente. Ottocentosessantatremila metri quadrati occupati col cemento, il Villaggio Coppola, appunto. Non fu chiesta autorizzazione, non serviva, in questi territori le gare d’appalto e i permessi sono
modi per aumentare vertiginosamente i costi di produzione poiché bisogna
oliare troppi passaggi burocratici. Così i Coppola sono andati direttamente
con le betoniere. Quintali di cemento armato hanno preso il posto di una
delle pinete marittime più belle del Mediterraneo. Furono edificati palazzi
dai cui citofoni si sentiva il mare. Simbolo per eccellenza dell’abusivismo
edilizio casertano è il Villaggio Coppola, che Roberto Saviano in Gomorra
definisce “il più grande agglomerato urbano abusivo d’Occidente.” Nel 1962,
nel giro di pochi mesi, a Pinetamare (Castel Volturno) sorsero dal nulla e
senza autorizzazione, 8 torri di 12 piani costruite sul terreno demaniale di
fronte al mare: il cuore del Villaggio Coppola. Un milione e mezzo di metri cubi di cemento, migliaia di abitazioni, diversi alberghi, centri congressi,
una chiesa, una caserma di carabinieri, un ufficio postale e persino un piccolo porto turistico, dotato di scogliere artificiali. Un’immensa schiera di
seconde case estive per le famiglie benestanti del napoletano, quasi tutte
abusive e abbandonate nel giro di pochi anni. Negli anni ottanta, dal momento che i lavoratori italiani non sembravano molto interessati a competere con gli stranieri per lavori saltuari, faticosi e malpagati come quelli agricoli, nell’area si iniziano ad addensare durante i mesi estivi della raccolta
del pomodoro, migliaia di migranti sparsi in tutta la zona. Il bisogno di un
tetto portò gli immigrati, dapprima, ad occupare casolari e strutture turistiche fallite ed abbandonate, ma ben presto gli stessi proprietari di alloggi si
resero conto che i migranti potevano rappresentare l’unica soluzione per valorizzare il proprio patrimonio immobiliare, affittando case a prezzi esorbitanti rispetto al mercato immobiliare, anche a posti letto – la Ghana House
e la Shaolin House due modelli esemplari degli edifici della zona, sono perfetti per rendere l’idea delle difficili condizioni abitative dei migranti in questa provincia. Una riqualificazione di case e quartieri che altrimenti sarebbero deserte e lasciate in abbandono. Migliaia di persone arrivano in questa’area, certi di trovare le condizioni adatte per poter vivere. Persone che
poi hanno richiamato parenti ed amici sparsi per l’Italia attratti dalla possibilità di trovare lavoro “a nero”anche senza un regolare permesso di soggiorno, alloggi a prezzi bassi, seppur fatiscenti e precari e soprattutto una
comunità che iniziava a delinearsi in quegli stessi anni.
162
MARIA RITA CARDILLO
Il ruolo delle associazioni: l’esperienza del centro sociale Ex Canapificio
In un contesto così complesso le associazioni di volontariato, che fin dagli
anni ’90 iniziarono a lavorare con i migranti e per i migranti, svolgono un
ruolo fondamentale. Le politiche di inclusione sociale degli stranieri in Campania, almeno sulla carta, hanno come obiettivo la garanzia dei diritti, la tutela dell’identità e la costruzione di una serena convivenza fra cittadini di culture diverse; a tale scopo la Regione provvede attraverso la ripartizione annuale di risorse finanziare sulla base di una programmazione di attività ed interventi che vede coinvolti enti locali, associazioni di volontariato e associazioni di immigrati. Nella realtà dei fatti, tuttavia, una delle più evidenti contraddizioni delle politiche locali in materia d’immigrazione è la carenza di interventi di prima e seconda accoglienza, sia a livello locale che nazionale. In
particolare, in Campania, all’evoluzione del fenomeno migratorio non si è
accompagnata un’adeguata risposta delle istituzioni che, anzi, hanno mostrato spesso scarsa attenzione alle problematiche in questione. Un ruolo importante, che sopperisce alle mancanze delle amministrazioni locali provinciali e
regionali, è stato svolto negli anni dal privato sociale e dal volontariato, sia
nell’ambito della prima accoglienza che nella gestione dei servizi rivolti agli
immigrati. Tra le associazioni radicate sul territorio, fondamentale è l’attività
svolta dal Centro sociale Ex Canapificio e dal “Movimento dei Migranti e
Rifugiati” di Caserta. La principale attività dell’associazione è quella diretta
alla tutela e alla protezione degli immigrati. In particolare, essa si occupa delle
problematiche connesse ai fenomeni migratori sperimentando sul territorio
modelli di integrazione capaci di ridimensionare le intolleranze e aumentare
spazi di libera e pacifica convivenza nel rispetto delle diversità culturali. L’associazione ha sede a Caserta al viale Ellittico 27, è regolarmente costituita con
atto registrato in data 07/11/1995, iscritta agli Albi Nazionali delle Associazioni
e degli organismi operanti per la pace, all’Albo Nazionale Registro associazioni che svolgono attività per gli immigrati ai sensi del T.U. Dal 1995 è impegnata sulle tematiche della solidarietà, dell’antirazzismo e della lotta per i diritti umani. Ha attivato dalla stesso anno, infatti, uno sportello informativo per
migranti e rifugiati che è al tempo stesso interfaccia con le istituzioni, in particolare con la Questura, la Prefettura, l’Asl. Dal 2007 è Ente gestore del progetto S.P.R.A.R. (Sportello per richiedenti asilo e rifugiati), che ogni anni prevede l’accoglienza integrata di 50 richiedenti asilo e rifugiati. Il progetto è finanziato dal ministero dell’Interno e presentato dalla Provincia di Caserta in
partnership con il Comune di Caserta e il CIR (Consiglio Italiano per Rifugiati). Inoltre si è distinta per essere stata ammessa come parte civile al processo contro Setola, mandante della strage di Castel Volturno del 18/09/2008 in
cui persero la vita 6 africani. Lo sportello provinciale informatico – “Diritti di
cittadinanza per tutti/e”- presso il quale lavorano, in maniera volontaria e non,
IMMIGRARE A CASERTA. L’ESPERIENZA DEL CENTRO SOCIALE EX CANAPIFICIO
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una serie di operatori sociali e mediatori culturali, è attivo il mercoledì e il
venerdì dalle 16 alle 20. Attraverso questo sportello l’associazione fornisce
informazioni e assistenza legale, sindacale e di orientamento al lavoro e ai
servizi sanitari e sociali, oltre a svolgere un importante ruolo di mediazione
con gli uffici della Pubblica amministrazione (Questura, Prefettura, uffici provinciali del lavoro, Asl, Inps, Inail, Ispettorato del lavoro, Comuni, ecc.). Gli
immigrati che si rivolgono a quest’associazione sono tantissimi – lo sportello può vantare dal lontano 1995 di aver ascoltato circa 8.000 tra immigrati e
rifugiati – migliaia di ragazzi e ragazze provenienti in gran parte dal continente
africano, che due volte a settimana si recano a centinaia per ricevere aiuti e
consulenze proprio per la grande professionalità e presenza del Comitato sul
territorio. Vengono soprattutto dall’Africa nord-occidentale, dal Ghana, dalla Costa D’Avorio, dal Senegal, Dal Marocco, dal Togo, dalla Liberia, dal
Burkina Faso, dalla Nigeria. La maggior parte di questi Paesi sono membri
dell’ECOWAS (Economy Community of West Africa States), una delle regioni economicamente più povere del continente, dove si vive con meno di un
dollaro al giorno, classificati come Paesi a basso sviluppo facenti parte della categoria dei Paesi meno avanzati (PMA). Oltre allo sportello, ogni mercoledì si tiene, a partire dalle 18, un’assemblea dove gli immigrati discutono
delle questioni politiche e sociali generali, della propria condizione, del permesso di soggiorno e dei vari diritti che dovrebbero avere ma che spesso mancano. Un lavoro, quindi, non solo di assistenza – che in molti casi si limita al
puro assistenzialismo – ma che li aiuta a crescere come soggetti civili e come
“cittadini”: una persona portatrice di diritti e doveri che va ben oltre lo status
di immigrato. L’attività antirazzista del centro sociale si concentra anche sul
“Movimento dei Migranti e Rifugiati”, che raccoglie aderenti provenienti da
tutta Italia e in particolare dal Litorale domitio e da Caserta. Esso organizza
una serie di attività tra cui manifestazioni, concerti, interventi nelle scuole e
altro: tutto finalizzato alla conquista di diritti concreti per i migranti. Ogni
anno, il centro sociale organizza manifestazioni di piazza che coinvolgono
migliaia di immigrati per la richiesta del permesso di soggiorno e dei diritti
fondamentali dei migranti. Tra le più importanti si ricorda quello che fu definito “Sciopero delle rotonde” del 7 ottobre 2010, in occasione della prima
astensione al lavoro dei migranti contro il lavoro nero e il caporalato. Durante questo sciopero per la prima volta, in Campania e in Italia, la comunità
migrante africana ha scioperato massicciamente nonostante la possibilità di
perdere il lavoro e di andare incontro a denunce ed espulsioni. Uno sciopero
che di sicuro è servito a innescare un forte dibattito sulle condizioni di lavoro dei migranti, sia all’interno della popolazione locale, sia soprattutto all’interno della comunità africana. Attività concrete, quindi, e una continua presenza sul territorio – soprattutto attraverso un monitoraggio costante dello stato
dei richiedenti asilo presenti nella regione Campania – che gli hanno permesso
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MARIA RITA CARDILLO
di diventare una delle più importanti associazioni della regione, riconosciuta
dalle istituzioni e dagli stessi migranti come un punto di riferimento essenziale.
Intervista a Domenica D’Amico, responsabile del “Comitato per il centro sociale”.
La dott.ssa Domenica D’amico, responsabile del “Comitato per il centro sociale”, è la referente del coordinamento delle associazioni laiche e cattoliche e del Movimento dei Migranti e Rifugiati di Caserta2.
Quando e perché il centro sociale Ex-Canapificio ha iniziato a occuparsi
di immigrazione?
L’esperienza del centro sociale Ex-Canapificio nasce nel 1995 da un
collettivo composto da varie realtà (studenti, lavoratori, attivisti) di un quartiere popolare di Caserta in una sede che inizialmente era situata nello stabile dell’ex Macello, a via Laviano a Caserta appunto. Era il 1995 e di immigrazione si parlava ancora poco, c’erano poche realtà che se ne occupavano e fin dall’inizio abbiamo voluto caratterizzare le nostre attività con la
discriminate dell’antirazzismo, coinvolgendo direttamente gli interessati, ossia avviando fin dall’inizio una collaborazione con le comunità presenti sul
territorio che allora erano prevalentemente senegalesi. Abbiamo iniziato da
zero, facendo prima delle inchieste sul territorio per capire le problematiche
su cui agire e il numero effettivo delle presenze di immigrati sia a Caserta
che in provincia; poi abbiamo aperto uno sportello informativo gestito sia
da operatori italiani sia da immigrati senegalesi, e nello stesso periodo abbiamo iniziato a fare delle assemblee pubbliche settimanali in cui erano presenti componenti delle comunità senegalesi e non solo.
Oggi siete una delle associazione più importanti presenti sul territorio,
in cosa consiste principalmente l’attività del “Comitato” e con quali strumenti agite solitamente?
Abbiamo acquisito negli anni competenze ed esperienza affiancandoci ad
operatori esperti in materia, avvocati, mediatori culturali, persone con le quali
oggi gestiamo le attività del centro sociale che dopo pochi anni si è trasferito nell’attuale sede di viale Ellittico, Ex-Canapificio appunto. Non ci occupiamo solo di immigrazione, ma agiamo concretamente anche attraverso
politiche sociali che interessano la città di Caserta, l’ambiente, la cultura,
anche se il campo dove abbiamo svolto maggiormente attività concrete ed
incisive rimane quello antirazzista. Lo sportello informativo è rimasto uno
degli strumenti principali, che negli anni è diventato un punto di riferimen2
L’intervista risale al giugno del 2012.
IMMIGRARE A CASERTA. L’ESPERIENZA DEL CENTRO SOCIALE EX CANAPIFICIO
165
to nazionale del Movimento dei Migranti e Rifugiati e si è caratterizzato
sempre più per essere uno sportello anche di lotta dei diritti dei migranti, e
in questi anni si è aggiunto anche uno sportello legale e penale. La “lottavertenza” è lo strumento che noi maggiormente utilizziamo, cioè agiamo con
vertenze, proposte fatte a istituzioni locali e nazionali che hanno come fine
il miglioramento dell’attuale sistema, e devo dire che spesso siamo stati
ascoltati e presi in considerazione.
E gli immigrati come rispondo alle vostre attività? Sono partecipi, presenti?
Si, negli anni abbiamo cercato di sensibilizzare e coinvolgere i migranti della provincia, facendogli capire che solo mobilitandosi insieme avrebbero potuto far sentire la loro voce in questo particolare territorio. Di solito
nel mesi di ottobre ci mobilitiamo attraverso manifestazioni che hanno come
obiettivo la richiesta di determinati cambiamenti o risoluzioni a livello normativo che per noi sono importanti. L’ultima manifestazione si è svolta il
15.10.2011, in occasione della giornata mondiale degli indignati abbiamo
promosso la manifestazione dal titolo provocatorio “ Hangry e Angry” a cui
hanno partecipato circa 2mila persone tra immigrati e popolazione locale,
proprio per denunciare alle istituzioni locali e nazionali l’indignazione di
queste persone costrette a vivere, spesso, nell’irregolarità forzata e sfruttati
perché giuridicamente deboli.
In questi anni avete posto in primo piano questioni fondamentali e portato avanti molte battaglie per i diritti dei migranti, divenendo per loro un
punto di riferimento. Chi sono le persone che si rivolgono a voi? Quali le
problematiche maggiori che si riscontrano in Campania, e in particolare nella provincia di Caserta, e quali sono i diritti fondamentali che un migrante
e un rifugiato si vede negati?
Noi ci occupiamo principalmente di quella che siamo soliti definire la
“Castel Volturno Area”, una zona particolare in cui episodi di criminalità e
abusivismo edilizio sono all’ordine del giorno, e in cui vivono molti immigrati provenienti per lo più dall’Africa Occidentale, che si sono potuti inserire nel tessuto sociale in questi anni proprio per la particolarità del territorio. Sono arrivati negli anni settanta come lavoratori stagionali, fittando abitazioni indecenti a prezzo basso, e negli anni si sono insediati stabilmente.
Oggi, purtroppo, vivono in condizioni precarie, quasi in zone ghettizzate,
fanno lavori sottopagati e dequalificati, e passano il tempo tra di loro avendo pochi contatti con la popolazione autoctona. Su questo territorio abbiamo visto proprio gli effetti negativi di una politica dell’immigrazione sbagliata che, a mio parere, è iniziata proprio nel 1998, cioè dall’emanazione
delle prime leggi in materia, che non ha saputo agire concretamente sui pro-
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MARIA RITA CARDILLO
blemi reali creando situazioni come quella di Castel Volturno e di tutto il
litorale domitio in cui, appunto, manca l’assistenza necessaria, mancano i
diritti (casa, lavoro, permesso di soggiorno) e in cui, spesso, si vive nell’irregolarità giuridica e di lavoro nero. Il lavoro nero e quindi lo sfruttamento
lavorativo della maggior parte dei lavoratori in taluni settori, in un territorio in cui il lavoro nero è già di per se abbastanza diffuso, è stato uno delle conseguenze dell’inefficienze del sistema giuridico. Ci sono tantissimi lavoratori che desiderano essere regolarizzati ma che non ci riescono, nonostante la buona volontà dei loro datori di lavoro, e che si sono dovuti fingere colf e badanti per rientrare nell’ultima sanatoria.
Quali sono le condizioni abitative? Come sono gli alloggi? Dove vive
la maggior parte degli immigrati presenti in questo territorio?
Le condizioni di vita di alcuni immigrati sono davvero al limite della decenza. Vivono in case abusive, prive di servizi sanitari e igienici. In un’aria
devastata dalla speculazione edilizia come questa, in cui ci sono interi edifici
abusivi lasciati nel degrado e nell’abbandono, inquinata, con tassi delinquenziali elevati e una mancanza istituzionale ormai decennale, nessuno si sognerebbe di viverci. E invece gli immigrati hanno trovato qui le condizioni per
poter vivere, perché hanno affittato case che nessuno avrebbe affittato, ex-case
estive abusive sorte su 47 km di costa del litorale domitio, requisite negli anni
ottanta dai terremotati e poi lasciate nell’abbandono. Quando i braccianti hanno
iniziato a lavorare nelle campagne limitrofe, queste case sono state affittate a
loro, nonostante fossero indecenti. Oggi c’è una comunità di circa 6.500 persone che vive in questa zona, a queste condizioni.
Quali sono le condizioni lavorative dei migranti in Campania?
Pessime. Negli anni si è creato un “esercito” di nuovi schiavi, persone
facilmente sfruttabili e ricattabili perché, spesso, giuridicamente inferiori. Non
avendo un regolare permesso di soggiorno hanno difficoltà ad esigere un trattamento lavorativo che rispetti i diritti fondamentali, e che, soprattutto, non
faccia distinzioni tra popolazione locale e immigrata, cosa che invece accade sistematicamente. Per intenderci un lavoratore immigrato viene pagato
meno, lavora di più e non ha garanzie. La maggior parte lavora senza un
regolare contratto di lavoro, fanno lavori che nessuno vuole più fare ma che
sono fondamentali per la nostra economia. Sono impiegati essenzialmente nel
settore agricolo come braccianti, muovendosi a seconda delle stagioni in varie
regioni d’Italia, dalla Puglia alla Calabria, da Foggia a Rosarno, come manovali in quello edile, ma anche nel terziario, facendo sempre i lavori più
dequalificati. Lo sfruttamento, però, produce ricchezza perché si garantisce
lo stesso lavoro con un costo della manodopera nettamente inferiore, soprattutto nel sottore edile dove ci sono ditte che danno un lavoro in subappalto
IMMIGRARE A CASERTA. L’ESPERIENZA DEL CENTRO SOCIALE EX CANAPIFICIO
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ad altre ditte che reclutano lavoratori volutamente irregolari, perché facilmente sfruttabili.
Si parla spesso di sfruttamento lavorativo, di forme di caporalato, come
funziona questo sistema?
Più che di caporalato vero e proprio parlerei di singoli datori di lavoro,
con piccole imprese, soprattutto nel settore edile e nei sevizi al terziario, che
“arruolano” lavoratori alla giornata a basso costo. Difatti negli anni si è venuta creando una consuetudine diffusa tra chi lavora e tra chi offre lavoro:
immigrati e rifugiati aspettano nei pressi delle rotonde, che loro appunto
chiamano kalifoo, o negli angoli delle strade i datori di lavoro che passano
a prenderli, solitamente all’alba, con camion, macchine per portarli sui luoghi di lavoro e poi a fine lavoro riaccompagnarli nello stesso luogo. Poi
quando ormai si è stabilito un rapporto, si passa dalle rotonde al lavoro a
“chiamata”, nel senso che i datori contattano i lavoratori se c’è bisogno di
loro. Tutto alla luce del sole e senza un minimo di garanzia, e facendo fare
lavori a persone che non sono competenti e che finiscono, spesso, con il farsi
male. Di caporalato parlerei se si fa riferimento al settore agricolo, dove lo
sfruttamento è anche maggiore e le condizioni di vita pessime.
E le istituzioni locali come agiscono? C’è un giusto controllo e un adeguato monitoraggio della situazione?
Assolutamente no, anzi. Si combatte il lavoro nero arrestando gli immigrati, alla ricerca non del datore di lavoro che sfrutta ma del lavoratore
irregolare e quindi sfruttabile. Si punisce il lavoratore e non il datore di lavoro che non rispetta i diritti fondamentali. E se un lavoratore denuncia uno
sfruttamento, spesso, non viene nemmeno considerato se non ci sono associazioni che lo accompagnano e lo seguono nella denuncia. Noi a questo
proposito abbiamo promosso uno sciopero del lavoro qualche anno fa, lo
”Sciopero delle Rotonde” per porre l’attenzione sullo sfruttamento dei migranti da parte di molti datori di lavoro italiani. Il nostro slogan era “oggi
non lavoro per meno di 50 euro”, proprio a sottolineare il basso costo della
manodopera immigrata, e abbiamo avviato un tavolo istituzionale per chiedere che venisse applicato, anche per gli immigrati, l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Abbiamo anche attivato uno sportello legale che si occupa proprio della tutela dei laboratori sfruttati.
Quindi avete avuto spesso a che fare con persone che hanno subito dei
soprusi a lavoro, o sono state vittime di incidenti sul lavoro, che magari non
hanno potuto o voluto denunciare?
Si, spesso sono persone che non hanno abilità in un determinato settore, perché non c’è alcun tipo di formazione, e che sono vittime di infortuni
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MARIA RITA CARDILLO
perché inesperti e impreparati e lavorano senza protezioni. La maggior parte di loro ha paura a denunciare, non viene preso sul serio e solo attraverso
la nostra azione intermediaria, e attraverso le nostre azioni legali riescono a
trovare la forza e il coraggio di denunciare.
Per quanto concerne le scelte politiche fatte in questi anni, voi avete
molto contestato la legge Bossi-Fini, mettendone in discussione alcuni punti tra cui la scelta di legare il permesso di soggiorno ad un contratto lavorativo, l’impossibilità di entrare regolarmente in Italia, i vari accordi presi
con Paesi quali, ad esempio, la Libia per i rimpatri e respingimenti. In
merito a questo, secondo te, quali sono le lacune del nostro sistema giuridico?
Come dicevo prima fin dall’inizio le scelte politiche fatte sono state
sbagliate e poco efficaci. Dal 2002 con la legge Bossi-Fini, e dal 2008 con
una vera e propria guerra mediatica e politica nei confronti dei migranti e
dei rifugiati, la situazione è degenerata alimentando una paura diffusa tra i
cittadini, che spesso ignorano la vera realtà dei fatti; istituendo, tra l’altro,
il reato di “clandestinità” che è servito solo ad aumentare la paura e la discriminazione verso il diverso. Politica che spesso si è mischiata alla propaganda elettorale di alcuni partiti e che è solo servita a disorientare e disinformare gli italiani. Già con la legge Turco-Napolitano si era creata una
sorta di illusione agli italiani, l’illusione che esistesse un meccanismo perfetto che regolava l’ingresso: decreto flussi/espulsione, dentro/fuori. È un sistema che fa acqua da tutte le parti perché non ci sono modalità per l’ingresso regolare, ci sono moltissimi immigrati irregolari che sono arrivati con
un visto d’ingresso che poi è scaduto e che, nonostante lavorino, aspettano
da anni una regolarizzazione e molti di loro non possono far ritorno nel loro
Paese perché sprovvisti di documenti. Hanno creato queste “galere”, i CIE
(Centri di Identificazione ed Espulsione), in cui si viene detenuti per un
massimo di 18 mesi, non perché criminali, ma solo per non aver potuto ottenere o anche rinnovare il permesso di soggiorno, e dai quali si viene rilasciati pur consapevoli che il migrante non può tornare in patria perché sprovvisto di documenti, sprecando, quindi, denaro pubblico che poteva essere
utilizzato in altro modo. Non c’è una legge organica in materia di diritto
d’asilo, ma solo due direttive europee recepite dal nostro sistema normativo; ci sono richiedenti asilo e rifugiati che aspettano anni per vedersi riconosciuto lo status di rifugiato, e spesso sono stati trattati come criminali, rispediti in mare senza identificazione. Non siamo in grado di accogliere un
esiguo numero di rifugiati come fanno tutti gli altri Paesi europei, numero
decisamente inferiore rispetto ad altri Paesi come la Germania che ha accolto circa 60mila rifugiati rispetto ai 30mila rifugiati presenti sul nostro territorio. Non viene riconosciuta la cittadinanza ai nati sul nostro territorio, o
IMMIGRARE A CASERTA. L’ESPERIENZA DEL CENTRO SOCIALE EX CANAPIFICIO
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a quelli che vivono da molti anni in Italia. L’Europa ci chiede di favorire
la regolarità delle persone, nell’interesse prima di tutto dello Stato, e questo
potrà essere attuato solo garantendo un meccanismo che non leghi il permesso di soggiorno a un contratto di lavoro, e che sia di una durata superiore
all’attuale.
E quindi quali sono le vostre proposte? Cosa dovrebbe cambiare nel
nostro sistema giuridico per poter meglio gestire le problematiche legate all’immigrazione? E quali sono le questioni importanti da prendere in considerazione?
Speriamo che il nuovo Governo ponga attenzione su questioni urgenti
come, ad esempio, i profughi della Libia, che sono arrivati sulle nostre coste all’indomani della guerra dal Febbraio 2011, costretti a vivere in strutture provvisorie, come hotel o addirittura ex-Monasteri, senza che sia pensata per loro una soluzione anche in merito a chi vorrebbe tornare in Libia
e che era stato costretto a scappare. È necessaria una nuova Riforma dell’Immigrazione che riveda dei punti per noi fondamentali come:
Introduzione di canali d’ingresso regolari, rilasciando un permesso di
soggiorno per ricerca di lavoro di un anno. Ingressi limitati e controllati che
permetterebbero anche una immediata identificazione del migrante.
Regolarizzazioni “ad personam” dei migranti già presenti sul territorio
nazionale, soprattutto dei lavoratori che sono costretti a vivere nell’irregolarità.
Una riforma del diritto di cittadinanza.
Garantire il giusto diritto d’asilo e di accoglienza.
Garantire e facilitare i ricongiungimenti familiari.
Recentemente avete attivato una interlocuzione con il Ministro dell’Interno Cancellieri per l’attuazione di un piano speciale che avete definito Piano
Svi (Soggetti vulnerabili irrimpatriabili). Puoi parlarmi di questo piano.
Abbiamo proposto un piano particolare e straordinario per l’Area Castel Volturno che interesserebbe, soprattutto, una “sacca” di lavoratori stranieri irregolari e sfruttati ma oggettivamente irrimpatriabili. Questo piano
consisterebbe nel riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari di circa 1000 persone che noi abbiamo individuato, una per una e che
abbiamo presentato al Ministro attraverso un’apposita inchiesta, e che vivono e lavorano in Italia, alcuni anche dal 2002. Crediamo che solo attuando
questo piano speciale di regolarizzazione si possa combattere la situazione
che si è creata a Castel Volturno negli anni.
Passiamo oltre. Vorrei parlare con te del ruolo svolto dalle Associazioni laiche e cattoliche che lavorano in questo settore. Il mondo dell’associa-
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MARIA RITA CARDILLO
zionismo dovrebbe svolgere un ruolo di affiancamento al lavoro delle istituzioni locali e nazionali, e invece, spesso, si trovano a doverlo addirittura
sostituire in alcuni ambiti in cui spesso sono impreparate. Puoi parlarmi di
questo aspetto.
Si, purtroppo noi spesso ci troviamo a fare da intermediari tra le istituzioni e gli immigrati perché, ad esempio, in Questura o in Prefettura non ci
sono persone che parlano l’inglese o il francese. Spesso ci siamo relazionati con persone, anche ad alti livelli, inesperte e impreparate. In Italia c’è il
limite di non programmare, non c’è un vero investimento in una politica
dell’immigrazione e di asilo programmatico, ma solo singoli progetti che
servono per risolvere questo o quel problema I fondi sono spesi male, non
si investe in politiche volte all’integrazione, all’insegnamento della lingua italiana, all’accoglienza ma anche alla preparazione dei mediatori culturali. Le
associazioni dal canto loro svolgono un ruolo fondamentale, ma spesso si
ritrovano senza fondi e senza risorse per poter intervenire al meglio, e si
affidano al volontariato e alla beneficenza.
Una domanda che riguarda la popolazione italiana e il rapporto che
si è creato con gli immigrati presenti sul nostro territorio. In questi anni gli
episodi di violenza e discriminazione nei confronti dei migranti sono nettamente aumentati, penso ad esempio alla strage di Castel Volturno del 2008
in cui furono uccisi sei cittadini africani, e credo che in parte ciò sia dovuto alla politica di discriminazione e di paura nei confronti del diverso alimentata dalle varie propagande politiche degli scorsi anni e anche, purtroppo, da una informazione mediatica distorta. Cosa sapresti dirmi a riguardo?
Credo che in questi anni si siano fatti molti passi indietro. Si è voluta
creare una cultura della paura nei confronti del diverso che si è sedimentata, legando la figura dell’immigrato a quella di un pericoloso criminale, e
purtroppo credo che sarà difficile per adesso vedere dei miglioramenti in
questo senso. Sono aumentati gli episodi di violenza nei confronti dei lavoratori immigrati, nei confronti di ragazzi solo perché provenienti dal Ghana, piuttosto che dal Mali o dalla Liberia. C’è poca informazione a riguardo, non si conoscono le reali motivazioni che spingono una persona a rischiare la vita per arrivare nel nostro Paese, non si conoscono le modalità
di viaggio, al limite dell’umano direi, non si conoscono le condizioni abitative e lavorative e, soprattutto, il contributo che apportano alla nostra economia. Adesso con il nuovo Governo speriamo che si facciano passi in avanti
sia a livello giuridico, sia a livello prettamente sociale e civile.
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III
IL VOLONTARIATO E LA SALUTE
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ANNA SOMMA
IL MEDICO E IL MALATO IN ETÀ MODERNA
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IL MEDICO E IL MALATO IN ETÀ MODERNA1
Anna Somma
Nel medioevo la figura del medico era rappresentata dal “monaco-chierico”: egli era un esperto di forbici e rasoio, un ottimo salassatore, e conosceva numerosi medicamenti realizzati con erbe semplici e naturali, coltivate nel suo orto monastico. A questa benemerita figura, va riconosciuto il privilegio di aver conservato, e tramandato le tradizioni di una medicina antica, ma soprattutto quello di aver diffuso la carità e l’assistenza verso i poveri e i più deboli. Successivamente, l’esercizio della professione medico–
chierico fu abolita, durante il XII secolo, con l’emanazione di alcune bolle
papali. Nei secoli successivi, per poter diventare medico, bisognava frequentare un biennio di studi, con cui si conseguiva la laurea in “filosofia e medicina”, dunque il medico diventava: “il fisico-filosofo, un intellettuale, un
uomo di lettere e di letture”,2 con un’ampia conoscenza in tutto lo scibile
medico, dagli Aforismi di Ippocrate al Canone di Avicenna.
La sua formazione universitaria, all’epoca, veniva gestita da importanti
scuole come quella di Salerno, Bologna e un secolo dopo dall’Università di
Padova. Però, da questo sistema di reclutamento medico universitario era ben
distinto: “il canale di formazione dei cerusici, spesso uniti invece, in una
stessa arte o corporazione, coi flebotomi e barbieri; infine, i corpi “laici”
di arti liberali che (reclutavano), (addestravano) ed (abilitavano) gli uni e
gli altri alla professione privata.”3
Si creò, pertanto, una netta distinzione tra le competenze del medico
“fisico–filosofo” e quelle dei “cerusici”; era “riservato al medico-fisico il
campo cioè della medicina interna, detta anche filosofica o teorica perché
non si limitava a registrare i sintomi dei mali, ma risaliva alle loro cause,
e sulla base della conoscenza delle cause poteva fondare, oltre le apparen1
La tesi in Storia Moderna, Contributo alla storia degli ospedali di Napoli, è stata discussa all’Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa, Facoltà di Lettere, corso di
laurea in Conservazione dei beni culturali, Cattedra di Storia Moderna, anno accademico 2011/
2012, relatore prof. Giuseppe Galasso, correlatore prof. Carolina Belli. Si pubblica il paragrafo
Il medico e il malato in età moderna.
2
G. Cosmanici, Storia della medicina e della sanità in Italia, Laterza, Roma–Bari 1987,
p. 32.
3
F. Della Peruta, Storia d’Italia annali 7, Einaudi, Torino 1984, p. 6.
174
ANNA SOMMA
ze esteriori e visibili, la cura dei mali interni ed “invisibili”. Sicché, per
residuo, ai cerusici restava la cura della superficie esterna del corpo umano [...]”4 Il medico osservava e: “si concentrava sulle escrezioni e secrezioni dei fluidi e degli umori, sul calore ed il polso, prodotti dalle virtù e facoltà degli organi interni, cerusici e barbieri restavano competenti per la superficie esterna del corpo umano, e per la sua struttura solida di ossa e muscoli; e nella terapeutica per gli interventi manuali su di essa –la pratica
dei salassi e delle coppette, la cura di tumori e fratture, piaghe e ferite5.
Tuttavia, lo studio dei: “presupposti fisiopatologici del galenismo (diventavano) nell’argomentare del medico i preconcetti che gli (consentivano) di
veder emergere smescolati, [...] i quattro umori fondamentali”6. Se questi
quattro umori: sangue, flegma, bile gialla o melanconia erano bilanciati tra
loro, l’uomo era in salute, mentre se la crasi era alterata allora insorgeva la
malattia.
Dunque, al medico, con il suo grado di dottore, competeva, come abbiamo visto, la medicina interna che aveva come oggetto di studio i tre organi interni del corpo umano, ossia: il fegato, il cuore e il cervello, mentre
la medicina esterna, ossia della superficie del corpo umano, veniva esercitata dagli “empirici”, ovvero chirurghi, barbieri, flebotomi, in generale da
coloro che maneggiavano con destrezza gli utensili del mestiere, come coltelli, cauteri e lancette7. Per lungo tempo, i medici, fautori della medicina
ufficiale, dovettero affrontare una lunga “crociata”8 contro coloro che non
avevano nessun titolo accademico, chiamati “ciarlatani”. Essi esercitavano la
loro attività attraverso le loro ciarle, distribuivano unguenti e dispensavano
cure semplici, derivanti per lo più da usanze e conoscenze popolari. La professione e l’immagine del medico, furono colpite da una fitta satira trecentesca che descriveva in questo modo la sua figura: “di null’altro pensoso che
della sontuosità delle vesti e dell’esame dell’orina, o della ricerca del giorno e dell’ora adatti per il salasso [...] portava strane vesti che tutto lo ricoprivano, con lunghi guanti [...] ed annusava una spugna imbevuta di aceto [...]9. La professione del medico fu ostacolata, oltre che dalla presenza dei
ciarlatani, anche da un’usanza esercitata in Italia, ossia: “La vendita dei gradi
praticata dai Collegi ai non originari e non cooptabili, (che) creavano una
fascia strutturale e fisiologica di “abusivi“, che stimolava periodici tentativi di revisione del valore legale dei titoli e di serrata contro gli irregolari
– medici laureati fuori provincia e fuori stato, che volessero esercitare sen4
5
6
7
8
9
Ivi, pp. 10-11.
F. Della Peruta, Storia d’Italia, cit., p. 12.
G. Cosmanici, Storia della medicina, cit., p. 34.
Ivi, p. 32.
F. Della Peruta, Storia, cit., p. 218.
A. Castiglioni, Storia della medicina, Unitas, Milano 1927, pp. 286-309.
IL MEDICO E IL MALATO IN ETÀ MODERNA
175
za il tirocinio e l’autorizzazione del Collegio degli originari”10. Pertanto, si
creò davvero una situazione insostenibile, tanto da far subentrare il sistema
dei Protofisicati, che avevano il compito di controllare l’esercizio degli abusivi. Del resto questa continua lotta contro coloro che illegalmente praticavano l’arte di guarire, fu completata quando il 22 Dicembre 1888 fu approvata la legge sanitaria11.
Dunque, il malato, in età medievale, veniva assistito e curato dai medici–monaci, che prescrivevano prettamente cure semplici e naturali, e dai chirurghi che praticavano salassi e piccoli interventi. Il malato veniva considerato nel suo insieme fatto di anima e corpo12, e assistito con pietà e carità.
Le conoscenze mediche all’epoca erano ridotte, pertanto le cure praticate
erano per lo più palliative, ovvero donavano sollievo e consolazione. Il malato veniva: “(ascoltato) e (guardato) dal medico, che (toccava) il suo polso e la sua fronte, che (ispezionava) i suoi escreti e il suo sangue [...]”13.
Bisogna premettere che la medicina era ancora legata a quella ippocratica e
galenica, e soprattutto va ribadito che fino agli inizi del Cinquecento tutte
le malattie che avevano una doppio carattere, quello di “epidemicità” e di
“letalità”, erano chiamate col nome di “peste”14.
Tutti i malati affetti da malattie morbose venivano curati ed assistiti in
ricoveri indifferenziati, solo verso la metà del Quattrocento e l’inizio del
Cinquecento, saranno ospitati in ospedali e divisi in base alla gravità delle
loro malattie. Questo cambiamento si manifestò proprio quando fu emanata
la riforma ospedaliera del Quattrocento, che vide la trasformazione dell’assistenza caritativa e religiosa trecentesca, in curativa. La guarigione di una
malattia avveniva solo attraverso l’uso della “terapia”15. Il medico, nel frattempo, aveva acquisito, nell’arco del Cinquecento, importanti competenze e
conoscenze scientifiche grazie all’amore del sapere, alla filosofia ippocratica ed alla scienza dell’osservazione16. Con la nascita della prima Accademia
scientifica, progenitrice delle Accademie moderne, quella dei Lincei fondata
a Roma dal principe Cesi17, la sperimentazione e la ricerca scientifica progredirono considerevolmente. A quest’uomo illustre, si deve anche il miglioramento e il perfezionamento di due strumenti: il telescopio e il microscopio, che proprio da lui furono denominati con i nomi con cui ancora oggi
10
F. Della Peruta, Storia d’Italia, cit., p. 28.
G. Cosmanici, Storia della medicina, cit., p. 403.
12
G. Cosmanici, L’arte lunga storia della medicina dall’antichità a oggi, Laterza, Roma–
Bari 1997, p. 117.
13
G. Cosmanici, Storia della medicina, cit., p. 33.
14
S. De Renzi, Storia della medicina in Italia, Filiatre-Sebezio, Napoli 1845, vol. III, pp.
555-57.
15
G. Cosmanici, L’arte lunga, cit., p. 260.
16
S. De Renzi, Storia della medicina, cit., vol. III, p. 18.
17
Ivi, p. 21.
11
176
ANNA SOMMA
sono conosciuti18. Nonostante i progressi, però, il medico continuava a curare il malato dando molta importanza al colore e alla densità dell’urina e
del sangue.
La terapeutica nei secoli precedenti, come dimostra Salvatore De Renzi, era concentrata su numerosi rimedi introdotti dalla medicina araba, (ad
esempio l’uso delle pietre preziose), che si presentavano come terapie confuse ed assurde19. Spesso il medico adottava una terapia caratterizzata da una
farmacopea complessa e misteriosa, avente come scopo quello di nascondere la sua ignoranza sulle vere cause di una determinata e oscura malattia20.
Pertanto, si rese necessario nel Cinquecento il ritorno ad una medicina semplice, e si stabilirono le giuste regole per l’applicazione dei rimedi considerati per l’appunto semplici ed efficaci come i bagni, i salassi e le purghe.
Nel frattempo, l’anatomia progrediva sempre di più, grazie al merito di numerosi medici-anatomisti: Berengario Da Carpi, Filippo Ingrassia e Girolamo Fabrizio, meglio conosciuto col nome di Acquapendente”21. Dunque,
l’anatomia, con l’aiuto di importanti studiosi del settore, ma soprattutto liberandosi da antiche superstizioni e proibizioni dell’epoca, poté rifiorire liberamente.
Gli scritti di Salvatore De Renzi dimostrano come l’anatomia, la fisica
applicata alla matematica, la chimica presente nei laboratori degli alchimisti, la meccanica e l’ottica si perfezionarono, e tutte ebbero come scopo il
miglioramento della medicina22. Migliorando la medicina, le malattie, finalmente distinte con il loro nome specifico, venivano affrontate con maggior
conoscenza. Nonostante ciò si continuava a morire di peste, di sifilide, di
tifo petecchiale e di scorbuto23. Inoltre ci si ammalava di “malattie popolari” così chiamate da Salvatore De Renzi, che le indicava in: catarro epidemico (raffreddore), peripneumania (polmonite), erisipela maligna (infezione),
febbre petecchiale (tifo petecchiale) e peste24. Il malato, quando gli veniva
riconosciuta una malattia acuta, quindi suscettibile di guarigione, veniva ricoverato nell’Ospedale Maggiore al centro della città, mentre il malato ritenuto cronico, cioè affetto da una malattia inguaribile, veniva destinato nell’Ospedale minore situato in un luogo decentrato25. Questo costituiva un
notevole cambiamento, rispetto all’assistenza del malato in epoca medievale, il quale, se colpito da una malattia venerea o quant’altro, veniva isolato
18
19
20
21
22
23
24
25
Ivi, p. 22.
Ivi, p. 459.
F. Della Peruta, Storia d’Italia, cit., p. 34.
S. De Renzi, Storia della medicina, cit., vol. III, p. 176.
Ivi, p. 37.
G. Cosmanici, L’arte lunga, cit., p. 227.
S. De Renzi, Storia della medicina, cit., vol. III, p. 546.
G. Cosmanici, L’arte lunga, cit., p. 257.
IL MEDICO E IL MALATO IN ETÀ MODERNA
177
al di fuori della città, dove persistevano solo due comportamenti sociali: fuga
e aggressività26.
Si dovette però aspettare tra il 1499 e il 1526 per l’istituzione di Ospedali degli Incurabili, specializzati per le malattie incurabili, come appunto era
la sifilide. Ad esempio a Napoli, questi ospedali sorsero tra il 1517-1927. In
quel tempo, furono scritti molti libri di medicina in cui si descriveva come
trattare alcune malattie, tra cui la sifilide, e le loro relative cure. Come ci
conferma Giorgio Cosmacini, la letteratura del Cinquecento sulla sifilide fu
vastissima28. Il malato di sifilide veniva curato con l’applicazione di unguenti
di mercurio e di guaiaco, il legno santo di origine americana: questi erano i
rimedi consigliati da Girolamo Fracastoro nel 153029.
Intanto, nel XVI secolo, la chirurgia militare ottenne un grande balzo
in avanti, l’attenzione dei medici si spostò alla cura delle ferite da armi da
fuoco, il malato era anche il “soldato”. I medici militari dell’epoca, che contribuirono a nuove scoperte in questo settore furono: Leonardo Botallo e
Ambroise Paré, a quest’ultimo si devono importanti innovazioni su come
curare le ferite da sparo, che secondo lui non andavano causticate con olio
bollente, ma trattate con un topico a base di giallo d’uovo30.
Il Cinquecento fu il secolo d’oro per lo studio dell’anatomia e delle sue
correlate branche, come appunto l’osteologia, ovvero lo studio delle ossa, la
miologia, ossia lo studio dei muscoli, anch’essa studiata e osservata con attenzione. Oggetto di studio furono anche: il cervello, i vasi sanguigni, il
cuore, il sistema nervoso31.
Non va dimenticato, che la medicina fu notevolmente migliorata grazie anche allo studio della Fisica, dell’applicazione della matematica nella
ricerca e nella spiegazione dei fenomeni naturali. Inoltre, fu ampliato in questo secolo lo studio dell’astronomia, della meccanica animale, avvantaggiando
soprattutto l’ottica. Grandi uomini illustri di questo secolo si dedicarono allo
studio dei fenomeni delle scienze naturali. Tra questi, ricordiamo: Giambattista della Porta, studioso napoletano a cui si devono importanti chiarimenti
nello studio della luce e della funzione degli specchi, ma soprattutto, la scoperta della camera oscura32. Poi, sempre il De Renzi, ci ricorda un altro studioso del Cinquecento: frate Paolo Sarpi, veneziano, il quale, insieme ad altri
studiosi italiani del secolo, concorse a creare la fisica come vera scienza
dell’osservazione della natura. Un’attenzione particolare va riconosciuta an26
27
28
29
30
31
32
Ivi, p. 210.
Ivi, p. 258.
Ivi, p. 229.
Ivi, p. 232.
Ivi, p. 253.
S. De Renzi, Storia della medicina, cit., vol. III, p. 194.
Ivi, p. 48.
178
ANNA SOMMA
che alla botanica, ossia lo studio delle piante, che proprio in questo secolo,
si rinnovò, molte piante, fino ad allora sconosciute, furono esaminate dagli
studiosi di botanica33.
Tutte queste innovazioni e scoperte scientifiche portarono alla rinascita
delle scienze naturali, e giovarono in gran misura, alla medicina terapeutica, avvantaggiando così la cura del malato. Mentre l’Italia si spopolava a
causa delle numerose epidemie e di nuove malattie, crebbe la necessità di
dare consigli su una valida igiene pubblica e una efficiente polizia medica.
Ricordiamo un’importante disposizione per la salute pubblica emanata con
bolla nel 1575 dal pontefice Gregorio XIII34, con cui si determinarono i doveri e gli obblighi tra il Protomedicato e il Collegio dei Fisici e degli Speziali di Roma.
Il Protomedicato aveva il compito di vigilare e garantire la salute pubblica, proteggendo il popolo dai morbi epidemici e dall’ignoranza dei ciarlatani. In ogni modo, per prevenire ogni forma di malattia e proteggere il
malato, furono scritte importanti opere sulla polizia medica, sull’igiene pubblica e privata. Ad esempio, Antonio d’Alessandro, protomedico in Sicilia,
fu autore di un importante scritto sulla polizia medica a cui furono aggiunte nuove leggi dal celebre protomedico Filippo Ingrassia, pubblicate nel
156435. Le opere scritte sull’igiene pubblica e privata avevano lo scopo di
dettare le regole per migliorare le condizioni igieniche della persona e delle
loro abitazioni, delle strade, del cibo, ma soprattutto avevano l’obiettivo di
proteggere e prendersi cura della salute del popolo. Va detto che queste attenzioni particolari sull’igiene pubblica e privata furono elaborate e attivate
in questo periodo, precisamente nel 1575, quando l’Italia fu colpita dalla
peste e da altre malattie morbose.
Il medico continuava a curare il malato con una terapia che consisteva di bagni, salassi e purghe. I bagni, consigliati già in tarda antichità, avevano scopi terapeutici e igienici, come ci ricorda Salvatore De Renzi, essi
venivano raccomandati dai più importanti medici del tempo. Infatti gli studiosi, consigliavano ai malati di praticare i bagni, lungo la spiaggia di Pozzuoli, di Ischia e di Napoli36. Nel secolo successivo (XVII) nel campo medico-scientifico furono ottenuti importanti risultati grazie a quei luoghi, che
ci descrive Giorgio Cosmacini : “erano le seicentesche accademie – italiane, tedesche, francesi –: dalla prima, quella romana dei Lincei, [...] alla
toscana del Cimento, istituita nel 1657 dal granduca Ferdinando II, alla
bolognese degli Inquieti, alla napoletana degli Investiganti, alla magdeburghese (di Halle) dei Curiosi della Natura, fino alla parigina Académie
33
34
35
36
Ivi,
Ivi,
Ivi,
Ivi,
p. 89.
p. 380.
p. 381.
pp. 489-490.
IL MEDICO E IL MALATO IN ETÀ MODERNA
179
Royale des Sciences, istituita sotto Luigi XIV dal ministro Jean – Baptiste
Colbert nel 1666”37. Aggiunge ancora: “in questi luoghi della ricerca scientifica, medici “inquieti” e “curiosi” applicavano il proprio sguardo, “più
sagace di quello della lince”, a investigare le cause e le proprietà dei
fenomeni naturali, applicando nel contempo mani e cervello a cimentare
sperimentalmente questi stessi fenomeni”38. Intanto, l’organismo umano,
veniva investigato e conosciuto ancora di più, grazie all’uso del microscopio: “Avvalendosi di tale nuovo strumento, che consentiva di vedere cose
nuove, o cose vecchie in modo nuovo, Marcello Malpighi (1627-1694) [...]
fondatore dell’anatomia microscopica, [...] descriveva la fine struttura degli alveoli polmonari [...] e dei capillari sanguigni“39. Mentre la medicina
progrediva sempre di più, grazie ai citati motivi, l’Italia, nella prima metà
del Seicento, fu attraversata fittamente da penurie, carestie ed epidemie.
Le malattie che si affacciarono nel territorio italiano, e non solo, furono il vaiolo e il tifo petecchiale che colpì la Sicilia tra il 1646 e 1647,
ben descritto da Giovanni Borelli; inoltre, tra le due pesti seicentesche, milanese del 1630 e londinese del 1664-65, si inserì quella del 1656 che colpì
l’Italia centro meridionale, soprattutto Roma e Napoli40.’ Un nuovo trattamento, del tutto controcorrente, applicato ai malati vaiolosi, fu scoperto dal
medico londinese Thomas Sydenham. I malati, in questo caso, i vaiolosi:
“trattati fino allora col regime termico a base di coperte di lana e di
bevande bollenti, onde gli umori peccanti fossero espulsi col sudore e bollissero fino a scoppiare nelle pustole salutari, facevano scalpore: egli
(Sydenham) infatti sbarazzava i malati dalle coperte e dava loro da bere
acqua d’orzo ghiacciata”41. Giorgio Cosmacini aggiunge che: “le percentuali di guarigione nei vaiolosi trattati con questo metodo perfrigerante gli
davano ragione”42.
Dunque, l’illustre medico londinese, contrappose alle dottrine tendenti a
distaccare il medico dal paziente, l’importanza e soprattutto l’efficacia dell’osservazione diretta dei sintomi e delle cure della malattia43. Un altro importante
risultato, dovuto all’osservazione microscopica, fu conseguito dal medico
Giovan Cosimo Bonomo, con la collaborazione dello speziale Giacinto Cestoni. Nelle “Osservazioni intorno a’ pellicelli del corpo umano”, scritte in
forma epistolare dal Bonomo, nel 168744, dimostrò che la “scabbia” o la “ro37
38
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41
42
43
44
G. Cosmanici, L’arte lunga, cit., pp. 276-277.
Ibidem.
G. Cosmanici, L’arte lunga, cit., p. 271.
Ivi, p. 291.
Ivi, pp. 275-276.
Ibidem.
G. Cosmanici, L’arte lunga, cit., p. 276.
Ivi, p. 278.
180
ANNA SOMMA
gna” che colpiva i marinai, era dovuta alla presenza di minuti insetti, chiamati successivamente acari, che si annidavano nell’epidermide umana. Tuttavia, il malato veniva curato con attenzione e precisione, grazie all’uso del microscopio col quale si indagava la vera origine della malattia. “Scoperte scientifiche, lotta contro le malattie, lotta per la salute e per una maggiore possibilità di vita, sono aspetti di uno stesso fenomeno, storicamente riferibile
alla nuova filosofia del mondo che (sorgerà) dall’Illuminismo e dalla rivoluzione francese”45. Nel Settecento, il secolo dei lumi, dell’aumento demografico, della scomparsa della peste nel panorama patologico europeo e dell’industrialismo, a ciò si aggiunsero: “voci di medici che incomincia(ro)no a
proporre la salute come problema sociale [...]”46. Un grande innovatore, fu
Bernardino Ramazzini, professore a Modena e poi a Padova, studioso delle
malattie dei lavoratori. Nella sua opera “De morbis artificium diatriba”, pubblicata in seconda edizione nel 171347, Ramazzini espone le diverse malattie
che colpirono i lavoratori nel Settecento. Egli descrive: “le pneumopatie di
minatori e marmisti, il saturnismo di tipografi e ceramisti, le malattie degli
occhi cui sono soggetti fabbri, doratori e pulitori di latrine, l’avvelenamento da mercurio dei chirurghi, le malattie delle ostetriche, delle infermiere, dei
necrofori, dei contadini, dei chimici, degli orefici, dei conciatori, dei lavoratori del tabacco e degli stessi scienziati”48. Va considerato un innovatore della
medicina del lavoro, poiché si recava personalmente presso le botteghe cittadine, dove osservava con attenzione i lavoratori malati49.
Il Ramazzini raccomandava ai suoi malati di praticare bagni profumati
e di cambiare più spesso il vestiario. Inoltre, per poter eliminare le particelle tossiche dal malato, consigliava di provocare: il vomito, l’evacuazione e
il salasso, quest’ultimo praticato sempre con parsimonia e cautela50. Va ribadito che: “il Settecento invertiva la tendenza al calo della popolazione. Il
secolo dei lumi registrava, oltre a un’accelerazione della ragione scientifica, una straordinaria accelerazione moderna dell’incremento demografico in
Europa”51. Il forte inurbamento e la forte spinta demografica contribuirono
alla diffusione di malattie infettive come il vaiolo e la malaria. Allora si attivarono misure igienico–sanitarie per prevenire le malattie e conservare la
salute, perciò: “il problema della salute si (presentava) esplicitamente alla
coscienza dell’uomo come un bisogno individuale e collettivo”52.
45
F. Ongaro Basaglia, Salute/malattia: le parole della medicina, Einaudi, Torino 1982, p.
46
Ivi, p. 171.
G. Cosmanici, Storia della medicina, cit., p. 206
F. Ongaro Basaglia, Salute/malattia, cit., p. 171.
G. Cosmanici, Storia della medicina, cit., p. 214.
Ivi, p. 215.
G. Cosmanici, L’arte lunga, cit., p. 292.
F. Ongaro Basaglia, Salute/malattia, cit., p. 185.
184.
47
48
49
50
51
52
IL MEDICO E IL MALATO IN ETÀ MODERNA
181
A tal proposito va citato un altro esempio di educazione sanitaria popolare, lo scritto di Samuel August Tissot: “L’avviso al popolo sulla sua
salute”. Quest’opera, pubblicata nel 176153, nella quale Tissot descrive i sintomi ed i rimedi di tutte le principali malattie, e tra queste (il vaiolo), contribuì a dar maggior importanza all’inoculazione. Giorgio Cosmacini, al riguardo dice: “il settecentesco innesto –comprendendo in tal nome sia la
“vaiuolazione” che la “vaccinazione” – era un evento non solo medicoscientifico, ma anche medico-sociale. Era da un lato, la dimostrazione definitiva del fatto che la medicina scientifica è fitta di ispirazioni fornitele dalla
medicina popolare: se nel Seicento i medici avevano imparato a curare le
febbri, a cominciare dalla più perniciosa come la malaria, con la china-china, appartenente da lungo tempo alla farmacopea popolare degli Indios, nel
Settecento i medici imparavano a prevenire il vaiolo con la tecnica dell’innesto, originariamente ricavata dalla pratica con cui le donne cinesi e le
caucasiche, esperte della malattia e consapevoli del suo non ritorno (immunità acquisita) in soggetti che già l’avevano avuta, deponevano sopra un
graffio della pelle, secondo quanto ricordato da Tissot, una goccia di vaiolosa materia”54. Dunque, da ciò si desume che la salute popolare fu salvaguardata più “dall’arte di difesa”, contro le malattie contagiose del tempo,
di cui l’esempio lampante fu la prevenzione vaccinica antivaiolosa, che “dall’arte di medicare”. A ciò va aggiunto che l’inoculazione del vaiolo fu sperimentata per la prima volta, dal medico italiano Tozzetti, nel 1756, su sei
fanciulli trovatelli, avente prettamente uno scopo profilattico55. Successivamente, dal medico inglese Jenner fu praticata l’inoculazione non più con pus
umano ma con quello vaccino. Un calo della malattia, si avrà grazie all’introduzione in Italia della vaccinazione antivaiolosa con la legge piemontese
del 185956.
Intanto, si incominciarono: “a vedere i nessi fra la malattia e ciò che
(poteva) produrla, fino alla pubblicazione –all’inizio del XIX secolo, [...]
della “Medizinische Polizey” (1779-1819) di J. P. Frank, in cui (si) elabora un progetto di legislazione sanitaria, proponendo l’idea che il governo
del paese debba assumere la responsabilità della salute pubblica, con espliciti riferimenti di carattere preventivo, quali misure riguardanti il rifornimento idrico, le fognature e l’igiene scolastica”57.
Questo trattato trova la sua utilità ed efficacia, proprio nel periodo in cui
si verificarono la nascita dell’industria e il conseguente inurbamento della popolazione agricola. Grandi nomi, tra il Settecento e l’Ottocento, contribuirono
53
54
55
56
57
G. Cosmanici, L’arte lunga, cit., p. 294.
Ivi, p. 296.
F. Della Peruta, Storia d’Italia, cit., p. 396.
Ivi, p. 418.
F. Ongaro Basaglia, Salute/malattia, cit., p. 172.
182
ANNA SOMMA
al progresso della medicina e alla cura del malato. Tuttavia, non vanno dimenticati, gli studi fatti dal medico J. Brown, il quale teorizzò “l’eccitabilità” proveniente da stimoli interni ed esterni dell’organismo, questa eccitabilità si trasformava in eccitamento vitale e, quando essa non c’era, si manifestavano le
malattie58. Sempre da Brown, il malato debilitato veniva curato con presidi stimolanti, come vini e oppio o con presidi controstimolanti come purganti e salassi59. Questa capacità di stimolazione su alcune zone dell’organismo del malato, fu riformata dal medico italiano Giovanni Rasori, che elaborò la “teoria
del controstimolo”. Scrive Giorgio Cosmacini: “le malattie, che per Brown
erano quasi tutte “asteniche”, per Rasori erano viceversa quasi tutte “malattie
di stimolo” (oggi diremmo da stress), che dovevano essere curate con il metodo “controstimolante”. Era questo un metodo che, a cominciare dalle malattie infiammatorie come la “febbre petecchiale (tifo esantematico) da Rasori
curata con successo nelle truppe franco-cisalpine del generale Masséna assediate in Genova dagli eserciti austro-russi nel 1799-1800, sembrava dare di sé
buona prova”60. Dunque, il principale controstimolo, praticato dal Rasori, era
il salasso: “eseguito con metodo scientifico e pertanto riscattato dal suo ruolo secolare di rimedio “empirico”61. Inoltre, alcune malattie come la tisi, la
sifilide, le polmoniti, il vaiolo furono considerate, dal medico francese F.
Broussais, come infiammazioni di origine gastroenterica. Dal medico francese queste malattie venivano curate con un metodo chiamato “debilitante”, esso
consisteva nel consigliare al malato, il digiuno e il sanguisugio. L’Ottocento
rappresenta il secolo della medicina, in cui “studi e ricerche, spostandosi dal
campo osservativo-descrittivo a quello sperimentale, portavano la terapia con
i farmaci ad acquisire via via, a partire dai vecchi “preparati galenici” prescritti empiricamente, i nuovi “principi attivi” prescrivibili scientificamente in
quanto isolati dalla scienza chimica e dotati di un’efficacia clinica sperimentalmente provata”62. Pertanto, le ricerche scientifiche si svolgevano per lo più
nei “gabinetti d’analisi”63 (così furono chiamati nell’Ottocento, i primi laboratori sperimentali). Il malato, curato per secoli in modo empirico, veniva investigato e ascoltato, con il metodo chiamato “ascoltazione mediata” cioè con lo
stetoscopio, uno strumento che guardava dentro il torace, ascoltando i suoni
provenienti dai polmoni e dal cuore della persona. A ciò vanno aggiunti altri
strumenti scopici come: l’oftalmoscopio, l’otoscopio, il laringoscopio, tutti
aventi come obiettivo il progresso e l’inaugurazione di una nuova tecnica che
in età contemporanea, sarà chiamata “endoscopia”.
58
59
60
61
62
63
G. Cosmanici, L’arte lunga, cit., p. 305.
Ivi, p. 306.
G. Cosmanici, L’arte lunga, cit., p. 326.
Ivi, p. 327.
Ivi, p. 333.
Ivi, p. 335.
IL MEDICO E IL MALATO IN ETÀ MODERNA
183
La cura del malato fu avvantaggiata oltre che dai citati strumenti anche dalle scoperte di importanti sostanze farmacologiche, che facilitarono la
guarigione, ma soprattutto alleviarono le sofferenze del malato. Proprio in
questo secolo furono scoperte l’etere e il protossido d’azoto, inaugurando così
l’uso dell’anestesia64, e la morfina ricavata dall’oppio. Accanto alle malattie
del passato, se ne aggiunsero altre molto più infettive e contagiose, come il
colera, considerata la “Peste dell’Ottocento” che imperversava in Europa dal
1832. Inoltre queste “malattie multisecolari, responsabili di fatali contagi e
di micidiali epidemie, venivano identificate nei loro agenti responsabili”65.
Infatti, con il perfezionamento del microscopio, fu scoperto nel 1882 il bacillo della tubercolosi da Robert Koch, il quale, inoltre, isolò nel 1884 il
“bacillo a virgola” responsabile del colera66. Accanto alla medicina ufficiale
si aggiunsero l’omeopatia, scoperta ottocentesca, e il magnetismo, che furono applicati alla terapia medica. A ciò possiamo aggiungere che “le scoperte e le realizzazioni mediche del XIX secolo (sconvolsero) l’immagine del
corpo e l’intervento della medicina: la teoria cellulare di Virchow, debellando la teoria umorale che aveva dominato per più di duemila anni; la
batteriologia, con Pasteur e Koch, dimostrando e individuando le cause
misteriose di molte malattie; l’anestesia con etere, riducendo per il paziente [...] il trauma dell’intervento chirurgico; lo sviluppo della chirurgia antisettica e asettica di Lister, riducendo la mortalità postoperatoria [...]” pertanto: “la medicina incomincia a disporre di strumenti di intervento e, individuando nella carenza di fognature, nel rifornimento idrico insufficiente,
nelle paludi stagnanti, nell’assenza delle più elementari misure igieniche
l’origine di molte malattie, incomincia a essere in grado di dare indicazioni concrete sui provvedimenti necessari a prevenirle67. Per esempio, si dimostrò come la febbre puerperale, oggi chiamata setticemia, era procurata
da un avvelenamento da virus ed era trasmessa alle partorienti dalle mani
infette degli ostetrici provenienti dalle sale d’autopsia, per cui l’unica precauzione per evitare il contagio era quello di lavarsi le mani. La microbiologia e lo studio delle infezioni, raggiunsero in questo secolo, grandi risultati, grazie ai citati Pasteur e Koch, pertanto si ritenne necessario introdurre
all’interno delle strutture ospedaliere, delle precauzioni per evitare il contagio di malattie infettive. Così i medici cominciarono ad indossare sui loro
abiti, i camici bianchi, e a coprire le mani con guanti di gomma durante le
operazioni chirurgiche68.
64
65
66
67
68
Ivi, p. 342.
Ivi, p. 346.
Ibidem.
F. Ongaro Basaglia, Salute/malattia, cit., pp. 186-187.
G. Cosmanici, L’arte lunga, cit., p. 351.
184
ANNA SOMMA
In conclusione la riforma sanitaria del 1888, in precedenza citata, “prevedeva che nessuno (poteva) esercitare la professione di medico chirurgo,
veterinario, farmacista, dentista, flebotomo, o levatrice se non [...] (conseguiva) la laurea o il diploma di abilitazione in un’università, istituto o scuola
a ciò autorizzata” 69. Così, l’immagine del medico, tanto sminuita nei secoli, con le scoperte scientifiche, come appunto “i trionfi batteriologici”70 degli anni settanta e ottanta dell’Ottocento, rifiorì. Fu determinante l’azione
dello Stato che aveva “dimostrato comprensione per i medici, concedendo
loro, in cambio dell’alleanza nella gestione della salute dei cittadini, privilegi, prerogative e potere”71. Con la legittimazione da parte dello Stato, il
ruolo e la figura del medico nella società italiana, furono considerati in primo piano, e la popolazione diffidente accettò da allora fiduciosa le cure del
medico72.
69
70
71
72
Art. 23, legge 22 Dicembre 1888, n. 5849.
F. Della Peruta, Storia d’Italia, cit., p. 209.
Ivi, p. 837.
Ivi, p. 840.
IL MEDICO E IL MALATO IN ETÀ MODERNA
185
PROFILO DEI SOCI DONATORI DI SANGUE
DELL’AVIS DI CORATO (BARI)1
Rossella Bruni
In Italia la fascia d’età dalla quale proviene la grande maggioranza dei
donatori di sangue è quella compresa tra i 30 e i 55 anni e, stando alle proiezioni demografiche effettuate dal Censis, questa componente della popolazione è destinata a ridursi in modo significativo nei prossimi decenni. Pertanto, per garantire la sostenibilità del sistema trasfusionale di domani, è
necessario sensibilizzare i giovani di oggi.
L’Associazione nazionale Volontari Italiani del Sangue (AVIS) è costituita da coloro che donano volontariamente, gratuitamente, periodicamente
e anonimamente il proprio sangue e dalle Associazioni Comunali,
Provinciali,Regionali – e/o equiparate – di appartenenza. L’AVIS è un’associazione di volontariato, apartitica, aconfessionale, non lucrativa, che non
ammette discriminazioni di sesso, razza, lingua, nazionalità, religione, ideologia politica. Lo scopo di questa Associazione – che garantisce l’unitarietà
di tutte le Associazioni territoriali che ad essa aderiscono – è quello di promuovere la donazione di sangue – intero o di emocomponenti – volontaria,
periodica, associata, non remunerata, anonima e consapevole, intesa come
valore umanitario universale ed espressione di solidarietà e di civismo.
Il donatore si configura quale promotore di un primario servizio sociosanitario ed operatore della salute, anche al fine di diffondere nella comunità nazionale ed internazionale i valori della solidarietà, della gratuità, della
partecipazione sociale e civile e della tutela del diritto alla salute.
Pertanto, in armonia con i propri fini istituzionali e con quelli del Servizio Sanitario Nazionale, l’AVIS si propone di:
– sostenere i bisogni di salute dei cittadini favorendo il raggiungimento
dell’autosufficienza di sangue e dei suoi derivati a livello nazionale, dei
massimi livelli di sicurezza trasfusionale possibili e la promozione per il
buon utilizzo del sangue;
– tutelare il diritto alla salute dei donatori e di coloro che hanno necessità
di essere sottoposti a terapia trasfusionale;
– promuovere l’informazione e l’educazione sanitaria dei cittadini;
1
La tesi Profilo dei soci donatori e degli ex soci dell’Avis comunale di Corato è stata discussa all’Università di Bari, Facoltà di Econaomia, corso di laurea in Scienze statistiche ed economiche, Cattedra di Inferenza statistica e modelli lineari, relatore prof.ssa Nunziata Ribecco.
186
ROSSELLA BRUNI
– promuovere un’adeguata diffusione delle proprie associate su tutto il territorio nazionale, con particolare riferimento alle aree carenti, e delle attività associative e sanitarie ad esse riconosciute, come la raccolta del sangue e degli emocomponenti;
– favorire lo sviluppo della donazione volontaria, periodica, associata, non
remunerata, anonima e consapevole a livello comunitario ed internazionale; promuovere lo sviluppo del volontariato e dell’associazionismo; promuovere e partecipare a programmi di cooperazione internazionale2.
L’AVIS è presente su tutto il territorio nazionale con una struttura ben
articolata, suddivisa in 3.180 sedi Comunali, 111 sedi Provinciali, 22 sedi
Regionali e l’AVIS Nazionale. A Corato, alla fine del 1980, grazie all’iniziativa dei soci fondatori, ha preso vita un primo nucleo di donatori che, il
1 febbraio 1981, ha partecipato all’Assemblea Costitutiva della locale sezione.
Grazie alla notevole crescita associativa, l’AVIS di Corato ha collaborato con
la ASL di appartenenza nell’istituzione, presso l’ospedale di Corato, di un
Centro Prelievi, attualmente dotato di quattro poltrone trasfusionali.
Il principale obiettivo di questo studio è quello di analizzare le informazioni sui soci donatori e sugli ex soci, al 31/12/2009, dell’AVIS Comunale di Corato. Inoltre, si vogliono raccogliere opinioni sulla qualità del servizio offerto dall’Associazione e suggerimenti per poterlo migliorare.
La popolazione di riferimento dell’indagine è costituita dai soci donatori e dagli ex soci dell’AVIS Comunale di Corato al 31/12/2009.
Per poter chiarire la definizione di “socio” adottata dallo Statuto Nazionale AVIS approvato il 17 Maggio 2003, se ne riportano in seguito due articoli:
– Art. 6 c.2: “È socio chi dona periodicamente il proprio sangue, chi per
ragioni di età o di salute ha cessato l’attività donazionale e partecipa con
continuità alla attività associativa e chi, non effettuando donazioni, esplica
con continuità funzioni non retribuite di riconosciuta validità nell’ambito
associativo; (..)”
– Art. 7 c.1: “ La qualifica di socio si perde per: (...) cessazione dell’attività donazionale, senza giustificato motivo, per un periodo di due anni”.
Il questionario somministrato ai soci donatori, così come quello rivolto
agli ex soci, è stato strutturato in modo tale da raccogliere informazioni su:
– la situazione socio-demografica del rispondente;
– il suo approccio nel passato, nel presente e nel futuro all’attività di donazione di sangue e/o emocomponenti, registrandone motivazioni, giudizi e suggerimenti.
Si riportano in seguito i due questionari.
2
AVIS, Statuto Nazionale, 17 Maggio 2003, 67a Assemblea Nazionale in Riccione, pag. 1
PROFILO DEI SOCI DONATORI DI SANGUE DELL’AVIS DI CORATO (BARI)
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PROFILO DEI SOCI DONATORI DI SANGUE DELL’AVIS DI CORATO (BARI)
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PROFILO DEI SOCI DONATORI DI SANGUE DELL’AVIS DI CORATO (BARI)
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L’indagine è stata svolta nelle giornate di donazione, stabilite dal calendario AVIS, nel periodo dal 31 Maggio al 31 Giugno 2010.
Il questionario è stato somministrato al campione di soci donatori presso il Centro di raccolta. Gli ex soci, invece, sono stati intervistati telefonicamente.
La numerosità campionaria è stata determinata ponendo una precisione
pari a due sia per i soci che per gli ex soci. Il piano di campionamento utilizzato è quello stratificato, con variabile di stratificazione l’età dei soci e
degli ex soci. Nell’ambito degli strati è stata effettuata, data l’impossibilità
ad individuare i nominativi, una scelta per quote proporzionale al numero
di soggetti appartenenti alle classi di età secondo cui sono distribuiti i soci
e gli ex soci.
La numerosità del campione di ex soci è risultata pari a 70 soggetti.
Delle 70 unità campionate il 17% ha rifiutato di sottoporsi all’intervista per
cui sono stati analizzati soltanto 58 questionari. La numerosità del campione di soci è risultata pari a 140 soggetti ma il 15% ha rifiutato di rispondere al questionario, per cui ne sono stati analizzati soltanto 108.
Grazie ai dati raccolti attraverso i questionari somministrati al campione di soci donatori ed ex soci AVIS Comunale di Corato, è stato possibile
delineare un profilo ideale di tali soggetti.
La figura del donatore-target è incarnata generalmente da un uomo di
41 anni, coniugato, diplomato presso l’istituto tecnico, occupato nella Pubblica Amministrazione e che ha usufruito del permesso di lavoro per donazione di sangue e/o emocomponenti.
Si caratterizza come non fumatore e come donatore assiduo, avendo effettuato fino a 25 donazioni. La scelta di diventare donatore è nata dalla sua iniziativa personale, ritenendo che donare il sangue sia un gesto di solidarietà.
Non è a conoscenza delle convenzioni stipulate dall’AVIS coratina per
cui non ha ancora approfittato degli sconti riservati ai soci.
Il suo giudizio sul servizio offerto dall’Associazione è positivo: i tempi
di attesa sono accettabili, l’orario di apertura del Punto raccolta ospedaliero
è adeguato alle sue esigenze, è disponibile ad essere contattato per la chiamata alla donazione e desidererebbe ricevere materiale informativo riguardante la donazione.
Questa tesi è ancor più avvalorata dal fatto che il donatore ha ritenuto
che il questionario somministratogli fosse chiaro.
Diversamente dal socio, invece, il sesso e lo stato civile del donatore
diventato ormai ex socio non è ben definito in quanto le ex donatrici sono
nella stessa proporzione degli ex donatori e i celibi/nubili dei coniugati/e.
Egli/ella può essere impiegato/a nell’industria così come nella Pubblica
Amministrazione ed è importante sottolineare che, a differenza del socio, non
ha mai usufruito del permesso di lavoro per donazione.
PROFILO DEI SOCI DONATORI DI SANGUE DELL’AVIS DI CORATO (BARI)
193
Generalmente l’attività donazionale è interrotta dopo poche donazioni
(fino a cinque donazioni) per motivi di salute. Fortunatamente per l’AVIS
coratina, nessuno ha dichiarato di averlo fatto per rivolgersi ad un’altra associazione.
La bella notizia è stata data dall’ex donatore stesso che ha dichiarato
di aver intenzione di riprendere, in futuro, a donare sangue e/o emocomponenti per l’AVIS Comunale di Corato.
194
ALFREDO ESPOSITO
LA CONFRATERNITA DELLA MISERICORDIA DI TORRE ANNUNZIATA (NAPOLI)
195
LA CONFRATERNITA DELLA MISERICORDIA
DI TORRE ANNUNZIATA (NAPOLI)1
Alfredo Esposito
Dopo una prima parte di carattere generale, nella quale è preso in considerazione il tema delle aziende non profit e della gestione del personale
nelle associazioni di volontariato, Esposito ripercorre la nascita e l’evoluzione delle Confraternite della Misericordia d’Italia. La prima nacque a Firenze nel 1244 e aveva tra i suoi scopi quello di trasportare gli ammalati negli ospedali, in seguito ne sorsero altre con lo stesso nome a Siena (1250),
a Pontremoli (1262), a Volterra (1290), a Montepulciano (1303) ed a Pisa
(1330).
Nei secoli successivi sono sorte altre istituzioni analoghe in Italia e in
altri continenti, quelle italiane aderiscono ad una Confederazione Nazionale
con sede a Firenze. Oggi sono circa 700 con 670.000 iscritti, dei quali oltre
centomila sono impegnati permanentemente in opere di carità. Attualmente
nel Meridione ve ne sono 81 in Sicilia, 67 in Campania e 41 in Puglia. Nel
1992 per la prima volta si riunirono tutte le Misericordie del mondo a Firenze con oltre 200 delegati provenienti da 40 paesi.
Nell’area campana a partire dagli anni 80 del secolo scorso furono istituite sedi a Gragnano, Agerola, Pimonte, Vico Equense, Casoria, Poggiomarino, Acerra e Napoli.
Le principali aree di intervento di queste confraternite sono le seguenti:
trasporti sanitari e sociali; emergenze/urgenza e pronto soccorso; protezione
civile con gruppi attrezzati e specificamente addestrati; onoranze funebri e
servizi cimiteriali; gestione di ambulatori specialistici; gestione di case di
riposo e consultori familiari; servizi emodialisi autogestiti; assistenza domiciliare ed ospedaliera; telesoccorso, teleassistenza e servizio di telefono amico; assistenza ai carcerati, agli anziani, agli immigrati e ai portatori di handicap; raccolte di aiuti e missioni umanitarie internazionali. In queste attività la maggior parte degli operatori sono volontari che prestano la loro opera, il proprio servizio senza un rapporto di dipendenza e senza una remune1
La tesi di laurea La gestione del personale nelle associazioni di volontariato: l’esperienza
di Misericordia in Italia, è stata discussa presso l’Università di Napoli Parthenope, Facoltà di
Economia, corso di laurea in Economia e Commercio, Cattedra di Economia e gestione delle
imprese, anno accademico 2009/2010, relatore prof. Adele Parmentola. Dopo una premessa del
curatore si pubblicano, evidenziandoli in corsivo, ampi stralci della tesi.
196
ALFREDO ESPOSITO
razione di tipo monetario. I volontari si dividono in varie categorie: generici, specializzati, del centro, della periferia, di lungo periodo e di breve periodo. Ci sono inoltre i collaboratori o consulenti esterni, in genere professionisti (ad es. medici, infermieri), obiettori di coscienza impegnati principalmente in attività di protezione civile. La categoria meno presente è rappresentata dal personale dipendente.
Considerato che i volontari sono un elemento fondamentale per l’attività e la stessa sopravvivenza dell’ente, particolare attenzione le confraternite
della Misericordia la riservano alla formazione. La ricerca dei collaboratori
mira a individuare la presenza di quei fattori qualificanti e vincenti che permettono alle persone di diventare validi volontari: il primo è la gratuità, il
volontario deve mettere a disposizione il proprio tempo, senza aspettarsi un
ritorno economico. Il secondo fattore è la libertà, il volontario deve dedicare tempo ed energie liberamente, spinto da una buona causa. Il terzo fattore è la disponibilità, egli si deve rendere disponibile per il conseguimento
della buona causa, mettendo a disposizione tempo, risorse e professionalità. Poi c’è la flessibilità, l’attività del volontario dovrà essere flessibile in
quanto non vincolata da alcun rapporto contrattuale od economico. Nei
volontari, inoltre, ci devono essere motivazioni molto forti d’altruismo, tali
da spingerli ad impegnarsi gratuitamente; infine diventa importante individuare il livello di soddisfazione che il volontario trova nella sua attività.
Un volontario, ed a maggior ragione un dirigente, della Misericordia è
qualcosa di più e di diverso dal semplice cittadino che dedica parte del suo
tempo ad iniziative di solidarietà, essendo l’erede di otto secoli di storia
scritta, con i loro entusiasmi e le loro disillusioni, con la loro speranza ed
il loro sconforto, da uomini che hanno avuto la pretesa, di dimostrare che
il Buon Samaritano non è solo una parabola.
I confratelli delle Misericordie seguono percorsi di formazione specifica, sia motivazionale che tecnica, per essere al servizio degli altri con preparazione e competenza, unite a forti motivazioni etiche. Le proposte formative del movimento sono destinate a tutti i confratelli, volontari e non, e
quadri dirigenti delle Misericordie. Corsi, seminari, esercitazioni, tirocini,
laboratori ed una scuola per quadri dirigenti: sono centinaia le iniziative di
formazione promosse dalle varie Misericordie locali e dalla stessa Confederazione. Queste vengono fatte sia autonomamente, che in collaborazione con
altre organizzazioni non profit, con agenzie formative, con associazioni di
categoria. I percorsi più diffusi a livello nazionale sono: il soccorritore sanitario di base ed avanzato; il corso di sicurezza in emergenza; quello di
operatore di protezione civile con varie specializzazioni; la formazione dirigenti Misericordie; nonché quello di responsabili di servizio civile. Per la
formazione e lo sviluppo, c’è l’ufficio Area Sviluppo della Confederazione,
che si occupa di progetti innovativi e sperimentali per il movimento, inoltre
LA CONFRATERNITA DELLA MISERICORDIA DI TORRE ANNUNZIATA (NAPOLI)
197
predispone e gestisce, anche in partnership con Enti Pubblici ed organizzazioni del terzo settore: progetti comunitari, nazionali e territoriali.
Nel 1963 sorse una struttura collaterale: Il Movimento dei Gruppi Donatori di Sangue (Fratres), che pur avendo assunto in seguito uno stato giuridico autonomo è rimasto collegato alle Misericordie.
Nel 2002 sorse una Misericordia anche a Torre Annunziata.
La strada da percorrere non fu facile: iter burocratici e diffidenza, crearono problemi che apparivano, insormontabili. La tenacia di tutti i componenti di quel gruppo riuscì a superare le difficoltà, realizzando quello che
oramai sembrava diventato solo un sogno. L’autorizzazione della Confederazione Nazionale delle Misericordie d’Italia a utilizzare il nome e il logo
della confraternita giunse l’8 febbraio 2002. I ventuno soci fondatori costituirono così l’associazione denominata “Confraternita di Misericordia di Torre
Annunziata, sottoscrivendo l’atto costitutivo.
Quelle firme costituirono solo l’inizio, infatti dopo aver deciso in quale
ambito del volontariato inserirsi per poter perseguire i loro nobili scopi,
c’erano ancora vari problemi da risolvere. Oltre al capitale, che pure in
un’organizzazione di volontariato serve, bisognava procurarsi i materiali per
cominciare ad operare sul territorio come: l’autoambulanza, una sede operativa, farmaci generici e soprattutto il personale. Pian piano le cose si risolvevano, le Misericordie dei paesi vicini fornirono alcuni materiali e farmaci, cosi come accadde per l’autoambulanza, ugualmente efficiente. Per la
sede, grazie ad un po’ di fortuna, si subentrò nei locali di un’altra organizzazione, per i capitali ci fu l’autofinanziamento da parte dei soci. L’unico
nodo ancora da sciogliere rimaneva la formazione del personale adatto ai
compiti, ma per questo ci sarebbe voluto un po’ più di tempo.
Pian piano, l’organizzazione crebbe sul territorio locale, ricoprendo varie altre mansioni, coordinandosi con le altre Misericordie della zona, riuscendo cosi a fornire il trasporto di malati e il servizio 118. Proprio per quest’ultima attività era presente personale professionale, come medici ed infermieri, oltre agli autisti abilitati ed ai soccorritori. Nel tempo i servizi offerti alla cittadinanza aumentarono: il servizio civile per i giovani, con progetti rivolti a persone disagiate o disabili; l’assistenza/telesoccorso agli anziani; il servizio di ambulanza con operatività 24 h su 24. Questa Misericordia sul territorio locale è presente anche nei piccoli eventi cittadini, come
ad esempio, per l’isola pedonale cittadina, per la festa patronale della città o di quelle vicine, eventi culturali ecc. L’associazione è presente anche
in eventi sportivi, allo stadio per le partite della squadra di calcio locale,
al torneo provinciale scolastico di beach-volley od a quello di basket, a gare
ciclistiche, a tornei giovanili di calcio. Lo stesso servizio viene fornito anche durante le manifestazioni di beneficenza come la “Partita del Cuore”
198
ALFREDO ESPOSITO
tra le squadre di calcio del Grande Fratello e dei giornalisti, la giornata
organizzata “padre-figlio in bici” o la maratona cittadina. La Misericordia
di Torre Annunziata è in contatto con tante altre organizzazioni di volontariato e con piccole organizzazioni legate alle parrocchie impegnate nell’attività della mensa dei poveri, negli aiuti alle persone diversamente abili ecc.
Allo stesso tempo però la sua collaborazione viene offerta, a livello locale,
unendosi ad organizzazioni nazionali come la Caritas, l’AVO, l’Unitalsi,
l’Avis, la Fratres ed il Telefono Azzurro. Con quest’ultimo collaboriamo in
occasione delle giornate del fanciullo nella raccolta dei fondi regalando
candele o piante. Collaboriamo inoltre ad organizzare le varie giornate che
si tengono nel corso dell’anno a favore di enti che si prodigano per rivendicare diritti a chi non li ha, o che si occupano della salute pubblica. Continuando a cooperare con le altre Misericordie della zona, per migliorare i
servizi che insieme offrono in maniera coordinata. Un progetto delle Misericordie della zona, fu di creare un giornale sul volontariato, distribuendolo in maniera gratuita; questa iniziativa coinvolse diverse sedi della zona
vesuviano-sorrentina. La Misericordia di Torre Annunziata è stata presente,
più volte, con il suo equipaggio di volontari alle esercitazioni di protezione
civile e servizio ambulanza tenutosi a livello nazionale, l’ultima di queste
esercitazioni si è tenuta nel giugno 2010 a Valle dell’Orco. Partecipa anche ad interventi nazionali di solidarietà organizzati dal governo italiano,
come il grande centro di raccolta organizzato a Bari per gli aiuti da spedire ai profughi kosovari giunti in Albania, a causa della guerra nel loro paese. Interviene nelle emergenze di massa che si presentano negli anni, come
fu in Abruzzo nella città dell’Aquila dopo il terremoto del giugno 2009 che
la distrusse; partecipando attivamente all’emergenza di Atrani, a fine estate 2010; ad Atripalda nel luglio 2009; a Bazzano nel maggio 2009. La Misericordia di Torre Annunziata, come del resto la Confederazione Nazionale, cerca di essere sempre presente non appena si avverte l’esigenza di solidarietà.
Particolarmente significativa fu, per l’associazione torrese, la partecipazione alla giornata nazionale dedicata alle Misericordie d’Italia e Fratres, tenutasi il 10 febbraio 2007 in Città del Vaticano, che coinvolse tutta
la Confederazione Nazionale delle Misericordie d’Italia. In quell’occasione,
Papa Benedetto XVI, durante la sua omelia, pose l’accento sull’importanza
del volontariato inteso come aiuto gratuito al prossimo e del loro impegno
nell’attuarlo. Quel giorno fu davvero commuovente vedere tanta gente che,
unita dai medesimi sentimenti di solidarietà e di carità. In quell’occasione,
Piazza San Pietro era piena di volontari provenienti da ogni parte d’Italia,
ogni associata aveva inviato una sua rappresentanza, si vedeva solo il bicolore giallo-ciano, delle loro divise in piazza.
(...)
LA CONFRATERNITA DELLA MISERICORDIA DI TORRE ANNUNZIATA (NAPOLI)
199
Tutti gli iscritti alle confraternite della Misericordia sono chiamati con
il nome tradizionale di “Confratello” o “Consorella” ed alimentano tale vincolo spirituale nella comunanza delle identità morali e delle iniziative caritative che sono alla base istituzionale della stessa Confraternita. I soci si
suddividono in tre categorie:
a) Confratelli aspiranti;
b) Confratelli effettivi;
c) Confratelli sostenitori.
L’iscrizione avviene su domanda da presentarsi al Magistrato munita
della firma di due Confratelli effettivi iscritti. Per effetto dell’affiliazione alla
Confederazione Nazionale delle Misericordie d’Italia, i Confratelli possono
essere iscritti a più Confraternite di Misericordia. I Confratelli aspiranti sono
coloro che intendono far parte della categoria dei Confratelli effettivi. L’aspirantato ha la durata di dodici mesi di lodevole servizio al termine del quale, anche in presenza della maggiore età e su deliberazione del Magistrato,
passano alla categoria dei Confratelli effettivi.
I Confratelli effettivi sono coloro che, compiuto il periodo di aspirantato, accettano l’obbligo di offrire il proprio servizio nelle opere della confraternita. Essi costituiscono il corpo funzionale della Confraternita stessa
e partecipano all’assemblea con diritto di elezione attiva e passiva.
Infine i Confratelli sostenitori sono coloro che sostengono materialmente
e moralmente la stessa confraternita senza obbligo di servizio al suo interno.
Per quanto riguarda i Confratelli aspiranti e sostenitori, non partecipano alle riunioni dell’Assemblea e non hanno il diritto di elezione attiva e
passiva.
Gli iscritti alla confraternita devono: osservare lo statuto, i regolamenti e le disposizioni emanate dagli organi della confraternita; tenere condotta morale e civile irreprensibile; disimpegnare diligentemente i servizi loro
affidati. Inoltre devono tenere nei confronti dei Confratelli preposti alle cariche sociali un comportamento corretto e di collaborazione; devono collaborare alle iniziative della Confraternita e partecipare alle riunioni e alle
iniziative di carattere generale promosse dalla Confraternita Nazionale delle Misericordie d’Italia.
La qualità di iscritto alla Confederazione si perde per dimissione, per
decadenza o per esclusione. Si perde per dimissioni qualora il Confratello
presenti al Magistrato, in forma scritta, la propria rinunzia a mantenere il
suo diritto di Confratello. Si perde per decadenza ove venga a mancare uno
dei requisiti essenziali di appartenenza alla Confraternita. Si perde per esclusione nei casi che rendano incompatibile, l’appartenenza dell’iscritto alla
Confraternita. La perdita della qualità di socio implica pure la decadenza
da ogni diritto sia spirituale che materiale verso la Confraternita.
(...)
200
ALFREDO ESPOSITO
All’inizio della vita di quest’associazione, i primi nuovi iscritti erano
spesso parenti, colleghi di lavoro ed amici dei soci-fondatori. All’inizio, quindi, il gruppo essendo costituito principalmente da amici e parenti dava l’impressione di essere una bella grande famiglia allargata, si erano create cosi
non solo le premesse per continuare, ma anche un ottimo ambiente di coesione sociale. L’associazione torrese è cresciuta nel corso del tempo soprattutto grazie all’entusiasmo che, i primi soci, hanno saputo trasmettere in
famiglia, tra amici ed in ambito lavorativo. Ma perché l’associazione potesse farsi conoscere sul territorio, il passaparola tra amici e parenti, non
bastava più, con l’aumentare dei servizi, bisognava aumentare anche il numero dei soci. Difatti servivano più persone, non solo per le ambulanze per
i vari turni ed interventi giornalieri, ma anche per la nuova sede operativa, tenendola aperta al pubblico. Si sono attuate cosi, e si attuano ancora,
diverse iniziative come il volantinaggio, la divulgazione di materiale illustrativo o biglietti da visita, lasciati in parrocchie, negli esercizi commerciali e
presso le famiglie dove vengono prestati interventi di soccorso, in ospedali
e cliniche della zona. Si utilizzarono manifesti murali soprattutto quando si
effettuavano corsi di formazione per divulgare la notizia. Questa sede della
Misericordia si fece ben conoscere sul territorio grazie all’iniziale servizio
del 118, alla gentilezza e cordialità oltre che serietà e professionalità dei
propri membri, impegnati in questo servizio pubblico. Ben presto crebbe
d’importanza e crebbero gli interventi da effettuare, tanto da dover aumentare pure il parco autoambulanze da impiegare sul campo.
In pratica per “acquisire” nuovo personale, sono stati utilizzati come
metodi, essenzialmente lo screening di curriculum e la presentazione, che
sono strumenti per poter meglio capire che tipo di persone si presentano all’associazione. Inoltre successivamente si sono utilizzati anche esercizi di
simulazione, dove i nuovi membri vengono osservati nel corso di un esercizio di gruppo, e se sono capaci di lavorare in team, in questo campo. A volte
capita di utilizzare come metodo di reclutamento, i test attitudinali, per corsi
specifici soprattutto, utile per misurare particolari abilità, si cerca di valutare se la persona sia capace di svolgere un gruppo di compiti (o quali) nel
futuro. Infine la prova sul campo, che resta un meccanismo fondamentale,
forse la più importante nei servizi alla persona, di cui la Misericordia si
occupa, verificando gli operatori sul campo e la loro sensibilità. Si utilizza
quindi l’accoglienza e la socializzazione per mettere a proprio agio i nuovi
iscritti per inserirli e farli conoscere agli altri soci. I nuovi iscritti, sono seguiti da persone più esperte che lì affiancano come tutor e li aiutano sul
campo, facendoli inserire per gradi nel gruppo già formato magari anche
compatto ed unito, senza farli sentire trascurati. Allo stesso tempo apprendendo varie tecniche d’intervento da chi è più esperto e pratico di loro. In
questo modo gradualmente i nuovi si inseriscono, riuscendo ad apprendere
LA CONFRATERNITA DELLA MISERICORDIA DI TORRE ANNUNZIATA (NAPOLI)
201
ciò che c’è da apprendere per poter fornire questo tipo di servizi alle persone, in quanto i corsi spesso non bastano 2.
Per l’affiancamento-addestramento sul campo, ad esempio per l’equipaggio dell’autoambulanza formato da 3-4 persone in genere, al massimo c’è
un solo operatore nuovo da formare. Questi si unisce agli altri per acquisire esperienza e capacità, od a volte viene aggiunto all’equipaggio come
membro aggiuntivo. A volte i nuovi operatori vengono anche coinvolti in casi
di non emergenza, in cui magari la situazione è più sicura e tranquilla, cosi
facendoli abituare un po’ per volta a questo tipo di ambiente, che potrebbe
non essere per tutti, essendo un po’ particolare. In ogni caso comunque gli
si spiega cosa si fa, come e perché, come intervenire e vari compiti o mansioni che poi dovrà svolgere, le attrezzature da utilizzare. Cosi da essere
autonomo successivamente e magari a sua volta con l‘esperienza acquisita
e dopo un po’ di tempo, spiegare ad altri nuovi operatori 3.
La formazione
Il personale, anzi i volontari, che accedono all’associazione necessitano di una formazione e ciò è particolarmente indispensabile per coloro che
sono addetti al servizio ambulanza. A tal fine, si organizzano, nella sede di
Torre Annunziata, corsi di formazione a vari livelli: prima il corso di soccorritore di primo livello, successivamente uno di secondo livello e solo in
seguito di soccorso avanzato. La partecipazione ai corsi è libera e gratuita
per tutti i soci desiderosi di partecipare, che danno la loro disponibilità, ma
è pure aperta a persone esterne alla stessa associazione, a coloro che vogliono approfondire le proprie conoscenze. Nel caso particolare della Misericordia di Torre Annunziata, si è cominciato col corso di soccorritore di
primo livello per i primi soci che si sono iscritti per poterli cosi preparare
a possibili interventi ed essere pronti al servizio di guida dell’ambulanza.
A seguito dell’iscrizione di tanti altri aspiranti soci, ai quali occorreva una
formazione, si è provveduto ad un altro corso, a cui parteciparono anche
persone esterne, questa iniziativa portò cosi ancora altri nuovi iscritti. Il numero dei partecipanti questa volta, era davvero notevole. Questo corso iniziò, proseguì e si concluse in maniera eccellente, con nessun ritirato, con
una grande affluenza alle lezioni, la partecipazione attiva e responsabile è
stata sempre alta e ciò costituisce oggetto di orgoglio per tutta l’associazione torrese. Il formatore era un medico, anch’egli socio, che tenne rela2
Ambrosio G. e Bandini F., (1998), “La gestione del personale nelle aziende non profit
“, Etaslibri, Milano.
3
www.volontari.org
202
ALFREDO ESPOSITO
zioni su argomenti inerenti alle nozioni di primo soccorso e alle tecniche
di interventi da attuare nella prima fase del soccorso. Inoltre ci furono varie esercitazioni sul campo ed in autoambulanza per far acquisire, soprattutto ai nuovi la padronanza delle varie attrezzature. Negli anni successivi
sono stati effettuati altri corsi, in contemporanea si svolsero i corsi di soccorritore di primo livello, per chi non lo aveva svolto e per i nuovi soci,
con quello di secondo livello per chi già aveva superato il primo, e voleva
apprendere ulteriori nozioni. La partecipazione fu notevole, ma questa volta si collaborava anche con altre associazioni della zona I risultati furono
ottimi come sempre, con un notevole numero di frequentanti. Inoltre nel corso
degli anni si sono organizzati vari altri corsi di formazione per il personale volontario. Come il corso di istruttore-autista in casi di emergenza, i cui
istruttori provenienti dalla sede centrale di Firenze, tennero il corso nella
sede di Torre Annunziata per tutte le Misericordie della zona vesuviano –
sorrentina, compresa quella ospitante. Sono stati così abilitati diversi soci,
ricevendo l’incarico di istruttore-autista, rendendo in questo modo ogni sede
autonoma ed indipendente, oltre che autosufficiente anche in quest’ambito.
In seguito ci furono corsi-formazione per i giovani del servizio civile, anche in questo caso relativi alle varie Misericordie della zona, coinvolte con
diversi progetti, pure questa volta collegati alle varie Misericordie della zona
vesuviano-sorrentina. Inoltre fu attivato anche il corso-formazione per la
protezione civile, in cui un gruppo di soci dell’associazione torrese fu abilitato a ciò, seguendo questo corso in cui si formavano gli operatori proprio per il servizio di protezione civile, con relativi responsabili. In seguito
si provvide ad acquisire un mezzo adatto a tale nuovo servizio offerto, un’autopompa, per poter meglio intervenire nei casi di emergenza insieme con le
autoambulanze. Ogni volta che c’è da inserirsi in un nuovo ambito del volontariato, in cui si è forse più inesperti che in altri, si cerca di formare le
persone, i soci appunto, per meglio farli affrontare le nuove esperienze, ma
anche quando già si è esperti in certi campi e si vuole approfondire, si procede con dei corsi di formazione.
LA CONFRATERNITA DELLA MISERICORDIA DI TORRE ANNUNZIATA (NAPOLI)
203
IL VOLONTARIATO NEL GRUPPO OPERATIVO
DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA SCLEROSI MULTIPLA
DI SAN GIOVANNI IN FIORE (COSENZA)1
Maria Teresa Materazzo
Il lavoro di questa tesi parte dalla mia esperienza personale di servizio
civile svolto nel 2008 nella Sezione Provinciale Aism di Cosenza, ovvero
nell’Associazione Italiana Sclerosi Multipla, e della scelta di proseguire e fare
volontariato una volta terminato il servizio civile.
L’obiettivo della tesi è quello di dimostrare in che modo il servizio civile è una maieutica del volontariato, in altre parole una forma di partecipazione intermedia alla vita sociale che prepara al volontariato e ad altre
forme di solidarietà.
L’analisi iniziale è stata quella di studiare le teorie sulla solidarietà di
sociologi dell’800: dalle relazioni di solidarietà di Max Weber alla contrattualizzazione di Ferdinand Tönnies, dalla prospettiva olistica di émile Durkheim all’approccio relazionale di George Simmel2.
Nel corso del ‘900 lo studio sulla solidarietà ha seguito due approcci:
quello istituzionale e quello relazionale e la sua evoluzione storica si è sviluppata dagli interventi a favore dei poveri nell’Europa del XVIII secolo fino
al riconoscimento dei diritti civili, politici e di cittadinanza sociale del XX
secolo. Negli ultimi anni si è assistito alla nascita, allo sviluppo e alla crisi
del welfare state all’interno del quale sono nate delle forme più moderne di
solidarietà. Un aspetto importante analizzato è stato quello legato al concetto di dono di Marcel Mauss3. Il dono, presente nella società civile, diventa
il simbolo dell’azione solidale della società moderna. Mauss ha dimostrato
come il dono sia uno strumento essenziale per costruire relazioni sociali e
come tali relazioni vengano prima dello stesso individuo perché l’individuo
esiste nella relazione. Gli studiosi che hanno ripreso la teoria di Mauss hanno
fondato il MAUSS ovvero il “Mouvement Anti-Utilitariste dans les Sciences Sociales” e hanno contribuito all’affermazione del terzo paradigma del
1
La tesi di laurea specialistica Servizio civile come maieutica del volontariato, è stata discussa all’Università della Calabria, Facoltà di Scienze Politiche, corso di laurea specialistica
in Scienze delle Politiche e dei Servizi Sociali, nell’anno accademico 2011/2012, relatore prof.
Giorgio Marcello.
2
Sabina Licursi, Sociologia della solidarietà, Roma, Carocci, 2010.
3
Sabina Licursi, Sociol..., cit. pag. 56.
204
MARIA TERESA MATERAZZO
dono: terzo rispetto a quello utilitarista o dell’individualismo e a quello collettivista od olistico. Il terzo paradigma del dono afferma che il dono è obbligatorio tanto da costituire un triplice obbligo: donare, ricevere e ricambiare.
La solidarietà è un atteggiamento di benevolenza e comprensione, ma
soprattutto è un’azione attiva e gratuita con l’obiettivo di andare incontro alle
esigenze e ai disagi di qualcuno che ha bisogno di aiuto. Si parla di solidarietà sociale in riferimento ad attività svolte dalle istituzioni per dare sostegno alle persone costrette ai margini della società a causa di problemi economici (disoccupati, sottostipendiati, pensionati, ecc) o di altro genere (malati, invalidi, stranieri, ecc). La solidarietà, quando viene esercitata durante
il tempo libero dai singoli cittadini o da cittadini riuniti in associazioni no
profit, assume il nome di volontariato.
Fondamentale importanza è stata dedicata al concetto delle solidarietà
scelte di Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia generale e Sociologia
dei processi migratori all’Università di Genova, il quale studia le forme in
cui si esprime oggi, in Italia, la solidarietà organizzata definita come quell’attività propria del non profit, del terzo settore o del privato sociale. L’autore si concentra sulle iniziative locali basate sulla partecipazione spontanea dei cittadini che si riuniscono in gruppi informali, cooperative sociali
e associazioni di volontariato con l’obiettivo di costruire una società più
integrata nei confronti di chi vive una situazione di bisogno. Ambrosini
vuole mostrare come e con quali potenzialità e debolezze le iniziative solidaristiche contribuiscono a superare i limiti e le contraddizioni della nozione novecentesca di cittadinanza, allargare l’area dell’inclusione sociale e
realizzare forme innovative di partecipazione civile e di cittadinanza attiva4.
Esistono diverse forme di solidarietà: quella mutualistica, quella allargata e quella istituzionalizzata, ma soprattutto una particolare forma di solidarietà sociale: il volontariato.
Secondo Costanzo Ranci, docente di Sociologia economica al Politecnico di Milano, fare volontariato è un’esperienza contemporaneamente facile e difficile. Facile perché è immediatamente soddisfacente e l’accesso agli
enti che lo organizzano è semplice e diretto. Difficile perché richiede una
decisione personale e implica un calcolo del tempo da mettere a disposizione facendo conciliare vita privata, lavorativa e lo stesso volontariato5.
Per il mondo dell’impegno volontario e dell’impresa sociale esistono
“forme di partecipazione intermedie” le quali prevedono benefici o incenti4
Maurizio Ambrosini, Scelte solidali. L’impegno per gli altri in tempi di soggettivismo,
Bologna, Il Mulino, 2005.
5
Costanzo Ranci, Il volontariato, pag. 7, Bologna, Il Mulino, 2006.
ASSOCIAZIONE ITALIANA SCLEROSI MULTIPLA DI SAN GIOVANNI IN FIORE (COSENZA)
205
vi per chi vi partecipa. L’obiettivo è quello di premiare chi dedica tempo
libero agli altri, soprattutto i giovani, avvicinarli sempre più al mondo della
solidarietà. Sono forme di riconoscimento per l’impegno assunto e per il lavoro prestato. Alcuni esempi di partecipazioni intermedie sono i cosiddetti
crediti formativi riconosciuti partecipando ad attività di volontariato e utili
ai fini degli esami di maturità, o i progetti formativi che conciliano ambito
scolastico con esperienza di volontariato, o ancora tirocini universitari obbligatori in strutture convenzionate. In tutto questo l’esperienza del volontariato, dell’associazionismo di promozione sociale, della cooperazione, hanno molteplici valenze educative e civiche; oltre che essere visto come luogo di maturazione della personalità, di conoscenza di sé e collaborazione con
gli altri è visto anche come luogo di orientamento professionale. Tali partecipazioni devono essere sempre controllate per evitare che gli incentivi ad
essa connessi diventino l’unico obiettivo che si vuole raggiungere perdendo
di vista la loro dimensione solidaristica.
L’esperienza del servizio civile entra a far parte di queste forme di partecipazioni. Pur non essendo una forma completa di volontariato, il servizio
civile presenta diverse componenti interessanti: rappresenta un ponte tra volontariato giovanile e scelte adulte di impegno professionale o di servizio;
accompagna diversi percorsi di formazione non solo in campo socio-educativo ma anche ambientale e culturale, aiuta a riempire in modo costruttivo
il tempo, spesso carico di ansie, che intercorre tra la fine degli studi e il
conseguimento di un lavoro sufficientemente regolare e stabile6.
Il tema del servizio civile entra a far parte del volontariato in quanto è
pensato come una forma di partecipazione intermedia tra la gratuità dello
stesso volontariato e la professionalità di un impegno lavorativo.
Storia del servizio civile nazionale
La storia del servizio civile volontario, strumento di pace per la difesa
della Nazione, risale all’Unità d’Italia. La chiamata alle armi obbligatoria
introdotta nel 1861, incontrò una grandissima resistenza soprattutto tra la
popolazione rurale del Meridione, che non ne capiva i motivi ed era costretta
a subirla in maniera forzata7.
La protesta popolare contro l’assurdità della guerra era spontanea, dettata da un’istintiva avversione alle istituzioni militari e agli orrori della guerra, ma non era incanalata in alcuna forma organizzativa. I primi casi di obie6
Maurizio Ambrosini, Scelte..., cit., pag 228.
Claudio Biondi e Mariangela Raffaglio, La gestione dei progetti di servizio civile volontario, pag. 30, Santarcangelo di Romagna, Maggioli editore, 2006.
7
206
MARIA TERESA MATERAZZO
zione di coscienza si verificano in Italia solo dopo la fine degli anni ’50.
Alla fine degli anni ’60 si verifica un clamoroso caso di rifiuto di massa del
servizio militare.
In questa epoca, influenzata dal clima del Sessantotto, comunità, gruppi giovanili, gruppi politici cominciano ad interessarsi al tema dell’obiezione di coscienza, in obbedienza ai propri convincimenti pacifisti e per contrarietà all’uso delle armi come strumenti di violenza, e danno sostegno ai
giovani obiettori che rischiano la galera al pari di chi li aiuta8.
Si è passati dall’obiezione di coscienza fino al riconoscimento di un
servizio civile nazionale per raccontare la storia di giovani che hanno dedicato la loro vita al riconoscimento di un servizio dedito all’aiutare gli altri,
alla pace e alla difesa della patria con mezzi non armati.
Il 15 dicembre 1972, viene approvata la legge n. 772 recante “Norme
in materia di obiezione di coscienza” che sancisce il diritto all’obiezione per
motivi morali, religiosi e filosofici ed istituisce il servizio civile sostitutivo
del servizio militare e, pertanto, obbligatorio. Da allora, e per circa trent’anni,
Parlamento e Corte Costituzionale si sono alternate a legiferare in materia
di servizio civile e, paradossalmente, rendere incostituzionale gran parte delle
leggi promulgate.
Nel 1998, con la legge n. 230, è stato creato l’ Ufficio Nazionale per il
Servizio Civile quale struttura della Presidenza del Consiglio dei Ministri
responsabile dell’intero sistema di servizio civile in Italia. Ha sede a Roma
ed ha l’obiettivo di gestire e aumentare la qualità, l’organizzazione, l’attuazione e lo svolgimento, nonché la programmazione, l’indirizzo, il coordinamento ed il controllo del servizio civile nazionale, elaborando le direttive ed
individuando gli obiettivi degli interventi su scala nazionale.
Finalmente il 6 marzo 2001 viene istituito il Servizio Civile Nazionale
con la legge n. 64, affermandolo come un modo di difendere la patria, il cui
“dovere” è sancito dall’articolo 52 della Costituzione. “La difesa della Patria è un sacro dovere del cittadino”, una difesa che non deve essere riferita
al territorio dello Stato e alla tutela dei suoi confini esterni, quanto alla condivisione dei valori comuni e fondanti l’ordinamento democratico.
Il servizio civile è la possibilità messa a disposizione dei giovani, dai
18 ai 28 anni, di dedicare un anno della propria vita a favore di un impegno solidaristico inteso come impegno per il bene di tutti e di ciascuno e
quindi come valore della ricerca di pace9.
8
Michelangelo Chiurchiù, L’inizio di un cammino, in Pierluigi Consorti (a cura di), Senza armi per la pace, pagg.19-24, Pisa, Edizioni Plus, 2003.
9
http://www.serviziocivile.gov.it/Contenuti/Default.aspx?PageID=6
ASSOCIAZIONE ITALIANA SCLEROSI MULTIPLA DI SAN GIOVANNI IN FIORE (COSENZA)
207
Ricerca empirica: il caso del volontariato nel Gruppo Operativo Aism di San
Giovanni in Fiore.
Il tema del servizio civile è stato poi analizzato sotto un profilo empirico studiando tre ricerche sperimentali a livello nazionale. La prima ricerca
della fondazione Zancan in collaborazione con l’Ufficio Nazionale per il
Servizio Civile (UNSC) che ha affrontato il tema della efficacia del servizio civile stesso10. La seconda dell’Istituto per la Ricerca Sociale (IRS) per
conto dell’UNSC che ha analizzato il fenomeno degli abbandoni nel servizio civile11. Infine, la terza ricerca, personale, sui giovani che hanno svolto
il servizio civile nell’Associazione Italiana Sclerosi Multipla12.
L’obiettivo di queste ricerche è dimostrare come, nonostante ci siano
critiche nell’attribuire la caratteristica di volontariato al servizio civile, il
quale prevede un compenso economico mensile, può essere considerato, in
realtà, un’alternativa che prepara al volontariato.
L’attenzione è stata focalizzata sulle caratteristiche e le finalità di un’associazione italiana, che si avvale di volontari, all’interno della quale vengono svolti progetti di servizio civile nazionale. Nello specifico si tratta dell’Associazione Italiana Sclerosi Multipla, del suo impegno nella lotta contro la malattia e dell’inserimento di volontari in servizio civile nei progetti
di assistenza domiciliare.
L’Associazione Italiana Sclerosi Multipla è una associazione di persone
con sclerosi multipla, loro familiari e altri azionisti sociali che lavorano e
collaborano con e per le persone con sm (sclerosi multipla). Aism ha sede
principale a Genova, è costituita da Coordinamenti Regionali, Sezioni Provinciali e Gruppi Operativi, un Centro per la promozione dell’autonomia e
di turismo sociale e 9 Centri socio-riabilitativi, conta sul supporto di oltre
250.000 persone tra cui volontari, giovani in servizio civile, dipendenti, collaboratori, operatori sanitari e sociali in veste di collaboratori esterni.
Aism ha personalità giuridica ed ha caratteristica di Onlus (Organizzazione non lucrativa di utilità sociale), è Associazione di Promozione Sociale iscritta nel relativo Registro Nazionale dal 2001; è iscritta dagli anni ’90
attraverso proprie articolazioni territoriali, nei registri regionali del volontariato di 16 Regioni.
Dal 1968, anno della sua fondazione, l’Aism si impegna a migliorare
la qualità di vita delle persone con sclerosi multipla e loro familiari e a garantire una piena integrazione e inclusione sociale. Si pone degli obiettivi10
Tiziano Vecchiato, La valutazione di efficacia dei progetti di servizio civile – Rapporto
finale 2008, pag. 6, Fondazione Zancan e UNSC
11
http://www.caritasitaliana.it/pls/caritasitaliana/v3_s2ew_consultazione.mostra_pa
gina?id_pagina=524
12
http://www.aism.it/index.aspx?codpage=hp
208
MARIA TERESA MATERAZZO
ambizioni tra cui quelli di fornire assistenza sanitaria e sociale, diffondere
una corretta informazione sulla sclerosi multipla, sensibilizzare l’opinione
pubblica e promuovere la ricerca scientifica sulla malattia. Da queste certezze ha preso corpo la visione di “un mondo libero dalla sclerosi multipla”.
La missione di Aism è di essere l’organizzazione che in Italia interviene a 360 gradi sulla sclerosi multipla attraverso la promozione, l’indirizzo
e il finanziamento della ricerca scientifica, la promozione e l’erogazione di
servizi nazionali e locali, la rappresentanza e l’affermazione dei diritti delle
persone con sm affinché siano pienamente partecipi ed autonome.
Tutto il personale che opera all’interno di Aism è impegnato nelle seguenti aree d’intervento:
– servizi alla persona, informazione, ricerca scientifica e socio-sanitaria.
– raccolta fondi, sviluppo e realizzazione di iniziative che contribuiscono
a reperire le risorse per la realizzazione di azioni e interventi istituzionali;
– servizi generali, per la gestione e l’amministrazione dell’associazione.
L’Aism è stata tra i primi enti a sperimentare nel 2001 il servizio civile in un’ottica di solidarietà e costruzione dell’eguaglianza sociale: intervenire per il superamento di barriere all’indipendenza, all’autonomia, anche di
tipo culturale e normativo; contribuire alla costruzione di una società più
equa, più rispettosa della persona, più attenta a “mettere in gioco” le capacità di persone con disabilità favorendone il loro apporto attivo allo sviluppo ed alla crescita della comunità.
I progetti di Servizio Civile in Aism nascono prima di tutto da un’attenta analisi dei bisogni delle persone con sm coinvolgendo tutti gli attori
della propria rete territoriale (persone con sm, familiari, volontari associativi, soci, operatori) e da una profonda conoscenza del contesto nella sua totalità.
Dopo aver capito di cosa si occupa l’Aism, l’attenzione è stata focalizzata sul Gruppo Operativo di San Giovanni in Fiore e della presenza in esso
di giovani in servizio civile e di volontari. L’obiettivo principale è quello di
confermare l’ipotesi del servizio civile come maieutica del volontariato.
Le ricerche precedenti hanno dimostrato che esistono diverse motivazioni
che spingono un giovane a fare servizio civile piuttosto che ad abbandonare. In questo contesto, è stato analizzato il motivo per il quale alcuni giovani di San Giovanni in Fiore hanno fatto il servizio civile e, una volta terminata tale l’esperienza, hanno continuato a svolgere, in modo continuativo, il volontariato a favore dei malati di sclerosi multipla.
La metodologia usata per la ricerca è stata quella dell’intervista, scelta
fatta sia per il numero contenuto degli intervistati e sia per lasciare più spazio
possibile nello spiegare il motivo per il quale hanno deciso di intraprendere
l’esperienza di servizio civile e/o di volontariato. È stato scartato l’uso di
ASSOCIAZIONE ITALIANA SCLEROSI MULTIPLA DI SAN GIOVANNI IN FIORE (COSENZA)
209
un questionario perché sarebbe stato troppo limitativo nel capire le reali
motivazioni, ipotizzando che la maggioranza degli intervistati sarebbe spinto da motivazioni pro-sociali e/o occupazionali.
La strutturazione delle interviste si è basata sull’acquisizione di informazioni relative a:
– Caratteristiche socio-biografiche (età, sesso, titolo di studio, stato civile);
– Situazione lavorativa e professionale (lavoratori, casalinghe, disoccupati);
– Esperienza di servizio civile e/o di volontariato;
– Scelta dell’ente o associazione dove svolgere il servizio civile e/o il volontariato;
– Specificità del progetto e compiti svolti durante il servizio;
– Motivazione nel fare il servizio civile e/o il volontariato;
– Motivazione nel fare volontariato dopo la fine del servizio civile.
Le interviste sono state sottoposte a 35 persone, di cui 27 femmine e 8
maschi, di età compresa tra i 20 e i 45 anni in possesso di un titolo di studio medio-alto (55% in possesso di diploma e 45% in possesso di laurea),
circa la metà casalinghe e/o in cerca di prima occupazione, gli altri sono
lavoratori a tempo pieno in settori diversi da quello dell’associazione, l’80%
non è legato da vincoli matrimoniali. Degli intervistati, solo 10 giovani hanno
svolto il servizio civile tra il 2004 e il 2011, di cui 9 femmine e 1 maschio
e di conseguenza le interviste per loro si sono focalizzate sul perché hanno
deciso di svolgere il servizio civile, perché in Aism e se hanno continuato
a fare volontariato. L’obiettivo principale delle interviste è quello di conoscere le motivazioni per le quali si decide di fare servizio civile e/o volontariato, ma anche di dimostrare che il servizio civile prepara al volontariato
e ancora alla solidarietà, infine dimostrare che, oltre il servizio civile, si può
contare sulla presenza di una notevole quantità e qualità di volontari
Per comprendere meglio tali obiettivi è utile spiegare come vengono svolti
servizio civile e volontariato nel gruppo operativo Aism di San Giovanni in
Fiore. Le attività principali sono legate all’assistenza domiciliare ai malati di
sclerosi multipla, alla socializzazione e allo svolgimento di manifestazioni di
carattere nazionale e locale. Quelle nazionali sono la “Gardenia dell’Aism”,
in occasione della festa della donna, e la “Mela per la vita” nel mese di ottobre. La manifestazione locale più importante è uno spettacolo di beneficenza
organizzato dai volontari dello stesso Gruppo Operativo dal titolo “Sorrisi
Volontari”: i volontari si cimentano in balli, canti e recite per sensibilizzare
l’opinione pubblica e per raccogliere fondi a favore della ricerca contro la
sclerosi multipla. Oltre la raccolta fondi per la ricerca scientifica, i volontari
si occupano anche del reclutamento di nuovi volontari. Coloro i quali hanno
svolto il servizio civile, e che quindi hanno fatto il corso di formazione previsto dal progetto, sono, a loro volta, formatori per i nuovi volontari organizzando per loro corsi di formazione e apprendimento.
210
MARIA TERESA MATERAZZO
Tra i servizi alla persona offerti dall’Aism rientra il servizio civile nazionale che dal 2001 si manifesta attraverso il progetto “Assistenza domiciliare ed empowerment ai malati di sclerosi multipla e patologie similari”.
Note conclusive
Prima di arrivare alla conclusione bisogna sottolineare due fattori importanti:
– all’interno del Gruppo Operativo ci sono assistenti sociali, nutrizionisti,
fisioterapisti, avvocati e psicologi che non sono altro che i volontari, laureati, che offrono in modo del tutto gratuito la loro professionalità al servizio delle persone con sclerosi multipla, dei loro familiari e di chiunque ne faccia richiesta;
– il Gruppo Operativo è nato a San Giovanni in Fiore nel 2009. Prima di
allora il servizio civile era svolto nella Sezione Provinciale di Cosenza e
tra volontario e persona con sclerosi multipla il rapporto terminava una
volta terminato il servizio civile. Con l’apertura del Gruppo Operativo il
rapporto tra persona con sclerosi multipla, volontario e associazione è
diventato più compatto, più continuativo e ha permesso il reclutamento
di numerosi volontari.
Dalle interviste sono emerse innanzitutto due dimensioni: quella “prosociale” legata al desiderio di aiutare gli altri, di rendersi utile agli altri e
dedicare il proprio tempo libero alle persone con sclerosi multipla. La seconda dimensione è quella “occupazionale” ovvero che, oltre ad avere una
crescita personale, i volontari hanno avuto una crescita professionale legata
alla scelta di svolgere il servizio civile scegliendo un progetto attinente gli
studi universitari.
Dalle interviste è emerso anche che nessuno ha interrotto o abbandonato gli studi, dimostrato anche dal fatto che durante il servizio civile non svolgevano attività lavorativa e che questo fattore è stato determinante dopo la
fine del servizio civile poiché 3 giovani su 10 non hanno continuato a fare
volontariato perché hanno trovato lavoro fuori San Giovanni in Fiore o comunque fuori dalla Calabria. Inoltre tutti gli intervistati hanno svolto il corso di formazione aumentando le loro conoscenze e competenze.
Va sottolineato che, prima della nascita del Gruppo Operativo, le persone con sclerosi multipla di San Giovanni in Fiore, usufruivano dei servizi
dell’Aism solo attraverso il servizio civile. I volontari partecipavano al bando nazionale di servizio civile, ma non avevano altri rapporti con i beneficiari del servizio. L’unico riferimento, quindi, tra i giovani e le persone con
sm era la sezione provinciale Aism di Cosenza. Vista la distanza tra l’utente e l’associazione (circa 60 chilometri), è comprensibile come, terminato il
periodo di servizio civile, terminava anche il contatto tra volontario e per-
ASSOCIAZIONE ITALIANA SCLEROSI MULTIPLA DI SAN GIOVANNI IN FIORE (COSENZA)
211
sona con sm. Adesso, invece, i volontari in servizio civile, continuano a mantenere rapporti con l’associazione, ma soprattutto con le persone con sclerosi multipla, con gli altri volontari e con le altre associazioni presenti sul
territorio. Continuano a fare volontariato proprio grazie alla nascita del Gruppo Operativo che è diventato il contatto dell’associazione con la persona con
sm, ma anche un punto comune di ritrovo non solo per le persone con sm
ma anche per i volontari.
È da sottolineare un altro fattore importante. Il volontario e il giovane
in servizio civile, nel momento in cui entrano a far parte dell’ente e delle
sue regole, vengono riconosciuti come novizi13. Con il passare del tempo,
consolidata l’esperienza, aumentata la conoscenza, praticando le attività possono diventare esperti del servizio prestato ed essere da guida per quelli che
entreranno nell’associazione dopo di loro: gli altri novizi. Nei progetti si
servizio civile è prevista la figura dell’Operatore Locale di Progetto. L’OLP
è la rappresentazione del passaggio da novizio a esperto.
Da questa analisi si può affermare che i fattori che permettono di confermare che il servizio civile prepara al volontariato sono:
– il contatto diretto con gli utenti;
– la formazione;
– la presenza di altri volontari;
– la realizzazione di progetti nazionali e locali;
– la presenza sul territorio del Gruppo Operativo;
– la continuità con gli studi universitari;
– la possibilità di diventare Operatori Locali di Progetto.
Per questi motivi, e soprattutto per quello derivato dall’esperienza di
servizio civile, il volontariato è una forma di solidarietà! Il volontariato è
scuola di solidarietà quando concorre alla formazione dell’uomo solidale e
di cittadini responsabili. Propone a tutti di farsi carico, ciascuno per le proprie competenze, tanto dei problemi locali quanto di quelli globali e, attraverso la partecipazione diretta, di contribuire al cambiamento sociale. In tal
modo il volontariato produce legami, relazioni, rapporti fiduciari e cooperazione tra soggetti e organizzazioni concorrendo ad accrescere e valorizzare
il capitale sociale del contesto in cui opera.
Se nel passato il volontariato era quell’azione svolta dai membri di una
comunità all’interno della stessa comunità, nell’epoca moderna il volontariato
assume caratteristiche più istituzionalizzate e rivolte all’esterno della propria
comunità attraverso la nascita, sempre più incessante, di organizzazioni di
volontariato. Il volontario, nonostante sia libero nelle sue scelte solidali, svolge un’azione che è più standardizzata e soprattutto più controllata.
13
Silvia Gherardi e Davide Nicolini, Apprendimento e conoscenza nelle organizzazioni,
pagg 49-60, Roma, Carocci editore, 2004.
212
MARIA TERESA MATERAZZO
In linea generale è stato dimostrato come il volontariato fa parte della
natura umana: da sempre è l’impulso a dare, a donare parte di se a chi ha
bisogno.
Ogni individuo, quindi, ha una motivazione personale che lo spinge a
fare volontariato: può dedicare parte del suo tempo libero ad aiutare gli altri, conoscenti e non, per migliorare la loro qualità di vita, ma anche la propria; può avvertire il bisogno di dare un senso alle proprie azioni, a mettersi in gioco e confrontarsi con aspetti della vita che fino ad allora non conosceva; può reagire a proprie esperienze di vita, a dare, ricercare e ricevere
risposte, a evitare che quanto vissuto in prima persona possa toccare ad altri; può desiderare di risolvere problemi che, a lungo andare, toccherà risolvere ai suoi figli; può decidere di proteggere il patrimonio ambientale, culturale e storico-artistico del proprio paese; può approfondire i propri studi,
le proprie ambizioni, ma può anche voler dimostrare di far parte del mondo
del volontariato solo per egoismo o per realizzare interessi personali piuttosto che solidali.
Il volontariato può diventare una esperienza di vita che coinvolge un
individuo per un certo periodo di tempo e poi concludersi, positivamente o
negativamente. Per altri, più che un’esperienza, è una scelta di vita che spinge ad “occuparsi” degli altri in modo constante e indeterminato. Si diventa
competenti in quello che si fa, nell’aiuto che si dà. Non è più solo curiosità
o passatempo, ma è avere padronanza dell’opera che si sta facendo.
L’aspetto peculiare studiato nella tesi dimostra come il volontariato nasce anche dall’esperienza del servizio civile: quell’esperienza che permette
di dedicare dodici mesi della propria vita ad un progetto di utilità sociale.
Il mio lavoro ha dimostrato come il servizio civile nazionale, se svolto in
un ente o associazione riconosciuti dalla società e nei quali vivono valori
etici e solidali, favorisce la formazione di personale volontario.
Il servizio civile aiuta a rendere i giovani più solidali e più responsabili; si punta ad un servizio civile di qualità, contrastando forme d’utilizzazione improprie dei giovani volontari, impegnando gli enti e le associazioni
a proporre e realizzare progetti in grado di garantire un servizio civile significativo e qualificato. Questo permetterebbe la continuazione del servizio
civile in forme libere di volontariato. A volte, però, la solidarietà incontra
dei limiti e non basta più il senso civico di tale responsabilità, deve scattare una motivazione in più, un’attenzione e una cura particolare. È quella
scelta che viene fatta nel momento in cui termina l’esperienza di servizio
civile e si continua a fare volontariato, dove il servizio civile si può definire volontario e dove finalmente il termine volontario, associato al servizio
civile, avrebbe senso.
ASSOCIAZIONE ITALIANA SCLEROSI MULTIPLA DI SAN GIOVANNI IN FIORE (COSENZA)
213
L’ASSISTENZA OSPEDALIERA
DELL’ASSOCIAZIONE MADRE SERAFINA FAROLFI DI PALERMO1
AIUTARE GLI ALTRI E ARRICCHIRE SE STESSI:
UNA RIFLESSIONE SULL’ESPERIENZA PERSONALE
Giuseppina Mazza
Essere un volontario, non significa solo offrire un servizio al prossimo
ma è anche un dono che l’individuo fa a se stesso in quanto, coloro ai quali ha prestato il suo aiuto, possono insegnarli qualcosa di importante ed utile per la propria vita.
La dinamica che muove i rapporti tra i soggetti, infatti, circola dentro
azioni specifiche che si configurano nel dare, ricevere e ricambiare2 e, in
questo contesto, il concetto di dono è rilevante. Inizialmente abbiamo già
affrontato questa tematica del donare, ma forse è solo adesso – dopo aver
compreso più o meno maggiormente le realtà e situazioni con cui il volontario si confronta – che questa concezione del “donare” può avere una maggiore rilevanza.
Nell’etimologia del dono sono intrinsecamente connesse le due dimensioni del dare e del prendere3, che però non devono portare a confondere
questo legame con quello che Godbout4 chiama “dono avvelenato”: ovvero
quel donare qualcosa che si collega ad una logica strettamente strumentale
che può sfociare in forme di relazioni patologiche all’interno delle quali chi
dona qualcosa ne pretende la restituzione o pone l’altro in condizioni di debito. Ma, come Derrida5 afferma, è impossibile pensare al dono come qualcosa di assolutamente gratuito poiché un dono, per essere tale, deve essere
assolutamente disinteressato e, la stessa gratuità, esiste solo se si nega la
donazione. È chiaro dunque che se da una parte è vero che nulla nell’umano può essere etimologicamente assoluto e colto in ogni legame o relazio1
La tesi Aiutare gli altri attraverso il volontariato: un contributo di ricerca sulle motivazioni che generano e alimentano questa dedizione, è stata discussa all’Università degli Studi di
Palermo, Facoltà di Scienze della Formazione, Laurea triennale in Scienze e Tecniche Psicologiche Indirizzo Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione, relatore prof. Cristiano Inguglia.
Di questa tesi riportiamo l’ultimo paragrafo sull’esperienza di volontariato della tesista.
2
M. Tomisich, Il dono tra le generazioni, relazione presentata al convegno Il paradosso
del dono, CEVOV, Varese, febbraio 2007
3
M., Mauss, Essai sur le don. Forme et raison de l’èchange dans lex sociétés archiaiques, Puf, Paris 1924.
4
J.T. Godbout, Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri, Torino 1993.
5
J. Deridda, Donare il tempo: la moneta falsa, Raffaello Cortna, Milano 1996.
214
GIUSEPPINA MAZZA
ne, è pur vero che si deve tener presente che non si può pensare al dono
come a qualcosa a prescindere dalla relazione umana che lo genera.
Nel contesto del volontariato, dunque, il dono non può essere compreso se non nella relazione e nel riconoscimento di esso sia in senso passivo
– come essere riconosciuto –, sia in senso attivo – come riconoscenza—–
e, più specificamente, in un contesto di mutualità nel quale si accoglie non
solo il senso stesso del dono, ma anche quello di un’eventuale risposta gratuita, cioè di un debito senza colpevolezza6.
Ecco dunque in cosa si configura la “ricompensa” – se così vogliamo
chiamarla – del dono offerto a soggetti in condizioni di aiuto: la consapevolezza di avere costituito un legame e un affetto che, nella sua condizione
temporale, viene dal passato e che, nel futuro, mira alla coltivazione di una
buona relazione verso la quale ci si sente volentieri e liberamente in obbligo. È solo in questo modo, infatti, che chi svolge volontariato può sentire
giornalmente rafforzate le proprie motivazioni che lo spingono, come abbiamo già avuto modo di spiegare, a continuare il proprio percorso all’interno
di un’Associazione di Volontariato.
L’aiutare chi soffre, chi vive una determinata situazione difficile o si trova
a dover fronteggiare nella propria vita situazioni instabili, rappresenta un grande dono anche per se stessi ed è proprio in virtù di questa considerazione che
il volontariato possiede la duplice sfaccettatura dell’aiutare l’altro e arricchire se stesso. Probabilmente tale concetto non può essere compreso se non si
è mai stato, anche solo per un giorno, un volontario. Ecco perché si è pensato di tentare quantomeno di spiegare, attraverso la propria testimonianza, cosa
significhi il volontariato nella vita di un giovane volontario.
Anche la mia personale scelta di diventare una volontaria, così come
ho avuto modo di dire in diversi momenti in questo lavoro, non è stata una
decisione presa d’impulso senza la giusta ponderazione. Il desiderio di poter essere nella mia vita d’aiuto a qualcuno, è emerso all’età di sedici anni
dopo un convegno sul volontariato organizzato presso l’istituto dove frequentavo il quarto anno di liceo. Prima di quel momento avevo ovviamente sentito parlare di volontariato ma mai ero stata mossa dal desiderio di saperne
qualcosa in più o dall’interrogarmi se tale attività potesse rendermi felice
nello svolgerla. Quell’incontro, invece, fu per me illuminante. A condurlo fu
il Dottor Di Salvo il quale, fornendoci una panoramica su tutte le Associazioni di Volontariato e attività presenti all’interno della struttura, ci ha poi
invitati a contattarlo privatamente se avessimo avuto bisogno di chiarimenti
o informazioni più dettagliate per decidere o meno di intraprendere il percorso di volontario.
6
P. Ricoeur, Il riconoscimento, il dono. Identità, relazione e agape nel percorso, Il Regno 2004
L’ASSISTENZA OSPEDALIERA DELL’ASSOCIAZIONE MADRE SERAFINA FAROLFI
215
Dal momento stesso in cui dentro di me qualcosa mi spinse a chiedere al dottor Di Salvo maggiori chiarimenti, iniziò il mio percorso che mi ha
poi portato a conoscere due figure molto importanti che hanno avuto un peso
determinante nella mia scelta: la dottoressa San Fratello – una delle assistenti
sociali dell’Ospedale a cui fanno riferimento le volontarie in corsia – e la
signora Mangano Aurora Fortunata fondatrice dell’Associazione di Volontariato “Madre Serafina Farolfi”. L’avere conosciuto queste due persone mi ha
permesso infatti di dare una risposta alle mie perplessità e paure in riferimento al sentirmi impreparata ad affrontare emotivamente condizioni di degenza gravi come quelle che si possono riscontrare nei reparti di oncologia.
L’essermi potuta confrontare soprattutto con l’assistente sociale, mi ha permesso infatti di apprendere che, considerando sia la mia età che la mia inesperienza, avrei inizialmente affiancato – in reparti non troppo invasivi come
quello dell’astanteria – una delle ragazze che da più tempo svolgeva volontariato. Questa rassicurazione mi permise dunque di mettere da parte quella
preoccupazione che sentivo e confermare a me stessa che volevo diventare
veramente una volontaria. Fu così, dunque, che mi iscrissi all’Associazione
“Madre Serafina Farolfi” e cominciai a muovere i miei primi passi all’interno dell’ambito del volontariato che iniziò con un periodo di formazione
durante il quale mi fu spiegato in che modo era organizzato l’ospedale, dove
erano dislocati i vari reparti, quali attività si erano sino a quel momento organizzate ed attuate, e quali erano gli strumenti che avevamo a disposizione per intrattenere i piccoli.
Penso che da quel preciso istante in cui ho cominciato a svolgere
volontariato qualcosa in me sia cambiato. A sedici anni, probabilmente, si
impiegano troppe forze e troppo tempo in cose che – col senno di poi –
si comprende fossero banali o di poca importanza; per me, questa presa
di coscienza, è arrivata grazie all’esperienza come volontaria principalmente
quando, dopo un anno durante il quale avevo rafforzato le mie motivazioni e la mia preparazione emotiva, ho cominciato a stare vicina ai piccoli di reparti più particolari come quelli della talassemia e della dialisi.
Lo stare accanto alla sofferenza di quei bambini, infatti, mi ha dato l’opportunità di ricevere tanti insegnamenti che mi sono serviti nella mia vita
quotidiana. Ho imparato che il godere di una buona salute non è una
condizione normale per tutti e che, spesso, il tormentarsi per qualche chilo
in più o per degli aspetti di noi stessi che non ci piacciono, è davvero
banale se si pensa a quanti bambini sono costretti a fare dell’ospedale la
loro seconda casa. Ho scoperto che il sorriso di un bambino, ancora inumidito da delle lacrime di dolore o di tristezza, è il dono e la ricompensa
più grandi che si possano ricevere quando si è volontari in corsia e, allo
stesso tempo, ho sperimentato che non c’è gioia più grande del sapere
che quel sorriso sei stato proprio tu a procurarlo, semplicemente perché
216
GIUSEPPINA MAZZA
eri lì a raccontare qualche storia divertente o a giocare mimando una voce
da cartone animato.
Pensavo, dopo sei anni di volontariato in ospedale, che nessun’altra
esperienza mi avrebbe così arricchita: ma mi sbagliavo. Da quest’anno, infatti, ho intrapreso un’altra forma di volontariato presso il Centro Filippone
– sempre con l’Associazione “Madre Serafina Farolfi” – il quale è un Centro di Accoglienza Giovanile che accoglie al suo interno bambini e adolescenti ai quali si fornisce supporto scolastico – attraverso attività di doposcuola – e momenti creativi e ludici. Il principale obiettivo di questo centro, situato nella zona del Capo, è essenzialmente quello di togliere dalla
strada i bambini e i ragazzi che lo popolano offrendo loro, dunque, un contesto protetto e quanto più di prevenzione dai comportamenti devianti.
La scelta di cominciare a svolgere volontariato in questo ambito si è
andata affinando in me negli anni di frequentazione dell’Università poiché,
giorno dopo giorno, mi sono resa conto che il “semplice” studiare su dei
manuali di psicologia cosa siano le interazioni con bambini e adolescenti, o
cosa significhi ascoltarli, comprenderli ed aiutarli, si era ridotto in me ad una
conoscenza prettamente teorica e ciò, dunque, mi ha portato a voler “toccare con mano” quanto appreso dai libri. È stato così che, mettendomi d’accordo con la signora Mangano, ho deciso che sarei stata una delle volontarie del Centro e che – dopo alcuni incontri nei quali ho potuto apprendere i
bisogni prevalenti della struttura e dei ragazzi, conoscere i volontari e parte
dei bambini e adolescenti – mi sarei occupata di un laboratorio di danza per
le ragazze dai tredici ai sedici anni. Ero stata avvertita che con le ragazze
che avrei seguito non sarebbe stato semplice stabilire sin da subito un buon
rapporto e questo avvertimento che mi aveva molto preoccupata, aveva suscitato nella mia mente diverse immagini di “situazioni tipo” alle quali avevo già mentalmente predisposto come relazionarmi e reagire. Il momento in
cui invece per la prima mi sono trovata a relazionarmi con queste ragazze,
ha spiazzato tutte quelle situazioni che avevo immaginato, così come tutte
quelle frasi che avevo pensato potessero essere giuste e appropriate da dire.
Dopo le rispettive presentazioni, in modo del tutto spontaneo, sono riuscita
a far capire loro che di me, se solo lo volevano, potevano fidarsi e che, a
prescindere da questo aspetto, in me avrebbero trovato qualcuno che insegnasse loro un po’ di danza senza la pretesa di imporre loro qualcosa: quel
laboratorio doveva essere per loro un momento di svago e di divertimento
nel quale, attraverso il corpo, esprimere qualcosa di loro stesse. Inizialmente le ragazze erano goffe, erano un po’ intimidite da questa nuova situazione, provavano anche un po’ di vergogna a muoversi sotto l’occhio delle compagne o dei ragazzi del Centro. Anche io, come loro, mi sentivo parecchio
in imbarazzo in quella nuova situazione ma ho pensato che se loro avessero visto anche me priva nei movimenti e impacciata, non avrebbero mai fatto
L’ASSISTENZA OSPEDALIERA DELL’ASSOCIAZIONE MADRE SERAFINA FAROLFI
217
sbloccare quel qualcosa in se stesse che le permettesse di esprimersi liberamente attraverso il corpo. Devo dire che la mia intuizione fu quanto più giusta poiché, dopo pochi incontri, le ragazze cominciarono a sentirsi sempre
più a loro agio e tranquille dei loro movimenti. Sono bastate poche settimane per far capire loro che in ognuno di noi c’è qualcosa di bello, un potenziale che può uscire fuori se si è circondati dalle giuste persone che riescono a tirarlo fuori e, come previsto, ben presto ho potuto conoscere anche il loro lato dolce e affettuoso che, spesso, le ha portate anche a confidarsi con me su alcuni problemi legati all’adolescenza. Una sorpresa, inoltre, è stato il vedere come le ragazze hanno cominciato a volere incoraggiare le bambine più piccole a prendere parte a questo laboratorio ed io,
ovviamente, sono stata ben felice di accontentarle. Questa nuova situazione
mi ha permesso dunque di relazionarmi anche con i bambini più piccoli del
Centro i quali mi hanno fatto forse maggiormente comprendere qualcosa di
estremamente importante per me stessa: essere la persona giusta nel contesto giusto.
Questo anno è stato inoltre per me fonte di ricchezza personale, anche
per il tirocinio che ho scelto di effettuare presso il Centro di Servizi per il
Volontariato di Palermo (CeSVoP) proprio per l’importanza che per me ha,
sia nella vita che nella mia formazione, il volontariato. La mia scelta è proprio ricaduta proprio presso questo Ente perché, secondo il mio punto di
vista, il volontariato è qualcosa che dovrebbe essere valorizzato ogni giorno
sempre di più costatando come le azioni che svolgono i volontari rappresentano una ricchezza per il nostro Paese e in particolar modo per tutte quelle
zone a rischio e disagiate. Inoltre, costatando l’argomento che ho scelto per
questa tesi, ho pensato che avendo avuto ed avendo esperienza come volontaria, probabilmente quella di poter far parte delle dinamiche che sottostanno all’interno di un Centro di Servizi per il Volontariato non sarebbe mai
stata un’esperienza che, forse, avrei potuto svolgere se non grazie al tirocinio formativo e posso adesso dire che questa mia scelta non ha per niente
deluso le mie aspettative.
Il mondo del volontariato è forse, secondo la mia esperienza, l’ambito
più formativo che possa fare comprendere tanti aspetti di se stessi in relazione con il proprio Io e gli altri poiché riesce, a volte in maniera anche
semplice, ad arricchire se stessi aiutando gli altri. Questa consapevolezza è,
secondo il mio parere, ciò che rappresenta la migliore ricompensa che si
possa ricevere per avere aiutato chi ne aveva di bisogno poiché, spesso senza
grandi gesti ma anche solo semplicemente regalando un sorriso o offrendo
una spalla su cui piangere, possiamo considerarci importanti per qualcuno.
D’altronde, come affermava Madre Teresa di Calcutta, “non possiamo sempre fare grandi cose, ma possiamo tutti fare piccole cose con grande cuore”.
218
GIUSEPPINA MAZZA
L’ASSISTENZA OSPEDALIERA DELL’ASSOCIAZIONE MADRE SERAFINA FAROLFI
IV
ASSOCIAZIONISMO, SUSSIDIARIETÀ E MERCATO
219
220
OLIMPIA UCCIERO
DONNE E POLITICA NELLA RIVISTA
“NOI
DONNE” E NELLA STAMPA FEMMINILE
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DONNE E POLITICA NELLA RIVISTA “NOI DONNE”
E NELLA STAMPA FEMMINILE
DEL SECONDO DOPOGUERRA (1944-1956)1
Olimpia Ucciero
Questa tesi, di circa 250 pagine tratta in senso lato, dell’associazionismo femminile attraverso la stampa delle donne nel periodo 1944-1956. La
prima parte, di carattere introduttivo, traccia un panorama della storia delle
donne nella vita sociale e politica italiana dalle battaglie dell’Ottocento al
secondo dopoguerra. Le prime esperienze di cittadinanza per consolidare e
diffondere la presenza femminile nella società è frutto di un faticoso cammino durato secoli. Negli anni a cavallo tra Settecento e Ottocento l’Illuminismo porta alla luce il principio dell’uguaglianza, che ha impliciti i diritti
civili e politici anche per le donne. La rivoluzione francese proclama: “la
donna è persona e cittadino come l’uomo”. In Italia accanto al risorgimento
della nazione si fa strada la convinzione della necessità di un risorgimento
delle donne, si sviluppa una “vivace discussione sulla donna, in particolare
sulla necessità di educarla in modo meno episodico e superficiale di quanto
si faccia anche nelle famiglie più distinte. La convinzione è che, se sottratte al giogo dell’ignoranza e della superstizione, le donne potrebbero dare un
importante contributo al necessario riordinamento della famiglia e della società”. Durante il Risorgimento nazionale le donne sono presenti sia nell’organizzare questue per acquistare vesti ed armi leggere per le guardie civiche e cannoni per la difesa, sia partecipando alle insurrezioni, disselciando
strade, portando messaggi e generi di ristoro sulle barricate, curando i feriti
e attaccando dalle finestre i nemici che passano per le strade. Molte vengono arrestate e condannate o sono vittime privilegiate di torture, stupri, mutilazioni. Il loro ruolo anche se moderatamente modificato nel nuovo stato
unitario resta comunque ”biologicamente e consuetudinariamente estraneo alla
sfera dei diritti politici” e ammissibile solo con molte cautele all’effettività
dei diritti civili. La legge elettorale, infatti, del 1865 dichiara a chiare lettere che non possono essere elettori (e tanto meno eleggibili) analfabeti, donne, falliti, vagabondi, detenuti in espiazione di pena. Nel 1890 le donne registrano un lieve potenziamento nella posizione giuridica ottenendo, ad esem1
Tesi in Storia Contemporanea, discussa nell’anno accademico 2007-2008 all’Università
di Napoli Federico II, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea in lettere – indirizzo moderno – relatore prof.ssa Gabriella Botti. Sintesi del curatore.
222
OLIMPIA UCCIERO
pio, l’ammissione nei consigli di amministrazione delle Congregazioni di
carità. Segue poi la battuta d’arresto della legislazione fascista per cui la
donna viene risospinta e segregata nelle faccende domestiche; è cacciata ed
esclusa dagli impieghi, dalle professioni e persino dalle scuole. Nel 1927
sono escluse dall’insegnamento delle lettere e della filosofia nei licei; pochi
anni dopo un decreto legge stabilisce che negli impieghi solo il 10% può
essere riservato alle donne; le studentesse delle scuole medie e dell’università devono pagare il doppio delle tasse previste per gli uomini.
Durante la seconda guerra mondiale le lotte di liberazione coinvolgono
masse femminili molto ampie. Molte di esse forniscono un importante contributo all’opposizione clandestina svolgendo attività di corriere. Il duro lavoro nella clandestinità, il carcere, il confino sono per le militanti antifasciste occasioni di maturazione e crescita politica e civile. Sono esse che gettano le solide basi del movimento femminile italiano. Durante la guerra le
donne fanno irruzione sulla scena politica progettando nuovi spazi politici
in cui agire costituendo i Gruppi di difesa della donna, tesi a raggiungere
l’uguaglianza dei diritti tra l’uomo e la donna. Nell’immediato dopoguerra
numerose associazioni femminili raccolgono l’eredità dei Gruppi di difesa
della donna e ne proseguono il cammino. Prima fra tutte l’Unione Donne
Italiane (UDI) costituita nel 1944 a Roma, su iniziativa delle donne comuniste e socialiste, e nella quale confluiscono nel 1945 gli stessi Gruppi. L’organo di stampa dei Gruppi, Noi Donne, diventa l’organo ufficiale dell’UDI.
Contemporaneamente nasce il Centro Femminile Cattolico (CIF) quale federazione dell’associazionismo femminile cattolico.
La seconda parte della tesi prosegue ripercorrendo la storia della stampa femminile laica e cattolica tra Ottocento e metà Novecento, partendo dalle
prime esperienze femminili di Elisabetta Caminer, nata nel 1751 che collabora col padre alla rivista stampata a Venezia “L’Europa letteraria” ad Eleonora Pimentel De Fonseca, eroina della Repubblica Napoletana del 1799,
impiccata dai Borboni, che fonda e dirige “Il Monitore Napoletano”, a Gualberta Adelaide Beccari, fervente repubblicana, accesa patriota che dirige dal
1872 “La Donna”. Il primo periodico cattolico con una fisionomia femminile è il mensile Vittoria Colonna che nasce a Napoli nel 1845. Seguito da
“La Famiglia cattolica” nel 1878, “La figlia dell’Immacolata” che esce a Bologna nel 1890. In controtendenza con questi giornali quasi sempre appiattiti sulle posizioni della chiesa, si pongono Anna Kuliscioff, Teresa Labriola e Matilde Serao. La prima fonda nel 1912 “La difesa delle Lavoratrici”
che esce fino al 1825 con lo scopo di mobilitare le operaie e le contadine.
Infine la Serao che a Napoli con la sua interpretazione della vita e dell’animo femminile, denuncia la miseria di Napoli, delle sue donne, dei suoi bambini. Nel periodo fascista nascono “Novella”, “Stella”, “Piccola”, “Annabella”, “Eva”, “Gioia”, “Grazia” ecc., che non si discostano dalla concezione
DONNE E POLITICA NELLA RIVISTA
“NOI
DONNE” E NELLA STAMPA FEMMINILE
223
fascista della donna inchiodata al focolare domestico e al dovere della prolificità, una donna cui è negata la possibilità di essere creativa.
La prima edizione di Noi Donne esce a Parigi nel 1937 e raccoglie le
forze femminili dell’emigrazione antifascista in Francia. Cessa le pubblicazioni nel 1939, rinasce a Milano nel 1943, come giornale clandestino, nell’infuriare della lotta partigiana. Nel luglio del 1944 esce a Napoli, appena
liberata, il primo numero in veste legale ad opera di Nadia Spano, donna
antifascista e comunista di origine toscana, nata a Tunisi nel 1916, che ottiene da Togliatti l’incarico di responsabile nazionale dei gruppi comunisti.
Appena liberata Roma la rivista vi si trasferisce.
La terza parte della tesi tratta dei temi affrontati da “Noi Donne” e delle
campagne di stampa per il diritto al voto, il diritto al lavoro e il diritto alla
cultura.
L’ultima parte affronta il tema del forte legame di “Noi Donne” col PCI
fino alla rottura avvenuta nel 1956 e delle battaglie per l’emancipazione femminile
224
TERESA SERPICO
IL RUOLO E L’EVOLUZIONE DEL NON PROFIT NEL MEZZOGIORNO
225
IL RUOLO E L’EVOLUZIONE DEL NON PROFIT
NEL MEZZOGIORNO1
Teresa Serpico
Nel corso degli anni, il modello di Welfare ha assunto forme diverse,
in base a quelle che sono state le esigenze storico-culturali.
Inizialmente, era lo Stato ad assistere la comunità e a svolgere un ruolo essenziale nell’ambito del soddisfacimento dei bisogni, con una configurazione di Welfare State.
Col passare degli anni, i bisogni si moltiplicano, e la società sente il
bisogno di “rivedere” il modello di welfare, modificando di conseguenza il
rapporto tra le istituzioni e i cittadini, in modo tale da garantire una maggiore partecipazione della società civile, secondo i valori della solidarietà,
della coesione sociale e del bene comune.
I bisogni della comunità nel corso degli anni sono cresciuti e si sono
differenziati e ciò ha determinato di fatto il fallimento dello Stato nel provvedere risposte efficaci ed efficienti. Allo stesso modo anche il mercato spesso non è riuscito a dare risposte adeguate attraverso le organizzazioni forprofit. Col passare del tempo un contributo al divario tra domanda ed offerta di nuovi bisogni è provenuto dal Terzo Settore, quale complesso di istituzioni solidaristiche non a scopo di lucro, che operano a vantaggio della
collettività.
Il ricorso al Terzo Settore, si è raddoppiato in Italia e in particolar modo
nel Mezzogiorno, come dimostrano i dati statistici, in maniera molto differenziata e complessa, da regione a regione.
Il terzo settore è costituito da tutte quelle organizzazioni e attività che
non sono finalizzate al lucro: le associazioni, gruppi di volontariato, cooperative e fondazioni. Inoltre ciò che ci permette di tracciare una linea di demarcazione tra imprese non profit e imprese profit è sicuramente l’ assenza
di distribuzione del profitto e il lavoro volontario.
Alla decisa crescita ed evoluzione del settore non profit, in Italia, hanno contribuito diversi fattori, sia di natura esogena che endogena.
Tra i fattori esogeni più importanti vi è: l’aumento della domanda di
servizi sociali e la tendenza delle amministrazioni locali a intensificare le
1
Tesi discussa all’Università degli Studi Federico II di Napoli, Dipartimento di Scienze
politiche, corso di laurea in Scienze politiche dell’amministrazione, nell’anno accademico 2012/
2013, relatore prof. Michele Mosca
226
TERESA SERPICO
risposte ai bisogni, attraverso l’attivazione di servizi non più o non solo a
gestione diretta, ma affidati a soggetti esterni, in particolare a cooperative
sociali. Con la diffusione delle nuove povertà apparse negli anni Ottanta,
accompagnate da sofferenza psichiatrica, lunga disoccupazione e immigrazione, è aumentata la ricerca di lavoro soprattutto da parte dei portatori di
handicap, e più in generale la domanda di servizi per anziani, minori e adolescenti da parte delle famiglie.
Tra i fattori interni che hanno favorito e influenzato l’affermazione della cooperazione, i più importanti sono stati attivati intenzionalmente da strutture di coordinamento e rappresentanza sia a livello nazionale che a livello
territoriale, oltre che dalle federazioni di settore.
I dati relativi alle presenza delle organizzazioni non profit nel Mezzogiorno d’Italia, mettono chiaramente in evidenzia che c’è una minima presenza del fenomeno al Sud, rispetto alle altre parti del Paese.
Se consideriamo che nel Mezzogiorno il grado di efficienza della Pubblica Amministrazione è molto basso, si ha un risultato interessante: il grado di diffusione delle organizzazioni non profit non è condizionato dalle inefficienze della pubblica amministrazione che non offre servizi adeguati, bensì segue un percorso diverso.
Viene così confutata un’idea, molto in voga negli ultimi anni, secondo
la quale queste organizzazioni tendono a diffondersi ove e quando gli enti
pubblici sono incapaci di dare una risposta adeguata ai bisogni della collettività. Ciò che evince è, invece, che laddove il disagio sociale è più diffuso
e più arretrata ed inefficiente è la pubblica amministrazione, meno presenti
sono, non solo le cooperative sociali- che spesso hanno negli enti pubblici i
principali finanziatori- ma anche le organizzazioni di volontariato.
Nel Mezzogiorno, in passato, ha operato una perversa politica di sostegno allo sviluppo, nella quale si era portati ad agire più per “sapere fare
politico” che “economico”: le aziende non venivano premiate per la loro
capacità di stare sul mercato, bensì per le loro relazioni “politiche” e gli
imprenditori si preoccupavano di stabilire le “giuste“ relazioni, ovvero quelle
che gli permettevano di avere e ottenere finanziamenti pubblici, piuttosto che
agire per ottenere un innalzamento del livello di efficienza dell’attività produttiva, come scoprire nuovi mercati e nuovi prodotti.
Così come risulta dall’ultimo Censimento Istat sull’industria, sui servizi e sul non profit, pubblicato nel Luglio 2013, in Italia sono presenti circa
301.191 non profit e circa 4,7 milioni di volontari. Numeri che si traducono in un impegno, ma anche in un impiego lavorativo se consideriamo l’aumento dei lavoratori dipendenti ed esterni. Relativamente alla forma giuridica, prevale la forma giuridica delle associazioni non riconosciute (ossia
priva di personalità giuridica e costituita tramite scrittura privata), che ammontano a 200 mila, e quella delle associazioni riconosciute (ossia nate con
IL RUOLO E L’EVOLUZIONE DEL NON PROFIT NEL MEZZOGIORNO
227
atto pubblico riconosciuto dallo Stato e dotate di autonomia patrimoniale) che
ammontano a circa 68 mila. Seguono poi le cooperative sociali e le fondazioni.
Ma quali sfide si trova ad affrontare oggi, il Terzo Settore, nel Mezzogiorno d’Italia?
Il Terzo settore gioca un ruolo sociale fondamentale, non solo per la crisi
finanziaria dello Stato, ma anche per le difficoltà sperimentate dall’attore
pubblico di intervenire efficacemente sulle varie problematiche riguardanti i
territori locali.
Se dal punto di vista economico, il ricorso al TS comporta una riduzione della spesa pubblica grazie alla capacità di attrarre risorse private volontarie dalla società, dal punto di vista dell’efficacia dell’intervento il coinvolgimento del TS, in rispetto del principio di sussidiarietà, consente di rispondere in modo più adeguato e coerente ai bisogni dei territori.
Il lavoro che presenterò è stato condotto utilizzando un approccio metodologico di tipo qualitativo, che ha richiesto la realizzazione di una serie
di interviste ad attori impegnati nella solidarietà organizzata delle sei regioni interessate dal progetto FQTS (Formazione Quadri Terzo Settore).
Il fine ultimo del progetto, infatti, è quello di mettere in rete le organizzazioni del Sud, al fine di costruire un’ identità comune del Terzo Settore meridionale.
Per ogni regione sono stati intervistati, sulla base di un modello di intervista semistrutturata, da sei a otto testimoni privilegiati appartenenti al
volontariato, alla promozione sociale e alla cooperazione sociale, scelti in
funzione della loro esperienza maturata nel TS regionale.
Le testimonianze raccolte, tuttavia non devono farci trascurare il fatto
che le parole dell’intervistato, sono il punto di vista del “suo mondo”, e che
egli definisce in base ai propri schemi di rappresentazione della realtà sociale.
Il Terzo Settore In Basilicata
Il terzo Settore ha avuto uno sviluppo incredibile in Basilicata, grazie a
tutte quelle persone che si incontrano, si conoscono e lavorano insieme, al
di fuori delle cerchie familiari, amicali e delle relazioni di lavoro, perseguendo finalità di natura altruistica e rispondendo direttamente ai bisogni dei cittadini non soddisfatti né dallo Stato né dal mercato.
In Basilicata c’è un grave problema, che è l’emigrazione dei giovani.
La scelta di far parte di un’iniziativa solidaristica avviene, quindi, non
sempre perché si trova gratificante aiutare il prossimo o svolgere attività che
vanno a beneficio e sostegno della comunità di appartenenza, ma in quanto
228
TERESA SERPICO
la cooperativa sociale rappresentava per i giovani lucani una delle poche alternative all’emigrazione verso altre regioni.
In una regione nella quale cominciano a diminuire le opportunità occupazionali per la forte crisi del mercato lavorativo, il mercato dei servizi alle
persone viene sempre più a rappresentare un settore in grado di offrire possibilità di lavoro.
“Molte cooperative sociali sono nate e continuano a essere prese come
punto di riferimento per sopperire al lavoro che manca”.
Relativamente al rapporto tra le organizzazioni, un limite che sembra
interessare soprattutto il mondo del volontariato, è la scarsa propensione di
molte associazioni ad aprirsi al confronto e al dialogo, con altri gruppi organizzati, in quanto gelosi della propria identità e specificità, e non interessati a rafforzare legami di solidarietà con altre organizzazioni.
Questa tendenza a rinchiudersi nella propria sfera di azione, ad organizzare in maniera autonoma e autoreferenziale la propria attività, non fa altro
che indebolire la dimensione politica della loro azione, cioè la loro capacità
di promuovere il cambiamento sociale.
Le organizzazioni di volontariato spesso sono chiuse nei confronti delle
cooperative sociali, in quanto non accettano che queste ultime prestano un
servizio in cambio di una remunerazione economica. Per alcuni il volontariato autentico è il lavoro gratuito e si trova a disagio nel “calderone” del
TS, nel quale la dimensione economica tende a diventare prevalente e determinante.
Il terzo Settore In Calabria
Le testimonianze raccolte evidenziano, un TS sì sviluppato numericamente ma, secondo l’esperienza maturata dagli intervistati, con alcune “lacune”
sotto l’aspetto motivazionale e “politico”. Ciò che contribuisce infatti al suo
sviluppo non è tanto l’interesse verso certe problematiche, quanto l’opportunità di accedere ai finanziamenti pubblici e alle agevolazioni fiscali.
A detta di soggetti intervistati, il volontariato in Calabria non ha la connotazione di un movimento spontaneo di cittadini guidati da una forte consapevolezza morale e politica. La maggior parte di esse decidono di assumere questa
natura come scorciatoia, per raggiungere vantaggi di natura economica, avere
una gestione più semplice sfuggendo a tutta una serie di cavilli amministrativi
e obblighi imprenditoriali.
La maggior parte delle strutture nascono in base ai finanziamenti pubblici, più che in risposta ad un bisogno reale del territorio.
Il quadro che emerge è quello di un TS “confuso”, nel quale il volontariato si trova ad affrontare una crisi d’identità, svolgendo in “concorren-
IL RUOLO E L’EVOLUZIONE DEL NON PROFIT NEL MEZZOGIORNO
229
za” con l’impresa sociale servizi a basso costo, in contrapposizione al principio di gratuità che dovrebbe caratterizzarlo.
La confusione si genera anche relativamente alla cooperazione sociale,
nella quale spesso manca l’orientamento solidaristico e lo spirito mutualistico,
annullando ogni differenziazione dalle imprese di tipo profit.
Gli intervistati hanno dimostrato di essere anche consapevoli di quelli
che sono i punti di debolezza del TS in Calabria. La debolezza economica
e la mancanza di uno “spiraglio” di buona opportunità di mercato può esere ricondotta in parte, alla presenza di organizzazioni malavitose e in parte
alla presenza di cooperative sociali che non hanno sufficienti competenze di
gestione economica e sono deboli dal punto di vista imprenditoriale.
Il Terzo Settore ha nel proprio corredo genetico la relazione; gli intervistati, invece, parlano di un TS frammentato, nel quale le singole organizzazioni non riescono o non vogliono collaborare.
Le organizzazioni del Terzo Settore non riescono a fare rete perché c’è
una mancanza di fiducia reciproca e non si è ancora sviluppata la consapevolezza che l’unione e il mettersi insieme valorizza l’attività di ognuno invece di impoverirla.
Quando esistenti, le reti tra organizzazioni di TS, sono propense ad assumere due distinte forme.
La prima forma di rete si sviluppa con la finalità di partecipare a bandi
di appalto o allo sviluppo di progetti. Sono reti, che nascono e muoiono
parallelamente all’avvio e al concludersi delle attività previste.
Alternativamente, un secondo tipo di rete è quella che si sviluppa in
seguito ad un avvenimento d’emergenza. L’adesione avviene non per motivazione di tipo ideale piuttosto potrebbe essere legata alla paura di perdere
credibilità nel caso in cui si optasse per la non partecipazione.
Il TS calabrese quindi, piuttosto che operare a difesa dei diritti della
cittadinanza, si lascia addomesticare, placato dalla dipendenza del finanziatore pubblico.
Il Terzo Settore in Puglia
Nel corso delle interviste svolte con i testimoni privilegiati del TS pugliese, è emerso con forza che, in Puglia, la maggior parte di OTS, non nascono dall’esigenza di rispondere ai bisogni sociali di una comunità, ma dalla
volontà di utilizzare le forme giuridiche del TS per “bypassare” obblighi e
oneri stabiliti dalla legge, per garantirsi un tornaconto personale o per acquisire una certa visibilità sociale.
Il quadro che emerge dalle rappresentazioni degli intervistati, è quello
di un TS che progetta i suoi servizi sulla base delle opportunità di finanzia-
230
TERESA SERPICO
mento. Pertanto, le attività prodotte sono calate dall’alto, cioè dalle istituzioni, piuttosto che risultare da una lettura dei bisogni del territorio e dalla
volontà di rispondere a tali bisogni in modo puntuale ed efficace.
La collaborazione tra OTS nella regione pugliese, rappresenta uno dei
principali aspetti critici rinvenuti nel corso delle interviste.
Si evince uno scenario in cui le relazioni tra OTS sono occasionali, non
strutturate, e temporanee. Le reti, infatti, si sviluppano prevalentemente per
partecipare a opportunità di finanziamenti o per dare luogo a brevi momenti di promozione e sensibilizzazione rispetto ad eventi specifici.
Una volta terminato il progetto o l’evento, la rete formatasi in quella
circostanza è destinata a concludere il proprio ciclo vitale.
Il Terzo Settore in Campania
Di recente il TS in Campania si è sviluppato notevolmente, e ciò è senza
dubbio il segnale di un maggiore protagonismo, rispetto al passato, della
società civile, che prende ed ha coscienza dei suoi problemi. Inoltre ciò è
anche la conseguenza della nascita di un nuovo segmento di mercato, quello dei servizi sociali, determinato da un aumento dei bisogni non più coperti
dall’intervento pubblico diretto.
Tuttavia, la necessità di garantirsi stabilità e continuità mediante la ricerca
di nuove opportunità economiche, in modo da creare una struttura capace di
offrire possibilità occupazionale ai giovani volontari, ha portato, spesso, ad uno
snaturamento delle organizzazioni senza scopo di lucro. Queste ultime infatti,
anziché lasciarsi guidare dalle motivazioni ideali, hanno preferito ottemperare
agli standard richiesti per attingere a finanziamenti pubblici.
Lo dimostrano anche tutte quelle organizzazioni che decidono di iscriversi al registro del volontariato, semplicemente per assicurarsi la possibilità di ricevere contributi dagli enti locali.
Anche nel contesto campano, uno dei principali fattori di debolezza del
TS riconosciuto dagli intervistati, è l’assenza di una “strategia di alleanze”
tra i soggetti non profit, troppo spesso impegnati a contendersi, all’insaputa
l’uno dell’altro, l’ente pubblico come unico interlocutore.
Manca in altri termini, la consapevolezza dell’importanza della rete,
manca la capacità di stabilire reti di relazioni, che possano favorire, tra i
partecipanti, la capacità di riconoscersi, scambiarsi informazioni, di aiutarsi
reciprocamente, e di cooperare ai fini comuni.
Dalle testimonianze emerge un TS fortemente frammentato che, nonostante sia consapevole dell’importanza della rete, pecca di autoreferenzialità. Ciò significa che le singole organizzazioni tendono a esistere per se stesse
e perseguire unicamente la propria sfera di azione, evitando la cooperazione con gli altri attori del TS.
IL RUOLO E L’EVOLUZIONE DEL NON PROFIT NEL MEZZOGIORNO
231
Nonostante la legge quadro per la realizzazione del sistema integrato
degli interventi e dei servizi, attribuisca alle organizzazioni non profit un
ruolo paraistituzionale, il TS, spesso non riesce ad uscire da una posizione
di inferiorità nei confronti dello Stato. Sono ancora poco diffuse in Campania, così come dimostrano le interviste, esperienze di concertazione, di coprogettazione che vedono le istituzioni pubbliche e i soggetti della solidarietà organizzata collaborare per il raggiungimento di obiettivi di interesse
generale. Continua, invece, a prevalere un sistema di gestione delegata dei
servizi che rischia di trasformare le organizzazioni non profit in semplici
erogatrici di prestazioni, anziché riuscire a ricoprire un ruolo pubblico sussidiario.
In definitiva possiamo concludere che il Terzo Settore, si sta diffondendo rapidamente, ma non sempre per rispondere alle esigenze della comunità, o per interesse verso certe problematiche, quanto per la possibilità di ottenere finanziamenti e tornaconti personali.
Un altro aspetto critico deriva anche dalla mancanza di una rete e dall’atteggiamento di chiusura delle organizzazioni, che si rinchiudono nella
propria sfera di azione, ignorando ipotesi di collaborazione. Laddove si creano relazioni, queste sono temporanee ed occasionali. Risultato? Il Terzo
Settore è frammentato e diviso, e nonostante riconosca l’importanza della
rete, pecca di autoreferenzialità!
Inoltre ciò che spinge la persona a perseguire le OTS, non è solo l’opportunità di accedere a finanziamenti, ma la possibilità di trovare nuovi impieghi lavorativi.
Il TS è oggi in grado di combattere la disoccupazione e creare nuovi
posti di lavoro.
“Le cooperative nascono per sopperire al lavoro che manca”.
Le interviste delineano quindi una forte crescita numerica del Terzo Settore, ma tale crescita non consegue a fenomeni d’emergenza, piuttosto rappresenta il frutto di particolari situazioni, come l’elevato tasso di disoccupazione e la fame di lavoro che caratterizza le regioni meridionali. Le opportunità economiche spingono volentieri ad un uso strumentalizzato delle
forme giuridiche di TS.
Sembrerebbe quindi mancare il presupposto fondamentale che dovrebbe caratterizzare il Terzo Settore: sensibilità verso certi problemi e desiderio di affrontarli. È questa la criticità che riguarda non solo il mondo della
cooperazione ma anche quello del volontariato.
232
FULVIA VIGLIANO
VOLONTARI SI NASCE O SI DIVENTA? UNA RICERCA SUI VOLONTARI DI TEANO
233
VOLONTARI SI NASCE O SI DIVENTA?
UNA RICERCA SUI VOLONTARI DI TEANO (CASERTA)1
Fulvia Vigliano
Questo progetto di ricerca nasce da profonde motivazioni personali, conseguenza dell’esperienza di volontaria che, con impegno e passione, svolgo
da quasi 13 anni.
Nel corso di questi anni ho avuto modo di conoscere realtà molto diverse e di entrare in contatto con tante persone che condividono la mia scelta.
Ascoltando i loro racconti d vita sono emerse differenti motivazioni che
possono stimolare l’essere umano al volontariato. A partire da questo ho iniziato ad interrogarmi sui processi motivazionali e sulla possibile influenza
che l’educazione genitoriale può suscitare sulle scelte dei figli.
Con questa tesi ho analizzato il fenomeno da un punto di vista qualitativo attraverso una ricerca dal titolo “volontari si nasce o si diventa?”, titolo che esprime la volontà di comprendere se la scelta di impegnarsi in un’attività di volontariato sia dovuta a una spinta motivazionale interna o alle
influenze del contesto.
Obiettivi
La ricerca ha come obiettivo quello di analizzare le modalità con cui
avvengono i processi di trasmissione inter-generazionale in relazione all’attività di volontariato, ma anche la qualità delle relazioni e delle motivazioni delle persone che svolgono la suddetta attività.
In particolare in questo lavoro si è interessati a comprendere quali siano i comportamenti, le motivazioni, le esperienze che hanno portato le persone a scegliere di offrire il proprio tempo nel volontariato e se esista una
relazione tra le motivazioni a tale scelta e i valori, le convinzioni, gli ideali
trasmessi all’interno del nucleo familiare.
1
La tesi di laurea La trasmissione intergenerazionale delle motivazioni al volontariato:
un contributo empirico, è stata discussa alla Seconda ’Università degli Studi di Napoli, Facoltà
di Psicologia, corso di laurea in Scienze e tecniche psicologiche per la persona e la comunità,
Cattedra di Psicologia di Comunità, relatore prof.ssa Claudia Chiarolanza. Si pubblica qui il
secondo capitolo.
234
FULVIA VIGLIANO
Partecipanti
La ricerca è stata condotta su sei volontari di età compresa tra i 18 e i
30 anni che svolgono la loro attività presso la “Croce Rossa”, la “Protezione Civile”, il “Gruppo Scout Teano I”, la “Mensa Diocesana” e “L’Airc” ma
anche su volontari che si impegnano costantemente senza l’ausilio di associazioni nazionali.
Inoltre la ricerca è stata condotta anche sui genitori dei volontari, di età
compresa tra i 40 e i 60 anni, per un numero di 8 soggetti e un totale di
14 partecipanti.
Metodo
Gli obiettivi di cui sopra sono stati raggiunti attraverso la conduzione
di interviste narrative, una metodologia d’indagine che offre la possibilità di
esplorare aspetti dell’esperienza soggettiva dei partecipanti facendo emergere i significati sottesi all’interazione sociale (Mazzara, 2002); inoltre, l’utilizzo del livello intergenerazionale permette di cogliere gli scambi affettivi,
i significati ed i valori che si vengono costituendo durante le propria esistenza. In primo luogo si è proceduto contattando telefonicamente i volontari e, i loro genitori, a cui sono stati chiariti gli intenti della ricerca, le procedure, e i tempi necessari allo svolgimento dell’intervista; infine si è fissato un appuntamento.
Gli incontri sono avvenuti nelle abitazioni dei volontari che hanno firmato il consenso per il trattamento dei dati personali e l’autorizzazione ad
effettuare l’incontro con la modalità dell’audioregistrazione.
Strumenti
Sono state condotte due tipologie di interviste.
La prima è stata somministrata ai volontari con lo scopo di indagare la
loro personale esperienza; si è cercato di analizzare le motivazioni alla base
di tale scelta e il modo in cui si sono avvicinati a questa realtà e, inoltre, si
è indagata la possibilità di aver acquisito delle competenze specifiche durante questa esperienza, sia nella dimensione interpersonale (amicizie, amori) che su quella professionale.
La seconda tipologia è stata somministrata ai genitori con la finalità di
comprendere i loro sentimenti rispetto alla scelta dei propri figli. In entrambi
i casi, infine si è cercato di comprendere la tipologia di educazione trasmessa
dai genitori, gli ideali, i valori e le credenze che possano aver influito sulla
scelta dei figli di svolgere attività di volontariato.
Le interviste, della durata di trenta minuti, sono state condotte nell’arco di due mesi; sono state registrate, trascritte e analizzate con l’ausilio del
VOLONTARI SI NASCE O SI DIVENTA? UNA RICERCA SUI VOLONTARI DI TEANO
235
software “ATLAS.ti” che consente il processo di lettura e di codifica dei dati,
facilitando l’approccio circolare e induttivo caratteristico della Grounded
Theory2, a cui fa riferimento la prospettiva narratologica adottata nell’indagine: la raccolta dei dati e l’analisi non vengono svolte in tempi successivi,
ma sono interconnesse, adottando strategie che rimangono il più vicino possibile al sistema simbolico cui cercano di «dare significato»3 .
Risultati
Il processo di codifica delle interviste narrative ha prodotto un numero
complessivo di 187 codici che sono stati sottoposti a continue revisioni. Al
fine di facilitare la presentazione dei risultati sono stati raggruppati in 14
famiglie di codici:
(tabella 1 omessa)
Il codice “valori trasmessi”, frequente nelle narrazioni sia dei volontari
che dei genitori, evidenzia come queste si sviluppino intorno a dimensioni
etiche. Il suddetto codice, infatti, si riferisce al concetto di valore inteso come
ispiratore di azioni umane moralmente buone e include, nello specifico, i
codici “altruismo” e “rispetto dell’altro come valore”.
Credevamo e crediamo tuttora molto nell’educazione, penso che sia la
prima cosa educare i figli a comportarsi bene, ad aiutare gli altri, a socializzare bene con tutti gli altri, ad essere molto aperti.
Credo che la cosa più importante che sento di aver trasmesso sia io che
Nicola sono l’educazione il rispetto per gli altri che sono alla base di tutto. (Genitore 2, intervista n° 3)
Ho educato mia figlia e anche gli altri due ad aiutare chi ne ha bisogno, a rispettare le persone anziane. (Genitore 3, intervista n° 5)
Bhè, i miei mi hanno sempre insegnato ad amare l’altro, ma soprattutto ad aiutare chi ne ha bisogno, anche nella piccole cose, dal ragazzo che
mi porge la mano per strada, agli anziani che devono attraversare la strada. Mi hanno insegnato la morale delle cose, il senso di giustizia soprattutto e, di conseguenza la volontà di cambiare le cose che non vanno in
questo mondo il tutto però in estrema umiltà...”senza sentirsi superiori” mi
ripetono i miei (Volontario 1, intervista n° 9)
2
Glaser, Barney G & Strauss, Anselm L., 1967. The Discovery of Grounded Theory: Strategies for Qualitative Research, Chicago, Aldine Publishing Company.
3
C. Chiarolanza, E. De Gregorio, L’analisi dei processi psico-sociali. Lavorare con
ATLAS.ti, Carocci Faber, Roma 2007.
236
FULVIA VIGLIANO
Il processo di interiorizzazione di valori si esprime nel codice “influenza educazione ricevuta” che è tipico dei volontari.
Io penso di sì, perché mi hanno sempre trasmesso i valori importanti,
ecco la religione, l’idea che c’è sempre qualcuno che ti protegge, che chi
più è grande più ha la responsabilità dei più piccoli, valore che è alla base
dello scoutismo. Come se loro mi avessero spinto da sempre. Ho ritrovato
gli stessi valori, anche la famiglia che gli scouts la mettono al primo posto. (Volontario 6, intervista n° 13)
Penso di si. In fondo a casa abbiamo sempre cercato di farle capire che
è importante aiutare gli altri. Che non bisogna mai voltare le spalle a chi
ne ha bisogno, un giorno potremmo avere bisogno anche noi dell’aiuto degli altri. E poi abbiamo sempre dato il buon esempio. Come le dicevo prima sono sempre stata molto attiva e così anche mio marito anche se in campi diversi, lui è più per rimboccarsi le maniche per migliorare il nostro paese. Ma non siamo mai stati una famiglia chiusa che pensa solo al suo benessere. (Genitore 4, intervista n° 6)
I genitori sono convinti di aver fatto tutto il possibile per dare ai propri
figli una buona educazione, ma nutrono dubbi sulla possibilità che questa
abbia influenzato le loro scelte.
Io le ho dato un’educazione, ma non so se abbia influito e se loro diventeranno come spero, e poi penso che abbia più influito il giro di amicizie, in fondo lei fa tutto quello che fa pure perché ha amiche che lo fanno.
(Genitore 5, intervista n. 7)
Il codice risulta associato con altri due: Importanza esperienza ed esempio dei genitori che appaiono del tutto assenti nei padri; questa lacuna dimostra come sia la madre ad impegnarsi maggiormente nell’educazione dei
figli dando il buon esempio con comportamenti di altruismo e di disponibilità verso il prossimo.
Perché penso che quando una persona in famiglia vede i propri genitori
impegnati per le altre persone sia più spronato. (Genitore 1, intervista 2)
Gli ultimi due codici citati concorrono, a loro volta, a creare il codice
Volontari si diventa che, presente sia nei volontari che nei genitori, racchiude in sé la soluzione della ricerca.
Si diventa. Le esperienze valgono mille volte di più. (Genitore 3, intervista 5)
VOLONTARI SI NASCE O SI DIVENTA? UNA RICERCA SUI VOLONTARI DI TEANO
237
Gli individui, pur sostenendo la presenza di una spinta motivazionale
interna, ammettono che le esperienze e l’educazione possano favorire lo sviluppo di questa spinta e influenzare la scelta nell’impegno.
Credo che quello che uno ha dentro, viene fuori già dai primi anni. Cioè
una volta ho letto che comunque se sei in un modo viene fuori dai primissimi anni. Però io ho sempre pensato che sono le esperienze che ti formano. (Volontario 3, intervista 11)
La trama narrativa passa attraverso punti di incontro, ma anche di interruzioni come nel codice “genitore non volontario” che dimostra, esplicitamente, come la maggior parte dei genitori pur considerando importante dare il buon esempio ai figli, nella quotidianità non si impegnano in
prima persona. Tuttavia, gli stessi genitori tendono a sottolineare la propria “disponibilità” quasi come giustificazione al mancato impegno nel volontariato.
Volontariato no, cioè come fa lei no, a livello giornaliero sono disponibile con tutti, se qualcuno ha bisogno io sono ben disposta ad aiutare, ma
volontariato presso un associazione no perché sono molto pigra e legata alla
famiglia. Ora come ora non voglio molto allontanarmi da casa quindi se
posso aiutare qualcuno lo faccio nel mio piccolo. Però sono felice che lei
lo faccia. Forse io non dò il buon esempio, questo è vero, ma io ormai ho
la mia età, è lei che ha bisogno di fare queste esperienze, è a lei che servono. (Genitore 2, intervista 3)
La maggior parte degli intervistati riconosce il codice Conseguenze interpersonali del volontariato che mostra come l’impegno volontario contribuisca anche a migliorare la vita e la qualità delle relazioni dei volontari
stessi. Tra le conseguenze, infatti, ricorrono spesso la Socializzazione e
l’apertura come conseguenza
Beh direi proprio di si. lei è sempre stata una bambina molto intelligente, leggeva molto e studiava molto, quindi era anche un po’ sola, riservata, solitaria direi nonostante i fratelli, poi ha deciso di aderire ad
un’ associazione che è nata sotto la guida del suo professore alle medie,
facevano le guide turistiche, però senza essere pagate, erano volontari appunto e questo l’ha cambiata moltissimo, e anzi quando ce lo ha detto
noi siamo rimasti sorpresi, ma eravamo ben lieti e non l’abbiamo ostacolata, poi è arrivata la croce rossa. E quando ora la vedo, così socievole,
piena di amici, impegni, così autonoma, mi sento bene. (Genitore 3, intervista 4)
238
FULVIA VIGLIANO
In conclusione vanno ricordati gli ultimi due codici Nessuna conseguenza
interpersonale e Nessuna abilità pratica acquisita che evidenziano un ulteriore punto di interruzione della trama narrativa.
Non credo, no, non penso (Genitore 5, intervista 7)
Mi viene da ridere e sai perché, lei è alla croce rossa e avrebbe dovuto saper fare determinate cose, o almeno così diceva, allora una volta che
la nonna ha avuto bisogno di una puntura, lei si è offerta, diceva di fidarsi... morale della favola? È scappata dopo aver visto l’ago! Da questo può
capire che capacità no, non ne ha acquisite direi. (Genitore 3, intervista 4)
Conclusioni
Il lavoro condotto, pur evidenziando, in tutta la sua specificità, spunti
apparentemente contraddittori, offre uno spaccato della comunità civile e si
presta a diverse riflessioni. Al centro dell’analisi emerge il ruolo dell’educazione come volano delle esperienze individuali ma, nel contempo, esplicita la consapevolezza del superamento dell’unicità della famiglia e della
scuola come agenzie educative. Nella maggior parte delle narrazioni analizzate, infatti, se da un lato, si sottolinea da parte dei genitori la convinzione
che l’esempio, inteso come modello esistenziale ed etico, costituisce ancora
oggi un valore, dall’altro se ne avverte la precarietà rispetto ai modelli esterni
al nucleo familiare e se ne difende la forza propulsiva più come “speranza”
che come “certezza”. I figli, a loro volta, pur riconoscendo l’importanza
dell’educazione ricevuta in famiglia, pur avvalorando l’ipotesi che siano proprio gli ideali, gli esempi che si trasmettono a livello intergenerazionale ad
ispirare le loro scelte affinano, per cos’ dire, quella forza propulsiva individuando altre motivazioni estranee al nucleo familiare. Può sembrare quasi
contraddittorio ma, a ben riflettere, non lo è giacché se è vero che sentono
di essere stati influenzati da genitori supportivi, aperti ed altruisti è pur vero
che completano il loro sentire l’Altro con diverse variabili esterne quali gli
amici, il gruppo, le esperienze individuali. Ciò fa ben comprendere gli stimoli sottesi all’affermazione che “volontari si diventa”. Certo, esiste una
innata predisposizione all’amore e al tendere verso il prossimo, tuttavia, questa predisposizione da sola non basta a determinare la scelta del volontariato; convergono in essa altri fattori, altri elementi, un vissuto di esperienze
perché questa predisposizione possa svilupparsi e realizzarsi pienamente.
Altro aspetto emerso dall’indagine è la resistenza forte e convinta dei
valori etici e morali nei confronti dei modelli di individualismo esasperato
che la società moderna sembra cavalcare sull’onda della mistificazione illusoria offerta dai mass-media.
VOLONTARI SI NASCE O SI DIVENTA? UNA RICERCA SUI VOLONTARI DI TEANO
239
Questi sicuramente influenzano la nuova generazione ma l’indagine fa
emergere una sensibile e sentita tensione verso l’eticità, sia essa di derivazione religiosa o laica. È questo un aspetto molto interessante, giacché contrasta il pregiudizio diffuso che vuole i giovani vuoti edonistici e passivi
consumatori di beni materiali
Altro elemento interessante è l’influenza che la donna-mamma esercita
nei confronti dell’educazione sociale dei figli. La figura del padre, a parte
qualche caso, resta marginale o ininfluente, potremmo quasi dire che l’inchiesta ha fatto affiorare una tendenza che potrebbe definirsi “pedagogicomaterna” molto incisiva e partecipativa rispetto alle scelte dei figli.
Un ulteriore aspetto particolarmente rilevante di questo lavoro di tesi
sono le ripercussioni che l’agire volontario genera nei confronti del volontario stesso e della società in generale. Vivere il volontariato sicuramente
rende gli individui più socievoli e sicuri, gratifica in modo esemplare il loro
vissuto, li rende più sensibili ed aperti verso le problematiche del vivere
sociale. È una sorta di antidoto all’incomunicabilità a cui paradossalmente
la società tecnologica sembra condannare l’individuo. D’altra parte, ogni
comunità sociale, piccola o grande che sia, non riesce spesse volte a soddisfare istituzionalmente i bisogni e le necessità emergenti nel tessuto sociale.
Questa impossibilità o incapacità si avverte quotidianamente per cui il
lavoro e l’impegno del volontario assume le caratteristiche di una risorsa irrinunciabile per l’intera comunità.
Nel volontariato si incontrano e si combinano due realtà, due mondi,
l’individuo e la società, si soddisfano le esigenze dell’uno e dell’altra, si supera l’egocentrismo dell’uno e la massificazione dell’altra.
Nella ricerca sono emerse anche altre tematiche, dall’influenza degli
amici nella scelta ai sentimenti di stima e orgoglio dei genitori verso i figli,
che saranno oggetto di analisi in successive ricerche, al fine di ottenere una
visione più completa della tematica.
240
GIULIANA FRANCAVILLA
IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ ORIZZONTALE NEL TERZO SETTORE
241
IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ ORIZZONTALE
NEL TERZO SETTORE1
Giuliana Francavilla
Il principio di sussidiarietà è un principio dell’ordinamento con riferimento all’allocazione delle funzioni amministrative, inteso sia in senso verticale, relativamente alla distribuzione delle competenze tra centro e periferia, sia in senso orizzontale, ossia nei rapporti tra i poteri pubblici e le organizzazioni della società. Con la riforma del titolo V introdotta nel 2001,
il principio di sussidiarietà entra nel testo della Costituzione formulato dal
nuovo articolo 118. L’ultimo comma definisce il principio di sussidiarietà
orizzontale, imponendo ai pubblici poteri di favorire l’autonoma iniziativa dei
cittadini singoli o associati per lo svolgimento di attività di interesse generale (...) e detta regole fondamentali, nel riformare la base giuridico-sociale
del rapporto tra i pubblici poteri (in particolare, quelli rappresentati dagli enti
territoriali) e tutto il popolo della Repubblica, quindi non si può prevedere
verso quale direzione e con quale velocità la nuova traccia costituzionale
condurrà la società civile. Nella trattazione delineata sul principio di sussidiarietà orizzontale, opera il fenomeno associazionistico del non profit e le
connessioni tra i due concetti si rintracciano facilmente, avendo riferimenti
culturali comuni prima ancora che un legame giuridico di carattere positivo, infatti è proprio nell’ambito dell’azione del terzo settore che il principio della sussidiarietà orizzontale trova la sua più piena affermazione. Il non
profit, come la sussidiarietà orizzontale, rompe la “struttura bipolare” pubblico/privato, poiché popolato da soggetti estranei alla pubblica amministrazione, ma aventi finalità che non sono altre rispetto a quelle proprie attribuite alle amministrazioni pubbliche: essi concorrono al perseguimento degli interessi generali, pur essendo soggetti diversi dalle pubbliche amministrazioni. Per questo motivo, si ritiene che le peculiarità che caratterizzano
i soggetti del terzo settore, non implichino un rapporto di pura alternatività
rispetto alle attività dei soggetti pubblici, bensì una vera e propria integrazione di tipo ordinario, non sostitutivo, basata sulla leale collaborazione e
sul rispetto dei doveri imposti dalla legge.
1
Tesi di laurea discussa all’Università degli Studi di Bari, Facoltà di Economia, Corso di
laurea in Economia e Commercio, Cattedra di Diritto amministrativo, nell’anno accademico 2007/
2008, relatore prof. M. T. Paola Caputi Jambrenghi. Si pubblicano qui una parte dell’introduzione e le conclusioni.
242
GIULIANA FRANCAVILLA
Il non profit è caratterizzato da differenti discipline di settore che spesso
rendono difficile l’“inserimento” nell’operatività della sussidiarietà orizzontale. In quest’ottica si sta muovendo una considerazione, attraverso leggi in
itinere, di creare un testo unico che disciplini tutto il settore non profit.
Le differenti discipline di settore rafforzano le resistenze opposte dai
pubblici poteri, questi hanno una difficoltà ad aprirsi alla nuova concezione
del rapporto con l’iniziativa autonoma del privato sociale. Attualmente questa difficoltà viene superata attraverso dei modelli concreti di attuazione della
sussidiarietà orizzontale. L’interrogativo sulla ratio della promulgazione di
un testo unico, si concentra sulla possibilità che questo possa stabilire a livello normativo la devoluzione delle competenze e delle azioni di intervento nel disagio sociale alle associazioni non profit, senza considerare il diverso modello organizzativo o se possa mantenere a livello normativo la distinzione tra imprese sociali, cooperative e associazioni di volontariato, dato
che solo le prime avrebbero gli strumenti finanziari per un efficace intervento
sostitutivo dell’azione statale. Quindi un testo unico sul non profit riflette la
necessità avvertita a livello sociale di riorganizzare l’azione e gli ambiti di
operatività delle differenti strutture operative. Il settore non profit in generale non riceve una specifica disciplina da parte dell’Unione europea: proprio in virtù del principio di sussidiarietà, le istituzioni comunitarie avvertono il dovere di lasciare liberi gli Stati membri nel regolare i rapporti con
le diverse figure giuridiche del terzo settore e di disciplinarle mediante norme del tutto nazionali, nel rispetto dei principi e dei trattati della normativa
comunitaria. La crescita e l’affermazione del fenomeno dell’associazionismo
a scopi solidaristici ha portato all’emersione di diversi casi nei quali è stata
reclamata una legittimazione processuale di tipo popolare, a volte negata e
a volte accordata dalla giurisprudenza. Bisognerebbe, a tutela del rinnovato
ruolo che il principio di sussidiarietà orizzontale accorda alla società civile,
legittimare gli enti del terzo settore a promuovere azioni popolari a tutela
degli interessi generali da essi rappresentati e curati.
Il maggior contributo sulla questione dell’ammissibilità delle associazioni
di volontariato nel mercato e sulla loro partecipazione a gare pubbliche per
l’affidamento di servizi sociali e socio-assistenziali, è stato offerto in sede
comunitaria. La Corte di giustizia ha definito il rapporto intercorrente tra le
regole della concorrenza e l’operatività nel mercato delle associazioni non
profit, nonché il margine di decisione lasciato agli Stati membri in materia.
Per la Corte i soggetti del terzo settore possono e devono essere considerati
come imprese, purché svolgano attività strumentali rispetto alle loro finalità
solidaristiche nel mercato dei servizi pubblici. Resta allora il problema di
fornire queste regole alla giurisprudenza nazionale, ancora altalenante su un
fenomeno che è in crescita ed è rilevante per la soddisfazione di concreti
interessi generali. L’ iscrizione nel registro regionale è l’elemento determi-
IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ ORIZZONTALE NEL TERZO SETTORE
243
nante per aprire la via al godimento per le associazioni di volontariato della
disciplina premiale, una disciplina che non si configura di assoluto favore,
tale da rendere le associazioni di volontariato inidonee a concorrere sul mercato al pari di un’impresa che agisce per scopi lucrativi ed in regime di economia, operando sul mercato secondo le regole della concorrenza. Su questa questione appare illuminante l’orientamento maturato nel tempo dalla
Corte di giustizia europea, allorché nel definire l’impresa utilizza un criterio funzionale riferito esclusivamente al tipo di attività esercitata, sicché qualifica l’impresa come qualsiasi entità che eserciti attività economica, a prescindere dal suo status giuridico e dalle modalità del suo funzionamento,
facendo espressamente rientrare nella nozione alcune attività svolte da organismi il cui statuto imponga l’assenza del fine di lucro e lo svolgimento di
attività volte alla solidarietà sociale in modo istituzionale.
Pertanto può assimilarsi all’imprenditore commerciale chi, pur non risultando statutariamente tale, svolga un’attività di tipo imprenditoriale, a nulla
rilevando l’assenza del perseguimento del fine di lucro “implicito in ogni
attività economica nel senso che ogni attività economica, per essere proficua, deve necessariamente non essere in perdita” (art. 2082 e 2195 c.c.). Il
fatto che un’ associazione di volontariato possa svolgere un’attività economica organizzata, finalizzata alla produzione e allo scambio di beni e servizi, non sembra affatto in contrasto con la sua vocazione non profit, dovendosi ritenere precluso per ciascuna di esse il solo perseguimento del lucro
soggettivo, consistente nella retribuzione degli utili tra gli associati. Sul punto
è stato fondamentale l’apporto concettuale della disciplina giuridica dell’impresa sociale, contenuta nel d.lgs. 24 marzo 2006, n. 155, che sancisce la
distinzione tra la nozione giuridica di impresa e quella di finalità lucrativa,
riconoscendo la presenza di imprese che perseguono finalità diverse dal profitto: l’impresa sociale è caratterizzata dall’assenza di lucro soggettivo e dalla
tipologia di attività che essa svolge. La nozione di lucro oggettivo consiste
nella realizzazione dell’utile e quella di lucro soggettivo nella distribuzione
degli utili tra i soci. Pertanto ciò che si considera precluso agli enti non profit
è esclusivamente il perseguimento del lucro soggettivo, ossia la distribuzione degli utili che devono, invece, essere reinvestiti nell’attività statutaria
dell’associazione.
Fatta questa premessa bisogna considerare la disciplina dettata per le
onlus dal d.lgs. 4 dicembre 1997, n. 460. Si tratta di un vero e proprio “contenitore fiscale” cui possono aderire tutti i diversi enti che rispettano i requisiti statutari e i vincoli sostanziali imposti dall’art. 10 del decreto stesso.
Infatti per onlus si intende ogni organizzazione non lucrativa che agisce in
particolari settori, ritenuti di utilità sociale, come le associazioni, i comitati,
le fondazioni, le società cooperative ed tutti gli altri enti privati, anche privi della personalità giuridica. Non è valido, allora, il motivo per il quale
244
GIULIANA FRANCAVILLA
debba essere l’assenza dello scopo di lucro l’elemento discriminante che
impedisce alle associazioni di volontariato di partecipare ad una gara pubblica, quando invece l’attività oggetto dell’appalto è strumentale al raggiungimento delle finalità solidaristiche. La posizione della giurisprudenza che
esclude tale possibilità è frutto di un equivoco determinato dalla lettura non
agevole della normativa che regola nello specifico l’attività di queste associazioni (legge n. 266 del 1991). In particolare la legge individua la natura
assolutamente spontanea e gratuita dell’attività caratterizzante la prestazione
del volontario, ma soltanto di questo e non dell’associazione, che ha come
unico limite lo scopo solidaristico. Il volontario, per essere considerato tale
ed inserito nell’organigramma dell’associazione, deve agire in maniera totalmente gratuita senza pretendere o ottenere alcun vantaggio economico o profitto dal rapporto giuridico intrattenuto con l’associazione.
IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ ORIZZONTALE NEL TERZO SETTORE
245
LA FIDUCIA COME DIMENSIONE
DEL CAPITALE SOCIALE 1
Roberto D’Anselmo
L’excursus sulle origini della fiducia ha portato alla descrizione dell’evoluzione, all’interno dei soggetti economici, della consapevolezza della necessità di fiducia per istaurare, mantenere e sviluppare le relazioni che sono alla
base dei rapporti economici nella società. Questa presa di coscienza ha permesso una generalizzazione del concetto di fiducia all’intera società civile,
definita come “complesso di istituzioni intermedie2”, basata sulle abitudini
etiche e sui doveri morali reciproci alimentati dal rispetto della cultura. Tra
queste, l’unica caratteristica culturale fondamentale che ha il potere intrinseco di condizionare il benessere e la capacità di competizione della società
è proprio la fiducia esistente all’interno della società stessa3. Questa posizione di rilevante importanza ha portato nella letteratura economica moderna un lungo dibattito che ruota attorno allo studio della definizione, della
funzione e dei meccanismi della nozione di fiducia.
Lo sviluppo del “capitale sociale”
Risulta intuitivo riflettere sulla fiducia come l’essenza delle relazioni
sociali, ed a questo proposito è quindi utile introdurre il concetto interdisciplinare e multidimensionale di capitale sociale il quale aggrega e accomuna
i principali fattori che influenzano le interazioni tra i vari soggetti economici, per comprendere meglio poi quello della fiducia.
Uno dei primi sociologi ad impiegarlo come strumento nei suoi studi è
G. Loury, il quale nel 1977 scriveva che “il capitale sociale è l’insieme delle
risorse contenute nelle relazioni familiari e nell’organizzazione sociale della
1
La tesi di laurea Le dinamiche della fiducia: un’indagine applicata, è stata discussa all’Università Politecnica delle Marche, Facoltà di Economia “Giorgio Fuà”, Corso di Laurea
Specialistica in Economia e Impresa, Percorso Economia Politica, nell’anno accademico 20102011, relatore prof. Alberto Niccoli. Si pubblicano qui tre paragrafi del primo capitolo e le
Conclusioni.
2
“Che comprendono imprese, associazioni, scuole, club, sindacati, mezzi di informazioni,
enti assistenziali e chiese”. [Fukuyama F., Fiducia. Come le virtù sociali contribuiscono alla
creazione della prosperità, Rizzoli, Milano, 1996. Edizione originale, Trust: The Social Virtues
and the Creation of Prosperity, Free Press, New York-London, 1995, p. 16].
3
Cfr. Fukuyama F. (1996).
246
ROBERTO D’ANSELMO
comunità che risultano utili per lo sviluppo cognitivo o sociale di un bambino o di un ragazzo”4. Già in questa prima analisi pioneristica si possono
trovare le principali caratteristiche che accomunano il capitale sociale agli
altri modelli di capitali già conosciuti, quali il capitale finanziario5 e il capitale fisico6, riconoscibili attraverso i termini: risorse, utilità e sviluppo.
Rilevante è l’attenzione focalizzata sull’utilizzo delle relazioni come propulsione del capitale umano7, concetto di per sé intangibile ma reso maggiormente percepibile attraverso questo flusso di “risorse” tra i soggetti. Si potrebbe sintetizzare la distinzione tra capitale umano e capitale sociale immaginando il primo come il vapore e il secondo come una folata di vento capace di spostarlo e modificarlo. Si capisce che l’uno senza l’altro sarebbe
più intangibile e meno percettibile.
Una definizione più matura può essere fatta risalire a P. Bourdieu, il
quale nel 1980 classifica il capitale sociale come “l’insieme delle relazioni
interpersonali di cui dispone un individuo o un gruppo di cui egli fa parte
e quindi come una risorsa, avente natura collettiva, la cui produzione richiede
l’interazione di almeno due individui, la cui dotazione di capitale sociale,
frutto di decisioni razionali di investimento, è commisurata all’estensione dei
rapporti sociali intrattenuti”8. In questa definizione si possono estrapolare tre
concetti che aiutano ad identificare meglio il capitale sociale: le relazioni
interpersonali, l’interazione e l’estensione9.
Le relazioni interpersonali qualificano la profondità dei rapporti, che
compongono il capitale sociale, costruiti su una solida base comune, rappresentata da una condivisione di emozioni, di passioni o di responsabilità. L’interazione aggiunge la dimensione dello spessore ai rapporti, indicando uno
scambio biunivoco tra i soggetti, una reciprocità che arricchisce le relazioni
donando una realtà multidimensionale alla società di appartenenza. Infine
l’estensione, già di per sé una qualità che non solo caratterizza la quantità
dei rapporti sociali, ma che le conferisce anche la capacità di collegare ambienti, situazioni e necessità altrimenti distanti ed eterogenei tra loro anche
se strettamente adiacenti. Questi tre aspetti del capitale sociale trasformano
4
Coleman J., Fondamenti di teoria sociale, il Mulino, Bologna, 2005. Edizione originale,
Foundations of social theory, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge-Massachussetts-London, 1990, p. 385.
5
L’insieme delle risorse finanziarie destinate all’attività economica.
6
L’insieme delle risorse tangibili destinate alla produzione di beni e servizi.
7
L’insieme delle capacità e delle conoscenze intangibili destinate ad accrescere la produttività del lavoro e la qualità della produzione.
8
Bourdieu P., Le capital social: notes provisoires, in “Actes de la recerche en science sociales”, n. 31, 1980, pp. 2-3.
9
Mentre in questa parte è utile chiarire e comprendere i vari aspetti del capitale sociale,
si tratterà della logica delle “decisioni razionali” nella parte dedicata specificamente alla fiducia.
LA FIDUCIA COME DIMENSIONE DEL CAPITALE SOCIALE
247
delle semplici relazioni in legami robusti che uniscono e sorreggono la società civile.
La definitiva presa di coscienza della produttività del capitale sociale,
al pari delle altre forme di capitale, viene portata a compimento con gli studi
del sociologo statunitense J. Coleman, il quale definisce nel 1990 il capitale sociale non solo nella sua composizione – indicando che “non si tratta di
una singola entità, ma di diverse entità che hanno due caratteristiche in comune: consistono tutte di un determinato aspetto di una struttura sociale, e
tutte rendono possibile determinate azioni di individui presenti all’interno di
questa struttura10”11 – ma soprattutto nella sua funzione, in altre parole “il
valore che questi aspetti della struttura sociale hanno per gli attori, in quanto risorse che essi possono utilizzare per realizzare i propri interessi12”13.
Questo nuovo punto di vista rivitalizza la vecchia idea di capitale sociale,
come dotazione fine a se stessa, dandogli la potenzialità di creare a sua volta
ricchezza (sia tangibile che intangibile), o di partecipare alla creazione di
essa, ampliando così l’orizzonte della letteratura che fino ad allora ha tentato di dare una spiegazione a certi fenomeni di sviluppo (o di declino) socio-economico non riuscendo a trovare alcuna correlazione con nessuno dei
mezzi tradizionali presenti nella società.
Proprio la ricerca dell’interpretazione dei differenziali di crescita tra paesi, e delle sue conseguenti logiche sociali e politiche derivanti, ha portato
a svincolare il concetto di capitale sociale dalla poca considerazione riservatagli fino a quel momento. Con gli studi di R. Putnam del 1993, volti alla
spiegazione dei gap istituzionali ed economici delle neonate regioni italiane
attraverso la diversa presenza di capitale sociale sul territorio, si dimostra che
“la cooperazione volontaria è più facile all’interno di una comunità che ha
ereditato una provvista di capitale sociale” 14, definito nella forma di norme
di reciprocità e di reti di impegno civico. Anche se in altre vesti, si ritrova
in quest’ultima la definizione madre di capitale sociale di P. Bourdieu com10
“Come le altre forme di capitale, il capitale sociale è produttivo, rendendo possibile l’acquisizione di certi fini che in sua assenza non sarebbero possibili. Come il capitale fisico e il
capitale umano, il capitale sociale non è completamente fungibile, ma può essere specifico per
certe attività. Una data forma di capitale sociale che è preziosa nel facilitare certe azioni può
essere non utile o perfino dannosa per altre. Diversamente da altre forme di capitale, il capitale sociale risiede nella struttura delle relazioni tra gli attori. Esso non trova alloggio né negli
attori medesimi né nell’attuazione fisica della produzione.” [Coleman J. (2005), p. 388].
11
Coleman J. (2005), p. 388.
12
“Poiché individua questa funzione, propria di determinati aspetti della struttura sociale,
il concetto di capitale sociale è utile sia per spiegare i diversi esiti a livello di attori individuali, sia per compiere il passaggio dal micro al macro senza dover descrivere in dettaglio la struttura sociale in cui questo ha luogo.” [Coleman J. (2005), p. 391].
13
Coleman J. (2005), p. 391.
14
Putnam R., La tradizione civica delle regioni italiane, Mondadori, Milano, 1993. Edizione originale, Making Democracy Work, Princeton University Press, Princeton, 1993, p. 196.
ROBERTO D’ANSELMO
248
parando le “relazioni interpersonali” alla cooperazione volontaria,
l’“interazione” alla reciprocità e l’”estensione” alla rete di impegno civico.
Questo dimostra che lo studio del capitale sociale ha portato ad uno sviluppo e ad una evoluzione del concetto, ferma restando la solidità della natura
originaria.
Diversamente, con gli studi di F. Fukuyama si abbandona progressivamente l’idea di ricercare il nesso tra disuguaglianze dei fondamentali economici e capitale sociale ma si cominciano, invece, a ricercare i mutamenti
e gli effetti sui fondamentali economici apportati dalle diverse forme e dalle diverse misure di capitale sociale, ribaltando specularmente lo studio preso
in esame. Nel suo lavoro del 1995, F. Fukuyama si riferisce al capitale sociale intendendolo come “la capacità delle persone di lavorare insieme per
scopi comuni in gruppi e organizzazioni”15, segnale evidente del fatto che il
focus dello studio delle scienze sociali non è più il capitale sociale in quanto
tale ma il capitale sociale in quanto causa e sorgente di divergenze socioeconomiche.
Lo sviluppo della “fiducia”
In tutte le definizioni e in tutti gli studi sul capitale sociale sopradescritti,
si ritrova costantemente che il fulcro attorno al quale tutto gira è la fiducia
all’interno dei rapporti sociali. Ad esempio, tra le principali forme di relazioni sociali alla base delle varie fattispecie di capitale sociale osservate da
J. Coleman, oltre alle relazioni di autorità e alle allocazioni consensuali di
diritti, è importante evidenziare le relazioni di fiducia16. Lo stesso sociologo
statunitense mette in evidenza come sia proprio l’asimmetria temporale nelle transazioni17 a contraddistinguere le varie forme di relazioni sociali. Tuttavia, mentre nelle relazioni di autorità la soluzione è espressa tramite una
gerarchia che stabilisce norme e sanzioni, e nelle allocazioni consensuali di
diritti la soluzione è espressa tramite contratti con clausole di garanzia, nelle relazioni di fiducia “la soluzione tipica è, semplicemente, la presa in conto
del rischio nella decisione se compiere o meno l’azione18” 19. Nei rapporti di
fiducia sono presenti almeno due soggetti: chi dà fiducia e chi riceve fiducia. È importante sottolineare le dinamiche della loro relazione. Il primo (prestatore) ha la necessità di fidarsi nel breve periodo per soddisfare un biso15
Fukuyama F. (1996), p. 23.
Cfr. Coleman J. (2005).
17
Cfr. Paragrafo 1.1 Capitolo 1.
18
“Le situazioni che coinvolgono la fiducia sono una sottoclasse di quelle che coinvolgono rischi. Sono situazioni in cui il rischio che un attore si assume dipende dalla prestazione di
un altro attore.” [Coleman J. (2005), p. 126].
19
Coleman J. (2005), p. 126.
16
LA FIDUCIA COME DIMENSIONE DEL CAPITALE SOCIALE
249
gno che altrimenti non sarebbe stato possibile soddisfare, ma ha anche la
possibilità di correre il rischio nel lungo periodo di trovarsi in una situazione svantaggiosa se il secondo (fiduciario) tradisce la fiducia concessa, tanto
quanto di trovarsi in una situazione vantaggiosa se quest’ultimo rispetta invece il patto di fiducia. D’altra parte, il fiduciario ha l’opportunità di tradire la fiducia nel breve periodo, ricavandone un vantaggio momentaneo, ma
di conseguire poi il rischio di rimanere escluso nel lungo periodo dalle relazioni di fiducia nella società.
Sotto quest’ottica diventa chiara la disaggregazione di capitale sociale,
effettuata da J. Coleman, in varie forme, specificamente in sei classi: doveri e aspettative, potenziale informativo, norme e sanzioni, relazioni di autorità, organizzazione sociale appropriabile e organizzazioni intenzionali20.
Andandole ad analizzare, si può osservare che ognuna di queste classi presenta la problematica di fondo della fiducia. Parlando di “doveri e aspettative” è evidente il contesto di asimmetria temporale sopra descritto. Dopo
il flusso di fiducia che va dal prestatore al fiduciario, si crea nel primo
l’aspettativa di non essere tradito e nel secondo il dovere di rispettare il patto
di fiducia. Solo successivamente si conclude pienamente la relazione, con
l’esecuzione in tutti i modi del flusso reciproco di fiducia. Con l’aspettativa
realizzata e il dovere rispettato si definisce esaurientemente questa forma di
capitale sociale. Nel caso del “potenziale informativo” ci si riferisce ad una
serie di relazioni sociali in cui la società, attraverso i soggetti, acquisisce
informazioni sull’esito di ogni rapporto di fiducia. Queste informazioni danno
la possibilità di prendere la decisione più efficace in ogni rapporto e di rendere più efficiente l’intero sistema di fiducia nella società. L’utilità quindi è
quella di minimizzare le defezioni e di massimizzare i flussi reciproci di fiducia. Un’altra forma di capitale sociale che deriva dai rapporti di fiducia
ha il nome di “norme e sanzioni”. Per prendere la migliore decisione possibile all’interno delle relazioni sociali, oltre alle informazioni, è utile prendere in considerazione anche la struttura di norme e sanzioni presenti all’interno della società, la quale sostiene alcune azioni e ne disincentiva altre.
Queste norme e sanzioni possono essere di tipo coercitivo o abitudinario.
Nei rapporti di fiducia, nonostante sembrino avere una debole influenza, le norme di tipo abitudinario hanno in realtà una forte importanza nel
costruire i codici etici su cui fondare a loro volta le norme coercitive per
tutte le altre relazioni sociali. Un fondamentale esempio di norma abitudinaria è quello secondo il quale si deve mettere in secondo piano il proprio
interesse autoreferenziale per far emergere l’interesse della collettività, ed è
proprio questa specifica norma ad avere il potere di creare la forma più so-
20
Cfr. Coleman J. (2005).
ROBERTO D’ANSELMO
250
lida di capitale sociale21. Nelle ultime forme di capitale sociale descritte da
Coleman si riscontra la necessità di aggregazione sociale. Nelle “relazioni
di autorità” è la comunità che delega ad un soggetto i suoi poteri, ed è questa
concentrazione che fa poi incrementare il capitale sociale nella comunità stessa. Un’altra forma di concentrazione sono le organizzazioni sociali, le quali
uniscono soggetti distinti con distinti poteri ma con una visione unica dello
scopo da perseguire. Le attività di queste organizzazioni danno origine a loro
volta a due forme di capitale sociale, le “organizzazioni sociali appropriabili”, o meglio organizzazioni che si avviano per determinati scopi ma finiscono per perseguirne anche altri oltre all’originaria, e le “organizzazioni
intenzionali”, o meglio esternalità positive di cui beneficiano non solo i partecipanti all’organizzazione ma anche la comunità esterna in cui essa stessa
opera.22
Anche secondo la composizione del capitale sociale nello studio di R.
Putnam troviamo come tassello fondamentale la fiducia oltre “alle norme che
regolano la convivenza, alle reti di associazionismo civico e agli elementi
che migliorano l’efficienza dell’organismo sociale promuovendo iniziative
prese di comune accordo”23. Come visto per J. Coleman pure in questa distinzione hanno un ruolo fondamentale le norme, le associazioni e l’efficienza
sociale. Grande rilievo è dato al principio di reciprocità generalizzata, o
meglio fiducia sociale, un principio più forte delle relazioni di fiducia, perché non solo sorvola sull’asimmetria temporale, ma anche su quella interpersonale seguendo questa logica: “farò questo per te subito, senza aspettarmi
immediatamente nulla in cambio e forse anche senza conoscerti, confidando che lungo la strada tu, o qualcun altro, mi restituirete il favore”24.
Ultima, ma non per questo meno importante, è la definizione della fiducia secondo F. Fukuyama il quale la osserva come “l’aspettativa, che nasce all’interno di una comunità, di un comportamento prevedibile, corretto
e cooperativo, basato su norme comunemente condivise, da parte dei suoi
21
“Se le persone che devono lavorare insieme in un’azienda si fidano l’una dell’altra, far
funzionare l’impresa costerà meno. Al contrario, le persone che non si fidano l’una con l’altra
riescono a cooperare soltanto sotto un sistema di regole e di disposizioni formali, che devono
essere negoziate, approvate e applicate, a volte con mezzi coercitivi. Questo apparato giuridico, che funge da sostituto della fiducia, comporta quelli che gli economisti chiamano “costi di
transazione”. In altre parole, la fiducia diffusa all’interno di una società impone una sorta di
tassa su tutte le forme di attività economica, una tassa che le società ad alta fiducia non devono pagare.” [Fukuyama F. (1996), p. 42].
22
“La capacità di associarsi dipende a sua volta dal grado a cui le comunità condividono
norme e valori e dalla capacità di subordinare l’interesse individuale a quello del gruppo.” [Fukuyama F. (1996), p. 23].
23
Putnam R. (1993), p. 196.
24
Putnam R., Capitale sociale e individualismo, Crisi e rinascita della cultura civica in
America, il Mulino, Bologna, 2000. Edizione originale, Bowling alone. The collapse and revival of American community, New York, Touchstone-Simon&Schuster, 2000, p. 165.
LA FIDUCIA COME DIMENSIONE DEL CAPITALE SOCIALE
251
membri25”26. Come per la definizione di capitale sociale, emerge nel sociologo statunitense una visione originaria e generatrice della fiducia e non derivata da qualche altro aspetto. Sempre secondo lo stesso sociologo la composizione del capitale sociale27 delinea come necessarie ma non sufficienti
“le leggi, i contratti e la razionalità economica, sia per la stabilità sia per la
prosperità delle società post industriali”28, sottolineando che “esse devono
avere anche il lievito costituito dalla reciprocità, dagli obblighi morali, dai
doveri verso la comunità e dalla fiducia”29.
Gli ostacoli alla fiducia
A seconda del suo utilizzo e del suo contesto, il concetto di fiducia all’interno della società potrebbe riscontrare problematiche che frenerebbero le
relazioni sociali fino ad imbrigliarle in logiche egoistiche.
Già dalle stesse definizioni si evidenzia la possibilità di defezione del
fiduciario, se si parla di rapporti di fiducia, e la possibilità di cadere nell’ingenuità generalizzata, se si parla di fiducia sociale. Per evitare questi
ostacoli, si è cominciato a studiare la razionalità30 nelle azioni di fiducia attraverso orizzonti temporali di lungo periodo31, piuttosto che di breve, e logiche collettive32, piuttosto che individuali. È vero infatti, che “individui razionali possano produrre, in alcuni casi, risultati che non sono razionali”33
per la società, o come nel caso del fiduciario che razionalmente avrebbe da
guadagnare nel breve periodo tradendo la fiducia del prestatore. “Adam
Smith, il primo economista classico, era convinto che le persone fossero
guidate dal desiderio egoistico di “migliorare le proprie condizioni”, ma non
avrebbe mai sottoscritto l’idea che l’attività economica possa essere ridotta
alla massimizzazione razionale dell’utilità”34. Ma se da un punto di vista teo25
“Non è sufficiente che i membri della comunità si attendano un comportamento costante. Vi sono molte società nelle quali ci si aspetta che le altre persone imbroglino costantemente
il proprio prossimo; il comportamento è costante ma disonesto e conduce a un deficit di fiducia.” [Fukuyama F. (1996), p. 40].
26
Fukuyama F. (1996), p. 40.
27
“Il capitale sociale è una risorsa che nasce dal prevalere della fiducia nella società o in
una parte di essa.” [Fukuyama F. (1996), p. 40].
28
Fukuyama F. (1996), p. 24.
29
Fukuyama F. (1996), p. 24.
30
“Per “scelta razionale” si intendono i mezzi razionali piuttosto che fini razionali – ovvero, la valutazione di modi alternativi per raggiunger un fine particolare e la scelta di quello
ottimale sulla base dell’informazione disponibile.” [Fukuyama F. (1996), p. 49].
31
Azioni razionali nel breve periodo si possono rivelare irrazionali nel lungo periodo.
32
Azioni individuali razionali si possono rivelare irrazionali per la collettività.
33
Ostrom E., Governing the commons: The evaluation of istitutions for collective action,
Cambridge University Press, New York,1990, p. 6.
34
Fukuyama F. (1996), p. 31.
252
ROBERTO D’ANSELMO
rico si può definire l’atto della fiducia come un’azione non razionale (individualmente e nel breve periodo) che produce effetti razionali (collettivamente
e nel lungo periodo), da un punto di vista pratico si deve sostenere la scelta di fiducia del prestatore con sanzioni credibili nei confronti di chi defeziona, per disincentivarlo ma senza imporre in maniera coercitiva l’esecuzione. Il confine tra forzare il fiduciario e stimolare il prestatore di fiducia
è molto sottile, e comporta costi di transizione molto elevati, sostituendo di
fatto apparati giuridici alla fiducia35.
L’altro grande impedimento alle relazioni sociali basate sulla fiducia è
il pieno controllo dell’informazione disponibile nella società. Solo conoscendo
l’affidabilità del fiduciario si riesce a prendere una decisione coerente minimizzando il rischio. Oltre ai metodi diretti per accedere alle informazioni ed
ottenerne la disponibilità, esistono soprattutto dei modi transitivi. La fiducia
transitiva supera la mancata conoscenza personale e favorisce la cooperazione
usando una logica di reti sociali, in cui “io non conosco te ma conosco lui
che conosce te”. Questo meccanismo molto utile per la società potrebbe inconsciamente sviluppare azioni razionali che comprometterebbero la stabilità della rete sociale: il free riding, fenomeno nel quale i soggetti di una comunità scaricano sull’intera comunità il peso che loro dovrebbero sopportare. In questo caso l’opportunità di free riding avviene quando i soggetti decidono di smettere di controllare e di informarsi, sicuri che qualcun’altro lo
farà al posto loro. Si nota quindi che da questo comportamento consegue un
risultato irrazionale, nel quale se tutti smettessero di controllare ed informarsi,
l’informazione presente all’interno della società sarebbe nulla.
Inoltre, come si è letto sopra, seguendo una logica individuale e di breve periodo, anche in assenza di cattiveria o di misantropia, si possono incontrare delle barriere alla cooperazione e alle azioni di fiducia. In generale, se un bene pubblico, come la fiducia, è sfruttato intensivamente ed avidamente senza controllo, se nessuno partecipa a conservarlo o se si aspetta
un’azione collettiva che coinvolga tutti i soggetti per mantenerlo, ne verrà
offerto sempre meno di questo bene e si potrebbe arrivare a ridurlo ai minimi termini o addirittura ad esaurirlo. In questo caso si parla di dilemma
delle azioni collettive36, “dilemma centrale fra il senso civico e la razionali35
Ad esempio, se si pongono delle multe alle defezioni, il prestatore sarà tutelato nelle
sue relazioni e il fiduciario sarà scoraggiato a defezionare; mentre se si impone forzatamente
al fiduciario di concludere l’azione di fiducia, il prestatore sarà ugualmente sostenuto ma la società dovrà pagare dei costi più alti rispetto al primo caso per controllare e costringere il fiduciario.
36
“David Hume, il filosofo scozzese del Settecento, inventò una parabola che coglie bene
il dilemma centrale fra il senso civico e la razionalità: «Il tuo grano è maturo, oggi; il mio lo
sarà domani. È inutile per entrambi se io oggi fatico per te e tu domani dai una mano a me.
Non provo nessun sentimento di gentilezza nei tuoi riguardi e so che neppure tu ne provi nei
miei. Perciò io non faticherò per te; se mi dessi da fare per te nel mio interesse, sperando di
LA FIDUCIA COME DIMENSIONE DEL CAPITALE SOCIALE
253
tà”37. Questa “incapacità di cooperare, con reciproco vantaggio, non indica
irrazionalità”38ma uno stallo sociale prodotto dalla mancanza di impegno dei
soggetti facenti parte della società e dall’assenza di una politica che lo possa favorire.
Se da una parte la soluzione di una società che presenti spontaneamente il massimo grado di fiducia e cooperazione risulti un’utopia, dall’altra si
può far notare che il rispetto reciproco degli impegni affidato ad un Leviatano39 mostra delle problematiche ancora più gravi del dilemma stesso. La
prima è rappresentata dai costi di transizione, ovvero costi che una società
impone per finanziare e sorreggere i “mezzi coercitivi degli apparati giuridici che fungono da sostituti della fiducia”40. Istaurando questo sistema all’interno della società e sostituendo la fiducia con l’uso della forza, il mantenimento della cooperazione, oltre a risultare più dispendioso, risulta anche
meno efficiente e più sgradevole di quella dove la fiducia viene mantenuta
con altri mezzi41. La seconda problematica riguarda la natura stessa del Leviatano. L’imposizione, il giudizio o la garanzia di un ente superiore a tutti
gli altri soggetti della società sono anch’essi dei beni pubblici, e quindi anche loro possono incappare nello stesso dilemma che dovrebbero risolvere.
Infine c’è una terza questione che riguarda il merito di fiducia del Leviatano, “perché non è solo importante potersi fidare, ma bisogna anche essere
certi di godere della fiducia degli altri”42. E anche se il Leviatano dovrebbe
sostituirsi e controllare le relazioni di fiducia potrebbe manifestarsi la situazione in cui la società non si fidi del Leviatano o che nessuno lo controlli
nel suo impegno. “Per risolvere questo dilemma, alcuni teorici hanno rivolto la loro attenzione a ciò che Robert Bates definisce “soluzioni dolci”, ad
esempio il senso civico e la fiducia. Le società dove si coopera faranno sì
che l’individuo dotato di razionalità trascenda i dilemmi collettivi”43.
La soluzione che si compone unendo i punti cardini di quest’analisi sembra essere la presenza di un Leviatano che possa essere in grado di favorire
la cooperazione e le relazioni di fiducia, senza imposizioni, di garantire sanricavarne qualcosa, so che rimarrei deluso e conterei invano sulla tua gratitudine. Così ti lascio
lavorare solo; tu ti comporti verso di me allo stesso modo. Il tempo cambia ed entrambi perdiamo il raccolto per mancanza di fiducia reciproca e di una garanzia.»” [Putnam R. (1993), p.
191].
37
Putnam R. (1993), p. 191.
38
Putnam R. (1993), p. 191.
39
Cfr. Magri T. (a cura di), Leviatano, Editori riuniti, Roma, 1986. Edizione originale, T.
Hobbes, Leviathan, or matter, forme and power of a commonwealth ecclesiasticall and civil,
1651.
40
Fukuyama F. (1996), p. 42.
41
Cfr. Gambetta D., Trust: making and breaking cooperative relations, Cap. 13 – Can we
trust trust?, electronic edition, Department of sociology, University of Oxfrod, 2000.
42
Gambetta D. (2000), p. 221.
43
Putnam R. (1993), p. 196.
254
ROBERTO D’ANSELMO
zioni adeguate per le defezioni, attraverso norme e contratti, e che cerchi di
mantenere un livello di informazione robusto. Solo così si può svolgere una
consapevole azione di fiducia, e assicurare alla società lo sviluppo di quel
capitale sociale capace di produrre esternalità positive che influenzano la
sfera tangibile dell’economia.
Conclusioni
Osservando la fiducia con uno sguardo più ampio, si può far riferimento al concetto di capitale sociale. Il quale, al pari delle altre forme di capitale, anche se meno percettibile, risulta pienamente produttivo. Come il vento
in lontananza non si può osservare, riuscendolo a percepire non appena gonfia la vela che trascina la nave, così il capitale sociale può essere riscontrato attraverso gli effetti che esso comporta sulla società e sulle altre forme
di capitale.
Svolgendo l’indagine con rigorosi criteri oggettivi fondati sulla letteratura sociologica, si è riusciti a riscontrare empiricamente le teorie di alcuni
dei sociologi più autorevoli in questo campo, tra cui J. Coleman, R. Putnam
e F. Fukuyama. Infatti, attraverso l’analisi dei coefficienti di correlazione
delle variabili osservate, si è riusciti a verificare la fondatezza del principio
secondo il quale la fiducia è sorretta da tre pilastri: famiglia, reti sociali e
intermediari di fiducia. È tramite il fondamentale apporto dei loro indicatori
(divorzi e figli per la famiglia – associazioni per le reti sociali – quotidiani,
elezioni e depositi per gli intermediari di fiducia) che, svolgendo un’analisi
fattoriale, è stato possibile estrapolare un indicatore del concetto di fiducia.
L’osservazione delle relazioni che legano la fiducia ai suoi pilastri si
sono rivelate altrettanto importanti per l’interpretazione degli effetti della fiducia sulla società. Esaminando le variabili riguardanti gli intermediari di
fiducia si è confermato come siano interconnessi con la società. Oltre all’informazione, è utile sottolineare l’importanza riscontrata dal ruolo delle banche. Se da un lato una sana fiducia riversata nei loro confronti sviluppa la
stabilità necessaria a rendere fertile il terreno per lo sviluppo economico,
dall’altro lato essa deve essere monitorata per evitare degli effetti distorsivi, come le bolle speculative, il panico da fuga e il monopolio. Aspettandosi un risultato positivo per le reti sociali, come formidabile collante economico, si rimane invece sorpresi dalla relazione negativa tra la fiducia e
gli indicatori principali della famiglia, i divorzi e i figli. Se in un primo
momento ciò può sembrare forviante, ci si accorge subito del grande risultato constatato. Infatti, è ragionevole pensare ad un legame negativo tra la
fiducia e la variabile dei divorzi, e un legame positivo con quella dei figli;
ma rileggendo la letteratura sociologica, si comprende come la relazione
LA FIDUCIA COME DIMENSIONE DEL CAPITALE SOCIALE
255
inversa individuata nell’indagine sia da analizzare sotto il punto di vista della
famiglia amorale. Questo paradosso si può spiegare attraverso una forte coesione all’interno della famiglia che genera un’appartenenza assoluta, producendo un isolamento con il resto della società. Osservando la famiglia
attraverso le variabili dei divorzi e dei figli, si può esemplificare il concetto ponendo il caso di un crollo della famiglia. In un clima di familismo
amorale si cerca di mantenere il disagio all’interno della comunità familiare, evitando di manifestarlo all’esterno. Stesso accade per i figli nati al di
fuori del matrimonio, si cercherà a qualunque costo di far nascere il figlio
all’interno di una famiglia o di far sposare i genitori, anche se non pronti
ad assumere una così grande responsabilità. Questi comportamenti presentano una forte fiducia all’interno della famiglia, ma un’altrettanto debole
fiducia nella società. È questa una plausibile spiegazione al fatto che un
indicatore di fiducia elevato sia associato ad un alto valore di divorzi e ad
un basso valore di figli legittimi. Si chiarisce così come l’analisi regionale
per la fiducia presenti una forte separazione tra nord e sud dell’Italia. Eliminando i fattori esogeni, rimane un’alta influenza riguardo alla presenza
nella società di comunità (famiglie o reti) di natura chiusa e principalmente
verticale, le quali ostacolano la circolazione della fiducia all’interno delle
regioni meridionali e di riflesso anche nel loro sistema economico. Anche i
dati annuali confermano questa teoria basata sulla radicalità della famiglia,
dovuta alla dipendenza dal percorso storico. Infatti, essi mostrano un andamento negli anni fortemente connesso, indice di un fenomeno strutturale, e
non congiunturale. È doveroso precisare come questi risultati, se pur oggettivamente importanti, rappresentino un semplice riscontro di un’indagine statistica; e necessitano quindi di successive conferme attraverso strumenti econometrici più accurati.
Dopo aver studiato il nesso tra disuguaglianza tra i fenomeni socio-economici e la fiducia, si conclude l’indagine ricercando i mutamenti e gli effetti sui fondamentali economici apportati dalla fiducia. Si arriva così a presentare la seconda importante conclusione, osservabile attraverso l’analisi del
contributo della fiducia alla crescita economica, rappresentata nei modelli di
Solow. Prendendo in considerazione la relazione tra fiducia, investimenti,
occupazione e produttività, si è rilevato un alto coefficiente di correlazione,
tra l’altro molto significativo, sintomo di come la fiducia abbia forti implicazioni sulla crescita economica. Nello specifico è necessario sottolineare la
robusta sovrapposizione tra la fiducia il tasso di occupazione e della produttività, con la quale si riesce a calcolare facilmente la sua relazione con il
PIL pro capite. Questo risultato, riscontrando un alto livello di sviluppo proprio all’interno delle regioni che presentano una fiducia elevata, si dimostra
come un primo passo molto importante per definire la produttività del capitale sociale. È ragionevole riflettere che il capitale sociale, attraverso la spinta
256
ROBERTO D’ANSELMO
al capitale fisico (investimenti e lavoro) e al capitale umano (innovazioni),
riesca a fare da volano alla crescita economica.
Anche se individualmente e nel breve periodo la fiducia può sembrare
un’azione non razionale, si è giunti a concludere che socialmente e nel lungo periodo essa genera effetti oggettivamente positivi. Si può quindi affermare che se sorretta e agevolata da politiche sociali mirate, la fiducia, e il
capitale sociale in generale, possono apportare il loro contributo allo sviluppo
sia sociale che economico.
Per quanto riguarda la questione del meridione, ad esempio, sarebbe
utile focalizzare gli sforzi sui pilastri sani della fiducia. Risulta necessario,
quindi, considerare delle politiche sociali rivolte all’associazionismo diffuso
(in particolar modo quello con strutture orizzontali e aperte alla società) e
le istituzioni (in particolar modo le banche, gli apparati politici e i mezzi
d’informazione).
Sotto l’ottica di tutta l’indagine, appare evidente la valutazione su quali
fattori fondare il cambiamento in atto. La fiducia risulta essere la risposta
alla questione della metamorfosi sistemica che si sta affrontando in questi
tempi di crisi.
LA FIDUCIA COME DIMENSIONE DEL CAPITALE SOCIALE
257
COMMERCIO EQUO E SOLIDALE
L’ASSOCIAZIONE SOTT’E’NCOPPA DI NAPOLI1
Valeria De Sortis
La nostra attenzione si soffermerà sull’Equobar, una realtà presente nella
provincia di Napoli solo da pochi anni ma che già si fa sentire con le sue
numerose iniziative in merito al commercio equo e solidale, la tutela dei
diritti fondamentali, lo sviluppo del commercio nei paesi più poveri del
mondo, e non solo. L’Equobar nasce nel 2008 grazie all’Associazione
Sott’e’ncoppa; tale associazione, nata nel novembre 1999, ha come obiettivo la promozione di uno spazio di aggregazione che rispondesse ai bisogni
più profondi, e che non si limitasse a semplici momenti di svago.
L’associazione decide subito di aderire al Commercio equo e solidale in
quanto riesce a ritrovare in quest’ultimo una possibile risposta all’esigenza
di recuperare una socialità fondata sul valore della solidarietà e della collaborazione nell’interesse comune. L’obiettivo dell’associazione è quello di
sensibilizzare la società alle problematiche sociali ed ambientali. Il suo slogan è “Vuoi cambiare il mondo? Comincia con un caffè!” ed è proprio il
28 marzo del 2008 che si concretizza tale slogan, con l’apertura dell’Equobar. La nascita del bar ha il preciso scopo di far compiere una scelta etica
e giusta; i prodotti equo e solidali offerti dal bar sono affiancati da una selezione di vini ed aperitivi scelti accuratamente tra produttori biologici, piccole realtà locali legate al territorio e al parco nazionale del Vesuvio.
È dal 1998 che l’associazione si occupa in vari modi del commercio
equo e solidale, ma l’idea dell’Equobar inizia a concretizzarsi nella mente
dei soci solo nel 2005. Rispetto ad una bottega del mondo il rapporto che
un bar riesce a creare con un cliente è diverso; esso infatti può essere meno
freddo e più concreto.
(...)
Nel nostro caso cercheremo di individuare quali sono i principali consumatori ai quali l’Equobar si rivolge. Esso mira a raggiungere una platea
1
La tesi di laurea La tutela dei diritti fondamentali attraverso il commercio equo e solidale è stata discussa all’Università degli Studi di Napoli Federico II, Facoltà di Economia, Corso
di laurea in Economia Aziendale, Cattedra di Istituzioni di diritto pubblico, anno accademico
2011/2012, relatore prof. Alberto Lucarelli. Si pubblicano qui ampi stralci del terzo capitolo e
le conclusioni.
258
VALERIA DE SORTIS
di consumatori più ampia di quella della Bottega del Mondo; avendo come
target di riferimento tutte le fasce di età dai più giovani ai più adulti. Infatti esso organizza non solo la colazione fatta interamente di prodotti equo e
solidali ma anche aperitivi, spuntini e addirittura cene.
Il rapporto che s’instaura con il cliente è diverso rispetto a quello della
bottega, un rapporto più diretto, che cerca di smuovere la coscienza. I consumatori sono sempre più consci delle conseguenze che hanno i loro acquisti, i loro consumi, sullo stile di vita dei produttori e lavoratori del sud del
mondo. La maggioranza dei consumatori oggi fa attenzione a quel che c’è
dietro l’etichetta dei prodotti, e include tra i criteri di consumo l’impatto che
i loro acquisti possono avere sulla vita dei produttori e sull’ambiente. Molte persone ritengono che si possa fare la differenza attraverso le proprie scelte
di consumo e hanno un’aspettativa molto alta rispetto alla responsabilità sociale delle aziende. Tra le tante persone che hanno già familiarità con i prodotti equo e solidali, si ritiene che tali prodotti possano essere uno strumento
per ridurre la povertà nei paesi in via di sviluppo. Infine il consumatore eticamente sensibile non si limita ad essere soggetto passivo, ma diventa a sua
volta promotore del sistema; ed è proprio a questi individui che l’Equobar
con le sue iniziative, i suoi prodotti e i suoi servizi vuole rivolgersi.
È stato rilevato che circa un terzo delle persone che fanno uso di prodotti equo e solidali, hanno conosciuto tali prodotti tramite la famiglia e gli
amici, gli italiani spiccano per il passaparola.
L’associazione è convinta che attraverso l’informazione passi la vera
essenza del commercio equo e solidale. L’obiettivo non è quello di convincere, ma quello di proporre un’alternativa all’attuale modello che distorce i
criteri per la scelta dei propri acquisti indirizzandoli verso valori effimeri e
status symbol.
L’Equobar, quindi, è una realtà più ampia rispetto ad una semplice bottega, perché cerca di muovere le coscienze dei consumatori in quelle che
sono le azioni quotidiane, la routine giornaliera, iniziando la giornata con un
semplice caffè, che può fare la differenza.
Come abbiamo già detto l’Equobar promuove il consumo critico. Il consumo critico è un comportamento che consiste nel comprare un prodotto sulla
base dell’impatto sociale e ambientale; significa non essere più consumatori
passivi abbagliati dalla pubblicità ma riappropriarsi della propria forza d’acquisto e consapevolezza.
Tra i prodotti offerti si può scegliere tra tè, caffè, cappuccino, cioccolata calda, infusi e non mancano dolci e plum cake fatti con prodotti del commercio equo o biologici.
I coffe break e gli aperitivi proposti da Sott’e’ncoppa garantiscono l’utilizzo di prodotti del commercio equo e solidale, di ingredienti biologici, di
produzioni di cooperative sociali e locali.
EQUOBAR E LA COOPERATIVA SOTT’E’NCOPPA DI NAPOLI
259
Un altro degli obiettivi fondamentali dell’associazione è l’informazione:
sulla storia del prodotto, in modo che non sia valutato in base al tradizionale binomio qualità/prezzo; sulla composizione del prezzo che si paga, per
garantire trasparenza per ognuno degli stadi che accompagna il prodotto dalla
produzione al consumo. Si cerca di fare in modo che l’acquisto del prodotto non sia solo uno scambio commerciale ma anche uno scambio culturale.
La cooperativa di catering Equo Bio Sott’e’ncoppa.
La cooperativa di catering Equo Bio Sott’e’ncoppa, è nata nell’aprile
2010, grazie al progetto “Mani in pasta: una cooperativa per lo sviluppo”,
presentato dall’associazione Sott’e’ncoppa.
Il progetto era finalizzato all’inserimento lavorativo e professionale di
donne disoccupate con difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro. Il nome
della cooperativa nasce proprio ispirandosi all’associazione in seno alla quale
è nata: Sott’e’ncoppa.
La Cooperativa offre una ristorazione interamente a base di prodotti biologici, equo e solidali, e a km zero, ossia regionali. In più riconoscendo l’acqua come un bene comune, che non può essere governato da logiche di
mercato, e ritenendo la bottiglia di PET un oggetto ad altissimo impatto
ambientale, nell’offerta del catering si troverà esclusivamente acqua di rubinetto proveniente dagli acquedotti, opportunamente microfiltrata.
Come già detto si serve di prodotti biologici; l’agricoltura biologica riduce drasticamente l’impiego di input esterni, escludendo fertilizzanti, pesticidi e medicinali chimici di sintesi. Al contrario utilizza la forza di leggi
naturali per aumentare le rese e le resistenze dei parassiti. Prodotti e processi presenti in natura sono quindi alla base dell’agricoltura biologica, generando così alimenti genuini, rispettando l’ambiente ed evitando ogni forma di inquinamento che possa derivare dall’attività di produzione. Tutte le
fasi dell’agricoltura biologica sono controllate da enti specifici autorizzati a
livello ministeriale.
Gli alimenti a km zero, sono prodotti locali che vengono venduti o somministrati nelle vicinanze del luogo di produzione. Si tratta di prodotti stagionali freschi e spesso biologici, quindi qualitativamente superiori; inoltre
il rapporto diretto tra consumatore e produttore permette di conoscere l’esatta
provenienza dei prodotti che mangiamo.
Questi prodotti hanno un prezzo contenuto, dovuto ai ridotti costi di trasporto e di distribuzione, all’assenza di intermediari commerciali e anche allo
scarso ricarico del commerciante che spesso è un agricoltore o un allevatore. Tali prodotti offrono garanzie di freschezza e genuinità proprio dovuti
all’assenza, o quasi, di trasporto e di passaggio. Con i prodotti a Km zero
260
VALERIA DE SORTIS
si evita di utilizzare gli imballaggi che causano un aumento del prezzo e
contribuiscono ad aumentare l’inquinamento.
Vengono utilizzati anche prodotti del commercio equo e solidale. I suo
scopo è promuovere la giustizia sociale ed economica.
L’offerta della cooperativa è molto vasta: organizza ricevimenti in occasione di cerimonie, colazioni di lavoro, banchetti, convegni, fiere, curando ogni aspetto nei minimi particolari, dal servizio in sala all’allestimento.
È possibile scegliere tra un’ampia gamma di menù personalizzabili.
Conclusioni
Nel presente lavoro si è inteso individuare come, grazie al commercio
equo e solidale, si sta promuovendo a livello globale una campagna di tutela dei diritti fondamentali.
La tematica del commercio equo e solidale ha suscitato in passato, e
suscita tutt’oggi, grande interesse per il modo in cui sta riuscendo ad espandersi e a trovare consensi tra la gente.
Affinché si possa affermare del tutto, esso ha bisogno di un sostegno
dai più alti vertici, dal governo, dalle forze politiche, deve diventare un elemento presente nel nostro quotidiano, e non deve più suscitare sorpresa in
coloro che lo ritrovano nei negozi, il commercio equo ha bisogno di diventare la nostra quotidianità.
Non si cambiano i rapporti di forza tra Nord e Sud del mondo, non si
migliora la vita degli esclusi, non si assicura un futuro sostenibile al pianeta, se non si avversano le forme e le regole dell’attuale globalizzazione, a
cominciare dalle istituzioni che la governano; bisogna mettere in discussione l’intero modo di produzione, quel modo che ormai domina il pianeta.
Il commercio equo e solidale deve convincersi di non essere un’isola,
non può vincere le sue battaglie in solitudine, mai come ora il suo mercato
si sta espandendo sempre più velocemente, e ciò fa nascere l’esigenza di
creare un tessuto di sostegno più forte grazie, magari, al sostegno delle forze politiche. Il mercato dell’equo dispone di un patrimonio di conoscenze,
relazioni, capacità di elaborazione e proposta molto forte, ma non ne ha la
consapevolezza. Il suo peso politico nell’ambito delle istituzioni è quasi inesistente; ciò è dovuto solo in parte a ragioni normative; al fondo si nasconde una forte debolezza dovuta principalmente ad una disattenzione prolungatasi fin troppo.
In questo scenario svolge un ruolo fondamentale la problematica della
sovranità nazionale, in particolare la regola secondo la quale per applicare
un diritto questi deve essere prima recepito dall’ordinamento dello Stato.
Se da un lato, grazie al processo di globalizzazione assistiamo ad una
EQUOBAR E LA COOPERATIVA SOTT’E’NCOPPA DI NAPOLI
261
sempre maggiore internazionalizzazione dei mercati, dall’altro la diffusione
dei diritti non sembra muoversi con la stessa velocità.
La lesione del valore della persona, dei diritti fondamentali avviene al
di fuori di qualsiasi possibile garanzia; ma noi tutti crediamo nello Stato,
nelle istituzioni pubbliche, confidiamo in una loro reazione al fenomeno,
crediamo nella garanzia politica espressa dai pubblici poteri, ma in fondo
siamo anche ben consapevoli del fatto che l’effettività dei diritti della persona non è mai garantita per sempre, ma è effetto di quotidiane e costose
lotte, come quella portata avanti dal commercio equo e solidale.
Ed è proprio la lotta per il diritto che accompagna la stessa vita dei diritti; la lotta per i diritti va sempre accompagnata al compito di stimolare le
nuove generazioni a studiare i problemi di amministrazione, e studiare i diritti fondamentali ad essi riconducibili.
Negli ultimi anni nel nostro mondo sta nascendo sempre più uno spirito di cooperazione piuttosto che di competitività, un mondo basato sull’affermazione dello spirito umano piuttosto che sul dubbio del proprio valore,
e sulla certezza che esista una connessione tra tutti gli individui.
262
FRANCESCO PEZZULLO
SALVIAMO CARDITELLO. IL FUND RAISING DELLE ASSOCIAZIONI DI PROMOZIONE CULTURALE
263
SALVIAMO CARDITELLO.
IL FUND RAISING DELLE ASSOCIAZIONI
DI PROMOZIONE CULTURALE1
Francesco Pezzullo
Le motivazioni che mi spinsero nel 2010 ad intraprendere un lavoro sulle
organizzazioni non profit dedite al patrimonio artistico italiano furono dettate da ragioni non solo legate all’espansione di un fenomeno registrata negli ultimi vent’anni, ma anche, ed in particolar modo, da logiche di natura
personale. Ed è su questo punto che, prima di entrare nel vivo del discorso,
voglio soffermarmi e scambiare le mie riflessioni in particolare con chi, nella
mia stessa posizione, si accinge ad affacciarsi sul mondo del lavoro dopo
anni di carriera accademica.
Sono ormai 5 anni che il sottoscritto dedica la sua attività in qualità di
volontario alla causa ormai trentennale dell’Istituto di studi atellani, una collaborazione rinsaldata attraverso l’attività formativa promossa dall’Università di Napoli Federico II.
Dedicarsi ad un’attività non profit come volontario, a prescindere dal
settore di riferimento, è un ottimo tirocinio. Per un giovane agli inizi, non
ancora consapevole di quali siano le dinamiche del mercato del lavoro e,
soprattutto quelle di relazione con gli altri luoghi di lavoro, un periodo come
volontario è stato e può rappresentare per tanti altri un’esperienza molto utile
per conoscere se stesso e verificare le proprie motivazioni al lavoro. Aggiungere al proprio curriculum un’esperienza come volontariato in una delle attività non profit può sicuramente ben figurare nelle selezioni fatte dalle aziende. Infatti le imprese scelgono nuovi dipendenti e collaboratori in base al
titolo di studio, ma come del resto avviene in molti campi, anche in virtù
dell’esperienza. E il volontariato offre possibilità illimitate da questo punto
di vista.
Il rapporto pubblicato anni fa Lavori scelti. Come creare occupazione
nel terzo settore2 promosso dalla casa editrice Lunaria, associazione impe1
La tesi Il fund raising delle associazioni di promozione socio-culturale.Dalle origini del
volontariato al progetto ‘Salviamo Carditello’ è stata discussa all’Università di Napoli Federico II, Facoltà di lettere e filosofia, Corso di laurea in Organizzazione e gestione del patrimonio culturale ed ambientale, Cattedra di Gestione dei processi delle imprese culturali ed ambientali, anno accademico 2009/2010, relatore prof. Francesco Bifulco.
2
Lunaria (a cura di), Lavori scelti. Come creare occupazione nel terzo settore, Torino,
1997.
264
FRANCESCO PEZZULLO
gnata nella diffusione della cultura non profit, con la collaborazione del Forum permanente del terzo settore, suggerisce che la prestazione di servizi
realizzati nel cosiddetto terzo settore costituisce per molti giovani un tirocinio in attesa di sbocchi occupazionali “maggiori”, e che l’attività gratuita o
semigratuita svolta in queste organizzazioni sviluppa competenze individuali che vanno a costruire una professionalità poi spendibile sul mercato.
Ritengo che quanto detto sia un aspetto importante anche perché ogni
impresa ed ogni utenza richiede una particolare specializzazione, che va
molto oltre il titolo di studio e che, corsi e tirocini “canonici” a parte, si
guadagna soltanto sul campo.
Il modesto intento di tale lavoro è stato in parte anche questo: cercare
di mostrare, attraverso la mediazione di vari contributi, quanto ciò sia reale
o per alcuni addirittura strano, specialmente in un mondo volto all’individualismo, se non addirittura all’egoismo.
Come già accennato, la scelta di trattare gli enti privati non profit dediti al settore artistico e culturale, ed in particolare le associazioni e le organizzazioni di volontariato, è stata motivata dalla vitalità e dal ricorso a
questo settore da parte della pubblica amministrazione ravvisandovi uno strumento più duttile, più snello e deburocratizzato per raggiungere determinati
obiettivi di natura socio-culturale.
Tale tendenza è dettata dalla crescente consapevolezza che il patrimonio culturale e monumentale italiano è troppo grande e complesso perché i
relativi costi possano essere tutti caricati sulle casse pubbliche, nazionali o
locali.
La crescita di risorse necessarie per consentire la fruizione della cultura
e la contrapposta riduzione delle disponibilità da parte della pubblica amministrazione impongono la necessità di costruire un nuovo approccio tra le
organizzazioni di volontariato e il resto del mercato, che non si limiti alla
leva della generosità per sollecitare la partecipazione e gli investimenti di
privati e imprese.
Su questa scia ben si inserisce il tema del mio lavoro: un elevato numero di enti non profit, tra le quali le più attive risultano essere le organizzazioni di volontariato (L. 266/91) e le associazioni di promozione socioculturale (L. 383/2000), prestano la loro opera per la salvaguardia e la promozione del patrimonio storico e artistico di cui, notoriamente, l’Italia è ricca3.
In realtà l’interessamento del cosiddetto terzo settore al campo prettamente culturale non rappresenta altro che un decisivo ampliamento degli
ambiti di attività, avviato in questi ultimi anni, che sigilla un lungo percor3
Fonte ISTAT, Istituzioni non profit in Italia. I risultati della prima rilevazione censuaria
anno 1999, Roma.
SALVIAMO CARDITELLO. IL FUND RAISING DELLE ASSOCIAZIONI DI PROMOZIONE CULTURALE
265
so evolutivo interno al settore non profit, quest’ultimo inteso come un contenitore di innumerevoli organizzazioni senza scopo di lucro.
Nella maggior parte dei paesi occidentali, ad essere presenti fin dai primi secoli dello scorso millennio erano quegli enti che operavano senza fine
di lucro nel settore dell’assistenza e della cura, accompagnando in tal modo
tutte le fasi di evoluzione dei moderni sistemi di welfare con cui oggi quotidianamente interagiscono.
Se il processo di crescita di queste forme organizzative si è concentrata
nel settore dell’assistenza e dei servizi sociosanitari, per l’evoluzione del
volontariato operante nei beni culturali bisogna aspettare la seconda metà del
Novecento per il raggiungimento del suo apice di sviluppo. In realtà tale
fenomeno pone le sue origini già nella seconda metà dell’Ottocento, parallelamente allo sviluppo del movimento associativo delle classi lavoratrici
scaturito delle profonde trasformazioni economiche e sociali derivanti dall’industrializzazione e dalla formazione dello Stato unitario4. La nascita delle prime Società di Mutuo Soccorso (S.M.S.) è stata considerata da Marcon
come il primo tentativo di azione sociale collettiva che ha avuto come obiettivo principale l’assistenza, la beneficenza e la mutualità. Queste associazioni
sarebbero diventate dei punti di riferimento oltre che luoghi di ritrovo, di
cultura, di istruzione e di formazione. Tra le principali attività per i soci:
“biblioteche circolanti o gabinetti di lettura”, scuole serali, elementari, di
disegno, d’arti e mestieri ed in cui si distribuivano libri e quaderni5.
Sul finire del XIX secolo nasce il Touring Club Italiano (1894), che fin
dalla sua costituzione si è avvalso dell’apporto e dei contributi dei suoi stessi
soci e viaggiatori per la redazione delle prime guide6. Tali pubblicazioni hanno reso possibile l’avvicinamento di molte persone a luoghi e realtà prima
sconosciuti.
L’avvento della Grande e Guerra e poi del fascismo segna un arresto
delle attività legate all’associazionismo, il nuovo regime toglie alle organizzazioni dei lavoratori le loro sedi politiche, sindacali e associative. Nel 1926
con le Leggi Speciali e la costituzione dell’Opera Nazionale Dopolavoro, la
struttura fascista assorbe tutte le forme di associazionismo.
Con il secondo dopoguerra, con la consapevolezza dei danni che la guerra ha portato al patrimonio storico-artistico e con l’urgenza della ricostruzione, uomini di lettere, archeologi, artisti, storici, critici d’arte, urbanisti, si
4
Maria Guida, Benedetta Nervi, Per una storia del volontariato culturale in Italia, in Volontariato e patrimonio culturale: strategie ed esperienze, a cura di Martina De Luca e Valentina Galloni. Imola, La Mandragora, p. 10.
5
Giulio Marcon, Le utopie del ben fare. Percorsi della solidarietà: dal mutualismo al terzo
settore ai movimenti. Napoli, 2004, p. 15.
6
L’associazione è stata fondata l’8 novembre 1894 da Federico Johnson e Luigi Bertarelli; cfr. www.touring.it.
266
FRANCESCO PEZZULLO
uniscono a difesa del nostro patrimonio. Con queste finalità l’associazione
Italianostra nacque a Roma (1955) per iniziativa di un gruppo di persone
che si oppose all’ennesimo sventramento del centro storico tra quelli previsti nel ventennio tra le due guerre7. Oggi conta più di duecento sedi su tutto il territorio nazionale8.
Anche l’ARCI, Associazione Ricreativa Culturale Italiana (1957)9, già nel
1960, sul fronte culturale, comincia a sviluppare un interesse per le tematiche legate al cinema ed istituisce una sua cineteca, promuovendo iniziative
tese soprattutto al superamento delle divisioni fra cultura “alta” e “popolare”: “l’Associazione affonda le sue radici nella storia del mutualismo e del
solidarismo, è un soggetto attivo e integrante del sistema di terzo settore italiano e internazionale, che si configura come rete integrata di persone, valori e luoghi di cittadinanza attiva che promuove cultura, socialità e solidarietà”10.
Dopo una lenta ripresa negli anni 50’, il decennio successivo può essere segnalato simbolicamente come l’inizio del volontariato organizzato dei
beni culturali, in corrispondenza della grande mobilitazione di civili accorsi
in aiuto delle opere d’arte messe in grave pericolo dall’alluvione del fiume
Arno a Firenze nel 196611.
Fu in quell’occasione che intervenne anche il primo nucleo dei—Gruppi Archeologici d’Italia (1965), nati dal GAR, Gruppo Archeologico Romano (1963), un’organizzazione di volontariato nata con lo scopo di contribuire, attraverso la partecipazione diretta dei cittadini, alla tutela, salvaguardia,
valorizzazione del patrimonio culturale italiano, divenuta negli anni una delle
associazioni nazionali di volontariato più importanti12.
Sul finire degli anni Sessanta inizia invece la lotta dell’Istituto italiano
dei Castelli, tesa a preservare e a diffondere la conoscenza, la salvaguardia
e la valorizzazione (o meglio la “rivitalizzazione”) dell’architettura fortificata13.
7
Italianostra è un’associazione di promozione sociale a carattere nazionale che si occupa
della tutela del patrimonio storico, artistico e naturale italiano. Fu costituita il 29 ottobre 1955
da Umberto Zanotti Bianco, Pietro Paolo Trompeo, Giorgio Bassani, Desideria Pasolini dall’Onda, Elena Croce, Luigi Magnani e Hubert Howard, cfr. www.italianostra.org.
8
www.italianostra.org
9
L’ARCI nasce come organizzazione nazionale per riunire i circoli, le Case del Popolo e
le società di mutuo soccorso condividendone i valori democratici ed antifascisti.
10
www.arci.it.
11
Un intervento da segnalare al riguardo è a cura di Maria Pia Bertolucci, Lo stato dell’arte: il volontariato dei beni culturali in Toscana, in Volontariato e cultura come sviluppo
locale, atti del seminario di studio 24/25 ottobre 2008, Museo del Tessuto, Prato. Firenze, CESVOT; pp. 43-46.
12
www.gruppoarcheologico.it.
13
Voluta da Pietro Gazzola, nel 1991 ha ottenuto il riconoscimento dal Ministero dei Beni
culturali; cfr. www.castit.it.
SALVIAMO CARDITELLO. IL FUND RAISING DELLE ASSOCIAZIONI DI PROMOZIONE CULTURALE
267
Negli anni Settanta, forse anche per reazione al fenomeno degli scavi
archeologici illeciti ed al dilagare dell’abusivismo edilizio14, nascono molte
altre associazioni che prestano la loro opera per la tutela del patrimonio archeologico italiano, come l’associazione Archeoclub d’Italia (1971), che ha
gradualmente esteso il suo interesse a tutti i beni culturali promuovendone
la conoscenza, la tutela e la valorizzazione15.
Il 1975 è l’anno del FAI, Fondo Ambiente Italiano, nata da un’idea di
Elena Croce, figlia del filosofo Benedetto Croce, che gestisce oltre 2000 beni
fra castelli, ville, parchi storici, aree naturali e tratti costieri16.
Un altro evento da segnalare è la nascita dell’Associazione dimore storiche (1977) che si propone la conservazione, in particolare degli edifici e
giardini storici, preservandoli dal degrado e dalla distruzione17.
L’oramai acquisita cultura della conservazione, la consapevolezza condivisa della ricchezza del patrimonio storico e artistico del nostro Paese hanno
fatto sì che dagli anni Ottanta in poi il volontariato culturale assumesse proporzioni sempre maggiori, coinvolgendo fasce più ampie della cittadinanza.
Sono gli anni in cui si comincia ad osservare e studiare questo volontariato che inizialmente non ha trovato facile attenzione e ascolto nelle istituzioni, in quanto era considerato “atipico” rispetto a quello “sociale”, così
come ha dovuto far acquisire a una vasta opinione il concetto che anche il
bisogno di cultura è un’esigenza da soddisfare. Un importante contributo in
tal senso è stato dato dal Centro Nazionale per il Volontariato di Lucca che
fin dal 1988 si è fatto promotore di questo volontariato con varie iniziative
e attività di ricerca.18.
Dal 1987, sorta per agire in un contesto locale (Viterbo), l’associazione
Civita ha ampliato nel corso degli anni i propri spazi di intervento grazie
ad un inedito modello di sviluppo economico e sociale, riuscendo a coinvolgere in questa sfida molte imprese19.
14
Maria Guida, Benedetta Nervi, Per una storia..., cit., p. 12.
Archeoclub d’Italia è un’associazione culturale che nasce come centro di documentazione
archeologica; con Decreto del presidente della repubblica del 24 luglio 1986 n. 565 Archeoclub d’ Italia è divenuto ente morale; cfr. www.archeoclubitalia.org
16
L’associazione nasce dal precedente illustre del National Trust inglese, fondato nel 1895.
L’atto costitutivo e lo statuto del FAI furono firmati il 18 aprile 1975 da Giulia Maria Mozzoni Crespi, Renato Bazzoni, Alberto Predieri e Franco Russoli; cfr. www.fondoambiente.it
17
L’associazione, nata da un gruppo di persone, non ha scopi di lucro e si propone di
agevolare la conservazione, la valorizzazione e la gestione delle dimore storiche, contribuendo
in tal modo alla tutela di un patrimonio culturale, la cui conservazione e conoscenza sono di
interesse pubblico; cfr. www.adsi.it.
18
Cfr. Mariella Zoppi, Volontariato e beni culturali, in I Quaderni, n. 13. Firenze. CESVOT, 2001, e i Convegni del 1982, 1984 e 1986.
19
L’associazione Civita nasce da un’intuizione di Gianfranco Imperatori, recentemente
scomparso, per far fronte al degrado di Civita di Bagnoregio, antico borgo dell’Alto Lazio. Oggi
il Gruppo Civita è costituito da due diverse realtà, ognuna delle quali possiede una propria specializzazione e funzionalità operativa: l’ Associazione Civita e Civita Servizi; cfr. www.civita.it
15
268
FRANCESCO PEZZULLO
Anche associazioni come il WWF (1966)20 o Legambiente (1980)21, che
si occupano principalmente di tematiche legate alla difesa della natura e dell’ambiente, sono scese in campo con i propri volontari con interventi più
specificatamente legati ai beni culturali.
Negli ultimi vent’anni, grazie anche alla prima legislazione specifica del
settore che ha avuto il merito di trasformare il volontariato da fenomeno
spontaneo ad attività regolamentata con pieno riconoscimento da parte delle
Istituzioni (la già citata Legge n. 266/1991), si è assistito ad una proliferazione delle associazioni di volontariato che hanno messo a disposizione il
loro operato per i beni culturali, come l’AUSER (1989), che promuove la
partecipazione attiva delle persone anziane favorendo il loro coinvolgimento nella vita e nei servizi della comunità locale, nella tutela, valorizzazione
ed estensione dei beni comuni culturali e ambientali22, o il M.O.D.A.V.I
(1995), che promuove il valore della cittadinanza attiva e partecipativa tramite l’azione volontaria mirata alle aree di disagio23.
Un ulteriore indice della crescita del settore del volontariato culturale
negli ultimi anni è il progressivo specializzarsi in alcuni settori da parte delle
associazioni. Per quel che riguarda l’ambito museale, la FIDAM, Federazione Italiana Associazioni Amici dei Musei (1975), svolge un importante ruolo di raccordo e coordinamento tra tutte le Associazioni “Amici dei Musei”,
sorte e sviluppatesi spontaneamente nei musei, grandi e piccoli, del nostro
Paese, e strettamente legate ad essi24.
20
Il WWF, World Wide Fund for Nature, nato in Svizzera nel 1961, è la più grande organizzazione mondiale per la conservazione della natura. In Italia è nato nel 1966, è strutturato
con uno staff centrale a Roma e 19 sezioni regionali che supportano il programma eco regionale; cfr. www.wwf.it.
21
Legambiente è un’associazione completamente apartitica, aperta ai cittadini di tutte le
convinzioni politiche e religiose e si finanzia grazie ai contributi volontari di soci e sostenitori.
È riconosciuta dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare come associazione d’interesse ambientale; fa parte del Bureau Européen de l’Environnement, l’organismo
che raccoglie tutte le principali associazioni ambientaliste europee, e della Lucn (The World
Conservation Union); cfr. www.legambiente.it.
22
L’Auser è un’associazione di volontariato e di promozione sociale, impegnata a promuovere l’invecchiamento attivo degli anziani e a far crescere il loro ruolo nella società. Nata nel
1989 per iniziativa della Cgil e del Sindacato dei pensionati Spi-Cgil, si propone di contrastare
ogni forma di esclusione sociale, migliorare la qualità della vita, diffondere la cultura e la pratica della solidarietà perché ogni età abbia un valore e ogni persona un suo progetto di vita attraverso cui diventare una risorsa per sé e per gli altri; cfr. www.auser.it.
23
La promozione sociale di un volontariato attivo che miri, attraverso la rimozione delle
cause del disagio, al raggiungimento di un nuovo modello di società è una delle finalità che si
propone questa organizzazione, associazione di promozione sociale diffusa su tutto il territorio
nazionale, attraverso la sua azione diretta e indiretta, intendendo favorire la spontanea aggregazione e la crescita del ruolo educativo, sociale e politico del volontariato e della promozione
sociale; cfr. www.modavi.it.
24
La FIDAM si è costituita a Firenze, dove ancora oggi ha sede, ed è membro attivo del
Consiglio della Federazione Mondiale degli Amici dei Musei (WFFM). Organo ufficiale della
SALVIAMO CARDITELLO. IL FUND RAISING DELLE ASSOCIAZIONI DI PROMOZIONE CULTURALE
269
Dopo aver ripercorso le tappe fondamentali che hanno segnato il fenomeno dell’associazionismo dedito all’arte e alla cultura, l’idea di studiare e
analizzare le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione
sociale impegnate nella difesa dell’arte e della cultura del nostro paese si rivela tanto più affascinante quanto ardua ed insolita.
Il primo elemento di complessità è stata la scelta del punto di vista da
cui osservare e analizzare questa realtà. L’ostacolo più grande sta nella vastità dell’oggetto d’indagine, avvertendo in tal modo la necessità di definire
non solo la prospettiva da cui guardare il tema, ma anche di delimitare i
confini del settore di riferimento.
Con il presente lavoro nel tentativo di studiare l’ambito del non profit
la scelta è ricaduta sulla funzione del fund raising, ovvero la capacità di
un’organizzazione, sottoposta al divieto della distribuzione degli utili, di reperire fonti di sostegno (economiche e non) utili per le proprie attività, riducendo così la tradizionale dipendenza da un unico finanziatore, quello statale, di fatto sempre meno disponibile.
Tale prospettiva comporta anche per un’associazione di volontariato
un’apertura alla comunicazione e al marketing che predilige considerazioni
tipiche del settore profit: il riconoscimento della centralità della domanda,
l’importanza della collaborazione tra i diversi soggetti (sia pubblici che privati) nel disporre l’offerta, ecc... In sostanza tale lavoro vuole dimostrare
come l’adozione di un aggiornato set di tecniche di fund raising permette
inoltre di raggiungere un pubblico più vasto e diffondere una maggiore conoscenza e consapevolezza del settore culturale.
Volendo inquadrare il concetto di fund raising, tra i contributi di maggior rilievo si annovera quello offerto da Valerio Melandri che lo identifica
come “il complesso di attività che l’organizzazione non profit mette in atto
per la creazione di rapporti d’interesse fra chi chiede risorse economiche,
materiali e umane in coerenza con lo scopo statutario e chi è potenzialmente
disponibile a donarle”25. Appare chiaro che, in seno alla funzione di raccolta fondi, s’impernia un sistema di relazioni costituito da una varietà di attori ai quali una organizzazione non profit si interfaccia per chiedere risorse
utili alla propria mission statutaria. Attorno ad ogni fonte di finanziamento
e ai conseguenti flussi finanziari e non, si costituiscono dei veri e propri
“mercati” (caratterizzati da domanda, offerta, scambi, concorrenza, ecc.) dove
operano soggetti finanziatori dotati di caratteristiche peculiari26.
Federazione è la rivista “Amici dei Musei”, trimestrale a diffusione nazionale, su temi storico
artistici e di gestione del patrimonio culturale del Paese.
25
Valerio Melandri, Il problema della rappresentanza del Non Profit in Italia: una classificazione economico-aziendale, Working Paper n. 22. Università di Bologna, 2005, p.509-510.
26
Valerio Melandri, Fund raising per le organizzazioni non profit. Milano, Il Sole 24 ore,
2000, p. 99.
270
FRANCESCO PEZZULLO
Ogni strategia di fund raising dovrebbe essere saldamente basata proprio su un’analisi preventiva dei soggetti o delle categorie di soggetti ai quali
ci si intende rivolgere e degli aspetti di mercato che caratterizzano il tipo
di finanziamento che ci si accinge a richiedere.
Di seguito saranno illustrati i principali strumenti di comunicazione ai
quali un ente non profit può e dovrebbe far ricorso per raggiungere la sua fetta
di mercato, indicando le principali problematiche che vengono toccate quando si decide di intraprendere azioni di fund raising diverse dalla normale raccolta delle quote associative o dal ricorso a finanziamenti statali o a pochi
singoli donatori. Tecniche che, come ribadisce l’opera di Elisabetta Gazzola,
devono tenere sempre presente che i donatori, a differenza di quanto accade
con le tasse, compiono un atto volontario quando donano e lo compiono solo
se sono convinti della bontà della causa che richiede il loro contributo:
“la volontarietà del contributo è l’aspetto più rilevante di questa attività. I donatori non acquistano un oggetto ma contribuiscono a una causa.
Causa che pertanto non va venduta ma spiegata nel modo migliore, più in
sintonia con il pensiero e il modo di comportarsi dei possibili donatori 27”.
Valerio Melandri riconduce i mercati italiani del fund raising a quattro
grandi categorie:
Mercato delle persone,
Mercato delle imprese,
Mercato delle fondazioni bancarie,
Mercato degli enti pubblici28.
Quelli appena citati non sono gli unici mercati esistenti per le Onp (Organizzazioni non profit). Ad esempio, esiste anche il mercato delle attività di
tipo commerciale (vendita di beni e servizi) per quegli enti che sono organizzati e operano in modo simile alle imprese commerciali (es. le imprese sociali).
Tuttavia, facendo riferimento alle organizzazioni di volontariato e alle associazioni di promozione sociale le quali, viceversa, esercitano una funzione meramente redistributiva nel senso che erogano gratuitamente o a costi ridotti
servizi, finanziandosi con donazioni e trasferimenti da parte pubblica e privata,
si può dire che i mercati sopra elencati rappresentano le principali fonti dove
questi enti possono attualmente operare con strategie di fund raising.
Nei prossimi paragrafi si constaterà che ogni mercato del fund raising
ha i suoi strumenti caratteristici di richiesta fondi. Il fund raising verso soggetti pubblici è spesso legato alla promozione di servizi. Il mercato delle
imprese ha un suo peculiare strumento nella sponsorizzazione. Il mercato
delle donazioni individuali è invece caratterizzato da una molteplicità di stru27
Elisabetta Gazzola (a cura di), La Raccolta fondi per le Organizzazioni di Volontariato.
Idee, suggerimenti e strumenti,supplemento al n. 2/2005 di Pagine del Volontariato Cremonese; http://www.carboni.eu/carboni_pdf/fund-raising.pdf p. 8, (data cons. 15/09/10).
28
Valerio Melandri, Il problema..., cit. p.99.
SALVIAMO CARDITELLO. IL FUND RAISING DELLE ASSOCIAZIONI DI PROMOZIONE CULTURALE
271
menti di raccolta fondi che vanno dalla tradizionale attività di invio lettere
(mailing) alla progettazione di eventi o manifestazioni a scopo di beneficenza.
Gli strumenti per operare in questo ultimo mercato si rinnovano con grande
rapidità, anche perché l’uso di modalità inedite e originali di richiesta fondi
e di scambio con i donatori può rappresentare un vantaggio sul piano della
competizione con altre iniziative.
In questa sede mi concentrerò sugli strumenti del mercato delle persone e delle imprese visto che costituiscono i finanziatori più suscettibili ad
una crescita significativa nel tempo.
Il mercato delle persone: negli ultimi decenni, si è affermata una cultura diffusa della donazione (soprattutto se “stimolata”), che spinge sempre più
persone a sostenere le attività delle organizzazioni non profit, in particolar
modo dedite all’ambito umanitario e sociale. Questo modello di fund raising,
che alcuni autori hanno chiamato mass giving29, è caratterizzato anche dal
fatto che i cittadini sostengono, non più le sole cause legate al proprio campanile o ai problemi che li investono direttamente, ma anche quelle riguardanti contesti sociali e ambiti territoriali molto distanti30.
Potrebbe sembrare che il cittadino comune che compie l’atto individuale di donare per un’associazione, è un soggetto facile da prendere in esame.
Tuttavia si deve tenere conto di un certo tasso di complessità d’analisi riguardante tale mercato, dal momento che, come afferma Ambrogetti, trattandosi di piccole e medie donazioni, un’Onp deve essere in grado, per conseguire risultati economici positivi, di raggiungerne una quantità significativa,
individuando le fasce e i segmenti di popolazione particolarmente disponibili a donare per la causa31. Ed individuare i propri pubblici significa conoscere bene la popolazione di riferimento per l’attività in primo luogo comunicativa, e poi di fund raising.
Diversi sono gli approcci alla questione dell’identificazione di un target
di individui a cui un’organizzazione può rivolgersi per raccogliere fondi.
Al riguardo, nel contesto specifico di Odv (Organizzazioni di volontariato) e Aps (Associazioni di promozione sociale) attive nei confronti del patrimonio culturale italiano, è utile richiamare la suddivisione teorizzata da Antonio Foglio, ovvero la distinzione dei pubblici di riferimento in due macrocategorie che rispondono a due diverse tipologie di domanda: quella di massa
e quella elitaria32. Il pubblico della domanda elitaria dipende da “aspetti sociologici, culturali, ed economici che ci evidenziano la presenza di una do29
Francesco Ambrogetti, Massimo Coen Cagli, Raffaella Milano, Manuale di fund raising.
La raccolta fondi per le organizzazioni di volontariato, Roma, 2005, p. 147.
30
Francesco Ambrogetti, Massimo Coen Cagli, Raffaella Milano, Manuale di..., cit. p. 149.
31
Francesco Ambrogetti, Massimo Coen Cagli, Raffaella Milano, Manuale di..., cit. p. 150.
32
Antonio Foglio, Il marketing dell’arte. Strategia di marketing per artisti, musei, gallerie, case d’asta, show art, Milano, 2005, p.105.
272
FRANCESCO PEZZULLO
manda specialistica [...] con un alto livello culturale, per cui richiede un’offerta artistica diversa, mirata al loro specifico interesse; certe offerte artistiche (prodotti artistici tangibili, teatro, concerti, danza, ecc.) molto spesso
vengono indirizzati ad un segmento target di non vaste proporzioni”33.
Invece il pubblico della domanda di massa è “la gente comune, le persone che s’incontrano ogni giorno nelle strade per le quali tanti prodotti/
servizi artistici sono in grado di soddisfarli”34.
Nei dettagli, il pubblico di riferimento può essere suddiviso ulteriormente, secondo l’analisi di Foglio, in utenti abituali, occasionali, potenziali, comunità locale (ovvero i singoli utenti che fanno parte di un territorio, e quindi di una comunità locale che li caratterizza culturalmente) e l’opinione pubblica (in generale l’offerta artistica è valida e completa se soddisfa tutta l’opinione pubblica)35.
Come si può intuire l’offerta di arte e cultura proposta da associazioni
non profit, ma in generale da qualsiasi ente culturale, attira diversi tipi di
fruitori, ognuno con diversi interessi e differenti propensioni al dono, rendendo ancora più critica la possibilità di soddisfare tutti i distinti target.
Ci sono poi altri approcci che privilegiano la considerazione della rete
di legami che va dalle persone presenti all’interno di un’organizzazione (dirigenti, volontari, ecc.) verso l’ambiente in cui essi operano (amici, familiari, colleghi di lavoro, abitanti dello stesso quartiere ecc.). Gli approcci di
questo tipo possono essere particolarmente fruttuosi per le organizzazioni di
volontariato, ma anche per le sezioni locali o delegazioni appartenenti ad
associazioni nazionali, in quanto si presentano per lo più come piccole organizzazioni fortemente radicate in un territorio e quindi dotate di molteplici legami con gruppi di individui ben definiti. Il progetto “Salviamo Carditello”, riportato a fine trattazione, scaturisce proprio dall’individuazione di
legami territoriali e culturali tra associazioni del luogo, attivando in tal modo
un comitato che si occupa dei problemi legati alla reggia borbonica.
Una metodologia vicina a questo approccio è il metodo LAI36, messo a
punto da Hank Rosso, che mira ad identificare i potenziali donatori in base
alle seguenti caratteristiche:37
– l’avere legami con l’organizzazione o con gli individui che in essa operano;
– la disponibilità di risorse finanziarie da donare;
33
Antono Foglio, Il marketing..., cit. p. 105.
Antonio Foglio, Il marketing..., cit. p. 105.
35
Antonio Foglio, Il marketing..., cit. p. 105.
36
Acronimo dei termini inglesi “Linkage”, “Ability”, “Interest”.
37
Hank Rosso, Achieving excellence in fundraising, Jossey Bass, 1991, San Francisco; Tradotto e riadattato in italiano nella seconda edizione H. Rosso, E.Tempel, Melandri Valerio, Il
libro del fundraising, Etas, 2004, Milano; cfr. Francesco Ambrogetti, Massimo Coen Cagli, Raffaella Milano, Manuale di..., cit. pp.148-149.
34
SALVIAMO CARDITELLO. IL FUND RAISING DELLE ASSOCIAZIONI DI PROMOZIONE CULTURALE
273
– l’interesse nei confronti dell’organizzazione e della sua buona causa.
L’analisi viene svolta attraverso due percorsi. Il primo prende avvio dalla
predisposizione di un elenco di soggetti che possono più o meno essere coinvolti nelle iniziative di fund raising, al fine di verificare l’esistenza delle tre
condizioni sopra citate e il possibile atteggiamento nei confronti della donazione. Questo lavoro può produrre categorie e liste di donatori suspect,
dei quali si sospetta una possibile risposta positiva, per poi passare alla verifica della risposta, trasformando i soggetti in donatori prospect. Coloro che
poi risponderanno alle richieste di denaro andranno a costituire una lista di
donatori effettivi.
Non vi è limite, ovviamente, nello stabilire altre variabili funzionali a
identificare target di donatori: alcuni studiosi, per esempio, suggeriscono una
segmentazione effettuata su una base di donatori già acquisita, nei confronti
della quale andrebbero svolte ricerche al fine di assumere informazioni circa gli aspetti considerati, di definire il profilo del donatore tipo di una organizzazione e di costruire su di esso ulteriori liste38.
In linea con la classificazione proposta da Valerio Melandri gli strumenti
a disposizione delle associazioni per raggiungere le persone vanno dai più
tradizionali quali, il mailing o telemarketing a forme più complesse come
le campagne di raccolta fondi, identificati in qualsiasi tipo di manifestazione come cene, eventi sportivi, maratone solidali, vendita di oggetti nella piazza di una città o come vedremo più avanti, un’apertura straordinaria di un
sito culturale. Analogo discorso per le campagne di tesseramento soci ovvero lo svolgimento di una particolare tipologia di raccolta che dietro al
pagamento della quota associativa, offre una serie di vantaggi specifici scaturendo un processo di fidelizzazione tra il donatore e l’ente. Esistono poi
mezzi innovativi come gli short message system: gli esempi più significativi di tale logica sono il sistema super messaggi solidali messo in campo da
Vodafone, o più recentemente dal FAI con l’iniziativa “Difendi l’Italia del
tuo cuore”. La raccolta fondi su Internet, che racchiude una molteplicità di
tecniche di fund raising ideali per contattare donatori molti dei quali irraggiungibili attraverso i canali tradizionali. Inoltre si ricordano le donazioni online con carta di credito, o eventi speciali cui legare la raccolta fondi come
le aste di beneficenza di Ebay; Il web inoltre garantisce forme di interattività tra l’associazione e l’utente principalmente grazie al sistema di direct
mail, social network, forum di discussione e newsletter39.
Il mercato delle imprese: sempre più le aziende utilizzano l’investimento
nel sociale come leva del marketing aziendale per ottenere ritorni in termi38
Francesco Ambrogetti, Massimo Coen Cagli, Raffaella Milano, Manuale di..., cit. pp.
150-151.
39
Valerio Melandri, Il problema..., cit. p.105.
274
FRANCESCO PEZZULLO
ni di immagine, visibilità e differenziazione rispetto ai competitors40. Tale
approccio trova attuazione nello strumento del Cause Related Marketing, una
relazione biunivoca che consiste nel destinare all’associazione parte del profitto derivato dalla vendita di un prodotto o servizio (esempio entrato nell’immaginario collettivo è il caso della Golia Bianca che sostiene la salvaguardia dell’Orso Polare promossa dal WWF). Altro strumento è la Sponsorship, una politica di co-branding dove il tasso di coinvolgimento dell’impresa, limitato nel tempo,consiste nell’erogazione di un contributo di tipo
finanziario o tecnico. Costituisce attualmente l’iniziativa più diffusa in Italia. Con la Partnership, entriamo in una modalità di interazione a lungo termine ove sussiste una condivisione di scopi e programmi, un interscambio
progettuale tra impresa e Onp che non si limita al contributo di tipo economico. La joint promotion, ovvero una collaborazione che vede l’azienda
impegnata non attraverso un contributo economico diretto, ma sensibilizzando
i propri stakeholder: è il caso del payroll giving, dove il dipendente di un’impresa ha la possibilità di donare il corrispondente in denaro del suo straordinario alla causa di un’associazione. La Corporate Membership sono programmi di affiliazione stabile dell’impresa con l’Onp di cui condivide la
mission, con la quale si crea una sorta di club di imprese amiche41. A tal
fine l’Onp si assicura una quota di entrate stabili e continuative nel tempo
(è il caso del Corporate Golden Donor del Fai, che rinnova annualmente il
loro sostegno). Il Coinvolgimento di manager dell’impresa negli organismi
gestionali dell’Onp, ovvero l’iniziativa di invitare personaggi di elevato calibro professionale all’interno del Consiglio di Amministrazione dell’Onp
affinché possano contribuire anche alla strategia di fund raising.
In base a quanto asserito, se risulta fondamentale poter ampliare e sviluppare il fund raising in questo settore, bisogna purtroppo constatare la diffusa difficoltà da parte delle ONP italiane di reperire risorse necessarie per
il funzionamento delle proprie attività. Tale deficit è dovuto all’estrema dipendenza da un’unica fonte di finanziamento la quale rappresenta un elevato rischio di crisi per un’organizzazione in virtù della minore sensibilità/possibilità del sistema politico, facendo emergere con forza l’esigenza di perseguire rapidamente la via della differenziazione delle risorse, utilizzando
canali in larga parte sottovalutati e utilizzati fino a oggi solo da una mino40
Osservatorio Impresa e Cultura, Impresa e arti visive. Dalla sponsorizzazione alla progettualità, Como-Pavia, 2004. Ibis, in Marianna Martinoni; Il caso italiano: mercati, attori e
prospettive del fundraising per la cultura in Italia, in Il fundaraising per la cultura, a cura di
Pier Luigi Sacco. Roma, 2006, pp.177-178.
41
Il primo esempio di corporate membership realizzato in Italia è stato quello di Intrapreasae Collezione Guggenheim, ideato nel 1992 da Bondardo Comunicazione per la Fondazione
Peggy Guggenheim di Venezia: si tratta di un rapporto di collaborazione continuativa tra un pool
di imprese e il museo veneziano, finalizzata a sostenere la gestione ordinaria dell’istituzione e
la realizzazione degli eventi espositivi.
SALVIAMO CARDITELLO. IL FUND RAISING DELLE ASSOCIAZIONI DI PROMOZIONE CULTURALE
275
ranza di organizzazioni. Inoltre, chi opera nell’ambito dei beni culturali, va
incontro a maggiori difficoltà ad acquisire donazioni perché, diversamente
dalle organizzazioni non profit “classiche”, svolgono attività che nell’immaginario collettivo tendono ad essere meno attrattivi e non così bisognose di
sostegno rispetto a chi si occupa di sconfiggere la povertà nel Sud del mondo
o di lottare contro malattie ad elevato impatto emotivo come il cancro o la
sclerosi multipla.
Dopo queste considerazioni, il caso empirico affrontato nel mio lavoro
“Salviamo Carditello tesoro d’Italia, patrimonio dell’umanità”, ha dimostrato con forza che sfruttando appieno le pur poche opportunità che un territorio offre, attivando modelli di coinvolgimento attraverso cui relazionarsi con
soggetti privati appartenenti a settori diversi, un ente non profit può raggiungere risultati in termini di visibilità, di reputazione istituzionale e soprattutto di crescita delle risorse in gioco.
L’iniziativa è stata promossa e coordinata dall’Associazione per i Siti
Reali e le Residenze Borboniche ONLUS, ovvero un’ONP napoletana, che,
a partire da due aperture straordinarie del sito borbonico tenutesi nel 2010,
ha avuto il merito di aver impostato tale evento come un importante appuntamento annuale. L’eccezionalità dell’ evento sta nell’aver impostato una strategia di fund raising (campagna di raccolta fondi) incardinata sull’attività di
sensibilizzazione di cittadini, associazioni, istituzioni ed imprese locali, con
l’obiettivo di riaccendere sulle problematiche del sito la giusta attenzione che
fin’ora è mancata e che è stata la principale causa dello stato di degrado e
abbandono in cui il complesso riversa.
L’approccio teorico-metodologico adottato intende revisionare gli aspetti peculiari dell’evento in modo da individuare, grazie anche all’ausilio di
strumenti di marketing (interviste e indagine spot attraverso somministrazione
di questionari ai partecipanti del progetto), i punti di forza e debolezza.
Per comprendere le ragioni che hanno portato alla condivisione dell’evento “Salviamo Carditello” ho ritenuto opportuno enunciare tutti quei
fattori storici, sociali, culturali, economici e soprattutto politico-istituzionali
che hanno segnato il destino di questo straordinario sito, reso tristemente noto
all’opinione pubblica come la “questione Carditello”.
La Real Tenuta di Carditello, ubicata nel comune di san Tammaro, rappresenta un gioiello dell’architettura neoclassica in Campania. Realizzata da
Francesco Collecini sotto la supervisione del maestro Luigi Vanvitelli e con
gli affreschi di Jacob Philipp Hackert, per più di un secolo ha rappresentato
non solo la residenza e tenuta di caccia dei sovrani borbonici, ma anche un
laboratorio innovativo per la produzione della mozzarella, l’allevamento di
cavalli, bufale, coltivazione di cereali, lino, organizzata secondo i moderni
sistemi agronomici del tempo, che prevedevano l’integrazione tra l’allevamento e agricoltura. Con la Reggia di Caserta, il Belvedere di San Leucio
276
FRANCESCO PEZZULLO
e gli altri 22 Siti Reali della corona borbonica, Carditello si inseriva in un
organico disegno di sviluppo dell’allora Regno delle due Sicilie. Negli ultimi anni, la cronaca relativa al sito è un susseguirsi di storie di degrado, abbandono e impegni mancati. In più, la maggior visibilità di altri attrattori
della Provincia di Caserta, la posizione periferica del sito non supportata da
un adeguato sistema segnaletico e logistico hanno aggravato una situazione
già di per sé preoccupante42.
Pertanto la mission dell’Associazione per i Siti Reali, coordinatore del
progetto Salviamo Carditello in collaborazione con il Consorzio Generale di
Bonifica del Bacino Inferiore del Volturno, proprietario del sito, ha costituito un momento “sperimentale” per avviare un intervento complessivo di rilancio della tenuta borbonica che si è tradotta in due linee di azione o obiettivi strategici: la prima linea d’azione è stata rivolta alle istituzioni pubbliche, ed in particolare al governatore Stefano Caldoro, affinché potesse essere garantita la pubblica fruizione del sito mediante l’acquisizione del monumento al patrimonio della Regione Campania, così come stabilito dalla legge finanziaria del 2007, n. I del 19 gennaio, art. 31. Attualmente, infatti, pur
essendo sottoposto a vincolo di tutela del MiBac, il complesso di Carditello, oltre ad essere chiuso al pubblico, nel 2011 il tribunale di Santa Maria
Capua Vetere ne ha disposto la vendita all’asta per effetto di titoli creditizi
vantati dal Sanpaolo-Banco di Napoli nei confronti del Consorzio Generale
di Bonifica. Al riguardo, come obiettivo operativo l’associazione per i Siti
Reali, all’indomani degli appuntamenti di giugno, ha indirizzato con formale lettera scritta un invito a tutte le istituzioni pubbliche a partecipare alle
due aperture straordinarie in modo tale da prendere visione dello stato dei
luoghi, e adottare quei provvedimenti necessari per la risoluzione del caso.
In questo modo è stato raggiunto un risultato sensibile in termini di attenzione istituzionale; infatti, pur riscontrando l’assenza degli enti invitati all’iniziativa, in una nota di risposta il presidente Caldoro ha ribadito l’intenzione di convocare un tavolo di confronto con tutte le forze interessate per
individuare le soluzioni di rilancio del sito. Decisivo è stato anche l’interesse
dei mezzi di comunicazione, ed in particolare della Rai la quale ha dedicato alla manifestazione un servizio del Tg regionale e un reportage nella trasmissione Rai Parlamento andato in onda il 7 agosto 2010.
Passando invece alla linea d’azione rivolta al mercato pubblico-privato,
ovvero rivolta sia ai cittadini che alle associazioni ed imprese, l’associazione per i Siti Reali ha promosso un progetto di valorizzazione e restauro che
si propone di tutelare il sito reale di Carditello attraverso due obiettivi operativi: un piano di restauro, previsto su 5 parti architettoniche della reggia
in forte stato di degrado (pulizia del pavimento, camini, panche nei vesti42
Materiale estratto dalla brochure dell’iniziativa.
SALVIAMO CARDITELLO. IL FUND RAISING DELLE ASSOCIAZIONI DI PROMOZIONE CULTURALE
277
boli della reggia, rampa di scale di accesso al piano nobile e il tempietto al
centro del galoppatoio della Reggia); la realizzazione di un ciclo integrato
di eventi ed attività culturali rivolte a tutte le fasce della popolazione. Alcune di queste sono state già avviate nei due appuntamenti di giugno e settembre, come le visite guidate all’interno della reggia, il laboratorio per bambini “Ricicliamo la Storia”, rievocazioni di costumi dell’epoca, presentazioni di libri, mostre, stand di associazioni, gare sportive come la pedalata ecologica organizzata dal WWF. In quest’ambito ha avuto vita il Festival dei
gusti reali, ossia l’allestimento di un padiglione funzionale ad ospitare gazebo per le aziende produttrici del territorio. In tal modo l’iniziativa si è
proposta di coinvolgere e valorizzare le imprese della filiera agro-alimentare nella salvaguardia del sito riportando la tenuta di Carditello alla sua antica vocazione di azienda agricola. Per sostenere operativamente il case statement del progetto, in concomitanza con tale evento è stata organizzata una
raccolta fondi allestita all’interno della reggia, uno strumento molto duttile
per eventi fondati sulla mobilitazione collettiva.
In base alla suddivisione dei mercati effettuata precedentemente, passiamo ora in rassegna tutti i soggetti attratti dall’iniziativa. Gli attori coinvolti
sono stati selezionati dopo un’analisi dei fabbisogni del territorio e del sito
borbonico svolta dall’Associazione per i Siti Reali ed effettuata tramite un
tavolo di confronto tra tutte le forze interessate istituito nel dicembre 2009.
Il reclutamento si è basato su tre linee guida:
coinvolgimento di realtà locali, a partire dalle istituzioni pubbliche, affinché Salviamo Carditello potesse rappresentare un progetto di comunità e
identità volto a recuperare il rapporto tra il sito e la popolazione locale;
coinvolgimento di soggetti appartenenti alla filiera agro-alimentare in
modo da ripristinare la vocazione “produttiva” della Reggia;
attivazione di legami con associazioni dotati di approcci maturi nei confronti della cultura, dell’arte e dell’ambiente. Per tali enti è stato necessario
fin dalla prima fase creare un network, tradotto nella fondazione del Comitato Salviamo Carditello.
La collaborazione attuata con tutti i soggetti elencati si è basata su una
partnership, che potremmo definire “tecnica”: concretamente, gli enti coinvolti hanno avuto un ruolo fin dalla fase di ideazione, organizzazione e promozione degli eventi del progetto, mettendo al servizio della nobile causa
le proprie competenze. Tale strategia, ritagliato sui profili di ogni partner, ha
permesso di offrire una vasta gamma di attività e servizi ai partecipanti dell’iniziativa. Per fare degli esempi, nei due appuntamenti di giugno e settembre funzionari del Consorzio di Bonifica, del Comune di San Tammaro e
della Protezione Civile hanno garantito l’apertura, la pulizia del sito e la sicurezza pubblica; i volontari di Siti reali ONLUS si sono occupati della rac-
278
FRANCESCO PEZZULLO
colta fondi, delle visite guidate e dei laboratori per bambini; la Seconda Università di Napoli con la presenza della professoressa Simonetta Conti ha curato un’esposizione d riproduzioni cartografiche sul sito borbonico; il Consorzio di Tutela della Mozzarella insieme alla associazione Cuochi Normanni
ha organizzato una mostra denominata “mozzarella e antichi mestieri” e varie
degustazioni di prodotti tipici della zona. Tale scelta ha comportato benefici
reciproci per le parti coinvolte: sul fronte delle aziende, facendo leva sulla
responsabilità sociale d’impresa, hanno avuto e avranno in futuro la possibilità di sfruttare questa occasione per rafforzare la propria immagine e reputazione, grazie anche agli stand di presentazione e promozione allestiti
all’interno del sito; per l’associazione promotrice, Siti Reali ONLUS tali
apporti si sono tradotti, in sede di redazione del budget economico dell’iniziativa, in costi figurativi, ovvero in tutte quelle risorse effettivamente impiegate ma non pagate e che dunque non sono valorizzate in bilancio, incidendo positivamente sul risultato economico della raccolta fondi.
Quanto al mercato delle persone, esso costituisce il target principale
dell’iniziativa da cui è dipeso l’obiettivo economico e sociale dell’attività di
fund raising. Per i due appuntamenti di giugno e settembre è stato attivato
un ampio ventaglio di strumenti di promozione e comunicazione coordinati
dall’ufficio stampa dell’Associazione Siti Reali, e rivolti sia ai pubblici esterni
che a quelli interni alle organizzazioni coinvolte. In primo luogo la comunicazione web sia delle agenzie e quotidiani online che del maggior social
network (facebook) in cui è presente da tempo un gruppo che oggi conta
1200 membri43; il sito internet dedicato a Carditello che nel periodo che va
dal 7 al 21 giugno 2010 ha registrato 2.288 visualizzazioni. Vanno citati i
passaggi televisivi dedicati alla manifestazione sia dall’emittente RAI con Rai
Parlamento e con la testata giornalistica regionale, che dall’emittente Teleprima. Infine i maggiori quotidiani della carta stampata sia nazionali come
la Repubblica, che locali come il Mattino e il Corriere del Mezzogiorno.
Questi in estrema sintesi i risultati comunicativi dell’evento, positivi anche
sul piano della sostenibilità economica, data dalla disponibilità degli operatori di comunicazione di fornire servizi a titolo gratuito o a costi ridotti.
Per quanto riguarda le donazioni, la manifestazione, ad ingresso libero,
ha previsto un’unica modalità operativa per sostenere economicamente la
raccolta fondi, ovvero l’erogazione di un contributo in denaro effettuabile
esclusivamente in loco, offrendo in cambio diversi benefits tangibili ed intangibili a seconda dell’importo versato. Per un’analisi della perfomance del
programma di fund raising, dal confronto con i dati delle presenze e dei fondi
raccolti registrati nei due appuntamenti si possono apprezzare variazioni significative: sul fronte della partecipazione si rileva un incremento pari a 340
43
https://www.facebook.com/reggiacarditello.
SALVIAMO CARDITELLO. IL FUND RAISING DELLE ASSOCIAZIONI DI PROMOZIONE CULTURALE
279
unità, mentre sul piano fondi raccolti l’importo è raddoppiato44. Risultati
dunque incoraggianti che decretano un’ottima risposta da parte del pubblico, considerando anche la fase sperimentale dell’iniziativa, priva ancora di
un piano di sviluppo ben definito; mentre come strategie di fund raising attivate, l’apertura straordinaria della Reggia di Carditello si è mostrata una
cornice strategica per impostare un piano di raccolta fondi, in quanto ha permesso ai donatori di constatare personalmente lo stato di degrado degli ambienti della reggia, appellandosi in questo modo alla sensibilità dei partecipanti per raggiungere l’obiettivo economico, oltre che sociale della manifestazione.
Per individuare i fattori che possono consolidare la strategia di raccolta
fondi attivata nel progetto, ho realizzato una ricerca di mercato di tipo quantitativo, ovvero un indagine spot o post-transazione realizzato in occasione
dell’apertura del 25-26 settembre. Nei due giorni ho somministrato ai partecipanti della manifestazione un questionario con domande a risposta multipla. In tal modo sono riuscito non solo ad identificare i punti critici più comuni nella perfomance della raccolta fondi, ma è stato possibile ricevere
dagli intervistati input per il miglioramento delle strategie di fund raising
messe in atto in Salviamo Carditello. Dai dati è emerso che ben il 62% del
campione analizzato avrebbe aumentato l’importo della donazione se fossero state messe a disposizione altre modalità di elargizione. Tra le modalità
più apprezzate si citano la vendita di oggetti con il 58% delle preferenze,
seguita dalle aste di beneficenza (18%) che superano le donazioni on-line
(14%) e la donazione per mezzo degli sms. Pertanto differenziare le modalità di raccolta fondi costituirebbe una scelta strategica per aumentare i contributi in occasione delle prossime aperture del sito.
Altro fattore di potenziamento rivelato dal sondaggio spot è il reclutamento di esperti in fund raising all’interno dello staff dei volontari di Salviamo Carditello. In realtà uno dei bisogni maggiormente percepiti dalle associazioni di volontariato insieme a quella della raccolta di risorse finanziarie riguarda il reclutamento di volontari in possesso di specifiche metodologie manageriali atte a gestire questa importante funzione. Per sopperire a
questo fabbisogno, l’attivazione di corsi universitari e master incentrati sulla gestione di organizzazioni non profit risulta essere una sfida capace di
sollecitare un impegno volontario tra gli studenti all’interno delle associazioni.
Per concludere, visto il largo consenso riscosso da Salviamo Carditello
sia da parte dei privati che da parte degli enti pubblici, ai promotori dell’iniziativa va il merito di essere riusciti a costruire non solo un’occasione
44
Dati in parte estratti dall’intervista al dott. Alessandro Manna, fondatore di Siti Reali e
Residenze Borboniche e riportata nella mia tesi, pp. 179-184.
280
FRANCESCO PEZZULLO
di raccolta fondi, ma un micro-piano di gestione del sito. In questo senso si
può pensare, che il Sito Reale di Carditello divenga un laboratorio sperimentale per politiche innovative di valorizzazione dei beni culturali, fondato sulla
larga condivisione delle forze locali, e che possa infondere nuove prospettive e soprattutto “speranze” ai tanti tesori artistici italiani, vittime come la
Reggia di Carditello, dell’incuria e dell’indifferenza della società.
Il 9 gennaio 2014 la Reggia di Carditello è stata acquistata dalla Sga,
società controllata dal Ministero dell’Economia, per l’importo di 11,5 milioni di euro, grazie all’impegno del Ministro dei Beni Culturali Massimo
Bray. Il Ministero dei Beni Culturali il 7 febbraio ha preso possesso della
Reggia ed ha stanziato 3 milioni di euro per i primi restauri (nota del curatore).
SALVIAMO CARDITELLO. IL FUND RAISING DELLE ASSOCIAZIONI DI PROMOZIONE CULTURALE
IV
TERZO SETTORE,
UNIVERSITÀ, FORMAZIONE E COMUNICAZIONE
281
282
ADELE MEDAGLIA
L’OFFERTA UNIVERSITARIA PER IL TERZO SETTORE
283
L’OFFERTA UNIVERSITARIA PER IL TERZO SETTORE
IN ITALIA E ALL’UNIVERSITÀ DELLA CALABRIA1
Adele Medaglia
Il presente lavoro si propone di indagare sul ruolo della formazione accademica nella preparazione alle professioni del Terzo Settore.
È indubbio che il Terzo Settore in questi ultimi dieci anni sia notevolmente
cresciuto, non senza ambiguità, ma da tempo ormai è diventato una realtà sociale,
economica e politica di estrema rilevanza. Quando, all’inizio degli anni ’80,
sociologi ed economisti hanno cominciato ad occuparsi del Terzo Settore, l’obiettivo era principalmente quello di capire come queste organizzazioni potevano
contribuire ad accrescere l’offerta di servizi sociali e a sviluppare la partecipazione dei cittadini verso la creazione o il potenziamento dell’offerta di servizi di
interesse collettivo, che la Pubblica Amministrazione o il settore privato riuscivano con difficoltà, o non riuscivano del tutto, a soddisfare2. Con il passare degli anni tuttavia, le funzioni del Terzo Settore si sono modificate: un numero
crescente di organizzazioni è passato dalle funzioni di tutela, promozione dei
diritti e sperimentazione alla produzione diretta, in forma stabile e organizzata,
di servizi alla persona e alla comunità. Non è questa la sede per indagare sui
motivi che hanno indotto questo cambiamento; ma questa evoluzione verso un
ruolo sempre più produttivo, ha modificato anche la natura e le caratteristiche di
molte organizzazioni di Terzo Settore, nonché la composizione dello stesso.
A queste nuove esigenze che il Terzo Settore ha sviluppato come ha risposto il sistema formativo italiano? Anche l’Università italiana ha subito
negli ultimi anni radicali innovazioni e cambiamenti, numerose riforme si
sono susseguite ed ancora oggi il “cantiere Università viene considerato un
gigantesco work in progress”.
L’offerta universitaria per il Terzo Settore
Gli esiti prodotti dal D.M. 509/1999 e successivamente dal D.M. 270/
2004 sono stati ben diversi da quelli potenziali previsti3: pensati allo scopo
1
La tesi Il ruolo della formazione accademica nella preparazione alle professioni del terzo
settore è stata discussa all’Università della Calabria, Corso di laurea in Discipline economiche e
sociali per lo sviluppo, la cooperazione e la pace, nell’anno accademico 2008/2009, relatore
prof. Michelangelo Misuraca. Si pubblicano qui stralci della Premessa, del Capitolo 4 e le Conclusioni.
2
Carlo Borzaga (1995), “Terzo Settore e occupazione: un’analisi critica del dibattito”, Università degli Studi di Trento.
3
Molte Università italiane si adegueranno alle modifiche introdotte nel 2007 dai decreti
Mussi, solo il prossimo anno accademico 2009/10; mentre, in quelle che già quest’anno 2008/
284
ADELE MEDAGLIA
di riorganizzare e razionalizzare l’offerta formativa, hanno portato, da un lato,
ad un aumento dei corsi di laurea, alcuni dei quali definiti sulla base di mode
effimere; dall’altro, si è constatato che non sono stati spesso ben definiti
obiettivi ed ambiti in fase di progettazione dei corsi stessi. Ciò è tanto più
vero per quei segmenti del mercato del lavoro di ancora difficile e confusa
definizione, come risulta essere il Terzo Settore italiano.
Dopo aver ripercorso le tappe principali della “Riforma Università”, e
dopo aver analizzato la struttura del Terzo Settore italiano ricavandone la
“carta d’identità”, si passa, in questo capitolo, ad un’analisi più dettagliata
della domanda e dell’offerta universitaria per il Terzo Settore.
Lo studio del Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario (CNVSU): evoluzioni del numero di iscritti.
“A oltre cinque anni dalla introduzione del nuovo ordinamento del sistema universitario, alla vigilia dell’attuazione prevista a partire dal 2008/
09 di un ulteriore riassetto dei contenuti e delle denominazioni delle nuove
classi di laurea, appare importante condurre una riflessione sul primo periodo di realizzazione della riforma per disporre di elementi utili ad indirizzare al meglio le scelte future”.
È questo il preambolo di un notevole studio “Definizione di criteri per
la classificazione e la valutazione delle caratteristiche dell’ offerta formativa universitaria, condotto dal CNVSU e pubblicato nell’aprile del 2007.
Questo studio punta l’attenzione su due aspetti specifici: da un lato, costruisce una mappa dell’offerta formativa universitaria basata sulle competenze
fornite e sugli sbocchi professionali previsti dalle Facoltà per i propri laureati, dall’altro, effettua anche una valutazione della nuova organizzazione del
sistema universitario evidenziando le principali caratteristiche dell’offerta e
della domanda formativa.
Sostanzialmente, il rapporto è strutturato in due parti. Nella Parte I sono
contenute informazioni sugli esiti della riforma universitaria4, illustra la struttura dell’offerta didattica per tipologia di corsi, la copertura rispetto alle classi
di laurea e le caratteristiche qualitative degli studenti immatricolati e iscritti. Successivamente, sono proposte due tipologie di approcci, uno di tipo
“esplorativo” e l’altro di tipo “modellistico”, per la valutazione delle performance dei vari corsi di laurea. La parte II, invece, è centrata sull’analisi dei
testi. Dopo aver introdotto le caratteristiche delle porzioni della scheda di pre09 hanno recepito la nuova normativa, essi sono ancora di troppa recente attuazione perché sia
possibile valutarne la portata correttiva.
4
Nel rapporto, quando si parla di “riforma universitaria”, ci si riferisce alle modifiche apportate alle vecchia architettura degli studi dal D.M. 509/1999.
L’OFFERTA UNIVERSITARIA PER IL TERZO SETTORE
285
sentazione dei corsi di laurea che sono state esaminate, si passa all’offerta
del sistema universitario verso chi decide di seguire un determinato percorso formativo, prioritariamente in chiave di competenze che l’individuo dovrà avere per ottenere un determinato titolo di studio. È valutata anche l’aderenza delle schede dei corsi attivati rispetto ai contenuti indicati nella scheda predisposta dal Miur per classe di laurea. In fine, è proposta la lettura
della sezione sui possibili sbocchi occupazionali previsti per i laureati che
hanno acquisito le competenze previste in quel corso.
Ci si è soffermati sopra, nella descrizione degli obiettivi e dell’articolazione di questo studio, perché è proprio a partire dai risultati di questo rapporto che si basa tutta l’analisi alle pagine successive.
Nella metodologia usata per la scelta dei singoli corsi di laurea appartenenti ad una classe, ruolo fondamentale ha avuto la scheda di accompagnamento ad ogni classe di laurea, che va sotto l’etichetta di “Obiettivi formativi qualificanti”. In essa viene descritto cosa si deve ritenere sappia (fare)
un laureato della classe, nonché gli ambiti in cui si prevede possa trovare
una collocazione lavorativa adeguata. Lo stesso schema viene ad essere ripreso nelle declaratorie che le Facoltà predispongono per descrivere i propri corsi di laurea, in queste schede però, i due punti principali sono separati e sono presentati come “Obiettivi formativi specifici” e “Ambiti occupazionali previsti per i laureati”.
Nel nostro caso specifico, ponendoci come obiettivo l’analisi dell’offerta formativa per il Terzo Settore è stata necessaria una scrematura dei dati
a disposizione. La selezione delle classi di laurea è stata cosi effettuata: a
partire dalle parole chiave contenute nelle schede ministeriali e riassunte sistematicamente nel rapporto del CNVSU si sono individuate quelle classi di
laurea che a nostro parere offrono sbocchi professionali nel mondo del Terzo Settore (Precisamente si sono scelte le classi: 6 “scienze del servizio sociale”; 15 “scienze politiche e delle relazioni internazionali”; 18 “scienze
dell’educazione e della formazione”; 28 “scienze economiche” e 35 “scienze sociali per la cooperazione, lo sviluppo e la pace” per quanto concerne i
corsi triennali, e 57/S “programmazione e gestione delle politiche e dei servizi sociali”; 60/S “relazioni internazionali”; 70/S “scienze della politica” e
88/S “scienze per la cooperazione allo sviluppo” per quanto riguarda i corsi
specialistici). Successivamente, dalla banca dati dell’offerta formativa del
MIUR (www.offf.miur.it) si sono prese le declaratorie di tutti i corsi di laurea afferenti alle classi scelte prima e si è verificato se nel testo erano presenti le parole chiave individuate nelle schede ministeriali. I corsi che rispondevano alle caratteristiche richieste sono stati conteggiati ai fini delle elaborazioni successive, gli altri sono stati esclusi.
Nel rapporto tecnico oltre ai risultati prodotti dall’analisi condotta sulla
documentazione testuale dei corsi di laurea riformati, non si prescinde da una
286
ADELE MEDAGLIA
analisi più squisitamente quantitativa e descrittiva dell’andamento e delle
caratteristiche delle principali grandezze che connotano il funzionamento e
l’esito del processo formativo universitario, soprattutto con riferimento alle
scelte e ai comportamenti degli utenti – gli studenti – della formazione.
Nello studio citato, l’attenzione si è focalizzata solo sui primi cinque anni
di attuazione della riforma, dal 2001/02 al 2005/06 (va ricordato infatti che
questo lavoro è stato pubblicato nell’aprile del 2007); si è quindi proceduto
in questa sede, utilizzando la stessa fonte, ad aggiornare i dati relativamente agli anni 2006/07 e 2007/08.
A seguire viene riportata la tabella che mostra l’evoluzione del numero
di iscritti, nelle classi di laurea afferenti al Terzo Settore:
(…)
Come si nota, c’è stato un andamento irregolare del numero di iscritti per
tutte la classi di laurea esaminate. Per quanto riguarda le classi triennali ci sono
state oscillazioni che vanno, ad esempio per la classe 35, da un +24,65% di
iscritti per l’anno 2002/03, ad un -17,18% di iscritti per l’anno 2004/05. E così,
in maniera altalenante, anche per le classi 6, 15, 18 e 28. Per le classi specialistiche, si nota invece, come ad un iniziale incremento di iscritti per gli anni
2003/04 e 2004/05, è seguito una graduale diminuzione.
(…)
Lo studio del Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario (CNVSU): evoluzioni del numero di corsi.
La riforma 509/1999, in nome dell’autonomia didattica e in una logica
di concorrenza e competizione, ha introdotto a livello nazionale una “partizione” del sapere in classi: ogni ateneo può istituire i corsi di laurea che
meglio valorizzino i propri specifici punti di forza, fermo restando l’indivi-
L’OFFERTA UNIVERSITARIA PER IL TERZO SETTORE
287
duazione di una classe di laurea coerente a cui far afferire questi corsi, rispettandone obiettivi formativi generali e contenuti disciplinari minimi previsti, per quella classe, a livello nazionale.
Si è già spiegato nel paragrafo precedente la metodologia utilizzata per la
scelta delle classi di laurea e dei singoli corsi, viene perciò riportata sotto, la
tabella riepilogativa delle evoluzioni del numero di corsi negli ultimi anni:
Cosi come si è fatto nel precedente paragrafo, per una miglior interpretazione dei dati riportati in tabella, si procede alla costruzione dei numeri
indice a base mobile, che permettono di valutare l’andamento del numero
di corsi attivati, nella classi prescelte di interesse per il Terzo Settore, negli
anni considerati:
Come si può notare meglio nel grafico sottostante (non riportato), c’è
stato nel complesso una certa stabilità, sintomo che il numero dei corsi attivati si è mantenuto abbastanza costante per tutti gli anni considerati; ecce-
288
ADELE MEDAGLIA
zione fatta per l’anno 2007/08 che mostra un decisivo calo per tutte le classi
di laurea considerate; e per la classe di laurea 18, che mostra sostanzialmente
due momenti di interesse, rispettivamente nel 2003/04 e nel 2005/06, per di
più di diverso segno.
(…)
Come mostra chiaramente il grafico che riporta la serie dei numeri indici riferiti all’evoluzione, nei diversi anni, del numero dei corsi, sono due
i momenti di crisi che l’offerta formativa per il Terzo Settore ha vissuto, e
precisamente il 2005/06 e il 2007/08, nei quali si è riscontrato un netto calo
del numero di corsi di interesse per il Terzo Settore.
Si tratta, e forse non casualmente, degli ultimi due anni a ridosso delle
ulteriori modifiche che i decreti Mussi si preparano ad apportare, sia da un
punto di vista contenutistico che nominale, all’assetto delle classi di laurea.
Indubbiamente è plausibile quindi, un’ipotesi di confusione proprio nella fase
di costruzione e progettazione dei corsi stessi.
Per questi motivi, si procederà nelle analisi successive, ad una più particolareggiata valutazione dei dati a disposizione per questo specifico arco
di tempo, che risulta essere di maggiore interesse per le classi oggetto del
nostro studio.
Riportiamo quindi in successione la tabella ridimensionata rispetto alla
precedente e riepilogativa del numero dei corsi per gli anni scelti:
NUMERO CORSI - TRIENNALE 2005/06
CLASSE DI
LAUREA
NUMERO CORSI - TRIENNALE 2007/08
DENOMINAZIONE
N.
CORSI
CLASSE DI
LAUREA
DENOMINAZIONE
N.
CORSI
6
SCIENZE DEL SERVIZIO SOCIALE
47
6
SCIENZE DEL SERVIZIO SOCIALE
28
15
SCIENZE POLITICHE E DELLE
RELAZIONI INTERNAZIONALI
56
15
SCIENZE POLITICHE E DELLE
RELAZIONI INTERNAZIONALI
28
18
SCIENZE DELL’EDUCAZIONE E
DELLA FORMAZIONE
66
18
SCIENZE DELL’EDUCAZIONE E
DELLA FORMAZIONE
52
28
SCIENZE ECONOMICHE
7
28
SCIENZE ECONOMICHE
48
35
SCIENZE SOCIALI PER LA COOPERAZIONE, LO SVILUPPO E LA PACE
19
35
SCIENZE SOCIALI PER LA COOPERAZIONE, LO SVILUPPO E LA PACE
11
TOTALE
195
TOTALE
167
NUMERO CORSI - SPECIALISTICA 2005/06
CLASSE DI
LAUREA
NUMERO CORSI - SPECIALISTICA 2007/08
DENOMINAZIONE
N.
CORSI
CLASSE DI
LAUREA
DENOMINAZIONE
N.
CORSI
57/S
PROGRAMMAZIONE E GESTIONE DELLE
POLITICHE E DEI SERVIZI SOCIALI
34
57/S
PROGRAMMAZIONE E GESTIONE DELLE
POLITICHE E DEI SERVIZI SOCIALI
21
60/S
RELAZIONI INTERNAZIONALI
30
60/S
RELAZIONI INTERNAZIONALI
14
70/S
SCIENZE DELLA POLITICA
27
70/S
SCIENZE DELLA POLITICA
11
8(/S
SCIENZE PER LA COOPERAZIONE
ALLO SVILUPPO
14
8(/S
SCIENZE PER LA COOPERAZIONE
ALLO SVILUPPO
8
TOTALE
105
TOTALE
54
L’OFFERTA UNIVERSITARIA PER IL TERZO SETTORE
289
Nell’anno accademico 2005/06 i corsi di interesse per il Terzo Settore
erano (tra triennali e specialistiche) 300 su un totale di 3082 corsi di laurea
offerti dalle università italiane. Nell’anno accademico 2007/08 invece, su un
totale di 5960 corsi di laurea offerti (quasi raddoppiati rispetto al 2005) solo
221 erano di interesse per il terzo settore.
Nella tabella seguente è evidenziato il rapporto tra i corsi di laurea di
nuova istituzione e quelli soppressi, in riferimento agli anni oggetto del nostro studio, il 2005 e il 2007:
NUMERO CORSI - TRIENNALE 2007/08
CLASSE
DI LAUREA
NUMERO CORSI
SOPPRESSI
NUMERO CORSI
MANTENUTI
NUMERO CORSI
NUOVA ISTITUZIONE
6
19
27
1
15
28
27
1
18
19
47
5
28
0
7
41
35
TOTALE
9
10
1
75
118
49
NUMERO CORSI - SPECIALISTICA 2007/08
CLASSE
DI LAUREA
NUMERO CORSI
SOPPRESSI
NUMERO CORSI
MANTENUTI
NUMERO CORSI
NUOVA ISTITUZIONE
57/S
14
20
1
60/S
16
14
0
70/S
16
11
0
88/S
TOTALE
7
7
1
53
52
2
Fonte: MIUR - Elaborazione propria.
Conclusioni
Il quadro che emerge dalla lettura dei dati dell’Istat è quello di un Terzo Settore sostanzialmente eterogeneo. I risultati delle rilevazioni statistiche
sulle istituzioni non profit mostrano, infatti, notevoli disparità territoriali,
un’ampia varietà di assetti organizzativi, differenze nelle dimensioni economiche e sociali, nelle attività svolte e nelle fonti di finanziamento. Differenze
tali, da veder convivere, accanto ad istituzioni di dimensioni economiche
contenute, organizzate in modo semplice e basate prevalentemente sull’impegno volontario, grandi organizzazioni, strutturate in modo complesso, che
impiegano personale retribuito. Accanto ad istituzioni che operano in settori
tradizionali quali la sanità, l’istruzione e l’assistenza sociale coesistono or-
290
ADELE MEDAGLIA
ganizzazioni che svolgono attività in ambiti più moderni, quali l’ambiente e
la cooperazione internazionale. Accanto ad organizzazioni impegnate nell’erogazione di servizi rivolti a soggetti in situazioni di disagio, si trovano istituzioni che indirizzano le loro attività ad utenti non necessariamente bisognosi di assistenza o, addirittura, alla cittadinanza in generale.
Non ci si può spingere oltre con l’interpretazione purtroppo, perché i dati
a cui facciamo riferimento sono quelli del censimento delle istituzioni non
profit del 1999. Sono passati esattamente dieci anni, e quello che già allora
dimostrava di essere un settore dinamico, in continua evoluzione, si sarà
senza alcun dubbio, ulteriormente trasformato. In questo senso il gap informativo tarda ad essere colmato.
Molto interessante sarebbe stato anche valutare la struttura del Terzo
Settore calabrese, ma la mancanza di dati aggiornati e affidabili si unisce
anche alla difficoltà pratica di individuare cosa classificare come Terzo Settore e cosa no.
Dall’altra parte, anche il quadro che emerge sullo stato dell’Università
italiana non è di semplice interpretazione: dopo le innumerevoli riforme che
si sono susseguite, l’architettura degli studi non è ancora solida e le risposte che le riforme dovevano fornire non sono arrivate. La tanto auspicata
razionalizzazione del sistema formativo italiano non si è totalmente compiuta,
come dimostrano i dati del Miur, il numero dei corsi di laurea non è diminuito, anzi risulta di anno in anno maggiore, il tasso di abbandono degli studi
è ancora troppo elevato, e la percentuale dei laureati nei tempi previsti risulta ancora troppo bassa.
In particolare, per quanto riguarda l’offerta formativa per il Terzo Settore, si è mostrata negli anni una grande eterogeneità sia fra le classi che all’interno delle classi, sinonimo di ricchezza ma forse, anche di confusione.
La performance dell’Università della Calabria per quanto concerne le
classi di laurea che formano alle professioni del Terzo Settore è in linea con
l’andamento delle altre Università italiane, con una buona competitività e
un’interessante dinamicità dovuta a fattori locali, soprattutto nelle classi di
laurea 57/S “programmazione e gestione delle politiche e dei servizi sociali” per quanto riguarda i corsi specialistici, e 6 “scienze del servizio sociale” e 18 “scienze economiche” per quello che concerne i corsi triennali.
Concludendo, il sistema universitario italiano risponde in maniera scarsa e lenta ad una domanda di formazione sempre più articolata ed esigente
da parte del Terzo Settore.
L’OFFERTA UNIVERSITARIA PER IL TERZO SETTORE
291
IL BILANCIO SOCIALE E PROSPETTIVE
DI MIGLIORAMENTO CONTINUO: CASO AIL IN SICILIA1
Giovanna Chiavetta
Il bilancio sociale chiamato anche bilancio di missione, è un documento fondamentale per un ente che non ha il fine di realizzare un profitto, ma
ha la responsabilità di utilizzare risorse per raggiungere uno scopo sociale.
La funzione principale del bilancio sociale, è quella infatti di rappresentare la gestione globale in un periodo di riferimento, soffermando l’attenzione
su come sono state gestite le risorse (umane, finanziarie, strumentali) al fine
di raggiungere gli obiettivi per i quali l’ente è stato costituito.
Per questo motivo l’AIL (Associazione Italiana contro le leucemie-linfomi e mieloma) si sforza di costruire progetti, di individuare obiettivi strategici per il suo funzionamento, in modo da mantenersi sempre orientato alle
esigenze del volontariato locale.
Ciò deve avvenire ovviamente nell’ambito delle regole di funzionamento
individuate dal sistema di finanziamento, nel rispetto dei principi di trasparenza di funzionamento e dell’ efficienza nell’uso delle risorse.
Attraverso il bilancio sociale, quindi, gli interlocutori (stakeholder),sono
in grado di esprimere un giudizio consapevole e fondato sull’operato dell’associazione2 .
Il soddisfacimento dei ‘portatori d’ interesse’, va misurato sia sulla base
dei risultati economici e finanziari della gestione, sia sulla base dei risultati
di carattere sociale, relativi alle richieste espresse dagli stessi utenti dell’AIL,
e dai ‘portatori d’interesse’.
Il Bilancio sociale, pertanto, è una forma di rendicontazione che consente
di integrare le informazioni di carattere economico con i risultati di interesse
sociale conseguiti, con particolare riferimento agli interessi degli utenti.
La scelta di adottare il Bilancio sociale si è imposta rapidamente, nell’AIL, per la volontà di promuovere la massima trasparenza nei rapporti con
i stakeholder principali.
1
La tesi di laurea Dalla responsabilità sociale d’impresa al bilancio sociale delle organizzazioni no profit è stata discussa all’Università degli Studi di Palermo, Corso di laurea in Amministrazione ed economia delle imprese, nell’anno accademico 2011/2012, relatore prof. Salvatore
La Rosa, correlatore prof. Massimo Costa. Si pubblica qui una parte del terzo capitolo.
2
Il primo caso di realizzazione di bilancio sociale in Italia, risale alla seconda metà degli
anni ’70.
292
GIOVANNA CHIAVETTA
Inoltre, soprattutto nel volontariato, un modello di rigore per garantire
efficienza e ridurre inutili sprechi, è essenziale per fare veramente solidarietà.
Il bilancio sociale dell’ AIL si compone di tre sezioni principali. Nella prima sezione – ‘L’identità’ – viene fornita un descrizione generale dell’ Associazione, presentandone in particolare la missione e le strategie fondamentali, la
mappa dei suoi stakeholder, il sistema di governo, la struttura organizzativa.
Nella seconda sezione – ‘La dimensione economica’ – si effettua un’analisi dei proventi e degli oneri dell’associazione.
Nella terza sezione – ‘La dimensione sociale’ – viene effettuata una rendicontazione sulle attività realizzate, in termini quantitativi e qualitativi, i
risultati ottenuti in relazione agli obiettivi che si proponeva di conseguire e
vengono illustrati i principali processi di gestione.
Noi ci limiteremo a trattare uno dei principali processi gestionali, ovvero, gli strumenti di qualità.
È importante iniziare a presentare il bilancio sociale, innanzitutto, presentando l’ente e la sua attività in modo tale che anche chi non lo conosce
o non ha una chiara visione di ciò che fa, riesce a farsene un’idea generale.
L’identità permette agli stakeholder di avere una concezione soggettiva
dell’ente e della sua dimensione, rappresenta una sorta di ‘fotografia’ dell’ente. Noi, in particolare, ci limiteremo, a fare una descrizione generale
dell’associazione, analizzando anche la sua missione, le sue strategie fondamentali e la sua struttura organizzativa.
Tutti i soci dell’Associazione svolgono la loro attività esclusivamente a
titolo gratuito e volontario.
L’Associazione Italiana lotta contro le leucemie (AIL) in Italia e in Sicilia
L’AIL – Associazione Italiana contro le Leucemie-linfomi e mieloma- fu
costituita a Roma l’8 Aprile del 1969 e riconosciuta con Decreto del Presidente della Repubblica n. 481 del 19/09/1975, essa è impegnata da 40 anni
nella lotta contro le malattie del sangue con le 79 sezioni provinciali.
Il ruolo fondamentale dell’AIL è l’attività svolta in simbiosi con i principali Centri di ematologia, sia universitari che ospedalieri, a favore dei
malati per migliorarne la qualità della vita ed aiutarli nella lotta che conducono in prima persona contro la malattia.
La sede nazionale dell’ AIL è ubicata a Roma, essa, indica le strategie
di comunicazione e raccolta fondi coordinando le attività delle sezioni in
occasione delle manifestazioni a carattere nazionale, si preoccupa di mantenere l’uniformità dell’immagine associativa su tutto il territorio, si confronta con le Istituzioni, promuove attività di sensibilizzazione per migliorare la
conoscenza dei cittadini sulle malattie del sangue, può controllare l’attività
delle Sezioni provinciali al fine di assicurare il rispetto delle finalità asso-
IL BILANCIO SOCIALE E PROSPETTIVE DI MIGLIORAMENTO CONTINUO
293
ciative nell’ambito del con-seguimento dello scopo sociale. Organizza direttamente iniziative di raccolta fondi a livello nazionale, per finanziare la ricerca scientifica e i servizi di assistenza ai malati e alle famiglie.
Le sezioni provinciali, distribuite su quasi tutto il territorio nazionale, sono
associazioni autonome sia da un punto di vista giuridico che amministrativo.
In Sicilia, ci sono, sette sedi AIL, esattamente collocate ad Agrigento,
Caltanissetta, Catania, Messina, Palermo, Ragusa e Siracusa.
In particolare, AIL Palermo, sin dalla sua fondazione, supporta il Centro di Ematologia dell’ospedale Cervello di Palermo e in particolare:
• Fornisce un servizio di accoglienza in ciascuno dei luoghi di cura delle
emopatie maligne. Circa 60 volontari, con una formazione specifica, si
alternano in turni per migliorare la qualità dell’assistenza ai pazienti e per
supportare l’azione del personale ospedaliero in:
- Reparto e Centro Trapianti
- Ambulatorio
- Day-hospital
- Centro accoglienza
- Medicina trasfusionale
• Gestisce la residenza AIL “La Coccinella”, acquistata e arredata con i proventi delle campagne e ubicata nelle vicinanze dell’ospedale, ospita i pazienti emopatici che non risiedono a Palermo o i loro familiari, alleviando i disagi della trasferta per chi deve essere curato in Day Hospital o
per chi assiste un familiare ricoverato in Reparto;
• Finanzia il Servizio di Assistenza domiciliare, che fornisce ai malati oncoematologici le cure di personale specializzato direttamente nelle loro abitazioni.
• Provvede alla formazione permanente di tutti i suoi volontari, attraverso
periodici stage condotti da medici e psicologi specialisti del settore oncoematologico;
• Acquista nuove e più moderne attrezzature per la diagnosi e la terapia
delle emopatie maligne e ulteriori arredi per rendere più funzionali le
strutture ospedaliere;
• Ricerca scientifica. Finanzia diverse borse di studio destinate a giovani
medici, biologi e psicologi, e numerosi progetti di ricerca in collaborazione con i più qualificati centri nazionali e stranieri; supporta, inoltre, congressi scientifici internazionali allo scopo di promuovere l’avanzamento e
la diffusione delle conoscenze scientifiche sulle malattie onco-ematologiche.
Ogni sezione AIL dispone di un proprio Consiglio Direttivo, di un’Assemblea dei Soci e redige un bilancio autonomo. La loro forza è nel rapporto stretto e diretto che viene instaurato con i Centri di Ematologia Ospedalieri o Universitari, con i malati e le famiglie in cura nelle diverse città,
con le istituzioni locali, con i cittadini.
294
GIOVANNA CHIAVETTA
L’AIL opera sul territorio nazionale grazie al lavoro e all’impegno di 79
Sezioni provinciali che affiancano con il loro operato i principali Centri
Ematologici del nostro paese. Le attività delle Sezioni sono numerose e sempre dirette a migliorare la cura dei nostri malati e a sostenere i Centri di
Ematologia; riguardano sia il sostegno alla ricerca scientifica che l’assistenza domiciliare, sempre più diffusa, la creazione di Residenze, l’acquisto di
macchinari e attrezzature destinate ai Centri ematologici pubblici, nonché
l’acquisto o la ristrutturazione di immobili, i finanziamenti per interventi di
ammodernamento, ampliamento e creazione di reparti ematologici.
Le sezioni sono Soci effettivi dell’AIL e versano alla Sede Nazionale
una quota associativa annuale.
La Missione
La Missione dell’ AIL o “mappa strategica”, consente di determinare gli
obiettivi finali e intermedi, azioni e progetti finalizzati al loro conseguimento.
Essa consiste nel sostenere e qualificare l’attività di volontariato. L’azione
dell’AIL, mira, dunque a:
Sensibilizzare l’opinione pubblica alla lotta contro le malattie ematologiche;
Migliorare la qualità della vita dei malati e dei loro familiari e aiutarli
nella lotta che conducono in prima persona per sconfiggere la malattia;
Promuovere e sostenere la ricerca.
L’importanza dell’Associazione al servizio del mondo ematologico e del
malato, deriva dal duplice livello di presenza territoriale: nazionale e locale. A livello nazionale la visibilità dell’AIL sui principali organi di informazione, il lavoro svolto presso le più prestigiose sedi istituzionali, le iniziative su tutto il territorio, hanno determinato una grande attenzione alla lotta
contro tali patologie. A livello locale, la diffusione capillare delle sezioni sul
territorio di competenza, lo stretto rapporto instaurato con le strutture ospedaliere e universitarie e con le locali istituzioni hanno reso l’AIL un punto
di riferimento insostituibile per i malati ed i loro familiari. I centri di ematologia in Italia, grazie anche all’AIL, operano a livelli uguali a quelli dei
migliori del mondo e la ricerca scientifica ha permesso di raggiungere risultati straordinari. L’AIL ha fatto tanto e può fare ancora di più contro le
leucemie, i linfomi e il mieloma grazie ai contributi di molti italiani che
hanno sentito e sentiranno il bisogno di dare. Così, negli ultimi venti anni,
grazie ai risultati straordinari della ricerca scientifica e di terapie sempre più
efficaci – compreso il trapianto di cellule staminali – hanno reso leucemie,
linfomi e mieloma sempre più curabili.
La Mission dell’AIL è curare al meglio tutti i pazienti aumentando, non
solo la durata, ma anche la qualità della vita e la percentuale di guarigioni.
IL BILANCIO SOCIALE E PROSPETTIVE DI MIGLIORAMENTO CONTINUO
295
LA COMUNICAZIONE NELLE ORGANIZZAZIONI NON PROFIT:
LA FIDAS
(Federazione Italiana Associazioni Donatori di Sangue)1
Annalisa De Lorenzis
Comunicare la coltura del dono, e più in generale la cultura della solidarietà, è spesso difficile, poiché può incontrare diffidenza nei possibili destinatari ma che, se avviene correttamente, permette di ottenere ottimi risultati si per il comunicatore il quale vede raggiunti i suoi obiettivi, ma anche
per chi riceve tale comunicazione.
La comunicazione sociale in generale ma ancora di più la comunicazione
che cerca di diffondere la cultura del dono è un tipo di comunicazione certamente diversa da quella cui siamo abituati a convivere ogni giorno per una
serie di motivi2.
In primo luogo perché ci troviamo di fronte ad una comunicazione che
ha lo scopo di modificare i valori che sono radicati sia nel singolo individuo ma soprattutto nell’intera società.
Questo comporta il rendere instabile alcuni di quelli che sono comportamenti socialmente abituali in quanto, per ciascuno di noi, è certamente più
facile seguire un comportamento socialmente accettato e diffuso invece di
cercare di comportarci in un modo completamente diverso rispetto agli altri
membri della società civile in cui viviamo.
Proporre il cambiamento dei propri valori, e conseguentemente del proprio stile di vita, è il cambiamento più difficile da promuovere poiché il
benessere e il senso d’individualità delle persone sono formati da valori fondamentali che orientano percezioni e scelte di carattere sociale, morale e
intellettuale e conseguentemente, l’introduzione di un elemento dissonante da
quelli che fino a quel momento erano i valori individualmente e socialmente accettati potrebbe creare tensioni e stress.
Abbiamo quindi a che fare con una comunicazione di tipo diverso, innovativa, che ha come scopo principale quello di diffondere un nuovo valore, una nuova idea e non un nuovo prodotto commerciale o un oggetto tangibile.
1
Tesi discussa all’Università del Salento, Facoltà di Scienze Sociali, Politiche e del Territorio, nell’anno accademico 2010/2011, relatore prof. Luigi Spedicato. Si pubblica l’Introduzione e ampi stralci della II parte.
2
J. Godbout, Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 145.
296
ANNALISA DE LORENZIS
Diversa perché si tratta di un tipo di comunicazione che, ancora più
specificatamente nel caso della diffusione della cultura del dono del sangue,
ha come effetto diretto quello di fare capire che non si ha a che fare con
qualcosa che “si può toccare”, con un oggetto ma con un qualcosa di ancora più grande, d’intangibile ossia con la vita.
L’obiettivo di questa ricerca, è di indagare attraverso l’analisi del contenuto dei diversi materiali (sito internet, brochure, campagne sociali, ecc.),
come il concetto di donazione sia espresso dalle organizzazioni non profit,
in particolar modo dalla FIDAS, e individuare attraverso un questionario
integrativo, gli strumenti, le strategie, le difficoltà di tale struttura di comunicazione sociale.
La FIDAS in Italia
Dal primo lancio di agenzia sul terremoto di Agadir (29 febbraio 1960)
all’ultimo sisma in Abruzzo (6 aprile 2009) è racchiuso gran parte della storia
della donazione del sangue in Italia e in pratica tutto il cammino compiuto
dalla nostra Federazione in questi 50 anni.
Nata nel 1959 a Torino, la Fidas - Federazione Italiana Associazioni
Donatori di Sangue è diventata, negli anni, una delle realtà di volontariato
più importanti a livello nazionale.
Essa rappresenta le numerose associazioni locali che operano nel campo della donazione di sangue, coprendo 15 regioni su 20, con 67 gruppi
aderenti e oltre 400 mila donatori volontari. La sede nazionale si trova all’ospedale “Fatebenefratelli” di Roma.
La possibilità di donare il sangue in Italia è stata introdotta alla fine della
prima guerra mondiale, quando furono costituite le prime associazioni per
curare i feriti del conflitto, ma fu la sempre maggiore richiesta del secondo
dopoguerra a portare alla formazione dei primi gruppi autonomi e indipendenti.
Negli stessi anni, in seguito agli incontri avvenuti tra i rappresentanti
delle associazioni della Liguria e del Piemonte, si manifestò l’idea di creare l’unione liguro-piemontese, per una collaborazione congiunta che permettesse di organizzare al meglio il sistema trasfusionale delle due regioni. A
tal proposito furono interpellate anche le altre associazioni italiane dislocate
nella penisola che aderirono ben presto all’iniziativa: erano consapevoli della
necessità di riunire l’attività di numerosi gruppi autonomi e di tutelare gli
interessi morali degli stessi attraverso un organismo che li rappresentasse.
Nacque così la Fidas.
La Federazione opera nell’interesse delle associazioni, curandone il coordinamento a livello nazionale e garantendo un apporto qualificato a ogni inizia-
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tiva socio-politica e umana che impegna il volontariato italiano del sangue.
Inoltre la Fidas aggiorna e informa i propri iscritti sulle novità legislative, scientifiche e sanitarie, che riguardano i donatori e il servizio trasfusionale.
La FIDAS, fedele alla scelta dei suoi Fondatori, si ripromette di rappresentare tutte le Associazioni autonome e indipendenti aderenti, in modo da
contenere validamente aberrazioni di scopi e storture nel campo delle attività trasfusionali. Di fronte allo Statuto e all’opinione pubblica, i donatori
di sangue, come dissero i Fondatori, devono essere tutti uguali, perché se
identico è il dovere che volontariamente si assumono di compiere, eguale
deve essere il riconoscimento nei loro confronti. Il professor Cesare Rotta
fu il primo Presidente Nazionale della Federazione.
L’indagine sulla comunicazione FIDAS
Il fine di questa indagine, è stato quello di valutare “ le modalità e le
strategie comunicative” messe in atto dalle Organizzazioni Federate Fidas
avendo cura di realizzare una fotografia generica ma nitida di quella che
rappresenta la complessità comunicativa in questione, nei confronti di una
realtà sociale che fonda il suo impegno sulla “cultura del dono”.
In effetti, la comunicazione è oggi sempre più importante per le organizzazioni di volontariato, a proposito della necessità di:
– Rendersi visibili e distinte a proposito dell’estendersi delle loro funzioni
quali: di azione e sensibilizzazione ma anche di proposta, di partecipazione, di criticità e di controllo.
– Veicolare al proprio interno messaggi, testimonianze e contenuti informativi, per mantenere viva l’anima associativa.
– Diffondere messaggi e valori nella società civile, per fare cultura della
solidarietà e concorrere a formare quel cittadino solidale che è da considerare obiettivo prioritario in una prospettiva di comunità responsabile3.
La ricerca nasce con lo scopo di sondare le Organizzazioni non Profit,
per rilevare “quanto” comunicano, “come”, “con quali risorse”, “con quali
risultati”, “con quali limiti”, “livello di soddisfazione e competenza”.
La ricerca è stata sviluppata in due fasi metodologiche: la prima a carattere quantitativo e la seconda di tipo qualitativo. Per la prima si è fatto
ricorso alla somministrazione tramite email di un questionario strutturato e
sufficientemente ampio elaborato sulle tematiche oggetto dell’indagine.
3
R. Frisanco, S. Trasatti, La voce del volontariato - Indagine su organizzazioni di volontariato e comunicazione, Fondazione italiana per il volontariato, Roma, 200, cit. p. 19.
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Il questionario (pubblicato in appendice) costa di 42 domande.
Nella seconda fase di approfondimento qualitativo è stata eseguita
un’analisi dei contenuti dei messaggi cartacei e mediateci prodotte dalle stesse Organizzazioni Federate Fidas a più livelli, evidenziando costanti e peculiarità del linguaggio comunicativo.
La ricerca è stata realizzata secondo le seguenti fasi e procedure4 90:
a. Predisposizione di un questionario strutturato, poi inviato a un campione di organizzazioni, per la raccolta sistemica di un serie d’informazioni
rilevanti per la ricerca;
b. Scelta del campione di organizzazioni a partire dalle numero di federate Fidas presenti sul territorio nazionale;
c. Invio per via telematica del questionario e monitoraggio della rilevazione;
d. Spoglio e controllo del questionario con verifiche e integrazioni attraverso un contatto diretto telefonico, con i referenti delle organizzazioni che
li hanno compilati; acquisizione dei dati e loro elaborazione statistica.
e. Ricerca, raccolta e analisi dei messaggi cartacei e mediatici;
f. confronto con un’altra realtà internazionale, impegnata nella donazione del sangue.
Analisi dei punti di maggiore evidenza
– Poco più della metà delle sedi ha un addetto stampa;
– Viene usato in maniera abbastanza capillare il mezzo stampa, la radio rimane in secondo piano ed è molto poco considerata la tv;
– La maggior parte delle sedi lavora in maniera autonoma sviluppando campagne e producendo materiale proprio;
– La metà delle sedi ha un sito internet; praticamente tutte le sedi dispongono di una casella e-mail che viene controllata; una grossa percentuale
delle sedi ha partecipato a particolari eventi;
– La grande maggioranza delle sedi ha attuato interventi nelle scuole, questi interventi insieme alla partecipazione a manifestazioni vengono considerati i mezzi di comunicazione che hanno dato i migliori risultati, i rapporti con le istituzioni e gli enti pubblici risultano abbastanza positivi, anche i rapporti interni vengono definiti per quasi tutti positivi;
4
R. Frisanco, S. Trasatti, La voce del volontariato - Indagine su organizzazioni di volontariato e comunicazione.
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– Per la maggior parte delle sedi non viene sviluppata una pianificazione
della comunicazione esterna in modo che abbia un filo conduttore nel medio- lungo periodo, in meno delle metà delle sedi sono state effettuate delle
raccolte fondi e pochissime sedi dispongono di sponsor di fiducia;
– Meno della metà dispone di un archivio delle attività completo;
– Quasi la metà delle sedi ha trovato tra i volontari persone addette alla
funzione di comunicazione;
– Le difficoltà maggiori riguardano principalmente la scarsità di risorse economiche;
– La quasi totalità delle sedi ha evidenziato una difficoltà di interazione con
i mezzi di comunicazione soprattutto a livello nazionale.
– Difficoltà per la maggioranza delle sedi di valutare la propria efficacia.
Punti di forza: la situazione rilevata dal monitoraggio evidenzia un solido punto di partenza della maggior parte delle sedi Fidas. In particolare
sembra essere stata interiorizzata l’importanza della comunicazione e dei
mass media. Il monitoraggio ha rilevato una buona capacità delle varie sedi
ad adeguarsi alle novità. I questionari hanno rilevato un buon inserimento
delle sedi nel proprio territorio. Inoltre sono stati segnalati numerosi e positivi interventi nelle scuole.
La maggior parte delle sedi ha organizzato o comunque si sta organizzando un archivio delle proprie attività. Sono stati rilevati alcuni esempi di
giornali redatti dalle singole sedi di buon livello e la maggior parte delle sedi
ha specificato che controlla la propria casella e-mail giornalmente, inoltre,
ben la metà delle sedi dispone di un sito internet. Il tema delle competenze
da acquisire per migliorare la propria capacità comunicativa, ha evidenziato
quattro aree consistenti in: tecniche basilari (conoscenza della materia), produzione di materiali complessi (audiovisivi, servizi radio), formazione specifica sui media (diritti e doveri), strategie, cioè la capacità di organizzare
eventi di particolare rilievo.
Un ultimo dato estremamente positivo che è emerso dai questionari è
che la maggior parte delle sedi gode di buoni rapporti interni.
Il monitoraggio ha evidenziato la necessità di utilizzare maggiormente
sponsor che restino fedeli nel tempo visto la limitata disponibilità di risorse economiche. Inoltre, deve essere potenziato l’utilizzo della televisione e
della radio per la comunicazione esterna. Un ulteriore problema rilevato è
la scarsa presenza di personale qualificato, per la gestione della funzione
comunicativa.
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Report finale
Il materiale analizzato è vario e articolato, si è cercato di comprendere
in che modo la FIDAS comunica sia con i propri associati, sia con l’intera
cittadinanza. Il protocollo scelto ci ha permesso di concentrare l’attenzione
su alcuni aspetti ritenuti fondamentali per la ricerca, i dati emersi sono significati e naturalmente non assoluti vista l’entità del campione.
Tra le principali caratteristiche della comunicazione abbiamo: uno stile
comunicativo semplice e diretto, la grafica dinamica e vivace, molto spesso
sono predilette immagini accompagnate da slogan per veicolare il messaggio della propria associazione.
Come rappresentati del messaggio, sono preferiti spesso testimonial noti,
ma anche figure animate (goccioline, animali ecc.). I destinatari sono comunemente i giovani, a dimostrazione di una forte volontà da parte della Fidas di coinvolgerli nella propria realtà. Essi sono considerati il futuro, non
solo in termini di futuri donatori. Infatti, tra le finalità dei propri prodotti
comunicativi, non vi è solo la diffusione della cultura del dono considerato
l’obiettivo principale, ma anche la promozione e la sensibilizzazione alla
solidarietà verso il prossimo, valore che sembra essere sempre meno presente
in una società come la nostra, basata sul consumismo e sull’apparire.
La donazione è descritta come un gesto semplice, non eroico, naturale,
ma soprattutto come un dovere civico e solidale. Nella maggioranza dei casi
il termine “dono” viene considerato come sostantivo di un azione altruista
e solidale.
Conclusioni
La misurazione della qualità del LINGUAGGIO è un problema di rilevante complessità. Si tratta di un metodo di misurazione ampiamente soggettivo, si giudica la qualità percepita d’immagini e video prodotti mediante vari sistemi di compressione.
Il mondo del volontariato può trarre da questa ricerca alcuni insegnamenti per sviluppare una possibile via alternativa alla comunicazione.
Le sue caratteristiche potrebbero essere le seguenti: una forte componente
etica; un tono di particolare sobrietà nel rappresentarsi; uno spirito di reale
servizio per quei soggetti bisognosi, in cui in qualche modo, si può dare
voce; una conseguente dose di disinteresse per la pura promozione dell’immagine dell’organizzazione o dei propri leader; una strutturazione professionale. Ma molto leggera, delle competenze per la comunicazione; un ‘attività di formazione continua, per i volontari e per la cittadinanza che si ha la
possibilità di intercettare, su come si leggono i media e su come tutti pos-
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sono essere meno passivi nei loro confronti; un intento formativo nei confronti degli stessi mezzi di comunicazione, arricchendo per quante possibile, il bacino delle fonti attendibili da poter consultare; una frequente opera
di monitoraggio dell’informazione.
Le organizzazioni non profit, si trovano oggi ad dover confrontarsi con
le nuove tecnologie e strategie del grande mondo della comunicazione, e
possono farlo in modi diversi, ma hanno il dovere di farlo con efficacia, e
anche con un pizzico di originalità.
È infatti questo il nostro auspicio.
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LA COMUNICAZIONE NELLE ORGANIZZAZIONI NON PROFIT: LA FIDAS
ORGANI COLLEGIALI
DELL’ASSOCIAZIONE MARIA ROSARIA SIFO RONGA ONLUS
CONSIGLIO DIRETTIVO
Componenti effettivi
Sig.ra Filomena D’Agostino
Prof.ssa Maria Teresa del Zingaro
Dott. Claudio Riccio (vice presidente)
Dott.ssa arch. Giuseppina Ronga (vice presidente)
Dott. Nello Ronga (presidente)
Sig.ra Amalia Sifo
Sig. Ciro Tortora
Segretario
Dott.ssa Wanda Aprile
Componenti supplenti
Prof. Renato Briganti
Sig. Giuseppe D’Agostino
Sig.ra Daniela Esposito
Sig.ra Maria Grazia Lauretano
Prof. Gerardo Pedicini
COLLEGIO REVISORI DEI CONTI
Componenti effettivi
Rag. Francesco Paolo Carpentieri
Dott. Massimo Carpentieri
Dott.ssa Lucia Grasso
Componenti supplenti
Dott. Emidio Mansi
Sig.ra Rita Stera
COLLEGIO DEI PROBIVIRI
Sig. Nello D’Agostino
Dott. Aurelio Maffia
Dott. Angelo Sorrentino
Volontari per la gestione della Casetta di accoglienza
Dott.ssa Wanda Aprile
Sig.ra Silvana Cutarelli
Prof.ssa Adriana Livigni
Sig.ra Giovanna Pignataro
Sig.ra Maria Elisabetta Sgarrella
Sig.ra Amalia Sifo
Responsabile settore informatico
Sig. Alberto Morelli
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LETTERE E ARTE
Volumi pubblicati
1. Il canto dell’anima, Napoli 2003
2. Solid’Arte, Mostra di arti visive a cura di Gerardo Pedicini, Napoli
2005
3. Napoli 2011, Un’esperienza di Volontariato laico, Napoli 2011
4. Esperienze di Associazionismo e di volontariato nel Mezzogiorno
d’Italia, a cura di Nello Ronga, Napoli 2014
«Grafica Bodoni» - Napoli - aprile 2014