Prolusione del prof. Massimo Jasonni

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Prolusione del prof. Massimo Jasonni
Cerimonia di Inaugurazione 840° anno accademico
Modena, 17 marzo 2016
Massimo Jasonni
Nascita dell'Università e identità europea
(in occasione dell'inaugurazione dell'840° Anno Accademico dell'Università di
*
Modena e Reggio Emilia)
Rettore Magnifico, Colleghi, Autorità presenti, Signore e Signori, l'incrocio a cui noi
ci riferiamo, reale e persino direi cartografico, prima che ideale, è quello che sta tra la via
dell'Università e Piazza Grande, ove il Duomo guarda, oltre le bancarelle del mercato, al
palazzo comunale. È bene aver cura dei luoghi – delle vie, delle contrade e dei corsi
d'acqua attualmente sepolti sotto l'asfalto – che hanno nobilitato la storia della nostra città,
così come è bene custodire la memoria del nome delle persone che hanno illuminato il
nostro passato, non ultimo quello, che con commozione pronuncio a pochi giorni
dall'anniversario della morte, di Marco Biagi.
Alle nostre spalle è un patrimonio di civiltà che occorre raccogliere per esserne gelosi, noi
docenti, consci di un'avventura universitaria che coincide, nel suo stesso porsi e nel suo
dialettico svilupparsi, con la formazione della moderna identità europea.
Il mito di Europa risale alla notte dei tempi: vi si narra di terre che dall'Egeo e dai lidi
settentrionali di un azzurrino Mediterraneo tendono politicamente a diffondersi verso il
*
Prolusione all'inaugurazione dell'Anno Accademico 2015/2016 dell'Università di Modena e Reggio Emilia,
tenuta il 17 marzo 2016 in Modena presso l'Auditorium Fondazione Marco Biagi.
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nord. La potenza originaria dell'epos omerico si espande: ed è così che il racconto del
rapimento della fascinosa fanciulla, di nome Europa, da parte di Zeus in veste di mite e
candido toro, entra prepotentemente nell'Età di mezzo e va a interessare tutto il prosieguo
del cammino dell'Occidente. Ne costituiscono testimonianza veri e propri capolavori
letterari, aventi ad oggetto il ratto di Europa, tra i quali spicca il libro secondo delle
Metamorfosi di Ovidio. Quanto alle arti figurative, basti pensare, con occhio alla modernità,
a Tintoretto e Tiziano e, più prossimi a noi, a Vallotton e a Picasso.
Il Medioevo è la culla dell'Università e, tramite l'Università, di un Continente che si
va geograficamente precisando. Ne recano indelebile traccia urbanistica i portici, luoghi di
transito cittadino e di sosta nelle adiacenti botteghe, protetti dalle intemperie, che
consentono un incremento delle unità abitative, ai piani superiori, reso necessario
dall'esplosione demografica: li troviamo in Italia non solo a Bologna, in Francia non solo a
Strasburgo, in Renania a Münster, e ovunque in Europa, ove fortunatamente non si sia
data la distruzione cieca dei bombardamenti aerei.
Si è discusso su quale Universitas, in quell'XII, e poi XIII secolo, sia sorta per prima.
Bologna ha tenuto molto a questa sua supposta priorità accademica, pur sulla scorta di
fonti incerte. Anche Modena si è orgogliosamente mossa in tal senso, e così pure altri
Atenei, desiderosi di fregiarsi di una originalità assoluta, senza precedenti. Certo è che, se
non per primissima, Modena è storicamente tra le prime a comparire all'alba del fenomeno
delle Università, perché documentazione inoppugnabile dice che Pillio da Medicina, nel
1175 circa, fu a Modena docente, e quale straordinario docente del diritto romano.
Quella della priorità temporale è, comunque, una gara da cui noi prendiamo
volutamente il largo, perché ciò che fa grande la comparsa dell'Università nel tessuto delle
istituzioni occidentali impedisce ogni intento campanilistico, o affezione provincialistica,
aprendosi a una dimensione caratterizzata dalla sovranazionalità. Modena è grande non
perché arriva per seconda, o per terza, o per quinta, ma perché dopo Pillio vi insegnano
Guglielmo Durante, Guido da Suzzara e, in età moderna, Bernardino Ramazzini, fondatore
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della medicina del lavoro, Lazzaro Spallanzani, naturalista di fama europea, il fisico Giovan
Battista Amici e, quanto al '900, giganti del pensiero giuridico, quali Santi Romano, Piero
Calamandrei e Giuseppe Dossetti.
Nel nome della nascita dell'Università parla, da Bologna a Parigi, da Modena a
Leida, da Padova a Oxford, una civiltà assolutamente inedita e connotata, in ogni dove, da
comunione di intenti: non diversamente dalla Cattedrale, che è sé stessa e particolare, in
ogni dove, ma sempre romanica e, come tale, riproduttiva di un medesimo impianto
architettonico e di un medesimo gioco di luci che filtra attraverso le vetrate. Così la nostra
di Wiligelmo, così San Zeno a Verona, così Notre-Dame a Reims o l'abbazia di Cluny, così
San Giacomo a Santiago di Compostela. Con le cattedrali l'Europa intera “si tinge di rosa”:
il travertino a sera prende il colore dorato del tramonto e i bassorilievi esterni trascrivono
avventure in cui il bene e il male si intersecano, la dannazione e la salvezza paiono
paradossalmente convivere. Sentite Marcel Proust e James Joyce sul tema. Proust nei
Guermantes: «la cattedrale è un torrente divino, tutta freschezza e mistero.
Nell'inclinazione della luce che la avvolge canta l'ora felice di un pomeriggio inoltrato. La
sua bellezza riproduce il fascino della natura, la felicità della vita, il grandioso rapimento,
insieme, del luogo e dell'ora». E Joyce, nell'Ulisse, che propone, al lettore, se mi
permettete un attimo di scherzarci su, un vero e proprio aerosol: «l'aria all'esterno» della
cattedrale «è pregna di pluviosa e rorida nebbia, celestiale essenza di vita sotto un cielo
chiarostellato. È l'aria di Dio, l'aria del padre universale, un'aria cedevole. Aspirala in te,
profondamente».
L'intreccio tra fede e ragione, tra religione e politica è tipico della Riforma
gregoriana: ne troviamo somma testimonianza nel canto XVII dell'Inferno, ove Dante
relega in un sabbione infuocato dei dannati gli usurai, ma senza precisare il nome delle
persone a cui fa specifico riferimento. Da un lato, in linea con tutta l'elaborazione teologica
alto-medievale, che ritiene peccato capitale l'interesse praticato sul prestito di denaro per
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mero decorso del tempo, ma d'altro lato aprendosi all'idea che dei banchieri, in
un'economia capitalistica, ma già proto-capitalistica, non si può proprio fare a meno.
I due termini – Università, Europa – assumono così unitario significato simbolico,
perché accomunati da un retroscena spirituale che non umilia, ma anzi sorregge una
straordinaria intraprendenza imprenditoriale, professionale e commerciale. Cambia la
concezione del tempo, che non è più il tempo di Dio, di agostiniana memoria, ma è il
tempo dell'uomo al cospetto di Dio. La teologia rimane bussola degli studi, ma al suo
fianco compaiono cattedre in cui si impartiscono insegnamenti scientifici e che impongono
al diritto un nuovo approccio ermeneutico, arricchito dalla sapienza degli antichi. È
sintomatico che il metodo didattico sia dialettico, tal quale quello dei dialoghi platonici, ed è
altrettanto sintomatico che il libro rimpicciolisca, si tramuti da volume imponente
appoggiato ad un leggio, a manuale, come dice la parola, che passa di mano in mano tra
gli studenti.
È opportuno assumere distanza dal presente e saper fare autocritica. Noi oggi
parliamo ricorrentemente di Universitas studiorum, per rendere l'idea della più disparata
offerta didattica. Non ci rendiamo conto, così facendo, che quello non era il nome
originario dell'Università e che l'illusione del sapere totale conduce ad un ristretto
positivistico tanto presuntuoso, quanto foriero di equivoci. Il sostantivo universitas non
significava universalità, e tanto meno totalità dell'approccio didattico; né il genitivo era
studiorum, ma scholarium. Con universitas ci si riferiva, in realtà, a una corporazione, che
il genitivo scholarium, o studentium, precisava nel senso della corporazione degli studenti.
Così si affermava la centralità del corpo studentesco nella gestione e nella vita
dell'istituzione universitaria.
Stiamo parlando di un faro di religiosità che celava in sé, pure in nuce, il principio di
laicità. L'Università è laica perché nasce spontanea, come esigenza di crescita culturale e
morale della popolazione, non già come frutto di un potere superiore, fosse quello
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dell'imperatore o del pontefice. Superiorem non reconoscens: questo è il principio che si
poneva politicamente per il Comune e, in parallelo, per l'Università.
Il gene dell'autonomia costituisce anima e destino dell'Università. Una Università
che non sia autonoma, non ha il diritto di fregiarsi del logo, usurpa il titolo. Carducci lo
colse con un eloquio che oggi può apparire retorico, ma che in realtà fotografa
perfettamente la situazione. «L'Università nacque e grandeggiò privata»: ove il punto di
riferimento della privatezza va rigorosamente inteso come libertà, ma nell'anzidetta logica
dell'autonomia.
La separazione, di matrice evangelica, tra sfera spirituale e sfera temporale
cammina nell'esperienza universitaria non solo a supporto del valore dell'autonomia
scolastica, ma anche a sostegno dell'idea della sacralità della politica. Grandi interpreti ne
furono Marsilio da Padova, maestro e poi rettore della facoltà delle Arti a Parigi, e
l'Alighieri, che nel De Monarchia condannò la teocrazia e che addirittura nella Divina
Commedia relegò
all'inferno i pontefici dell'epoca. Mi piace ricordare, sul punto, il
giuramento prestato da Bonaventura da Bagnoregio all'Università di Parigi, ove dal 1253 è
magister di Teologia. L'essere poi divenuto priore del movimento francescano, con
assunzione dell'impegno assoluto di povertà e del divieto altrettanto assoluto di
giuramento, come da regole indefettibili poste da Francesco, non intacca la promessa,
fatta dal santo, di fedeltà all'Ateneo di appartenenza. Un siffatto impegno costava e costa
sacrifici, creava e crea ostilità: il nome di Biagi ne reca struggente, sanguinante conferma.
Non è Voltaire, non è evidentemente l'esplosione dei Lumi quello di cui parliamo,
ma nella tendenza secolarizzante, connaturata al pensiero cristiano, si aprono i sentieri
accademici che portano all'evo moderno. Il tramite è quello stesso che, nelle arti, conduce
da Giotto a Piero della Francesca e agli altri tesori della Firenze medicea. Tuttavia, è
proprio la Firenze di Cosimo e di Lorenzo il Magnifico, in tutto il suo splendore
rinascimentale, a indurre il cultore di storia alla cautela. Essa ci ammonisce sulla rapidità
con cui si può passare dalle vette di una civiltà al degrado di una civiltà. All'ora di Raffaello,
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Leonardo e Michelangelo, in cui lo Stivale è capitale morale dell'Europa, subentra un'ora di
vertiginosa decadenza, in cui il Paese è diviso tra lotte intestine e irruzioni di bande
straniere. Il sacco di Firenze e il sacco di Roma assumono la veste dell'epifania storica di
una felicità al tramonto. Una luce di eclissi, cupa e irreale, mentre milizie spagnole e
alemanne irrompono e devastano, caratterizza quell'esperienza artistica in cui, sotto il
nome del Manierismo, il richiamo alla cultura greca si traduce in ellenismo intellettualistico,
aprendosi a zone crepuscolari, per non dire depresse e deprimenti, della coscienza
individuale.
Non mi sfugge come il richiamo all'identità cristiana possa porre problemi, ma
meglio sarebbe a dirsi, possa determinare irritazioni nelle nebbie mediatiche dei nostri
giorni. L'eliminazione del crocefisso dagli ospedali pubblici e dalle scuole pubbliche la dice
lunga, ma non in termini, come taluno pretende, di rispetto del principio di eguaglianza tra
tutte le religioni, bensì nei termini di una vera e propria disfatta epocale di civiltà. Chi voglia
demonizzare il richiamo al nucleo cristiano dell'umanesimo europeo non farebbe male,
forse, a rileggersi Croce e a ritornare a Piero Calamandrei. Benedetto Croce – non un
clericale, ma un paladino del pensiero laico-liberale – affermava, come è noto, che «non
possiamo non dirci cristiani»; Calamandrei, che fu padre costituente in lotta contro
l'approvazione dell'art. 7 e fu animatore del divieto di finanziamento pubblico delle scuole
confessionali, proponeva non solo che il crocefisso restasse ben affisso sulle pareti delle
aule dei tribunali, ma che addirittura lo si spostasse, da dietro la schiena del Magistrato a
davanti ai suoi occhi: perché nell'esprimere la giurisdizione il Giudice avesse ben presente
i più alti valori etico-religiosi su cui si è edificato il nostro mondo.
In occasione del recente Giubileo dell'Industria il Pontefice e il Presidente degli
industriali sono intervenuti sulla globalizzazione, fornendo nuovi e preziosi spunti alla
rilettura del voto contrario all'adesione all'alleanza atlantica espresso da Piero
Calamandrei alla Camera dei Deputati il 18 marzo 1949. Tale discorso, pubblicato su Il
Ponte nel fascicolo dell'aprile 1949 per il titolo “Ragioni di un no”, riguardava
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evidentemente non solo la concessione di basi militari agli Stati Uniti, ma tanto più il rifiuto
pregiudiziale, ben chiaro sin da allora, di condivisione di una politica totalitaria, quale
quella sovietica.
Il ritorno a scuola, e nel nome dell'autonomia, che propongo va ben oltre questi pur
significativi richiami, per addentrarsi nel fulcro del problema. Mi riferisco non solo
all'intersezione tra cristianesimo e classicità, tanto costitutiva dell'Occidente quanto
parrebbe oggi dimenticata, ma anche e soprattutto ai fondamentali innesti della cultura
ebraica e della cultura islamica nel sorgere e nel progredire dell'Università europea. Ne
costituì premonizione la poesia di Baghdad, che fu lievito per la lirica trobadorica e,
attraverso questa, per lo Stilnovo. Furono poi Avicenna, medico e logico arabo del XII
secolo, e Averroè, anch'esso scienziato, astronomo e filosofo del XIII secolo, a consentire
all'orizzonte dei nostri studi superiori la lettura di Aristotele. L'apporto di Averroè e
dell'averroismo è stato, in effetti, “sommo”, per usare tra virgolette l'aggettivo adottato da
Dante: perché proprio da queste punte di diamante della cultura araba prese le mosse la
filosofia scolastica e, più oltre, il razionalismo moderno.
Quanto all'influenza ebraica, essa fu altrettanto importante nell'ergersi delle nostre
Università: perché i filosofi arabi sono stati maestri anche dei filosofi ebrei, e viceversa,
perché pure in quest'ambito religioso si osserva la tendenza, a partire dal XII secolo, ma
ancor da prima, a un'interpretazione razionale della fede vittoriosa sui dogmatismi e sugli
integralismi. Trascuro poi di dire dell'apporto ebraico nelle materie astronomiche, fisiche e
matematiche, che è generalmente noto.
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Dunque l'Università è stata, e potrà, dovrà essere nelle turbolenze del tempo presente e in
un futuro che ci rifiutiamo di credere sia affidato al dominio della sfera militare, il nucleo
nevralgico di una conoscenza che non teme il dialogo e anzi si nutre del dialogo tra le fedi.
Gli studia humanitatis, di cui l'Università fu cristianamente promotrice, determinano
un'identità ben fissa, e tuttavia aperta alle contaminazioni, che è quella dell'Europa dei
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popoli. Così la troviamo impostata già in Erasmo e in quel capolavoro di effervescenza
democratica che è l'Olanda del '600, quanto al '900, nell'alto magistero di Altiero Spinelli.
Così noi docenti – e nel momento solenne dell'inaugurazione di questo anno accademico
– esigentemente pretendiamo che essa sia ripensata e rispettata.
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