Vista da dietro la consolle - Riviste elettroniche
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Vista da dietro la consolle - Riviste elettroniche
Philomusica on-line 13/2 (2014) Vista da dietro la consolle Spunti e riflessioni attorno alla giornata di studi sulle musiche elettroniche da ballo1 Claudio Cosi – Giovanni Cestino Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali – Università di Pavia [email protected] – [email protected] I pomeriggio della giornata di studi si è aperto con la voce di Alessio Bertallot, DJ e conduttore del programma B-Side di Radio Deejay, e dal 2010 al 2013 di Rai Tunes, trasmissione del palinsesto di Radio2. Ciò che Bertallot ha voluto proporre al nutrito uditorio dell’Aula Magna del Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali è stata una breve e appassionante panoramica storica di un repertorio, quello della popular music elettronica contemporanea, ancora troppo recente per essere storicizzato, come ha precisato lo stesso DJ all’inizio del suo intervento. Scopo delle pagine che seguono è dunque da un lato quello di enucleare e sintetizzare i punti di maggiore interesse del discorso di Bertallot, dall’altro quello di offrire al lettore alcuni spunti di riflessione sui problemi più rilevanti emersi durante il dibattito che ha chiuso la giornata di studi. In questo modo si intende anche puntare l’attenzione sull’importanza che questi generi musicali ricoprono non solo all’interno dei cosiddetti popular music studies, ma anche nel più vasto panorama della ricerca musicologica. L 1. «Listen to that break!». Riflessioni attorno alle pratiche di riuso nella popular music elettronica La storia che Bertallot racconta parte da Kool Herc, nome d’arte di Clive Campbell. Giamaicano naturalizzato statunitense, Herc si trasferì sul finire degli anni Sessanta nel Bronx, dove con una coppia di piatti, qualche disco funk e un amplificatore per chitarra contribuì in modo decisivo alla diffusione negli Stati Uniti del sound system di ascendenza caraibica, quindi allo sviluppo dell’hip hop e, più in generale, della popular music elettronica. L’intuizione di Kool Herc, basata sulla sua solida esperienza maturata nelle La cornice iniziale e i paragrafi 1 e 2 sono di Claudio Cosi, mentre i restanti paragrafi (3 e 4) e la chiusura sono di Giovanni Cestino. 1 ««Philomusica on-line» – Rivista del Dipartimento di Musicologia e Beni culturali e-mail: [email protected] – Università degli Studi di Pavia <http://philomusica.unipv.it> – ISSN 1826-9001 – Copyright © 2014 Philomusica on-line – Pavia University Press Philomusica on-line 13/2 (2014) dance hall di musica reggae e ska, fu secondo Bertallot quella di aver individuato nel break, ovvero in quella breve sezione di intermezzo contraddistinta dal permanere regolare e costante del solo pattern ritmico di base del brano, una cellula compositiva dalla quale poter generare qualcosa di nuovo, ballabile e originale. Nacque dunque sul finire degli anni Settanta, a New York e parallelamente a Chicago e Detroit, la figura del DJ, un nuovo tipo di musicista in grado di comporre della musica a partire dalla decontestualizzazione e dal conseguente reimpiego di semplici ‘fotografie sonore’, detti ‘samples’ o ‘campioni’. L’esempio in tal senso più celebre, sul quale anche Bertallot si è soffermato, è il riuso e la continua migrazione del noto break di batteria di Funky Drummer, eseguito dal batterista Clyde Stubblefield nell’incisione del 1970 del brano omonimo da parte del gruppo di James Brown.2 La conformazione ritmica del pattern,3 caratterizzato da un contrasto fra l’apparente immediatezza e semplicità e una finissima ricercatezza di incastro d’accenti fra charleston, cassa e rullante, ci porta a pensare che esso sia stato concepito, almeno in prima istanza, con lo scopo di stimolare il ballo. E non è un caso che il termine ‘funk’, prima di indicare un preciso stile e genere musicale, significava nello slang americano ‘puzza’, ‘cattivo odore’, naturali conseguenze del perpetuo e scatenato movimento corporeo indotto da generi come il soul e il rhythm and blues. Bertallot focalizza quindi l’attenzione su come centinaia di artisti, provenienti specialmente dal mondo rap e hip hop statunitense, abbiano riutilizzato costantemente il break di Funky Drummer allo scopo di creare nuove basi su cui stratificare ulteriore materiale e produrre quindi nuovi pezzi. Uno degli aspetti sicuramente più interessanti di una simile operazione è rappresentato dal processo di risignificazione che il frammento subisce una volta che migra dal suo originario contesto culturale a un altro. In tal senso, fra i tanti esempi possibili, si può citare Fight the Power, canzone composta nel 1988 dal gruppo hip hop statunitense Public Enemy. Come si evince da un semplice ascolto, la solida ritmica del groove di base nasce dal riutilizzo del frammento di Funky Drummer, ma anche da alcune sue significative modifiche, come ad esempio quella che interessa il trattamento della grancassa. I soli quattro colpi presenti nel pattern di riferimento, diventano ben sette e vengono riposizionati su accenti diversi.4 Ciò che ne deriva sembra essere, nel complesso, un’aggressività maggiore rispetto all’originale; il che ci permette di riflettere su come la band sia riuscita, non solo attraverso la parola ma anche tramite il personale riuso di 2 James Brown, Funky Drummer (Part 1) / Funky Drummer (Part 2), 45 giri, King, 6290, 1970. Su You Tube è disponibile un video in cui il batterista della band californiana Slightly Stoopid illustra in modo approfondito la conformazione del pattern di Funky Drummer scorporandone accuratamente le singole parti che lo costituiscono (http://www.youtube.com/watch?v=OGPS691w3Y). 3 4 http://www.youtube.com/watch?v=8PaoLy7PHwk. 174 C. Cosi - G. Cestino – Visto da dietro la consolle un frammento preesistente e precedentemente appartenente a un genere diverso, a far emergere il carattere fortemente ideologico e politico della propria musica. Appare dunque quanto mai calzante e chiaro l’intervento di Paolo Magaudda, che in sede di discussione, facendo in particolare riferimento al pensiero di Bourdieu, ha focalizzato l’attenzione su come un genere musicale possa stabilire la propria identità anche in base ai processi di stratificazione e di distinzione di significati che subisce quando si trova ad essere mezzo di comunicazione socio-culturale all’interno di una precisa comunità di persone. Le pratiche di riuso nella musica elettronica sono inoltre un aspetto talmente determinante dal punto di vista compositivo, da costituire un elemento di base imprescindibile per una riflessione sui generi all’interno della popular music elettronica. 2. La distinzione dei generi nella popular music elettronica Nel 1981, in occasione della prima Conferenza Internazionale della IASPM tenutasi ad Amsterdam, Franco Fabbri formulò una sintetica definizione del concetto di genere musicale, individuando in esso un «insiem[e] di eventi musicali governati da vari tipi di norme socialmente accettate» (2002, p. 71). Per quanto stringata e ormai suscettibile di ampliamenti speculativi e teorici anche alla luce degli sviluppi maturati in questo campo dalla ricerca accademica,5 la definizione data da Fabbri coglieva già allora due aspetti imprescindibili per una possibile cristallizzazione del concetto: il dato musicale, ossia quello relato agli aspetti tecnico-formali della componente musicale, e il dato sociale, quello cioè che ha a che fare con una collettività – sia essa costituita dai musicisti stessi, dai fans, dal pubblico, da esperti di settore ecc. – che condivide delle norme a partire dalle quali oggetti musicali diversi vengono definiti con un termine comune. Bertallot prosegue nel suo intervento toccando entrambi gli aspetti ora citati, ma concentrandosi per lo più su questioni di ordine musicale. Dalle parole del DJ emerge chiaramente un dato: la distinzione fra i diversi generi della popular music elettronica deriva prima di tutto da una significativa differenza fra i BPM (battiti per minuto), ossia fra le velocità metronomiche delle tracce. L’esempio più significativo pare essere quello del DJ inglese Clifford Joseph Price, in arte Goldie, che con una coppia di piatti Technics provvista di un doppio selettore per poter cambiare la velocità di rotazione dei dischi (da 33 a 45 giri) iniziò a sperimentare sulla traccia di James Brown al fine di aumentare sensibilmente la velocità delle proprie ri-composizioni (le Per una recente panoramica e un approccio complessivo al problema, si cfr. ad esempio HOLT (2007). Il volume si contraddistingue per l’ampia prospettiva di indagine che l’autore riserva al problema della definizione di genere nella popular music statunitense. La riflessione personale, già di per sé ricca di importanti spunti inerenti il rapporto fra un determinato genere e il suo più ampio contesto di esistenza, viene infatti arricchita da un’accurata ricerca sul campo che ha visto Holt intervistare produttori, musicisti, speaker radiofonici e negozianti di dischi e aggiungere così un fondamentale tassello etnografico al proprio lavoro. L’importanza di tale aspetto, come verrà fuori dalle prossime pagine, è stata sottolineata anche da Alessio Bertallot. 5 175 Philomusica on-line 13/2 (2014) portò a 180 BPM). Nacque così un nuovo macrogenere di EDM (Electronic Dance Music), la drum’n’bass. Ma come ha ricordato lo stesso Bertallot, pare impossibile pensare di poter slegare l’intuizione di Goldie dal contesto in cui essa prese vita, ossia l’Inghilterra a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta. A Londra e Bristol in particolare, il reggae e la dub ‘dettarono legge’ mescolandosi alle novità portate dall’elettronica e dando vita alla jungle, che se inizialmente rappresentò il genere di riferimento delle comunità giamaicane che frequentavano i rave, in un secondo momento subì una sorta di commercializzazione dovuta al suo stesso approdo nell’universo dei club inglesi. Fu in quel frangente – collocabile temporalmente grossomodo nei primissimi anni Novanta – che si cominciò ad usare il termine drum’n’bass per indicare qualcosa di simile dal punto di vista musicale ma di ben distinto dal punto di vista ideale e sociale. Ecco dunque aprirsi un’importante occasione speculativa sull’idea di genere musicale, che se in parte può e deve essere definito, come proposto da Nardi e Albert, secondo parametri di ordine musicale e stilistico – la velocità d’esecuzione ma anche elementi come le scelte di timbro e le varianti di intensità – in parte fa riferimento a questioni come la necessità da parte di una comunità di potersi specchiare e identificare semplicemente condividendo un ‘codice terminologico’ di riferimento o – lo ricorda ancora Bertallot – l’esigenza dei venditori di dischi di ‘etichettare’ gli innumerevoli generi e sottogeneri che il pubblico, ovvero parte di quella comunità di cui sopra, vuole trovare con facilità quando ‘spulcia’ fra gli scaffali di un negozio. Risulta a questo punto chiara l’idea esposta da Luca Marconi di una popular music, e in questo caso di una popular music elettronica, come di un campo estremamente aperto alla pluralità perché eterogeneo al suo interno e costellato di musiche che stimolano la più ampia varietà di approcci analitici, musicologici, ma anche antropologici, sociologici ed estetici. 3. Popular music elettronica e analisi musicale: alcune premesse La varietà di approcci alla popular music – e così, per estensione, alla popular music elettronica – implica necessariamente un corredo altrettanto vario di metodologie d'indagine di questo repertorio dai contorni, a oggi ancora in via di definizione. Come emerso a più riprese dalla discussione pomeridiana di Just for Dancing?, da un lato i diversi metodi si caratterizzano per il ricorso a strumenti già in uso e a prassi tradizionali; dall’altro invece le specificità di questo ‘macrogenere musicale’ obbligano ad affrontare nuove strade. Se per certi ambiti, quale quello storiografico, non sorprende che si conservi un approccio tradizionale, sono altri i campi in cui i vecchi strumenti – quando non si trovano a dover essere sostituiti – devono essere sottoposti a un rigoroso esame della loro ‘resistività’ prima di poter essere applicati. Tra le diverse discipline, l'analisi musicale è tra le più esposte alla necessità di essere ripensata e resa efficace per la popular music elettronica. La prima sfida a porsi riguarda il metodo. Il peso della storia di questo settore – ormai 176 C. Cosi - G. Cestino – Visto da dietro la consolle piuttosto lunga – porta senza dubbio a dover ‘fare i conti’ con varie metodologie già cristallizzate e impiegate da tempo con successo. Cimentarsi in un lavoro analitico di brani di questo complesso repertorio può determinare sia una continuità nel loro impiego, sia un loro abbandono in favore di nuovi approcci. O anche, può spingere a recuperare elementi teorici già noti per poi riorganizzarli e metterli così al servizio di finalità nuove. Certo è che il ricorso a tali ‘prestiti’ impone una doverosa riflessione sulle implicazioni concettuali di un tale processo. Considerare potenzialmente utili metodi o elementi già convalidati per situazioni ‘tradizionali’ obbliga a chiedersi se sussistano tratti concreti di prossimità tra il ‘nuovo repertorio’ e quelli ‘vecchi’; interpretare queste analogie e giustificarle è la conseguenza naturale di questo primo passo. Ma non solo: anche sul piano terminologico bisogna usare particolare cautela, e considerare come le stesse definizioni dei concetti che vengono scelti ad hoc per analizzare questa musica portino inevitabilmente con sé un ‘corredo genetico’ di cui lo studioso si deve servire a ragion veduta. Si può pertanto ritenere che questo genere di esperienze veda il momento della riflessione metodologica e quello della prassi analitica vera e propria fortemente interconnessi l’un l’altro, in modo complementare ma non rigorosamente sequenziale. Quale che sia il tipo di percorso seguìto, è certo che qualunque sforzo analitico non è soltanto un mezzo per osservare con maggiore lucidità un’opera, bensì un’occasione per riflettere sul funzionamento stesso della disciplina e sugli oggetti di cui si occupa. Analizzare un brano di popular music elettronica può offrire l’opportunità di riconsiderare la collocazione dell’approccio teorico-analitico in relazione alle altre possibili linee di indagine di cui si compone lo ‘strumentario musicologico’. Se per i repertori ‘tradizionali’ l’attività analitica si legava, nella sua volontà di schematizzazione, per prima cosa a finalità didattiche (COOK 1991, p. 29), è vero inoltre che poteva svilupparsi autonomamente rispetto a quella storiografica, tanto che scrivere la storia della musica non equivaleva, necessariamente, a scrivere la storia dei linguaggi, delle forme o delle tecniche compositive. Invece, l’analisi dei vari generi riconducibili al termine popular music elettronica acquista anche una decisa finalità di categorizzazione. Se è vero che lo sforzo analitico rimane comunque un processo volto a creare, per finalità esplicative, modelli e concetti – eventualmente da ampliare qualora insufficienti a sostenere l’evidenza dei dati –, assurge in questo caso a esercizio di grande importanza nel risolvere importanti problemi di definizione. Nella scena proteiforme e variegata in cui si articola questo repertorio, analizzare significa dunque mettere tanto in relazione quanto in opposizione, istituire differenze e definire così ex negativo, legando a doppio filo la disciplina con l’attività storiografica. Inoltre, l’occasione di concentrarsi su elementi funzionali di cui questi generi si servono come componenti linguistiche offre la possibilità di aggiungere ulteriori motivi di interesse al lavoro analitico. Ragionare sugli elementi specifici di cui un repertorio fa un uso caratterizzante, infatti, impone gioco forza di prendere in considerazione quanto questi 177 Philomusica on-line 13/2 (2014) abbiano effetto sul (o siano effetti del) rapporto tra tale musica e il pubblico da cui è fruita o a cui intende rivolgersi. Nel caso di una musica così ‘popolare’ – intendendo il termine nell’accezione di ‘largamente diffuso e accessibile’ –, analizzare vuol dire non solo cercare di dire come è fatto o come è stato fatto un brano, ma anche di provare a capire cosa fa, ovvero quali comportamenti può suscitare in chi ascolta; e, per converso, quali elementi deve necessariamente contemplare nel suo vocabolario per potersi applicare a determinati contesti culturali e sociali. 4. La traccia nel triangolo di testo, opera e performance Sono proprio i luoghi in cui viene spesso eseguita e fruita oggi una parte considerevole della popular music elettronica ad aprire nuove riflessioni sull’evento performativo e sulle implicazioni ad esso connesse. Come è noto, dal punto di vista tecnico-compositivo questo repertorio non si serve dei tradizionali metodi di fissazione dell’opera (ovvero per iscritto, grazie a forme di notazione), ma procede nella composizione grazie ad altri mezzi, per lo più elettronici. Il computer con i suoi diversi software e gli altri strumenti impiegati, infatti, permettono di comporre direttamente coi suoni, e di fissare l’opera in un «testo […] sonoro» (DE BENEDICTIS 2009, p. 80).6 Quest’ultimo, genericamente definito ‘traccia’ (ingl. track), è sia il risultato di un processo di ‘scrittura’ che una datità sonora passibile di riproduzione, diffusione, riuso, alterazione. La traccia è assimilabile, in linea di massima, alle forme di testualità di certa musica ‘colta’ elettronica o elettroacustica, o di molta della popular music fissata su disco o altri supporti. È proprio in ragione di queste analogie che, da un punto di vista strettamente filologico, si può ritenere che, anche in questo caso, la traccia non fissi l’opera in una facies unica e immutabile. Al contrario, quest’ultima non soltanto può essere realizzata altre volte, ma può ‘vivere’ in altri modi grazie all’intervento del suo stesso autore (o eventualmente, ma non sempre, di altri soggetti). Quel che muta sensibilmente per il repertorio che qui si prende in esame sono invece le pratiche performative e i processi che implicano. Se infatti – per esempio – negli anni Settanta, sul palco di un concerto rock, un gruppo musicale poteva eseguire dal vivo una sua opera già fissata, alla stregua di un testo, tra le tracce di un LP, ciò non accade oggi per questo tipo di popular music. Continuando a sfruttare il paragone, nel momento in cui la band realizzava il brano, produceva live del suono ‘nuovo’. Al contrario, benché il DJ posso lavorare, di fronte al suo pubblico, con materiali sonori pre-registrati da trasformare o assemblare liberamente, spesso impiega e propone tracce intere già composte, che più che essere semplicemente suonate vengono in realtà sottoposte estemporaneamente a vari tipi (e a diversi gradi) di manipolazione. Gli ascoltatori, pertanto, non assistono alla semplice ‘presentazione’ 6 Ma si veda più in generale il paragrafo 1. Testo e scrittura, pp. 71-83. 178 C. Cosi - G. Cestino – Visto da dietro la consolle di una serie di opere, ma vengono resi partecipi, durante la performance, del prodotto di diverse operazioni creative che – specie quando fondate su tracce preesistenti – attivano connessioni profonde con questi ‘testi originari’. Un simile utilizzo della traccia suscita senz’altro la necessità di chiarire se e in che misura, in questi casi, si alterino o decadano gli statuti di testo e di opera ad essa legati. Procedendo a ritroso, si può dire che la connotazione di opera si mantenga stabile fino al momento in cui, nella manipolazione del materiale sonoro della traccia, non ci si spinga al di là della sua riconoscibilità. Va notato infatti che per questo repertorio l’atto performativo alla consolle, quando non impiega i materiali già fissati per creare una nuova opera, ne rispetta spesso l’identità. La modifica di alcuni parametri della traccia (ad esempio una diversa equalizzazione, l’applicazione di effetti), ma anche in parte l’alterazione del suo svolgimento naturale – ciò che determinava, già agli albori della figura del DJ, la tecnica dello scratch – sono tutte operazioni che rientrano nel processo creativo della performance più che in quello, preliminare, della composizione. Ciò che spesso l’ascoltatore percepisce, infatti, non è una diversa versione dell’opera,7 ma un diverso modo di essere presentata – in un certo senso, allo stesso modo in cui l’esecuzione dal vivo di un’opera di musica ‘colta’ è uno dei molti modi di offrirne una interpretazione. La conservazione di questo statuto, inoltre, appare in diversi casi come una garanzia di raggiungere efficacemente il pubblico e le sue esigenze: in uno dei luoghi di più comune fruizione della popular music elettronica, la discoteca, l’identificabilità di un brano diventa di notevole importanza per permettere agli ascoltatori di entrare – con il corpo e con la voce – all’interno della performance stessa, per parteciparvi attivamente in un’interazione con l’artista che si esibisce sul palco. È sul labile confine di situazioni come questa che si gioca anche la seconda questione, ovvero la resistenza dello statuto testuale della traccia nel momento performativo. É ancora un testo una traccia che viene modificata live e immediatamente diffusa e ascoltata? Ancora una volta sono è il processo stesso la chiave per rispondere al quesito. È infatti proprio quell’atto, nell’istante del suo compiersi, a sottrarre alla traccia il suo connotato di testo: solo nel caso in cui venisse a mancare la mediazione creativa del DJ ciò che giungerebbe all’orecchio tornerebbe a essere la mera riproduzione di una forma di scrittura. Ma se dal lato del fruitore sono proprio gli accidenti estemporanei della performance ad annullare questa sua precedente connotazione, dal lato del performer è in vista di questo stesso atto che la traccia conserva e accresce la sua portata testuale. Ciò si verifica dal momento che l’atto performativo è solo il momento artistico più estremo di un processo più lungo di conoscenza della traccia, ossia del testo dell’opera. Scegliere con quale grado di incidenza intervenire sull’identità originaria dell’opera, al di là Almeno se si intende il termine nel modo codificato dalla filologia musicale, ossia come «livello redazionale autonomo e compiuto» (CARACI VELA 2009, p. 231, corsivo mio). 7 179 Philomusica on-line 13/2 (2014) di ciò che il proprio intervento susciterà, obbliga necessariamente ad esperirla anticipatamente, proprio grazie al supporto che la conserva. E a ciò consegue, necessariamente, la definizione di un campo di possibilità di interazione con essa che risponderà al grado di normatività – una funzione, questa, spiccatamente testuale – che il performer vorrà attribuirle. Pertanto, la forza prescrittiva che della traccia verrà conservata – seppure in misura ridotta rispetto a quella di una tradizionale partitura scritta – giocherà un ruolo importante anche durante la performance del DJ, il quale dovrà seguirne la struttura anche grazie ad un preciso corredo di tòpoi che ne sorreggeranno lo svolgimento. Al contrario, qualora egli dovesse scegliere di ignorare queste prescrizioni, si assisterebbe alla crisi dell’opera stessa e insieme ad essa dello statuto testuale della traccia, con la sua conseguente trasformazione in ‘semplice’ materiale sonoro, passibile di ‘ri-composizioni’ e di nuovi utilizzi. Una volta minata la sua integrità originale, si invaliderebbero quegli stessi presupposti su cui questa riflessione si fondava, lasciando il campo aperto all’indagine di altri tipi di processi creativi. *** Questi brevi paragrafi hanno voluto proporre un rapido excursus sui problemi dominanti emersi nella discussione pomeridiana della giornata di studi Just for Dancing?, che hanno fatto eco tanto alla sessione mattutina quanto all’intervento pomeridiano di Alessio Bertallot. Presentarne i contenuti e svilupparne in modo più approfondito qualche tratto sono i soli scopi che a cui hanno mirato queste righe, ben lontane dal fornire una soluzione definitiva ai complessi interrogativi che questa breve esperienza ha sollevato. Forti di averli potuti, almeno per un attimo, intravedere nella loro complessità, da queste pagine nasce un augurio: di poter vedere presto nelle ‘mappe’ della musicologia – e della didattica – anche questi generi musicali, il cui studio intercetta le istanze e i problemi della disciplina tutta, offrendole una significativa opportunità di testare i propri strumenti e le proprie risorse. 180 C. Cosi - G. Cestino – Visto da dietro la consolle Bibliografia CARACI VELA M. (2009), La filologia musicale. Istituzioni, storia, strumenti critici, vol. I, LIM, Lucca. COOK N. (1991), Guida all’analisi musicale, edizione italiana a cura di Guido Salvetti, Guerini, Milano. DE BENEDICTIS A. I. (2009) (con la collaborazione di Scaldaferri N.), Le nuove testualità musicali, in Caraci Vela M. (a cura di), La filologia musicale. Istituzioni, storia, strumenti critici, vol. II, LIM, Lucca, pp. 71-116. FABBRI F. (2002), Il suono in cui viviamo, 2a ed., Arcana, Roma. HOLT F. (2007), Genre in Popular Music, University of Chicago Press, Chicago. Claudio Cosi ha ottenuto il titolo di Dottore di ricerca in Musicologia presso il Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali nel 2014, con una tesi sulle origini del linguaggio armonico di Tom Jobim. Ha anche condotto studi sul processo creativo e sui rapporti fra parole e musica nell’opera del cantautore italiano Fabrizio De André. Giovanni Cestino (1992), diplomato in chitarra classica nel 2010 (Conservatorio di Alessandria), si è laureato in Musicologia nel 2014 (Università degli Studi di Pavia) discutendo una tesi sull’approccio performativo di Cathy Berberian, Attualmente dirige il Coro della Facoltà di Musicologia (Cremona), e prosegue gli studi di composizione e direzione. Claudio Cosi gained is PhD in Musicology in 2014 at the Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali (Università di Pavia) with a doctoral dissertation about the origins of Tom Jobim’s harmonic language. He also focused on the creative process and the relationship between lyrics and music in the songbook of the italian singer-songwriter Fabrizio De André. Giovanni Cestino (1992) graduated in classical guitar in 2010 (Conservatory of Alessandria) and in Musicology in 2014 (University of Pavia) with a dissertation on Cathy Berberian’s performative approach. He currently conducts the Choir of the Faculty of Musicologia (Cremona) and continues his studies in composition and conduction. 181