Introduzione tentativo

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Introduzione tentativo
i
Travel to Encounter: viaggi e alterità nella letteratura
italiana sull’Africa tra diciannovesimo e ventesimo secolo.
Cristiana Furlan, Department of Italian Studies
McGill University, Montr»al
May 2009
A thesis submitted to McGill University in partial fulfillment of the requirements
of the degree of Ph.D
Copyright © 2009 of Cristiana Furlan
ii
Abstract
Travel as a primary human activity has long been examined in all its
different facets and functions: exploration, discovery, conquest, quest for the
unknown. It has been considered a means of self-discovery and selfdetermination. The scholarly literature on this topic has revealed that far from
corresponding simply to a physical displacement, traveling represents above all a
cognitive moment.
Building on travel as a privileged moment to acquire knowledge, this
dissertation focuses on how physical displacement to non-familiar places and the
encounter with a different civilization can change the mental structures and
cultural categories of the traveler. Particular attention is devoted to the
relationship between the traveler and the Other, in this specific case the
populations of Africa.
My discussion takes into consideration the writings of three Italian authors
who traveled to Africa at three very different but equally important moments in
African history. Gaetano Casati was an explorer and witnessed the first phases of
European colonization in North Africa. Alberto Moravia visited Africa after the
sixties and witnessed the decolonization process. Finally, Gianni Celati traveled to
the continent at the end of the 20th century and experienced the profound
contradictions besetting contemporary post-colonial and neo-colonial Africa.
Although the historical context is necessary to understand the relational
dynamics into play, the main argument of this thesis, i.e., the encounter with the
Other, is explored within the post-colonial and cultural studies framework. This
approach sheds new light on the texts, making new and different critical
interpretations possible. Within this distinctive perspective, travel becomes the
moment in which the encounter with the Other takes place. This framework, along
with the phenomenological approach developed by Emmanuel Lévinas, has
allowed me to emphasize the dialectical relationship between the Self and the
Other.
A very contradictory reality has emerged, which continues to be
problematic in recent years in spite of the fact that today people can travel more
often and faster. In the final analysis, the nature of the traveler‟s relationship with
the Other emerges ever more clearly as the result of a fundamental ethical choice.
iii
Résumé
Le voyage est, depuis toujours, une des plus importantes activités auxquelles
l‟humain s‟adonne: qu‟il s‟agisse d‟exploration, de découverte, de conquête,
d‟une recherche de l‟inconnu ou d‟une quête d‟identité, les fonctions symboliques
et métaphoriques du voyage ont fait déjà l‟objet de nombreuses études. Ces
dernières se sont d‟ailleurs toutes attardées à un aspect primordial: le voyage ne
signifie pas seulement un déplacement physique, il est avant tout un moment
cognitif.
La présente thèse se penche précisément sur cet aspect pour en mieux faire
ressortir les différents enjeux. Partant de la prémisse que le voyage constitue un
moment propice à l‟acquisition de nouvelles connaissances, nous démontrons
comment le déplacement physique vers et à l‟intérieur de lieux étrangers ainsi que
la rencontre avec l‟Autre – dans le cas qui nous préoccupe ici, les différentes
populations de l‟Afrique – influencent et modifient les structures culturelles du
voyageur.
Le corpus analysé est formé des récits de voyage de trois auteurs qui ont
visité l‟Afrique à trois moments historiques différents mais tous aussi
significatifs: l‟exploration et la colonisation, la décolonisation, et enfin l‟Afrique
contemporaine aux prises avec la néo-colonisation et la pauvreté. Bien qu‟une
mise en contexte historique s‟avère importante pour comprendre les récits de
Gaetano Casati, Alberto Moravia et Gianni Celati, l‟axe principal autour duquel
tourne la présente thèse – la relation à l‟Autre – sera abordé à partir d‟un cadre
théorique inspiré de la critique post-coloniale et des études culturelles. Ces
approches combinées nous permettent de lire ces textes d‟un point de vue
différent et, par conséquent, d‟en livrer une nouvelle interprétation. Ce cadre
critique, uni à l‟approche phénoménologique d‟Emmanuel Lévinas, nous permet
ainsi de considérer la rencontre avec l‟Autre qui émerge de l‟expérience du
voyage comme un moment charnière de la relation entre le soi et l‟autre, une
relation dont la réalité vécue s‟avère hautement complexe et contradictoire, dans
toutes les époques prises en considérations, et donc aussi dans la contemporanéité.
En effet, bien que les voyages soient beaucoup plus fréquents aujourd‟hui, et bien
que les possibilités de rencontre avec l‟Autre s‟en trouvent multipliées, cette
relation reste encore difficile à définir. Les termes à partir desquels la relation à
l‟Autre se développe demeurent, ultimement, le choix éthique du voyageur.
iv
Abstract italiano
Il viaggio come fondamentale attività umana è da sempre oggetto di
studio. Lo si è esaminato in tutte le sue diverse funzioni: esplorazione, scoperta,
conquista, definizione geografica del globo terrestre, ricerca dell‟ignoto,
strumento di crescita e di definizione dell‟identità. Nel passato ne è stato spesso
sottolineato il valore simbolico e metaforico. Dagli studi effettuati sulla letteratura
odeporica emerge un elemento ricorrente e che rimanda ad una funzione quasi
primordiale: il viaggio oltre ad essere uno spostamento fisico è anche un momento
cognitivo.
Questa tesi sviluppa il proprio argomento muovendo da questo assunto.
Considerando il viaggio come un momento grazie al quale si acquisisce
conoscenza, si dimostrerà come lo spostamento fisico in luoghi non familiari, e
l‟incontro/scontro con il diverso da sé, agiscano sulle strutture culturali del
viaggiatore. In questa sede, una specifica attenzione è dedicata al rapporto con
l‟Altro, in questo caso le diverse popolazioni africane incontrate, e a come questo
rapporto si è sviluppato nei diversi scrittori analizzati.
Vengono presi in considerazione gli scritti di viaggio di tre scrittori italiani
che hanno visitato l‟Africa in tre momenti differenti, ma ugualmente significativi,
della storia del continente: la fase di esplorazione e colonizzazione, il periodo di
decolonizzazione ed infine l‟epoca contemporanea in cui l‟Africa è divisa fra
neocolonialismo e povertà. La contestualizzazione storica è necessaria per la
comprensione degli scritti di Gaetano Casati, Alberto Moravia e Gianni Celati;
tuttavia il motivo principale di questo studio, l‟incontro/scontro con l‟alterità,
viene sviluppato attraverso l‟apporto teorico dei cultural studies e della critica
post-colonial. Questa cornice critica, di sviluppo relativamente recente, permette
di affrontare i testi da una diversa prospettiva, fornendo, quindi, nuove possibilità
interpretative. Essa, affiancata all‟approccio fenomenologico suggerito da
Emmanuel Lévinas, mi ha permesso di considerare il viaggio come il momento in
cui avviene l‟incontro con il diverso da sé, e di analizzare i termini della dialettica
relazionale fra il sé e l‟altro.
Ne è emersa una realtà estremamente complessa ed anche contraddittoria,
che continua a contraddistinguere l‟esperienza del viaggio anche nella
contemporaneità, nonostante la facilità e la frequenza con cui oggi l‟incontro con
l‟altro può avvenire. In ultima analisi, i termini in cui il rapporto con l‟altro può
svilupparsi emergono sempre più chiaramente come collegati ad una scelta etica
del viaggiatore.
v
Acknowledgments
Anche scrivere una tesi è un viaggio. Nel mio caso è stato un vero e
proprio percorso di vita che mi ha portato a vivere in un altro continente.
Fra tutte le persone che mi hanno accompagnata in questo viaggio voglio
in primo luogo ringraziare il mio supervisor Eugenio Bolongaro, senza dubbio
l‟uomo più intelligente che io abbia conosciuto. Le lunghe chiacchierate nel suo
ufficio erano sempre dei viaggi in nuove direzioni della conoscenza. La sua
capacità di dare ad ogni argomento una luce nuova, di rendere unico ogni concetto
e di organizzare in modo assurdamente lucido anche le astrazioni più ineffabili,
rimarranno per me il modello intellettuale da seguire. Lo ringrazio per avermi
guidata dalla prima pagina all‟ultimo modulo da compilare, per i suoi
preziosissimi suggerimenti, la sua concretezza e la pazienza nell‟effettuare le
correzioni.
Voglio inoltre ringraziare tutti i professori del Dipartimento di Italiano a
McGill, in particolare Lucienne Kroha e Maria Predelli. Grazie anche allo staff,
soprattutto a Lynda Bastien, la gradute coordinator che tutti dovrebbero avere.
È inoltre doveroso ricordare e ringraziare la generosità della McGill
Graduate Studies Faculty e di Mr. Ray Sutterthwaite, donatore della McGill
Major Fellowship.
Grazie a tutti quelli che erano con me quando questo viaggio è iniziato, e a
tutti coloro che sono ancora con me ora che è giunto a termine. Daisy, Nancy,
Marco, Monica, Antonella, Eduardo, Elena, Lucia, Tania, Serena e Genevieve.
Fra tutti coloro che hanno condiviso i miei anni canadesi un grazie tutto
speciale va certamente a Yvonne e alla mia famiglia canadese, i Bissonnette, che
mi hanno fatto conoscere ed amare il Quebec. Nel corso di questi anni Robert
Bissonnette ha avuto un ruolo mutevole ma sempre determinante: grazie per
avermi sostenuto nei momenti più difficili e per avermi sempre ascoltata.
Infine, un enorme grazie alla mia famiglia: mia sorella Eleonora, che è
felice che io abbia finalmente finito di scrivere i “pensierini”, mia madre, mio
padre e Davide.
a mia madre.
vi
Table of Contents
INTRODUZIONE .......................................................................................................................... 1
1. IL VIAGGIO......................................................................................................................................... 5
2. L’INCONTRO/SCONTRO .................................................................................................................. 9
3. IL LUOGO ........................................................................................................................................ 15
4. I CAPITOLI ...................................................................................................................................... 17
PRIMO CAPITOLO ................................................................................................................... 24
1. UN PARADIGMA INTERPRETATIVO ............................................................................................ 25
1.1 Marco Polo: il viaggio attraverso la terra incognita .............................................. 26
1.2 Cristoforo Colombo: l’archetipo colonialista.............................................................. 30
1.3 Letteratura di viaggio: specchio (in)fedele delle realtà possibili ..................... 34
2. GAETANO CASATI: UNA BREVE BIOGRAFIA .............................................................................. 36
3. DIECI ANNI IN EQUATORIA E RITORNO CON EMIN PASCIÀ: UN ORIENTALISMO ITALIANO?
38
3.1 Il viaggio e l’incontro............................................................................................................. 43
3.2 Una difficile sistemazione.................................................................................................... 53
3.3 La cultura mussulmana ....................................................................................................... 59
4. MAL D’AFRICA: L’INVENZIONE DI UN EROE ITALIANO ............................................................ 60
CONCLUSIONI ........................................................................................................................... 70
SECONDO CAPITOLO.............................................................................................................. 73
1 ALBERTO MORAVIA: PRECISAZIONI RELATIVE ALLA SCELTA ................................................. 74
2. MORAVIA IN RELAZIONE A CASATI E BACCHELLI: CONTINUITÀ MA ANCHE UN PROBLEMA
CRITICO.................................................................................................................................................... 78
3. VIAGGIARE, SPOSTARSI, ABBANDONO E SCOPERTA: LE MODALITÀ DELL’APPROCCIO
ALL’ALTRO E ALL’AFRICA ..................................................................................................................... 83
4. MORAVIA E L’ALTERITÀ IN AFRICA ........................................................................................... 87
5. QUALE FRA LE “AFRICA” POSSIBILI? ......................................................................................... 99
6. L’AFRICA ED IL PRIMITIVO: L’ESPERIENZA DELL’INDICIBILE ............................................. 103
7. ALBERTO MORAVIA E LA SUA NARRATIVA AFRICANA ......................................................... 111
CONCLUSIONI .........................................................................................................................116
TERZO CAPITOLO .................................................................................................................118
1. GIANNI CELATI........................................................................................................................... 121
2. UN’IMPORTANTE DISTINZIONE ............................................................................................... 126
3. GIANNI CELATI E L’AFRICA CONTEMPORANEA: L’ESPERIENZA DELLA COMPLESSITÀ ... 130
4. IL TURISTA GIANNI CELATI ED IL SUO RAPPORTO CON L’ALTERITÀ ................................. 136
5. PERCORSI DI AVVICINAMENTO ................................................................................................ 144
6. LA CULTURA MUSSULMANA ..................................................................................................... 153
7. MA QUALE ALTRO? .................................................................................................................... 155
7. AFRICA INCONOSCIBILE O TROPPO CONOSCIUTA? ............................................................... 161
CONCLUSIONI ...................................................................................................................................... 168
CONCLUSIONI .........................................................................................................................170
1. SCELTE DI METODO ................................................................................................................... 170
2. L’INCONTRO/SCONTRO CON L’ALTERITÀ .............................................................................. 173
3. LA RELAZIONE CON L’ALTERITÀ.............................................................................................. 178
vii
4.
5.
IL VIAGGIO: CRISI DI UN ARCHETIPO ....................................................................................... 181
ALCUNE DOMANDE ANCORA APERTE ..................................................................................... 184
BIBLIOGRAFIA .......................................................................................................................186
A. CORPUS ....................................................................................................................................... 186
B. ALTRI TESTI LETTERARI E NARRATIVI ATTINENTI .............................................................. 186
C. TESTI SUL VIAGGIO E LA LETTERATURA ODEPORICA ........................................................... 187
D. TESTI DI STORIA E CRITICA LETTERARIA .............................................................................. 190
E. TESTI TEORICI ............................................................................................................................ 192
1
Introduzione
Quando ho iniziato a lavorare a Travel to encounter: viaggi e alterità nella
letteratura italiana sull’Africa tra diciannovesimo e ventesimo secolo, pensavo
che mi sarei occupata esclusivamente di un ambito letterario, quello della
letteratura di viaggio, e delle problematiche teoriche ad esso connesse. Le letture e
le ricerche sull‟argomento, però mi hanno a poco a poco rivelato che il mio lavoro
non riguarda solo una categoria della letteratura, ma prende in considerazione una
delle esperienze fondamentali dell‟essere umano. Lo spostamento è da sempre
associato alla conoscenza, sia che si tratti di un viaggio mitologico-allegorico,
come per Ulisse, Gilgamesh o Dante, sia nel caso di un viaggio realmente
avvenuto, quale quello di Marco Polo, dei pellegrini medioevali o, più tardi, quelli
di Cristoforo Colombo e degli esploratori. Il viaggio è il momento in cui
l‟allontanamento da ciò che è familiare provoca nel soggetto una significativa
destabilizzazione di quelle che Eric J. Leed, in The Mind of the Traveler: From
Gilgamesh to Global Tourism definisce “established patterns of meaning” (20). Il
ruolo del viaggio è singolare e per molti versi insostituibile, perché è il momento
in cui l‟essere umano è costretto a stabilire una relazione fra noto ed ignoto; e
l‟esperienza è tanto più fondamentale se dal confronto nasce una nuova
percezione di sé e della realtà circostante, ivi inclusa anche la propria civiltà e
cultura. Ne consegue, nella migliore delle ipotesi, un nuovo modo di guardare al
mondo e di concepirsi come parte di esso. Soffermandosi proprio sulla sua
paradigmatica funzione di trasformazione, Leed prosegue affermando che “Travel
transforms collective as well as individual identities” (271).
Sul valore destabilizzante e sulle possibilità cognitive che ne possono
derivare, poggia quindi la funzione archetipica da sempre attribuita al viaggio;
proprio attorno a questa specifica qualità si sviluppa la mia tesi. Scopo di questo
studio è analizzare come gli autori considerati si siano rapportati all‟altro che
2
hanno incontrato in viaggio, come questo incontro/scontro1 abbia influito sulle
loro strutture culturali, ed infine evincere quale sia la relazione etica che emerge
dall‟incontro. Prima di proseguire spiegando come questo studio procederà, è
importante una precisazione terminologica. In questa tesi si usano molto
frequentemente i termini altro – diverso – nuovo, ed in alcuni casi essi possono
apparire sinonimi. Come si avrà modo di spiegare più diffusamente nel paragrafo
„L‟incontro/scontro,‟ con il termine altro si vuole indicare ciò che è
assolutamente altro e che quindi non è possibile comprendere. Emmanuel
Lévinas, a cui questo studio parzialmente si ispira, indica nell‟altro non solo la
totale alterità ma soprattutto l‟impossibilità di comprenderla. La sola
manifestazione possibile è quella del “viso,” che Seàn Hand in The Lévinas
Reader spiega in questi termini: “The term „face‟ here denotes the way in which
the presentation of the other to me exceedes all idea of the other in me” (5).
L‟altro è tale perché va al di là di qualsiasi preesistente concezione dell‟alterità.
Altro, perciò, può essere sia il diverso, inteso come „diverso da sé‟ e di
conseguenza inconoscibile; sia il nuovo, perché l‟apparizione dell‟altro mette il sé
in una condizione nuova: l‟altro che si presenta è „nuovo‟ perché non esperito
prima. Quest‟ultimo sostantivo, tuttavia, pone alcuni limiti e non sarà spesso
utilizzato come sinonimo rispetto ad „altro‟ o „diverso.‟ È emerso infatti che
„nuovo,‟ o meglio la ricerca del nuovo, è spesso un punto di partenza più che un
risultato. In altre parole, più che trovato, il nuovo è deliberatamente cercato.
Questo è spesso il caso, ad esempio per Alberto Moravia. Questo elemento, però,
sposta leggermente la prospettiva della discussione perché immette una dinamica
che non è contemplata nel discorso sull‟alterità, ovvero quella dell‟opposizione
fra tradizione/vecchio ed innovazione/nuovo. La novità non è il criterio su cui si
sviluppa l‟alterità, può essere una delle sue componenti, ma non è quella che
definisce l‟altro come tale. Seguendo Lévinas, d‟altra parte, è difficile dare un
1
La parola inglese encounter è quella che meglio riesce a trasmettere questo concetto. In italiano i
due sostantivi incontro/scontro hanno rispettivamente valore positivo e negativo. In inglese,
invece, encounter non ha un‟unica accezione che trasmetta a priori un‟idea di ostilità o di apertura.
Il termine encounter è il più adatto perché quando diverse culture si confrontano, le situazioni che
ne scaturiscono sono complesse ed entrambi gli elementi sono presenti; c‟è una componente di
disponibilità verso l‟altro, ma ci sono anche elementi di contrasto e divergenza.
3
nome all‟elemento che denota l‟altro, perché l‟unica cosa che veramente lo
caratterizza è l‟assolutezza della sua alterità. Può sembrare una tautologia ma
l‟altro è tale solo se assolutamente altro. La ricerca del nuovo, quindi, non
corrisponde necessariamente alla ricerca dell‟altro o del diverso, benché possa in
alcuni casi portare all‟incontro con esso. L‟oscillazione che si registrerà in
relazione a questi tre termini rispetta quanto fin qui chiarito; perciò se “altro” e
“diverso” sono spesso utilizzati come sinonimi, “nuovo” invece è adottato come
tale solo in pochissimi casi, e quando ciò avviene è chiarito nel testo in quale
accezione lo si intende. Nuovo si riferisce solitamente alla situazione in cui il
viaggiatore viene a trovarsi o, più in generale, a ciò che egli concepisce come in
opposizione a ciò che già conosce.
Il viaggio come momento d‟incontro/scontro e luogo cognitivo, sarà il
nucleo centrale di questa discussione. Intorno a questo tema saranno sviluppate
alcune delle problematiche ad esso direttamente collegate. In primo luogo si
prenderanno in esame le modalità con cui esso avviene, guardando sia all‟aspetto
pratico, ovvero considerando come i viaggiatori si siano fisicamente avvicinati al
diverso, sia all‟approccio teorico, esaminando l‟atteggiamento mentale con cui si
sono accostati ad altre culture. In secondo luogo si vedrà che tipo di relazione si
stabilisca fra i viaggiatori e l‟alterità, soffermandosi in particolare sui criteri che
sono stati alla base della relazione stessa. Questo punto è uno dei momenti più
importanti di questo studio in quanto uno dei principi che informa questa tesi è la
volontà di capire quali siano gli sviluppi, le possibilità, ma anche i cambiamenti
avvenuti nel modo di relazionarsi al diverso. L‟analisi si concluderà prendendo in
esame quali siano stati, nei diversi casi esaminati, gli esiti dell‟incontro sul piano
etico. Si avrà modo di approfondire quest‟ultimo aspetto fra breve, in relazione
all‟approccio adottato; per il momento basti accennare che una delle ragioni
d‟essere della ricerca è quella di fornire una possibile chiave di lettura dei
fenomeni per metterci in condizione di comprendere meglio la realtà di cui
facciamo parte in quanto esseri umani. Proprio questa riflessione mi ha portato a
privilegiare l‟aspetto etico su tutti gli altri. Tra le varie prospettive secondo cui
l‟incontro poteva essere studiato – economica, politica, sociologica, ecc – quella
4
etica si pone a mio avviso con maggiore urgenza, soprattutto in considerazione
delle caratteristiche multietniche che le società occidentali hanno acquisito.
L‟incontro è un momento cruciale perché dà la possibilità di entrare in contatto
con culture diverse da quella a cui si appartiene. Quest‟ultima possibilità pertiene
al vasto campo dell‟esperienza umana, di cui ognuno è protagonista in quanto
essere pensante ed agente, e di conseguenza suscettibile di una considerazione
etica.
Quanto fin qui affermato segnala anche quale sia l‟approccio ai libri qui
considerati. Come si avrà modo di ribadire più oltre, uno degli elementi
irrinunciabili di ogni testo di viaggio è l‟incontro/scontro con l‟altro. Essendo
questo il momento centrale della mia tesi, ed essendo quest‟ultima imperniata
principalmente su testi letterari, avrei potuto sviluppare l‟analisi in direzioni
diverse. Ad esempio una delle possibilità sarebbe stata quella di analizzare come,
in epoca contemporanea, il canone della letteratura odeporica sia cambiato in
funzione dell‟incontro/scontro con l‟altro. Questa prospettiva è legittima e
giustificata. Un‟osservazione ad ampio raggio di questa tradizione letteraria
evidenzia infatti che i maggiori mutamenti all‟interno di questo genere siano
dovuti anche al modo di concepire, rapportarsi e descrivere l‟incontro/scontro con
l‟altro. Tuttavia, più che cercare una ridefinizione del genere, ho voluto
considerare il viaggio come momento cognitivo; invece di cercare il nuovo
paradigma di sviluppo della letteratura di viaggio, ho guardato a come l‟incontro
con l‟altro diviene un momento foriero di una diversa concezione di sé nel mondo
da parte di chi scrive. Questo avvicina la mia tesi all‟ambito dei cultural studies
più che a quelli prettamente letterari. Può sembrare quindi opinabile la scelta di
usare quasi esclusivamente testi che appartengono all‟ambito letterario. Tuttavia,
va in primo luogo ricordato che la letteratura è da sempre il principale veicolo di
trasmissione dell‟esperienza del viaggio, e quindi la decisione di operare su testi
letterari rappresenta una continuazione rispetto ad una tradizione ben solidificata.
In secondo luogo i cultural studies non negano la funzione della letteratura, al
contrario, la includono in un concetto di cultura molto ampio, e vedono in essa
uno dei luoghi in cui meglio si articolano le strutture dell‟immaginario umano. In
5
questa tesi il viaggio non è inteso come un episodio letterario, ma come un
momento di un‟esperienza vissuta di cui si ha una testimonianza letteraria.
L‟apporto critico dei cultural studies mi è sembrato inoltre appropriato anche in
considerazione della notevole attenzione all‟aspetto etico che distingue questo
approccio.
1.
Il viaggio
Prima di approfondire la problematica dell‟incontro e della relazione con
l‟altro, tuttavia, è utile soffermarsi sul ruolo del viaggio sia in letteratura, sia in
quanto esperienza reale, i cui esiti hanno dei diretti riflessi sulla nostra
quotidianità. Nell‟affrontare il discorso sul viaggio in ambito letterario ci si deve
confrontare con la sua funzione più importante, quella archetipica. Da sempre
esso ha un valore duplice; è sofferenza, patimento perché legato ad un castigo o
una vendetta, ma è anche conoscenza, da intendersi sia nella più generale
accezione culturale, ovvero proiettata verso l‟esterno, sia come scoperta e
definizione di sé, assumendo valore introspettivo. Nella Bibbia, la cacciata e il
forzato spostamento che ne consegue, è la prima forma di castigo nei confronti
dell‟uomo; in seguito al peccato originale “Il Signore Dio lo scacciò dal giardino
dell‟Eden” (3.23), e l‟uccisione di Abele viene punita proprio costringendo Caino
ad essere “ramingo e fuggiasco ” (4.12) sulla terra. Anche in ambito più
esclusivamente letterario il viaggio viene assimilato ad una condanna, benché con
valore meno definitivo; nel primo di tutti i viaggi della letteratura occidentale,
Ulisse è infatti costretto a vagare perché Poseidone “serbava rancore violento
contro il divino Odisseo” (3). Nei casi citati, lo spostamento è una punizione, e
nei passi biblici è una vera e propria maledizione. Tuttavia il significato del
viaggio non si esaurisce nella sua proprietà espiatoria.
Nel passato l‟importanza del suo ruolo aumentava in misura delle difficoltà,
o delle imprese alle quali il protagonista era costretto. Nell‟Epopea di Gilgamesh,
l‟altra grande epica odeporica dell‟antichità, quando il giovane re torna al suo
regno sarà più saggio proprio grazie alle prove superate durante il cammino.
Secondo una struttura epistemologica che diventerà fondamentale nell‟etica
6
cristiana,2 proprio le sofferenze causate dal viaggio contribuiscono alla completa
realizzazione del protagonista; le prove servono a confermare il proprio ruolo in
patria, come nel caso di Ulisse, o a ristabilirlo con parametri differenti, come
accade ad esempio con Gilgamesh. Oltre che dal forzato allontanamento da ciò
che è familiare, la sofferenza durante il viaggio è causata dalla costante incertezza
con cui il protagonista si deve confrontare e che si riferisce ai luoghi in cui è
costretto a vagare e alle diverse culture con le quali viene in contatto. Il timore di
ciò che non si conosce è però solo una parte del confronto, ed i viaggiatori
possono rientrare in patria come eroi proprio perché hanno saputo misurarsi con
l‟ignoto.
Anche nella sua funzione di condanna, perciò, il viaggio ha sempre
conservato una importante componente educativa. Pur non essendo mai
scomparso completamente,3 l‟aspetto punitivo è andato scemando, e nelle epoche
successive l‟accento si sposta in modo determinante sulle possibilità di sviluppo
che il viaggio offre. Proprio questa prospettiva ha in seguito permesso alla
dicotomia sofferenza/conoscenza di risolversi a netto favore dell‟aspetto
cognitivo. Il confronto con l‟ignoto è il momento topico del viaggio, apre le porte
a nuove possibilità, e lo spostamento, da mera punizione può diventare luogo di
apprendimento. I fittizi racconti di viaggio medioevali rispondono in parte a
questa necessità, le meraviglie d‟oriente iniziano laddove terminano le terre
conosciute, e i caratteri favoleggianti attribuiti alle terre inesplorate e ai loro
abitanti servono in qualche modo a giustificare il limite della conoscenza. In
epoca tardo medioevale, inoltre, le narrazioni dei pellegrini in Terra Santa, si
soffermano sull‟aspetto culturale, e in qualche caso anche di scoperta, più che
sulle difficoltà da dover superare per raggiungere i luoghi sacri. 4 Nel corso dei
2
La struttura purificatrice ed iniziatica dei grandi viaggi dell‟antichità si ripropone in epoca
cristiana con l‟opera che probabilmente è la più rappresentativa in questo senso, ovvero la Divina
Commedia.
3
Eric Leed nota che Claude Lévi Strauss, noto antropologo e viaggiatore, pur disprezzando i
luoghi comuni intorno al viaggio, sottolinea proprio la fatica che l‟antropologo deve affrontare
durante i suoi spostamenti per ottenere dei risultati rilevanti (9).
4
Per un approfondimento sullo sviluppo dei resoconti di viaggio religiosi, si veda il saggio di
Giorgetta Ravelli „Il pellegrinaggio: genesi ed evoluzione di un genere letterario‟ contenuto nella
raccolta di atti Da Ulisse a Ulisse: il viaggio come mito letterario, 69-89.
7
secoli successivi prevarrà questa concezione del viaggio, divenendo addirittura
quasi esclusiva in epoca umanistica e rinascimentale, dove viaggiare è quasi
sinonimo di scoprire. Per secoli i viaggiatori hanno cercato in primo luogo di
svelare che cosa si trovava al di là dei confini conosciuti. La motivazione
economica, che in genere monopolizza il discorso sulle esplorazioni è
indubbiamente importante; tuttavia è preceduta dal bisogno umano di
comprendere meglio la realtà, in questo caso da una prospettiva geografica, di cui
si fa parte. Le relazioni di viaggiatori come Cristoforo Colombo, Antonio
Pigafetta, o i volumi di editori come Giovanni Battista Ramusio5 hanno permesso
di definire con più precisione la posizione dell‟uomo sulla superficie terrestre, in
un certo senso perciò, hanno permesso all‟uomo di acquisire una diversa
coscienza di sé nel mondo. Il momento più alto del viaggio come luogo di
arricchimento culturale lo si raggiunge fra il diciottesimo ed il diciannovesimo
secolo, con il Grand Tour. In qualche modo ogni testo odeporico porta il segno
della propria epoca, sia nel contenuto che nella forma. Il Grand Tour, ad esempio,
concepito come un vero e proprio percorso culturale attorno all‟Europa,
arricchisce lo stesso approccio illuminista dal quale nasce. Fra Settecento ed
Ottocento, per la nobiltà europea visitare altri paesi costituiva una vera e propria
iniziazione, nel bene e nel male.6 Nelle narrazioni ottocentesche, in epoca
romantica, i racconti di viaggio si arricchiscono di un‟ulteriore dimensione: quella
introspettiva, riflettendo sulle emozioni che viaggiare provocava sull‟animo del
narratore. L‟esempio più noto è forse A Sentimental Journey di Laurence Sterne,
ma non è certamente l‟unico.
Una caratteristica che accomuna i diversi momenti della storia del viaggio
presi in esame è la curiosità, il desiderio di avventura e di scoperta che anima i
viaggiatori. Il valore cognitivo del viaggio si arricchisce quindi di un‟ulteriore
5
Ramusio non è un viaggiatore bensì un editore. Lo si è voluto inserire in questa lista perché i suoi
tre volumi Navigazioni e Viaggi, raccolgono narrazioni odeporiche antiche ma anche a lui
contemporanee. Ramusio ha svolto un importate ruolo di conservazione dei testi; il successo dei
suoi volumi, inoltre, segnala l‟interesse per le nuove scoperte geografiche, e per la letteratura di
viaggio in generale, nel pubblico dell‟epoca.
6
Il Grand Tour può essere un percorso sia positivo che negativo; può portare ad un ampliamento
delle conoscenze, ma anche all‟autodistruzione. Per un esame più approfondito sul Grand Tour si
veda il capitolo di James Buzard nel volume Cambridge Companion to Travel Writing.
8
componente, quella fisica. La conoscenza che deriva dallo spostamento non è solo
sapere intellettuale, ma è anche una conoscenza che deriva dall‟aver fisicamente
vissuto il viaggio e l‟incontro con l‟altro. Del resto viaggiare, nel suo significato
etimologico significa spostarsi fisicamente da un luogo ad un altro;
l‟arricchimento intellettuale che ne può derivare è, quindi, in qualche modo
mediato dall‟esperienza fisica del viaggiatore. Coerentemente con l‟approccio
fenomenologico adottato, in cui l‟esperienza umana è tale in quanto corporea e
vissuta in un mondo reale, in questo studio il viaggio e l‟incontro/scontro hanno
una doppia valenza cognitiva. Attraverso l‟esperienza del corpo, ovvero
l‟immediatezza e la partecipazione diretta, il viaggio e l‟incontro divengono
strumento per un nuovo modo di concepirsi nel mondo e di relazionarsi ad esso.
I testi letterari a cui si è fatto riferimento fino a questo punto appartengono a
tradizioni e generi molto diversi: dalla mitologia greca, alla tradizione allegoricocristiana, dalle epistole medioevali sul meraviglioso oriente, ai giornali di bordo
degli esploratori. Si è voluta fornire una selezione piuttosto eclettica di testi per
sottolineare una delle caratteristiche che rende tanto importante il viaggio: la sua
universalità. Nel corso delle diverse epoche è cambiato molto in merito ad esso: i
mezzi, i tempi, le ragioni, le aspettative. È mutato di conseguenza anche il modo
di descriverlo e raccontarlo. Nonostante i cambiamenti intorno al viaggio,
tuttavia, è rimasta invariata la prerogativa che lo rende universale: spostarsi è una
delle fondamentali attività umane, indipendentemente dal luogo, dal tempo o
dall‟etnia. Il viaggio, come situazione umana quasi primordiale,7 si arricchisce nel
corso dei secoli di componenti che di volta in volta sono diverse ma che si
riferiscono, in ultima analisi, sempre all‟ambito cognitivo. Indipendentemente dal
valore assegnatogli nei diversi contesti e per diverse ragioni, il viaggio resta
un‟essenziale esperienza umana, e proprio grazie alla sua polivalenza, suscita
interessanti problematiche epistemologiche.
In epoca contemporanea, tuttavia, proprio il valore cognitivo del viaggio
sembra essere scomparso, o quantomeno essersi evoluto in una diversa direzione.
7
Basti pensare, a questo proposito, che per secoli l‟essere umano è stato nomade, e che alcune
popolazioni lo sono ancora.
9
Non è più il momento dell‟esplorazione e scoperta del mondo, e viene messa in
dubbio anche la funzione formativa o di auto-definizione del viaggiatore. Oggi,
informazioni ed immagini di luoghi e popolazioni anche remoti sono facilmente
reperibili ed il viaggiatore può arrivare a destinazione sapendo già parzialmente
ciò che lo aspetta. Durante il viaggio, quindi, al soggetto non si rivelano più
l‟esotico altro e altrove, ed i rapporti si sviluppano secondo canoni che sono
diversi rispetto a quelli del passato. Se sia ancora possibile attribuire al viaggio un
valore esperienziale-cognitivo che sia formante per il soggetto è uno dei problemi
principali di questo studio. Non si potrà fornire una decisa risposta in senso
affermativo o negativo, ma si verrà delineando un percorso che evidenzia come il
venire meno dell‟incontro con l‟ignoto durante il viaggio, determini la necessità di
fare l‟esperienza dell‟alterità ad un livello che è fisico ed emozionale più che
unicamente circoscritto all‟ambito della conoscenza intellettuale.
2.
L’incontro/scontro
Definire l‟altro è un paradosso necessario. Oggi questo sostantivo è usato in
maniera tanto generalizzata che è sempre meno chiaro che cosa si voglia indicare
con il concetto di alterità. Altro è la donna rispetto all‟uomo, altro è chi professa
una differente religione, altro è chi appartiene ad una cultura diversa, ma altro è
soprattutto ciò che non può essere compreso in base ai propri parametri culturali.
La critica post-colonial, alla quale si farà ampio riferimento in questo studio, ha
evidenziato insieme l‟importanza ed il limite degli studi che prendono in
considerazione il momento dell‟incontro fra culture diverse. Vale la pena
ricordare che all‟interno del discorso post-colonial l‟espressione “culture diverse,”
non si riferisce solo alle costituenti culturali di un popolo, ma indica una precisa
posizione di potere, in altre parole, allude più in generale all‟opposizione
colonizzatore/colonizzato. Sono passati ormai molti anni da quando Edward Said
con Orientalism, affermando che “the Orient was almost a European invention”
(1), dava inizio ad un processo, tuttora in atto, di rilettura critica della produzione
intellettuale europea. Il nodo centrale della questione e il motivo che rendeva
necessaria una revisione in questo senso, erano in primo luogo i presupposti ed i
10
termini della rappresentazione della diversità. La teoria post-colonial si è poi
sviluppata in molte direzioni, trovando applicazione in ambito letterario, storico,
etnografico, solo per citarne i più noti, e in relazione a questioni di diversa natura,
dai rapporti di potere alle problematiche relative all‟identità nazionale, dalle
strutture culturali alle più vaste questioni politiche e sociali. Chi si occupa di
questo ambito di studi sa che è difficile isolare uno di questi argomenti per farne
una trattazione specifica; la disciplina di per sé è troppo composita per rendere
possibile l‟approccio
monografico. Tuttavia,
proprio per non
perdersi
nell‟eccessiva eterogeneità, è necessaria una precisazione su quale sia l‟ambito
della teoria post-colonial al quale si farà qui riferimento. Questo studio si occupa
in primo luogo del viaggio e dell‟incontro con il diverso che avviene durante lo
spostamento, è quindi naturale che oltre alle questioni epistemologiche legate alla
rappresentazione culturale, ci si occupi delle problematiche relative all‟identità e
alle questioni etiche che emergono dal confronto con la diversità.
Leela Gandhi ha messo in evidenza che tutti i teorici post-colonial sono
ormai concordi nell‟affermare che nel momento in cui si incontra una cultura
diversa sorge il bisogno di: “[…] preservation and perpetuation of essentialised
racial/ethnic identities” (126). Stuart Hall ha ulteriormente sviluppato questo
punto in riferimento all‟identità, affermando che proprio il processo di creazione
di un “altro” – lo studioso parla di un vero e proprio “process of othering” (227) –
è il presupposto necessario per riconfermare se stessi e la propria identità. Tutta la
critica post-colonial inoltre è concorde nell‟asserire che la riaffermazione avviene
in termini di subordinazione dell‟altro, a livello culturale in primo luogo e di
conseguenza in tutti gli altri ambiti. In altre parole, una volta dimostrato che
l‟altro è per costituzione inferiore all‟europeo, si giustifica la necessità della
dominazione.
Tuttavia, l‟interesse per questo approccio teorico non nasce solo dal fatto
che esso ha fornito agli studiosi gli strumenti per individuare gli atteggiamenti
mentali di chi nel passato descriveva l‟altro e l‟altrove. È necessario saper
riconoscere quali sono i meccanismi messi in atto dalla cultura europea per
semplificare, banalizzare e quindi ridurre ad una posizione subalterna la diversità,
11
ma riconoscere il processo non basta. Il paragrafo che apre il volume A Critique
of Post-Colonial Reason di Gayatri Spivak, è illuminante in questo senso:
“Colonial discourse studies, when they concentrate only on the representation of
the colonized or the matter of the colonies, can sometimes serve the production of
current neocolonial knowledge by placing colonialism/imperialism securely in the
past, and/or by suggesting a continuous line from that past to our present” (1).
Andare a ritroso e rileggere la produzione intellettuale europea in questa chiave
serve a dare delle conferme, ma se ci si limitasse a questo sarebbe in fondo solo
del revisionismo; è infatti ormai pienamente stabilito che si tratta di una
produzione faziosa dal punto di vista ideologico. Inoltre, ed è l‟aspetto più
pericoloso secondo la studiosa, questo atteggiamento porterebbe a considerare il
colonialismo/imperialismo come un momento passato e concluso, evitando in
questo modo di affrontare fenomeni che sono invece tuttora in atto. In realtà
l‟approccio post-colonial convince perché apre anche una nuova prospettiva sul
presente, offrendo più in generale un‟interpretazione critica dell‟approccio alla
diversità che va al di là di specifici luoghi e periodi storici.
Altro motivo per cui è ineliminabile l‟apporto di questa teoria è che essa
permette di operare delle distinzioni all‟interno delle opere che si confrontano con
la problematica dell‟alterità. Come afferma Steve Clark: “Narratives of encounter
are undeniably dominated by the viewpoint of the mobile culture, yet it is possible
to exaggerate the degree of superiority implied” (5). Questa precisazione è
fondamentale in questo studio in quanto il mio proposito è solo in parte quello di
capire in che misura l‟atteggiamento mentale europocentrico si applichi ai tre
scrittori di cui mi sono occupata. Ciò che mi interessa principalmente è
individuare nei loro scritti i momenti in cui si sono aperti all‟altro e si sono resi
disponibili ad un incontro che mira alla conoscenza ed all‟accettazione delle
diversità. Riassumendo, in questa tesi non si analizzeranno i procedimenti con cui
i tre scrittori hanno costruito il loro “altro” africano, ma si guarderà ai momenti in
cui sono riusciti a stabilire con lui un rapporto significativo, cercando un dialogo e
volendo stabilire sulla base di quest‟ultimo un rapporto che superi stereotipi e
generalizzazioni culturali.
12
Il ruolo del viaggio in questo contesto è fondamentale, perché storicamente
è grazie ad esso che si è entrati in contatto con altre culture, calandosi in realtà
diverse da quella di appartenenza. Per il viaggiatore contemporaneo, invece,
sembra essere venuta meno proprio questa possibilità in parte perché, a causa
della globalizzazione la realtà tende ad assomigliarsi un po‟ ovunque,8 e in parte
perché il viaggio è effettuato spesso in luoghi predisposti per i turisti e che
presentano, perciò, una realtà costruita su misura. Instaurare una relazione
significativa con chi appartiene ad un diverso sistema culturale diviene allora più
difficile, perché occorre in primo luogo capire su che livello si sviluppi la
diversità.
Prima di proseguire e chiarire quale è stato l‟approccio etico qui adottato, è
utile fare una precisazione riguardo al viaggio in epoca contemporanea. Il viaggio,
così come lo intende la teoria post-colonial, ovvero come “travelling cultures” è
in realtà un‟esperienza che riguarda solo un‟elite. Ad un livello più popolare, e
quindi più diffuso, il viaggio è ancora visto come un‟immersione in un luogo ed
in una cultura che spesso sono percepiti come esotici, diversi e pittoreschi. Il
turista medio che si reca in Africa, o in qualsiasi altro luogo, per una vacanza,
spesso vive il viaggio in modo consumistico, cercandovi la soddisfazione di un
bisogno, senza preoccuparsi di come percepisce, e a sua volta è percepito,
dall‟altro. Il crescente numero di spostamenti, infatti, non è segno di un maggiore
o migliore scambio culturale fra chi lascia il proprio paese e chi riceve il
visitatore. Va precisato, inoltre, che il discorso sul viaggio come attività ormai
facente parte della nostra normalità, è proprio dell‟occidente, o comunque di paesi
che hanno economie sviluppate. In realtà per la maggior parte degli abitanti del
pianeta, il viaggio verso altre culture, è ancora un momento eccezionale; basta
pensare ad esempio ad alcune regioni dell‟Asia, dell‟Africa o dell‟India per capire
che viaggiare è ancora un privilegio. Ciononostante, è vero che la superficie
terrestre è stata ormai completamente esplorata, ed è in parte giustificata la
percezione che abbiamo in quanto occidentali che i confini del mondo si stiano in
8
Leela Ghandi in Postcolonial Theory appropriatamente definisce questo fenomeno una
“McDonald‟sisation of the world” (125).
13
qualche modo riducendo. Ma se dal punto di vista geografico non è rimasto nulla
di inconosciuto, è invece tutto da esplorare e sviluppare il rapporto che si può
mettere in atto fra le popolazioni, ovvero le tante “alterità” che popolano la terra.
Il problema oggi è capire su quale livello si sviluppi veramente la diversità e
quale sia la giusta modalità con cui rapportarsi ad essa. Questa importante
problematica verrà ripresa anche nelle conclusioni perché sembra essere proprio
questa la vera sfida dei viaggiatori di questo millennio. La diversità culturale pare
stia progressivamente scemando, e i diversi luoghi del pianeta sembrano
condannati ad assomigliarsi sempre di più. Riconoscere la diversità diventa
difficile, perché nascosta da una patina di generale omologazione ai modelli
occidentali. Prima del processo di de-colonizzazione i principi della relazione
erano quelli dettati dall‟occidente, ora essa si deve sviluppare in modo diverso. Al
viaggiatore contemporaneo, le cui aspettative di esotismo ed eccezionalità
sembrano destinate ad essere deluse, sono venuti meno i criteri secondo cui
rapportarsi al diverso che incontra e l‟unica comunicazione che riesce ad
instaurare spesso si basa su modelli stereotipati.
Questo stato di cose porta a mettere in dubbio le possibilità cognitive del
viaggio. Il recente libro di Debbie Lisle The Global Politics of Travel Writing
dimostra che gli scritti di viaggio oltre ad essere stati influenti nel passato
contribuendo a costruire e mantenere una cultura imperialista, lo sono a maggior
ragione oggi perché sono strettamente connessi “to the „serious‟ business of world
affairs, and their significance to the study and practice of global politics” (1).
Quello che la studiosa a ragione sostiene, è che l‟importanza delle narrazioni di
viaggio non sia affatto diminuita in conseguenza della maggiore conoscenza della
superficie terrestre. Ad essere cambiato è solo l‟oggetto attorno al quale le
narrazioni si sviluppano, ora non è più la scoperta dell‟esistenza della diversità,
della presenza dell‟altro, che interessa, ma capire come gestire la relazione.
Una proposta interessante, su questo punto, è quella avanzata da Emmanuel
Lévinas, nella sua considerazione etica dell‟incontro con l‟altro. In questo studio,
la discussione sulla relazione con il diverso sarà guidata dalle riflessioni del
filosofo francese. Nella sua opera più importante Totalité et Infini, egli stabilisce i
14
fondamenti per una nuova relazione etica fra il sé e l‟altro. Egli propone un modo
nuovo di intendere l‟incontro con la diversità, in cui l‟altro ed il sé sono messi
sullo stesso piano. Lévinas afferma, in contrasto con Sartre ed Heidegger, che la
relazione non deve descriversi necessariamente in termini di assorbimento o
contrasto, ma può risolversi come dinamica di reciproco avvicinamento. Va
segnalato che per Lévinas i due termini del rapporto restano sempre
fondamentalmente separati, perché il presupposto della relazione è dato proprio
dalla fondamentale inconoscibilità dell‟altro. Egli scrive: “A l‟un, l‟autre peut
certes se présenter comme un thème, mais sa présence ne se résorbe pas dans son
statut de thème” (TI 212). È proprio questa separatezza a rivelare la necessità di
una riduzione della lontananza. La relazione fra i due termini inoltre è
fondamentalmente di carattere etico perché se essi sono posti sullo stesso piano, le
reciproche posizioni di potere si invalidano, e sorge invece il senso di
responsabilità per l‟altro. La relazione descritta da Lévinas in termini molto
astratti, trova applicazione pratica, e quindi etica, proprio nelle relazioni sociali.
In uno degli ultimi capitoli, Du pareil au même, egli afferma che sono proprio le
relazioni sociali il primo luogo in cui questa relazione etica viene posta in essere
(322). La filosofia di Lévinas, è una proposta di impegno verso l‟altro, di dedica e
cura, oltre che di reciproca accettazione. In questo studio si è ritenuto interessante
inserire proprio il discorso sull‟altro di Lévinas perché in conseguenza delle
dinamiche che le società occidentali stanno assumendo l‟incontro con il diverso
non è più un momento eccezionale, ma parte delle nostre vite quotidiane.
Prima di concludere questa sezione è doveroso accennare agli apporti venuti
dal campo dell‟antropologia. Una delle funzioni della narrativa di viaggio è quella
pedagogica, fin dai primissimi racconti, veri o presunti tali, l‟autore del libro di
viaggio voleva informare il lettore sui luoghi, anch‟essi veri o presunti tali, che si
potevano incontrare fuori dalla propria terra. I testi visti in questo studio
rispondono solo in parte a questa necessità; non si tratta più, se non per alcuni
passi di Dieci anni in Equatoria e ritorno con Emin Pascià, di testi informativi,
ma di libri in cui si mette in discussione e si ridefinisce la funzione cognitiva del
viaggio. Tuttavia raccontare l‟altro e l‟altrove attraverso i viaggi è sempre stato un
15
modo per sedurre i lettori, come si è visto all‟inizio di questa introduzione. La
seduzione può rivelarsi positiva, in questo secolo, perché può essere usata come
strumento per avvicinare all‟alterità. A questo si devono infatti i numerosi
contributi in ambito antropologico che si sono sviluppati dalla seconda metà del
XIX secolo e che sono solo il segno più evidente di un interesse che, nei confronti
dell‟alterità, è rimasto sempre molto forte. Un campo di studi importante, anche
se solo indirettamente collegato all‟argomento trattato, si è rivelato essere quello
dell‟antropologia. Benché la ricerca si sia svolta su testi appartenenti all‟ambito
letterario, si sono oltrepassati i tradizionali confini di questa disciplina perché il
contenuto degli scritti apre il campo ad un‟analisi che sfora inevitabilmente nella
problematica della rappresentazione culturale. Per questo motivo lungo la
discussione si è spesso fatto riferimento ai testi di studiosi e teorici di
antropologia. Fra gli altri, si è tenuto conto degli studi di James Clifford, il quale
in Discourses scrive: “One must bear in mind the fact that ethnography is, from
beginning to end, enmeshed with writing. This writing includes, minimally, a
translation of experience into textual form” (25). Nel mio caso il pretesto da cui
scaturiscono le narrazioni non è quello di uno studio antropologico, ma piuttosto
la volontà di dare forma letteraria ad un‟esperienza di viaggio fatta in prima
persona. Proprio l‟esperienza diretta è un elemento importante nel caso specifico,
perché rappresenta il punto di convergenza fra i due ambiti, quello letterario e
quello antropologico. Clifford pone l‟accento proprio sulla partecipazione fisica
all‟esperienza dell‟altrove e dell‟altro; la produzione scritta che ne consegue,
perciò non è dovuta ad un impegno di natura esclusivamente intellettuale, perché
si basa sull‟osservazione e sulla partecipazione diretta.
3.
Il luogo
Infine occorre spiegare perché si è scelto di parlare unicamente di testi
sull‟Africa. In primo luogo si è optato per una coerenza ed organicità tematica che
non sarebbe stata possibile, o facile da mantenere, se fossero stati scelti testi meno
omogenei. D‟altra parte occuparsi di alterità, significa aprire il campo ad una
vastissima gamma di possibilità. Ogni narrazione di viaggio, indipendentemente
16
dalla meta, descrive una relazione con l‟alterità, quindi sarebbe stato possibile
scrivere dell‟Africa, tanto quanto dell‟America, o dell‟India o anche dell‟est
Europa. A ben vedere, anche un viaggio nel sud Italia, quando è raccontato con
l‟intensità, la razionalità, e la precisione di Carlo Levi, è un viaggio che porta a
scoprire la diversità e che obbliga ad instaurare una relazione con l‟altro. In fondo
la diversità, o l‟alterità, sono tali perché a determinarle è in primo luogo la
lontananza culturale, inserendo in quest‟ultimo aggettivo tutto l‟insieme di usi e
costumi che caratterizzano e definiscono una data comunità.
Quindi, se tutto può essere altro, perché scegliere di parlare proprio
dell‟Africa? Il continente africano è geograficamente il più vicino all‟Italia, e in
generale all‟Europa meridionale, nonostante la prossimità, tuttavia, la definizione
“continente nero” vale anche in senso metaforico. L‟aggettivo nero, infatti,
rimandando al concetto di oscuro, può essere riferito anche al fatto che per secoli
l‟Africa è rimasta un continente inesplorato, sconosciuto e ritenuto “patria” di
mostri e stranezze. La conformazione geografica dell‟Africa, congiunta alla
frammentazione delle sue popolazioni, ha certamente contribuito a questo stato di
cose. Il processo di invasione e dominazione poi, ha colmato solo molto
parzialmente questo vuoto. L‟occidente si è occupato pochissimo delle culture
africane, riducendole in genere ai capitoli dedicati ai loro “usi e costumi” nei libri
di antropologia. A questo vuoto ha in parte contribuito anche l‟Italia. L‟esperienza
italiana in Africa, in particolare quella coloniale, benché non sia completamente
dimenticata, è stata per buona parte tralasciata come segno di un passato che si
preferisce dimenticare. Questo si traduce in una grandissima lacuna nel campo
degli studi di letteratura italiana sulle opere scritte sull‟Africa, o lì ambientate.
Eppure, benché l‟Italia non possa vantare una letteratura coloniale quale quella
francese o britannica, alcune opere furono scritte proprio con l‟intento di esaltare
una identità italiana che si sentiva il bisogno di rafforzare. È il caso ad esempio di
Mal d’Africa di Riccardo Bacchelli di cui si parlerà nel primo capitolo. Al di là
delle specifiche opere, tuttavia è la situazione ad essere singolare e quasi ironica;
se in epoca fascista l‟Africa serviva come proiezione per esaltare una fittizia
identità, oggi gli immigranti provenienti dall‟Africa, fra gli altri, stanno
17
contribuendo in concreto a creare una diversa identità italiana. Recentemente,
infatti, l‟Italia ha dovuto imparare a relazionarsi con persone di origine africana,
che sono diventate parte effettiva della società italiana. Negli ultimi anni questo
fenomeno ha assunto proporzioni tali da costituire un‟ulteriore spinta verso
l‟approfondimento delle dinamiche culturali che si sono sviluppate e si stanno
tuttora sviluppando fra Africa ed Italia.
Va fatta una precisazione rispetto alla terminologia usata in questo studio. Il
nome Africa, così come Europa, America o Asia, sta ad indicare un indistinto ed
eterogeneo insieme di nazioni, culture, tradizioni. In realtà l‟Africa come concetto
culturale non esiste; esiste solo come concetto geografico e parlare di Africa o
cultura africana come di un unicum è una radicale semplificazione. Tuttavia, si è
dovuto ricorrere proprio a questi termini generalizzanti in parte per l‟assenza di un
vocabolario che garantisca una giusta rappresentazione delle realtà africane, in
parte perché questa tesi non si occupa nel dettaglio delle diverse culture che si
possono incontrare in Africa. Lo scopo principale è di analizzare come i
viaggiatori abbiano reagito di fronte all‟altro che hanno incontrato nei loro viaggi
in Africa. All‟alterità non vengono assegnate specifiche caratteristiche, essa è
intesa in senso ampio: l‟altro a cui si fa riferimento in questo studio non è tale
perché appartenente ad una etnia piuttosto che ad un‟altra, ma lo è perché
l‟incontro provoca negli scrittori una trasformazione nel loro modo di concepire e
concepirsi nel mondo.
4.
I capitoli
Nel primo capitolo si prenderà in esame un testo poco conosciuto,
appartenente alla letteratura di viaggio d‟esplorazione, Dieci anni in Equatoria e
ritorno con Emin Pascià, 9 di Gaetano Casati, anch‟egli sconosciuto ai più. Casati,
andò in Africa alla fine del XIX secolo in qualità di esploratore e grazie alla sua
prolungata permanenza nella zona meridionale del Sudan, che in quel periodo
veniva chiamata Equatoria, riuscì a sviluppare una profonda conoscenza di alcune
tribù africane che abitavano quelle zone. Casati è uno degli ultimi occidentali a
9
Da questo punto, il testo di Casati verrà indicato con il titolo abbreviato Dieci anni in Equatoria.
18
poter ancora vivere il viaggio come scoperta geografica, e date le sue singolari
modalità, egli riesce ad instaurare un rapporto con l‟altro africano dagli aspetti
particolarmente stimolanti per un lettore contemporaneo.
Il suo testo incuriosisce in primo luogo per le insolite circostanze e
condizioni in cui si è svolta la vicenda. Egli restò in Africa per dieci anni e
trascorse la maggior parte di questo tempo con persone del luogo. Da questa
inconsueta esperienza africana nasce il suo libro in due volumi Dieci anni in
Equatoria. Il testo di Casati, oltre a fornire i dettagli sul suo incarico e i
conseguenti spostamenti, è anche la testimonianza di una progressiva
comprensione della diversità culturale. La sua lunga convivenza con alcune tribù
ha certamente facilitato l‟avvicinamento, tuttavia, il suo atteggiamento mentale
non
è
riassumibile
semplicemente
nella
formula
„conoscere
significa
comprendere.‟ L‟interesse dell‟esploratore nei confronti delle culture africane con
cui è entrato in contatto, si deduce proprio dal fatto che egli abbia voluto – oltre
che potuto – comprenderli.
Il testo di Casati, non va considerato come una testimonianza post-colonial
ante litteram; egli parte e ritorna in Italia con la convinzione che l‟Africa necessiti
dell‟azione civilizzatrice degli europei, sarebbe quindi improprio interpretarlo
come uno scritto che anticipa problematiche che sono tipiche dei nostri giorni.
Ciononostante, più volte in questo studio si definisce Casati una voce fuori dal
coro perché, pur situandosi in piena epoca di colonizzazioni, la sua descrizione
della diversità non è informata unicamente da un‟ottica di dominio. La
rappresentazione culturale che emerge dal suo libro non risente del modello
ideologico imperialista che è alla base del discorso coloniale. Uno dei presupposti
fondamentali della critica post-colonial è che i criteri della rappresentazione
dell‟altro sono dettati dalla necessità di legittimare la presenza dominante da parte
dell‟Europa. Banalizzazioni culturali, stereotipi e semplificazioni, fra gli altri,
hanno in genere la funzione di descrivere l‟altro come inferiore a qualche livello,
e servono perciò a giustificare il potere territoriale, politico ed economico. Non
mancano, anche in Dieci anni in Equatoria, alcuni degli stereotipi immancabili
nei testi di quel periodo, ma sono presenti più come elemento retorico che
19
contenutistico. Il discorso che si faceva allora intorno all‟alterità africana, non
stabilisce i criteri con cui Casati si rapporta ad essa nella quotidianità, e la sua
narrazione ne è influenzata solo ad un livello formale. L‟approccio al diverso che
si deduce dal testo, è guidato dalla volontà di conoscere le culture con le quali si
trovava a convivere. Proprio l‟abilità di Casati nel costruire relazioni fondate
sull‟apertura rispetto alla diversità è stata notata da uno degli scrittori più influenti
della prima metà del XX secolo. Nell‟ultima parte del primo capitolo, a chiusura
del discorso su Casati, si è portata l‟attenzione sul volume di Riccardo Bacchelli
Mal d’Africa. Il testo di Bacchelli è stato ripreso perché lo scrittore re-interpreta
l‟avventura di Casati in termini letterari ma anche fortemente ideologizzati.
Bacchelli offre una lettura deviata della relazione etica che l‟esploratore era
riuscito a costruire con gli africani con cui era entrato in contatto; in questo modo
Dieci anni in Equatoria diviene terreno e strumento per la costruzione di una
fittizia identità italiana facilmente riconoscibile nel modello fascista allora
imperante. L‟inserimento del suo libro all‟interno della mia tesi è doppiamente
motivato: oltre alla continuità tematica, Mal d’Africa offre degli spunti di
riflessione molto fecondi sui possibili fondamenti etici ed ideologici nella
relazione con l‟altro. Il volume di Bacchelli permette soprattutto di esaminare la
funzione che la relazione con l‟alterità può assumere nella costruzione di
un‟identità nazionale. Va chiarito, tuttavia, che in questo contesto il romanzo di
Bacchelli, è considerato come esempio in negativo perché rappresenta una
regressione, sul piano etico, del rapporto con il diverso. Le modalità
dell‟approccio all‟altro descritte nel primo capitolo sono singolari e per certi versi
uniche all‟interno di questa tesi, perché l‟Africa che visiteranno Alberto Moravia
e Gianni Celati è ormai un continente tanto esplorato e conosciuto che loro ci
andranno in veste di turisti.
Il secondo capitolo si occupa degli scritti africani di Alberto Moravia, A
quale tribù appartieni, Lettere dal Sahara, Passeggiate africane e La donna
leopardo. Moravia, vive il viaggio in Africa in modo molto diverso rispetto a
Casati. Nel continente africano lo scrittore vede il luogo in cui è ancora possibile
trovare il primitivo, fare l‟esperienza del nuovo ed incontrare il realmente diverso.
20
Questa vaga idealizzazione dell‟Africa porta a presumere che Moravia ricorra al
topos del continente misterioso ed inesplorato in cui ritrovare un ideale stato di
natura ormai perso in Europa. Lo scrittore certamente ama soprattutto gli aspetti
meno evoluti del continente africano, non perché egli metta in atto una stereotipia
culturale europea, ma in quanto essi gli permettono di avvicinarsi all‟Africa con
spirito ricettivo, abbandonandosi in primo luogo alle sensazioni che la natura e gli
abitanti gli suscitano. La sua percezione della diversità è quindi dedotta dalla
situazione in cui si trova, senza però essere semplicemente occasionale o
generica. La scelta di inserire Moravia in questo studio è dovuta, infatti, alle
penetranti analisi dei comportamenti umani che egli sapeva offrire e che gli
derivavano dal desiderio e bisogno di comprendere profondamente la società di
cui faceva parte. Moravia è stato uno degli scrittori italiani più influenti del XX
secolo, e in quanto intellettuale militante egli si è occupato di questioni politiche e
culturali, oltre a quelle specificatamente letterarie. Inoltre, forse più d‟ogni altro,
Moravia
rappresenta
l‟intellighenzia
italiana
del
dopoguerra,
che
si
contraddistinse per l‟impegno sociale e politico. Lo caratterizzava un‟inclinazione
a voler evincere i principi fondamentali delle realtà con cui veniva in contatto,
facendo leva su una consapevolezza che gli poteva derivare solo dal
coinvolgimento in prima persona. La sua partecipazione attiva, e allo stesso
tempo attenta alle dinamiche che lo circondavano, era guidata dal bisogno di
approfondire le ragioni prima ancora delle modalità delle azioni umane. Questa
stessa attitudine mentale la si ritrova anche nei suoi libri di viaggio, e non solo in
quelli relativi all‟Africa, naturalmente, benché in questa sede ci si riferisca
esclusivamente ad essi. Tuttavia, questo bisogno di una comprensione profonda è
vissuto in Africa in modo contraddittorio. Proprio la sua quasi eccessiva capacità
analitica delle circostanze e dei contesti sembra porgli dei freni quando si trova a
confronto con le realtà africane. Fra i tre scrittori considerati, infatti, è quello
maggiormente influenzato dalla consapevolezza dell‟impostazione imperialista
della relazione fra europei e africani. Per questo motivo cerca un rapporto che sia
il meno invasivo possibile, soprattutto con la popolazione, anche quando questo si
traduce in assenza di una relazione vera e propria. Sapendo che la
21
rappresentazione può tradursi in una forma di dominazione, egli preferisce
limitare i suoi contatti diretti con gli autoctoni ai soli casi di necessità. Invece di
cercare di instaurare un rapporto dinamico con l‟altro, preferisce mantenere una
posizione pressoché neutrale, quasi come uno spettatore che assiste ad uno
spettacolo al quale non vuol partecipare per non rovinarlo. Per questo motivo la
distanza è la caratteristica principale attorno a cui si sviluppa l‟approccio di
Moravia all‟altro. L‟apparente contraddizione si risolve se si considera che la sua
scelta non è dettata da indifferenza, ma da rispetto. La consapevolezza delle
dinamiche di potere che preesistono, in epoca contemporanea, a qualsiasi
relazione fra europei ed africani, esercita un‟influenza determinante nello
scrittore. Ad essere discriminante, infatti, nel guardare ai viaggi di Moravia e
Celati rispetto a quello di Casati, è il fatto che per quest‟ultimo si tratta di
un‟esperienza non mediata se non dalle poche informazioni acquisite prima della
partenza. Gli altri due scrittori, invece, vanno in Africa da turisti, quindi
organizzati ed equipaggiati delle necessarie informazioni. Anticipando una
modalità del rapporto con l‟altro che si ritroverà in modo amplificato in Avventure
in Africa, Alberto Moravia sente che la relazione si deve svolgere su di un livello
diverso rispetto a quello su cui si era svolto fino a quel momento, ma non potendo
prevedere quale sarebbero state le nuove basi per lo sviluppo del rapporto,
preferisce sentire piuttosto che rappresentare.
Celati, infine, vive l‟esperienza del turismo di massa, e sperimenta in prima
persona come il viaggio, in epoca contemporanea, possa essere profondamente
condizionato da cliché culturali. Lo scrittore ed il suo compagno di viaggio si
trovano, infatti, a vivere una situazione che si presenta come ribaltata rispetto a
quella che poteva essere vissuta all‟epoca di Casati. Alla fine del XIX secolo, i
popoli africani venivano percepiti in base a stereotipi e banalizzazioni, ora invece
sono i turisti bianchi in vacanza in Africa ad essere oggetto di una semplificazione
culturale da parte degli africani. Per questi ultimi gli europei rappresentano una
possibilità di guadagno economico, e di conseguenza vanno sfruttati in questo
senso. Al viaggiatore resta la sensazione di non avere la possibilità di partecipare
attivamente nel creare un rapporto con chi incontra, ma dover subire passivamente
22
un ruolo imposto a priori da un criterio economico. È sembrato interessante
notare, proprio per il paradosso che ne deriva, che di fatto è proprio l‟economia
occidentale quella che definisce, almeno in un primo momento, l‟incontro con
l‟alterità descritto in Avventure in Africa. Questo aspetto si è rivelato determinante
nel rafforzare l‟impressione che oggi sia sempre più difficile trovare la diversità.
Gianni Celati sembra chiudere con tono negativo il discorso sul rapporto che il
viaggiatore può instaurare con chi incontra altrove. Egli sembra porre dei dubbi
sia sull‟esistenza di un altro culturalmente diverso, sia sulla possibilità di avere
con esso un dialogo che non sia mediato da stereotipi. L‟unica conoscenza che
sembra possibile è quella che segue le regole e i ruoli che l‟economia di massa ha
assegnato ai diversi paesi. L‟aumentata possibilità di viaggiare e quindi di fare
l‟esperienza di culture diverse, non sono garanzia di un incontro più proficuo o
più profondo con l‟altro. Gli sviluppi del viaggio di Celati dimostreranno, tuttavia,
che allo stesso modo di Moravia, anche nel suo caso la relazione deve svolgersi
ad un livello che non può essere quello stabilito nell‟immediatezza dell‟incontro.
Moravia, però, aveva preferito evitare qualsiasi tipo di rapporto, privilegiando il
valore della testimonianza rispetto a quello relazionale. Poter assistere, senza
essere notato, ad uno spettacolo o ad un momento della quotidianità africana, era
per lui il modo migliore per fare la vera esperienza della diversità. Celati, invece,
inizialmente disturbato dalla palese massificazione dell‟esperienza che stava
vivendo, e quindi anche dall‟apparente mancanza di un “altrove” e di un “altro,”
troverà nella condivisione di momenti della vita propria e dell‟altro una delle
chiavi di avvicinamento al diverso da sé. Il motivo della condivisione è vissuto da
Celati sul piano emozionale, ovvero in decisa contrapposizione all‟aspetto
razionale o intellettuale dello scambio con le persone del luogo. Lo scrittore tiene
a precisare spesso che non comprende la situazione, gli usi e costumi o addirittura
non capisce quello che vede; ma buona parte di quello che lo circonda lo
emoziona abbastanza da fargli nascere il desiderio di condividere momenti che
sono propri ad altri luoghi ed altre dimensioni di vita. Allo stesso modo, vorrebbe
che siano alcuni africani incontrati in viaggio ad essere partecipi di occasioni che
invece appartengono alla sua cultura e al suo mondo. Per concludere questo breve
23
excursus, è possibile individuare proprio nel disinteressato desiderio di
condivisione uno degli strumenti che permette di superare l‟ostacolo che per
Moravia era stato insormontabile, ovvero quello di una rappresentazione culturale
che non risulti, nella migliore delle ipotesi, in una superficiale caratterizzazione.
Infine è necessario fare una precisazione: questa tesi riflette anche un
percorso intellettuale contingente alla redazione della tesi stessa. Nel susseguirsi
dei capitoli il mio approccio alla materia trattata si è arricchito ed approfondito.
Del resto una tesi, soprattutto nel campo delle scienze umanistiche, non si
presenta come asserzione definitiva di un determinato stato di cose, ma si
configura piuttosto come una tappa, spesso nemmeno l‟ultima, di un cammino.
Nel caso di questo studio, lo sviluppo rimane chiaramente individuabile. Dalla
lettura emerge, quindi, sia lo svolgimento dell‟argomento stesso della tesi, sia il
progressivo arricchimento, tematico e teorico, dei miei strumenti critici. Questa
evoluzione, tuttavia, è dovuta solo in parte al mio personale approccio, in quanto
essa dipende anche dalla tipologia dei testi trattati. In particolare, il libro
analizzato nel primo capitolo offre spunti di discussione originali ed importanti,
ma meno complessi rispetto a quelli dei capitoli successivi. Alberto Moravia e
Gianni Celati, a cui sono dedicati il secondo e terzo capitolo, si confrontano infatti
con situazioni, problematiche e dinamiche molto più articolate rispetto a quelle
che ritroviamo in Casati. Lo studio dei loro testi si apre perciò a possibilità di
analisi e discussione che Dieci anni in Equatoria non offre. In generale si può
notare che la mia tesi riflette, in parte, la complessità delle dinamiche nella
relazione con l‟alterità in epoca contemporanea. Nonostante oggi sembri molto
più agevole avvicinarsi all‟altro, una vera relazione rimane difficile da stabilire ed
in ultima analisi il rapporto che ne può derivare rimane responsabilità etica del
viaggiatore.
Primo capitolo
La presenza italiana in Africa nel XIX secolo, prima di assumere
palesemente i connotati di tentativo coloniale, fu volta all‟esplorazione. Nella
seconda metà del 1800 vi furono infatti numerose esplorazioni nell‟Africa centro
settentrionale, più precisamente nell‟odierno Sudan meridionale, che allora aveva
il nome di Equatoria. Lo scopo principale delle spedizioni, in un primo momento,
fu quello scientifico-geografico. Così come accadde successivamente nella
politica coloniale, almeno per quella in età crispina, le spedizioni esplorative non
avevano una struttura regolare e non potevano contare sul supporto statale. Esse si
basavano essenzialmente sull‟iniziativa di singoli individui, sostenuti in una prima
fase da società a carattere scientifico, quali la Società Geografica Italiana, 10 e in
un secondo momento, da società commerciali che cercavano in Africa nuove
possibilità di investimento economico.
Le vicende africane di quei viaggiatori italiani, sono state rese note alla fine
del secolo XIX attraverso la pubblicazione delle loro memorie o appunti di
viaggio. Fra questi testi va annoverato anche il libro di cui ci si occuperà in questa
sede: Dieci anni in Equatoria e ritorno con Emin Pascià di Gaetano Casati. Date
le condizioni specifiche in cui Casati si trovò a vivere e viaggiare in Africa, le sue
memorie trascendono i limiti dell‟odeporica, offrendo lo spunto per un esame che
approfondisca e sviluppi una delle questioni più interessanti messe in luce dalla
recente critica post-coloniale: quella dell‟incontro con l‟altro e le sue conseguenze
sull‟identità personale. La discussione non resterà ancorata unicamente
all‟esperienza isolata del viaggiatore italiano, ma si svilupperà su di un livello più
ampio, riflettendo sugli esiti che l‟incontro con altre culture ha avuto sull‟identità
nazionale italiana. Il testo di Gaetano Casati fu infatti ripreso alcuni anni dopo da
Riccardo Bacchelli che con Mal d’Africa ne faceva una riscrittura letteraria dai
risvolti nazionalistici. La discussione si rivolgerà a Bacchelli solo in un secondo
10
David Atkinson che affronta l‟imperialismo italiano da una prospettiva geografica, parla di una
“geographical mania” (17). Lo studioso rileva che fra il 1860 ed il 1880 in tutta Europa nascono
più di ottanta Società geografiche le cui parti costituenti e le cui priorità erano estremamente
eterogenee. La funzione implicita di tali società era quella di appoggiare le diverse nazioni
europee nella loro occupazione, prima economica e poi politica, dell‟Africa.
25
momento, per ora ci si soffermerà su Dieci anni in Equatoria per esaminare nello
specifico quale sia il tipo di relazione con l‟alterità messa in atto dal viaggiatore,
ed evincere quali siano i motivi che hanno portato Bacchelli a scegliere proprio
questo testo.
La prospettiva adottata in questa sede per l‟analisi di Dieci anni in
Equatoria risponde quindi in prima istanza all‟esigenza di indagare i presupposti
concettuali su cui si fondarono le relazioni fra gli italiani e i popoli africani, per
appurare e definire quali siano stati gli sviluppi etici che ne conseguirono. Nella
seconda parte del capitolo si vedrà, inoltre, che nel testo di Riccardo Bacchelli la
questione morale diventa essenziale nella costruzione di una specifica identità
nazionale italiana.
1.
Un paradigma interpretativo
L‟incontro con l‟altro, di conseguenza, diviene la principale discriminante
nell‟istituire il paradigma teorico all‟interno del quale ascrivere il testo di Casati.11
In questo quadro di riferimento, i due viaggiatori italiani emblematici delle
opposte posizioni nel relazionarsi all‟altro fin dal momento dell‟incontro, sono
Marco Polo e Cristoforo Colombo. Il divario fra i due è principalmente di natura
ideologica, ed è quest‟ultima a sostenere e guidare i codici culturali e letterari che
sottendono ai testi. La distanza teorica deriva anche dalla loro appartenenza a due
momenti storici diversi, ma più che soffermarsi sullo sviluppo storico del pensiero
europeo, si vedrà nello specifico come ne sia stato influenzato il discorso sul
viaggio e sull‟alterità in ambito letterario. La diversa forma mentis alla base dei
due testi, scaturisce infatti proprio dalla narrazione stessa: dal Milione e dal
Giornale di bordo, emergono una contrastante ricezione e di conseguenza una
diversa concettualizzazione dell‟altrove e dell‟altro. Si deve quindi considerare
che cosa rappresenti il viaggio, come sia vissuto e quali siano le modalità
11
Rifacendosi al Kuhn di La struttura delle rivoluzioni scientifiche, qui si considera il paradigma
sia nella sua funzione conoscitiva, sia in quella normativa (137-138). Esso informa su quelli che si
considerano i punti di riferimento inderogabili e le loro peculiarità, quindi nel caso specifico Polo
e Colombo e i loro comportamenti in quanto viaggiatori, e al contempo fornisce i parametri
attraverso i quali esso è stato costruito, indicando quindi non solo un modello, ma anche il criterio
che ne ha guidata la realizzazione.
26
letterarie scelte per trasmetterne l‟esperienza. Ironicamente, la posizione
ideologicamente antitetica dei due viaggiatori è rafforzata, a livello simbolico, da
un aspetto pratico: Marco Polo si dirige a piedi verso est, mentre Colombo parte
in direzione diametralmente opposta, e prende il largo verso ovest. Proprio dal
viaggio in senso pratico, inteso quindi nella fase di spostamento, partiremo per la
discussione sulla diversità di approccio fra Polo e Colombo. Prima di iniziare la
riflessione sui loro testi va ricordato il motivo principale per cui li si è scelti. Le
loro testimonianze di viaggio rappresentano un punto di riferimento letterario e
culturale, ma sono anche gli strumenti che permettono di far risaltare appieno
l‟apertura, la curiosità e l‟interesse per l‟alterità che caratterizza i testi considerati
in questa tesi, e in particolare quello di Gaetano Casati. In altre parole l‟antitesi
fra Polo e Colombo consente di tracciare un paradigma teorico sulla base del
quale si svilupperà il discorso sulla relazione con l‟altro. Il loro antitetico
avvicinamento al diverso diviene rappresentativo dei due opposti modi di
guardare e di rapportarsi a ciò che non si conosce. Questo modello analitico è
particolarmente utile in questo primo capitolo; in quanto grazie ad esso si riescono
ad esaltare l‟originalità del testo di Casati e il suo importante apporto etico nella
relazione con l‟altro.
1.1
Marco Polo: il viaggio attraverso la terra incognita
Per Marco Polo viaggiare non è relativo limitatamente all‟esperienza fisica
dello spostamento, ma costituisce un momento di crescita esperienziale e
cognitiva; è quindi in primo luogo un‟esperienza culturale. La narrazione del
viaggiatore veneziano non racconta solo uno spostamento verso la Cina, ma anche
attraverso un grande numero di paesi, che si includono in una più ampia
esperienza di viaggio e che contribuiscono a determinarla tanto quanto lo farà il
lungo soggiorno alla corte del Gran Kahn. Vale la pena di soffermarsi brevemente
sul concetto di viaggiare verso e attraverso, perché questo differente modo di
affrontare lo spostamento è uno dei livelli su cui si è concepita l‟antitesi fra i due
viaggiatori. Nel Milione, le diverse nazioni attraversate, i luoghi intermedi fra il
punto di partenza e quello di destinazione, non sono i momenti morti del viaggio,
27
quasi fossero il mezzo necessario al raggiungimento di un fine, ma sono a pieno
titolo parte del viaggio in Cina. Quello di Marco Polo quindi, è anche un viaggio
attraverso, che comincia subito, appena lasciata Venezia. Questo significa che la
sua attenzione è rivolta ad ogni singola tappa del percorso, e l‟altrove per Polo
non è solo la Cina per se, ma tutto ciò che incontra strada facendo. Questo
originale sguardo fu certamente favorito anche dalle condizioni pratiche del
viaggio: la lentezza degli spostamenti, effettuati principalmente a cavallo, gli
diede il tempo di poter osservare le popolazioni, instaurando, quando possibile, un
contatto diretto con esse.
È stato affermato che Marco Polo, con John di Mandeville, inaugura un
nuovo modo di viaggiare: staccandosi dalle tradizionali forme narrative dei
pellegrinaggi e delle crociate, i due autori si concentrano sull‟esperienza vissuta e
fanno della curiosità nei confronti di diverse culture il motivo principale delle loro
relazioni di viaggio (Hulme, Peter and Tim Youngs, 2002).12 La funzione del
viaggio come momento di ridefinizione dei confini cognitivi è quindi rafforzata
dal fatto che esso è consapevolmente vissuto come tale, ovvero come momento di
scoperta anche culturale. Ricollegandosi in parte a Hulme e Youngs, si può
affermare, semplificando leggermente, che prima di Polo l‟odeporica si rifaceva
sostanzialmente a due modelli, quello del racconto dell‟oriente meraviglioso e
quello dei pellegrinaggi o delle crociate in terra santa. Marco Polo dà una nuova
direzione al racconto del viaggio modificando sostanzialmente la sua
impostazione e funzione. L‟allontanamento da ciò che è familiare diviene
strumento di conoscenza, il viaggio perciò non è affrontato con lo spirito di
riconoscere ciò che già si sa, ma piuttosto con quello di cercare ciò che è
sconosciuto. Polo non era partito digiuno di informazioni sull‟oriente: come tutti i
viaggiatori, prima di mettersi in cammino aveva letto il leggibile sui luoghi che
avrebbe visitato. I suoi strumenti di conoscenza erano però limitati alle narrazioni
medioevali, le quali non avevano alcun valore scientifico. Di conseguenza, lo
spostamento rappresenta per lui la concreta possibilità di una continua scoperta
12
Va precisato, peró, che il viaggio di Marco Polo, benché ricco di mirabilia ed esotismi, é
realmente avvenuto, mentre il «Wonders of the East» di John De Mandeville é frutto di fantasia e
di rielaborazione di altri testi medioevali sull‟Oriente.
28
dell‟ignoto, affrontata con uno spirito da esploratore, quindi attento alla diversità
e incuriosito da ciò che è nuovo. Marco Polo affronta un mondo che gli diviene,
man mano che il suo cammino prosegue, sempre più sconosciuto, ed in questo
senso, Il Milione testimonia anche di un graduale avvicinamento all‟altro e
all‟altrove, in cui progressivamente il viaggiatore entra in relazione con culture
che gli sono sempre meno familiari.
Il derivare da un‟esperienza realmente vissuta conferisce al testo del
viaggiatore veneziano una credibilità tutta nuova, ed il Milione diviene il punto di
riferimento per tutta la cartografia dei secoli successivi e strumento di conoscenza
dell‟oriente. L‟interesse per Marco Polo scaturisce proprio dalla novità
nell‟assunto testuale: per la prima volta nella letteratura di viaggio occidentale
l‟esperienza sensibile non è più artificio retorico, ma realtà vissuta. La funzione
documentaristica, che si aggiunge a quella di puro intrattenimento, funzione
usualmente assegnata alla letteratura di viaggio, comincia quindi proprio con il
testo di Marco Polo. Da quel momento, la terra incognita diviene rappresentabile
e raccontabile, e va ad arricchire il bagaglio culturale dell‟occidente. La teoria
post-colonial, ha messo bene in evidenza i limiti di questa rappresentazione, ma,
pur riconoscendo i problemi suscitati dalle modalità con cui essa avvenne, ci si
vuole per il momento soffermare sul fatto che dopo Marco Polo, attraverso i
viaggi e le relazioni che ne conseguivano, la terra e i suoi abitanti stavano
prendendo dei confini sempre più definiti e l‟occidente modificava ed arricchiva
le proprie cognizioni geografiche e culturali. L‟originalità di questo modo di
vivere, concepire e raccontare il viaggio, risulta ancor più evidente in
considerazione del fatto che nelle narrazioni medioevali la reale esperienza
sensibile non era un elemento ritenuto necessario, e spesso accadeva che i luoghi
descritti non fossero stati in realtà mai visitati. L‟oriente, in particolare, era
genericamente indicato come la sede del meraviglioso. La lettera di Alessandro ad
Aristotele, la lettera del Prete Gianni, ma anche Mandeville’s Travels di John de
Mandeville sono compilazioni a tavolino, rielaborazioni di altri testi, o più
semplicemente opere frutto di fantasia. Nel Milione, invece, gli esotismi presenti
29
servono a rispondere al gusto del pubblico e ad inserirsi all‟interno del genere, ma
non sono il cuore della narrazione.
Contrariamente al Giornale di bordo di Cristoforo Colombo, il Milione non
è efficace sul piano scientifico–geografico, tuttavia è un insostituibile documento
culturale sulla Cina del XIII secolo. La profonda conoscenza di Marco Polo
rispetto all‟oriente deriva da una lunga permanenza in quei luoghi; egli viaggia
per circa 26 anni, 17 dei quali li passa presso la corte dell‟imperatore cinese. In
questo lunghissimo lasso di tempo egli si era perfettamente integrato, imparando a
parlare il cinese e svolgendo anche l‟attività di ambasciatore per il Gran Kahn (lo
stesso ruolo che avrà, come vedremo, anche Casati in Africa). Le condizioni
oggettive della società cinese furono certo un ulteriore elemento a favore
dell‟assimilazione di Marco Polo, il cui interesse era certamente potenziato anche
dal fatto di trovarsi in una delle più evolute società dell‟epoca. La tentazione che
si potrebbe avere è di far derivare la comprensione, e quindi l‟accettazione, dalla
conoscenza. Tuttavia, i termini del rapporto non vanno capovolti: l‟adesione e
l‟integrazione alla civiltà cinese, avvengono unicamente in quanto resi possibili
dalla sua personale predisposizione ed interesse verso l‟alterità. In altre parole
Marco Polo accetta diversi usi e costumi, in alcuni casi facendoli propri, perché
curioso ed interessato ad essi, non perché costretto dalle circostanze. A questo
proposito vale la pena menzionare che il Gran Kahn fece di Polo il suo
ambasciatore presso paesi stranieri. L‟esperienza in quanto viaggiatore di Marco
Polo, ha probabilmente giocato un ruolo importante nella decisione del Gran
Kahn di conferire al veneziano questo delicato ruolo di rappresentanza; d‟altro
canto questo compito poteva essere svolto solamente da qualcuno il cui approccio
alla diversità non fosse limitato da pregiudizi.
È stato fin qui dimostrato come con Marco Polo l‟esperienza culturale
diventi elemento ineliminabile del viaggio e perciò venga vissuto in ogni
momento del suo svolgersi, anche in funzione di essa. La sua narrazione acquista
valore in relazione alla materia raccontata: non più tanto il meraviglioso
fantastico, quanto piuttosto il meraviglioso realmente incontrato. Uno dei titoli
30
francesi usati per indicare il volume, Conte des merveilles du monde,13 è
sintomatico dell‟atteggiamento mentale del viaggiatore, che vuole raccontare le
“meraviglie del mondo” ancora sconosciuto nell‟Europa occidentale. Il proemio si
apre infatti affermando: “Signori, imperatori e re, duchi e marchesi, conti,
cavalieri e borghesi, tutti voi che volete conoscere le diverse singolarità umane
nelle diverse regioni del mondo accogliete questo libro; leggetelo e fatevelo
leggere” (43). La scrittura per Marco Polo, vale la pena ribadirlo, è momento di
comunicazione, ma è soprattutto strumento informativo. Attraverso essa egli
rende conto non solo della propria personale esperienza di viaggio, ma anche di
civiltà e culture diverse da quella che gli è familiare. Nel Milione raramente si
trovano giudizi di valore sulle altre culture, generalmente si tratta di una
descrizione intesa ad enfatizzare ciò che la diversità può offrire; l‟alterità, non è
vista come una minaccia ma come uno strumento di crescita culturale. Marco
Polo parte per un viaggio che doveva durare mesi, al massimo pochi anni e invece
resterà in oriente per quasi vent‟anni, derogando all‟originario motivo del viaggio,
l‟acquisto di tessuti e spezie, istituendo, però, un nuovo modello di viaggiatore.
1.2
Cristoforo Colombo: l’archetipo colonialista
Il Giornale di bordo di Cristoforo Colombo si presenta come molto più
pragmatico fin dal titolo, quindi ci si aspetterebbe una maggiore attendibilità nella
descrizione del viaggio, dei luoghi e delle popolazioni incontrate. In realtà la
descrizione di Colombo obbedisce a dei criteri che non sono quelli che avevano
informato il testo di Marco Polo, si resterebbe quindi delusi se si cercasse nel suo
testo la descrizione del meraviglioso incontrato ad occidente. Per Cristoforo
Colombo il viaggio, in particolare nella fase di spostamento, è solo un mezzo
necessario a raggiungere un fine. L‟attraversamento dell‟oceano è un‟inevitabile
tappa intermedia, un ostacolo da superare per raggiungere le Indie. Le condizioni
pratiche del viaggio furono, anche in questo caso, determinanti nel definire
13
Il ruolo svolto da Rustichello da Pisa, per quanto determinante sia stato sia per il titolo che per il
testo stesso, non è qui preso in considerazione in quanto non si affronta il Milione dal punto di
vista filologico, ma viene piuttosto considerato come punto di riferimento teorico.
31
l‟atteggiamento mentale del viaggiatore. Polo si era spostato a piedi e aveva
attraversato territori abitati, mentre Colombo aveva compiuto il suo viaggio via
mare affrontando uno spazio chiaramente non abitato, e potenzialmente
pericoloso. Il mare, del resto, rappresenta non solo l‟ignoto, ma anche tutti i
pericoli e le incertezze che derivavano da quel tipo di spostamento, è quindi
naturale che l‟avvistamento della terra fosse la principale preoccupazione di
Colombo.
Il “viaggio verso,” quindi, non viene vissuto come costituente di
un‟esperienza più ampia, appartenente al campo della conoscenza in senso lato,
né è concepito come momento di possibile arricchimento intellettuale, ma
piuttosto come tragitto da compiere in vista di un obiettivo più importante, ovvero
il raggiungimento di quelle che l‟esploratore credeva essere le Indie. La
componente teleologica è perciò molto forte nel viaggio di Colombo, così come lo
deduciamo dal Giornale di bordo: egli parte verso le Indie per cercare oro e pietre
preziose, ovvero il tesoro del Cipango che trovava descritto nel Milione, di cui
aveva portato con sé una copia. La spedizione di Cristoforo Colombo è finalizzata
alla scoperta geografica e alla conquista dei territori; quindi la diversità rispetto a
Polo non è conseguente solo a motivi pratici, essendo il viaggio impostato in
maniera diversa fin dalla partenza. Colombo è, forse inevitabilmente, precursore
inconsapevole di quelle che diventeranno le caratteristiche fondamentali del
colonialismo: egli parte per conto dei regnanti di Spagna, è da loro sovvenzionato
e al loro regno intende annettere tutti i territori conquistati. Il viaggio serve a
rafforzare ed ampliare il potere europeo, e quindi come tale è vissuto e raccontato.
Si è precedentemente visto che Marco Polo percepisce il proprio viaggio
come un momento di crescita culturale e scoperta del meraviglioso reale. Con
Colombo, invece, questa consapevolezza non ha possibilità di attuazione: in
primo luogo egli attraversa uno spazio vuoto, in secondo luogo, quando tocca
terra è impegnato a riconoscere più che a conoscere, perché è certo di essere in un
luogo diverso da quello effettivamente raggiunto. Vale forse la pena ricordare che
nel momento in cui entra in contatto con le popolazioni indigene, Colombo crede
di essere giunto in un territorio già noto, le Indie occidentali, e perciò non è
32
pienamente consapevole della reale eccezionalità ed originalità di ciò di cui si
trova a fare l‟esperienza. Per Colombo quindi il viaggio si risolve essenzialmente
in due momenti: la conferma di ipotesi geografiche e la conquista territoriale con
il dominio politico che ne consegue, ed il suo sguardo sull‟altro e sull‟altrove è
pregiudicato dalla funzione che egli sa di svolgere.
La curiosità culturale non trova spazio nelle intenzioni del viaggiatore, né
nel suo racconto. Le realtà umane con cui entra in contatto non suscitano il suo
interesse a conoscere, e di conseguenza agli indigeni e ai loro modi di vita viene
dedicato uno spazio esiguo nel Giornale di bordo. L‟autore si limita a descrivere
il loro aspetto esteriore, affermando che probabilmente essi sarebbero divenuti
buoni schiavi e che facilmente si sarebbero convertiti al cattolicesimo: “debbono
essere buoni servitori e ingegnosi, perché osservo che ripetono presto tutto quello
che io dico loro, e ritengo anche che possano diventare agevolmente cristiani,
poiché mi parve che non appartengano a nessuna setta” (92). Colombo impone
modelli e leggi, perché arrivare è sinonimo di conquistare. Il diverso modo di
rapportarsi e di descrivere l‟altro sono conseguenza anche della diversa relazione
di potere istituita fra i due viaggiatori e le popolazioni incontrate. Marco Polo
arriva in un paese il cui livello di civiltà egli percepisce come paritario a quello
occidentale; Colombo, invece, si trova di fronte ad una cultura che non solo è
completamente diversa dalla sua, ma nella quale non riconosce nessuno degli
elementi che per lui costituiscono “la civiltà.” Le popolazioni americane non
avevano un‟organizzazione politica statale, le loro forme di sussistenza
economica sembravano primitive se paragonate a quelle europee, non
conoscevano la scrittura ed essendo nomadi non avevano sviluppato un tessuto
urbano o un sistema architettonico. Mancavano, inoltre, forme d‟arte riconoscibili
come tali ad un occhio europeo. Non sorprende quindi che Colombo non esiti a
considerare gli indiani americani come inferiori ad ogni livello.
Si è detto che l‟approccio ideologico di Colombo è opposto rispetto a quello
di Marco Polo. A questo proposito un esempio aiuterà a rendere chiare di quali
fossero le fondamenta sulle quali si voleva impostare il rapporto con le
popolazioni americane. Colombo capì entro breve tempo che date le peculiari
33
caratteristiche delle società indigene da lui incontrate, gli europei avrebbero
facilmente conquistato la loro fiducia. Ciò che Colombo rileva più
frequentemente è infatti la loro generosità e la facilità con cui esse si prestavano al
volere degli europei da poco arrivati. Nello specifico, Colombo prende con sé
sulla sua nave un indigeno con l‟intento di portarlo in Spagna per “farne dono” ai
sovrani. Qualche malumore fra le popolazioni, che cominciano a dubitare delle
intenzioni degli stranieri, lo convince a lasciare libero l‟uomo:
E guardando verso terra nel momento in cui vi giungeva l‟uomo che
avevo liberato e al quale avevo dato le cose predette senza farmi
consegnare in cambio il suo gomitolo di cotone, benché egli volesse
darmelo, vidi che quelli della terra lo circondavano ed egli diceva loro
che era ammirato di noi, che eravamo brava gente, e che quell‟altro
che era fuggito da noi doveva averci fatto qualche affronto, e che
appunto per questo volevamo portarlo via. Mi sono comportato così
con questo uomo e l‟ho liberato e regalato delle cose predette
precisamente perché ci prenda in grande stima e quando le Altezze
Vostre torneranno un‟altra volta a mandar qui gente, gli abitanti la
accolgano bene. Del resto il valore delle cose che gli diedi non
superava i 4 maravedis. (100-101)
L‟obiettivo di Colombo è essenzialmente politico ed economico, vuole trovare
oro e pietre preziose e aggiungere ai domini spagnoli le terre scoperte. La sua è
un‟ottica colonialista. L‟approccio di Colombo è determinato da una dinamica di
potere, dal punto di vista ideologico, ma anche culturale, esso è perciò univoco, e
non lascia spazio ad altri elementi né a deroghe come era successo con Marco
Polo.
Cristoforo Colombo, non apporta grandi cambiamenti al genere odeporico,
del resto per lui la scrittura assolve unicamente a due funzioni: in primo luogo
deve registrare i dati fisici, secondariamente deve testimoniare la conquista ed è,
quindi, un atto politico.14 Benché Colombo non potesse comprendere l‟ampiezza
14
Anche nel caso di Colombo, cosí come è stato precedentemente fatto per Marco Polo, non ci si
vuole soffermare sul comunque importante ruolo avuto da Bartolemeo della Casa, trascrittore del
34
del meccanismo che avrebbe innestato la sua scoperta, è comunque palese che il
suo Giornale di bordo vuole assolvere anche ad una funzione politica. Se non di
altro, il viaggiatore genovese è consapevole dell‟importanza del suo scritto, che
sarà infatti fra il materiale utilizzato per definire l‟attribuzione dei domini
territoriali delle diverse nazioni europee.
1.3
Letteratura di viaggio: specchio (in)fedele delle realtà possibili
Si è fin qui visto come Marco Polo e Cristoforo Colombo affrontino il
viaggio e ne trasmettano l‟esperienza con modalità affatto diverse. Si è voluto fare
riferimento a questi due viaggiatori, in parte per l‟irriducibilità del cambiamento
nell‟assetto culturale europeo in conseguenza dei loro viaggi, ed in parte perché
considerati simbolici in quanto definiscono due modi antitetici di relazionarsi
all‟altrove e all‟altro. I loro testi istituiscono un archetipo all‟interno del quale si
possono far risalire le diverse modalità con cui i viaggiatori si sono rapportati al
nuovo incontrato in viaggio. Di tutti i viaggiatori-scrittori, inoltre, la scelta è
caduta su Marco Polo e Cristoforo Colombo anche perché essi sono fra gli autori
più importanti dell‟odeporica italiana. Si è fin qui chiarito, infatti, come essi
definiscano un quadro di riferimento ideologico; a questo si deve aggiungere che
essi sono due autori imprescindibili di una lunga tradizione letteraria, quella
specifica della letteratura di viaggio, a cui appartiene anche il testo di Gaetano
Casati.
Si è detto che i loro testi rinnovano in modo profondo il sapere europeo,
arricchendolo di informazioni fino a quel momento non reperibili. Ma la
componente narrativa e culturale più interessante, dal mio punto di vista è
un‟altra. Polo e Colombo, essendo fra i primi ad avvalersi di un metodo per
quanto possibile documentario, sono anche fra i primi a rendere manifesto che a
prescindere dalla motivazione, un‟ineliminabile componente del discorso della
letteratura di viaggio, è la descrizione delle diverse culture incontrate e del
Diario di bordo. Ancora una volta il testo viene considerato come generale riferimento ideologico,
quindi evitando ogni questione filologica.
35
rapporto stabilito con esse. Trinh T. Minh-ha apre il suo saggio “Other Than
Myself/My Other Self,” contenuto in Travellers’ Tales affermando che:
Every voyage can be said to involve a re-siting of boundaries. The
traveling self is here both the self that moves physically from one
place to another, following “public routes and beaten tracks” within a
mapped movement, and the self that embarks on an undetermined
journeying practice, having constantly to negotiate between home and
abroad, native culture and adopted culture, or more creatively
speaking, between a here, a there, and a elsewhere. (9)
La studiosa si occupa di viaggi nel XX secolo e non ha bisogno di chiarire
che i confini a cui si riferisce non sono meramente geografici, ma si tratta
piuttosto dei confini culturali e ideologici che vengono ridefiniti da ogni viaggio,
o quasi. Visto nei termini proposti da Min-ha, ovvero come uno spostamento in
cui il soggetto modifica le proprie “linee di confine” stabilendo un rapporto fra il
luogo d‟origine ed i luoghi visitati, il viaggio è in primo luogo un momento
dialettico. Il viaggiatore deve costantemente ridefinire la propria percezione della
realtà inserendola in un contesto i cui confini non possono più essere
esclusivamente quelli conosciuti e comodi della propria cultura nativa.
Ampliandosi
lo
spettro
delle
realtà
possibili,
il
viaggiatore
deve
conseguentemente allargare i confini della personale concezione del reale per
poter contestualizzare ciò che non gli è familiare. Questo processo avviene
indipendentemente dall‟epoca, dalla destinazione e dalla motivazione del viaggio;
l‟unica variabile applicabile è di quanto il viaggiatore sia disposto a spostare le
proprie linee di confine. Nel caso di Colombo, ad esempio, l‟intenzione di
dominio almeno territoriale, è presente fin dalla partenza e certo pregiudica il suo
sguardo nei confronti degli indigeni americani; questo però non incide sul suo
dover ridefinire i limiti di ciò che conosce, influendo, invece, sulla sua
disponibilità ad ampliare più o meno quegli stessi limiti.
Ogni testo odeporico, perciò, si presta ad una lettura critica fondata
sull‟analisi di questo momento dialettico in cui l‟autore deve mediare fra il noto e
l‟ignoto, e su come questa mediazione influisca sul suo antecedente modello di
36
pensiero. La stessa discriminante, ovvero il confronto dialettico, si può applicare
quando ad essere oggetto d‟osservazione sia la relazione che i viaggiatori
istituiscono con l‟altro. È proprio su questa differenza che si istituisce il criterio in
base al quale si sviluppa l‟incontro/scontro con il diverso. Per Polo l‟incontro era
impostato in termini positivi: il suo interesse verso il nuovo, gli permette di
istituire una relazione di mutuo avvicinamento. La curiosità, elemento
ineliminabile del suo modo di viaggiare, definisce anche il suo atteggiamento
nell‟incontro con l‟altro, che è vissuto come momento di rivelazione ed
accettazione di ciò che non si conosce. Per Colombo, al contrario,
l‟incontro/scontro con culture fino ad allora sconosciute è una tappa nel cammino
verso il pieno controllo delle terre da lui scoperte. L‟altro, in questo contesto,
viene strumentalizzato fin dal momento dell‟incontro ed inserito in un‟ottica di
dominio e prevaricazione. A questi due opposti atteggiamenti mentali si farà
costante riferimento nel corso della tesi perché divengono il paradigma attraverso
il quale individuare ed analizzare le modalità secondo cui l‟incontro/scontro si
attua e si evolve.
2.
Gaetano Casati: una breve biografia
Prima di affrontare il testo di Casati da un punto di vista critico, è opportuna
una riassuntiva biografia che permetta di presentare un personaggio altrimenti
sconosciuto. Gaetano Casati nasce a Ponte d‟Albiate in provincia di Milano il 4
settembre 1838. Dopo gli studi superiori entra all‟università per studiare
matematica ma nel 1859 abbandona per aggregarsi in qualità di volontario alle
truppe dei bersaglieri nella guerra d‟Indipendenza contro l‟Austria. In seguito
all‟unificazione dell‟Italia egli inizia la carriera militare presso l‟Accademia di
Ivrea, e nel 1866 partecipa alle campagne contro il brigantaggio nel sud Italia in
qualità di Capitano. In seguito egli viene assegnato alla squadra topografica
dell‟Istituto di Livorno che ha il compito di redigere la carta geografica militare
dell‟Italia. Quest‟ultimo incarico, sarà molto importante in quanto gli farà
acquisire le competenze tecniche che furono il requisito necessario per la sua
partenza per l‟Africa.
37
Nel 1879 si congeda dall‟esercito ed entra nella redazione dell‟Esploratore.
La rivista l‟Esploratore era stata fondata dal Capitano Manfredo Camperio nel
1877 con il fine di dare notizia in Italia delle stato delle esplorazioni in Africa.
Attorno alla rivista si formò ben presto un gruppo di persone animate, oltre che
dalla curiosità geografica, anche da interessi commerciali, la “Società di
esplorazione commerciale in Africa.” È in questi ambienti che si muove Casati,
anche se nel suo caso non sono tanto le possibilità commerciali ad attrarlo, quanto
piuttosto la possibilità di poter far parte di una spedizione. Quando Romolo Gessi,
uno degli esploratori italiani che si trovava in Africa verso la fine del XIX secolo,
scrive a Camperio per chiedere che gli mandi “un giovane, possibilmente
ufficiale, che conosca il modo di costruire le carte geografiche” (Dieci anni in
Equatoria, X), Casati si offre immediatamente volontario e la vigilia di Natale del
1879 partì per l‟Africa. Scopo del viaggio di Casati avrebbe dovuto essere quello
di esplorare la zona attorno al bacino del fiume Welle, l‟attuale Uele, e Romolo
Gessi, avrebbe dovuto fargli da guida e da punto di riferimento. Gessi però,
impegnato nella lotta antischiavista, deve partire per Cartoum per prendere
contatti con le autorità locali ma muore nel tragitto verso la capitale del Sudan. A
quel punto Casati si troverà ad affrontare l‟Africa centrale a piedi, e da solo.
Nonostante la situazione a dir poco non ottimale, decide di rimanere per
continuare, almeno nelle intenzioni, la mappatura della zona. Nel frattempo, però,
la situazione politica si complica notevolmente a causa delle rivoluzione
mahdista. La Società Geografica Italiana, intanto, saputo che Casati era solo in
una terra inesplorata con poche cognizioni dell‟Africa e con gli strumenti
linguistici che poteva aver acquisto nel viaggio via nave da Genova, decide di
indire una colletta per effettuare una spedizione di salvataggio. Casati rifiuta e
decide di restare in Africa al fianco di Emin Pascià,15 che nel frattempo aveva
15
Emin Pascià, il cui vero nome era Eduward Schnitzer, visse fra il 1840 ed il 1892. Era entrato al
servizio del governo inglese che gli avevano affidato il governo di Equatoria, ovvero la regione
che oggi corrisponde al Sudan meridionale. Benché il nome Emin Pascià faccia supporre che egli
fosse passato alla religione islamica, gli storici non sono d‟accordo sulla possibilità che egli si
fosse effettivamente convertito. Lo Schnitzler viene anche descritto come personaggio piuttosto
avulso rispetto al contesto coloniale in quanto pare che egli fosse più dedito agli studi di botanica
ed entomologia che al governo di Equatoria. In seguito alla rivolta mahdista nel 1881 egli fu
38
raggiunto. Da quel momento i compiti di Casati si moltiplicheranno perché egli
non si dedicò unicamente alla geografia, ma prese parte attiva alle vicende
politiche dell‟Africa nord orientale. Quest‟ultimo aspetto non è chiarito in Dieci
anni in Equatoria, ma attraverso qualche oscuro canale e per qualche non
precisato motivo Casati entra alle dipendenze del governo egiziano facendo da
tramite fra il governatorato inglese ed alcuni re delle tribù locali. Si può ipotizzare
che questa funzione gli fosse stata conferita perché egli si trovava in loco e perché
era riuscito ad conquistarsi la fiducia delle tribù locali. Va precisato, tuttavia, che
nessuna biografia o testo critico su Casati conferma questa supposizione; d‟altro
canto, però, nessuno fornisce le ragioni di tale compito politico. Casati resterà in
Africa per dieci anni, da qui il titolo del suo libro, per sua volontà, e molto spesso
solo in compagnia di indigeni africani. L‟esperienza di Casati è rilevante per il
mio discorso sull‟alterità proprio per quest‟ultimo motivo. La sua convivenza con
gli indigeni alla lunga gli aveva fatto acquisire abitudini e modi locali, ma, cosa
più importante, fin da subito egli si era dimostrato attento, curioso ed aperto nei
confronti dell‟alterità rappresentata, in questo caso, dagli indigeni dell‟Africa
centrale. Al suo ritorno in Italia, benché divenuto relativamente famoso, egli
decide di ritirarsi nella sua casa di Ponte d‟Albiate e scrive Dieci anni in
Equatoria, che venne pubblicato nel 1891. Il volume gli vale al medaglia d‟oro al
Primo Congresso Geografico Italiano che si tenne a Genova nel 1892. Al suo
rientro, inoltre, egli aveva portato con sé sei indigeni africani, cinque di loro
morirono, pare di malattie polmonari, e sopravvisse solo Amina, la bimba africana
adottata da Casati. Gaetano Casati muore il 7 marzo 1902.
3.
Dieci anni in Equatoria e ritorno con Emin Pascià: un orientalismo
italiano?
Come affermato precedentemente in relazione ai viaggi di Polo e Colombo,
la ridefinizione della prospettiva culturale, avviene a prescindere dal momento
storico in cui il viaggio viene intrapreso, è quindi appropriato applicare lo stesso
costretto a ritirarsi progressivamente verso sud, fino a che la spedizione di Henri Stanley, partita
nel 1887, lo portò in salvo (The Scramble for Africa ).
39
metodo al testo di Gaetano Casati. Dieci anni in Equatoria, nasce dall‟esigenza di
rendere note le modalità con cui si erano svolti sia la missione esplorativa che i
fatti storici di cui Casati era stato protagonista. Il testo, però, si presta anche ad
una lettura che amplia le intenzioni memorialistiche, visto l‟ampio spazio
dedicato a rilevazioni che nel proponimento dell‟autore avrebbero dovuto essere
di carattere scientifico. La difficoltà nell‟indicare precisamente un ambito di
riferimento per questo volume, deriva anche dalla considerazione che nello scritto
è presente l‟emulazione dei testi scientifici dell‟epoca, ma la mancanza di
appropriate attrezzature tecniche non consentì all‟esploratore italiano di
raggiungere dei risultati che si possano ritenere rilevanti. Più che di un testo
scientifico, perciò si tratta di una dettagliata, ma pur sempre amatoriale,
descrizione delle popolazioni incontrate e dei luoghi visti durante il suo viaggio.
Dieci anni in Equatoria fa parte di quel sostanzioso gruppo di libri scritti fra
la fine del XIX e l‟inizio del XX secolo da esploratori e colonizzatori che in quel
periodo scoprivano e conquistavano l‟Africa. Edward Said in Orientalism, ricorda
che fra il 1815 ed il 1914 l‟Europa raggiunse il suo apice in termini di espansione
coloniale, e i paesi che ne risentirono in misura maggiore furono l‟Africa e l‟Asia
(41). L‟orientalismo che dà il titolo a questa sezione, si riferisce proprio al libro
dello stesso Said, ormai considerato l‟iniziatore degli studi post-colonial. Dieci
anni in Equatoria è assimilabile per varie ragioni ai testi a cui Edward Said fa
riferimento nell‟individuare le linee costitutive di un discorso sull‟altro orientale.
Casati, come gli esploratori e i governatori inglesi, univa al proposito esplorativo,
quello di portare un certo grado di civilizzazione nell‟Africa centrale. Il punto di
domanda da me posto vuole infatti istigare ad un‟indagine proprio in questa
direzione: come si pone Casati rispetto al discorso sull‟oriente e sull‟altro? È
anch‟egli fra i fautori di un orientalismo africano? E in caso affermativo, in che
misura?
Va chiarito subito che il testo di Casati non fa eccezione su questo punto,
rispetto agli altri testi del periodo, in quanto anche lui era convinto che il ruolo
dell‟Europa in Africa fosse quello di aiutare e agevolare lo sviluppo di quelle
zone, dato che le popolazioni autoctone non erano in grado di provvedere a ciò da
40
sole. Tuttavia Dieci anni in Equatoria è stato preso in esame in questa sede
perché il percorso di avvicinamento all‟altro, al di là della contingenza storica in
cui avviene, è caratterizzato da modalità tali che pongono Casati in una posizione
diversa rispetto a quella della maggior parte dei suoi contemporanei. Come si
vedrà in seguito egli tenta un approccio alla materia che vorrebbe essere di tipo
antropologico e in alcuni caso anche letterario, ma i risultati in realtà sono di poco
valore. In definitiva questo si rivela elemento positivo proprio perché Casati non è
stretto nella maglie di una professionalità scientifica o letteraria, i momenti più
ingenui del suo scritto costituiscono un valore in quanto mettono in evidenza
come non sia frutto solo di una impostazione ideologica stabilita a priori. In altre
parole, il fatto che l‟autore non riesca a mantenersi all‟interno dei criteri a cui
aveva cercato di modellare il proprio testo, avvalora l‟originalità della
testimonianza. Essendo libera dagli schemi espressivi imposti dal metodo della
disciplina specifica, la narrazione è tanto più interessante in quanto non è
improntata al discorso scientifico che si faceva intorno all‟Africa alla fine del XIX
secolo. L‟amatorialità, di per sé, non costituisce un elemento a favore della
validità del narrato, ma nel caso del testo di Gaetano Casati alla mancanza di una
professionalità scientifica supplisce l‟interesse per quanto egli veniva pian piano
scoprendo e conoscendo.
Dieci anni in Equatoria interessa ancora di più, perciò, se considerato alla
luce dei cambiamenti avvenuti all‟interno del metodo antropologico negli ultimi
anni, cambiamenti che hanno invalidato quella stessa metodologia a cui Casati
non era riuscito a conformarsi. Sulla scia dei post-colonial studies, James Clifford
antropologo e teorico, ha messo in discussione l‟oggettività scientifica di ogni
rappresentazione culturale. Nel volume The Predicament of Culture, egli ha
dimostrato l‟impossibilità di riprodurre una cultura nella sua interezza,
affermando che ogni descrizione, per quanto si voglia aderente al reale, può
restituire solamente “partial truths” (6). L‟affermazione di Clifford obbliga ad una
revisione di tutto ciò che è stato scritto fra il XIX ed il XX secolo in ambito
antropologico, perché mette in discussione proprio l‟approccio cognitivo: per
quanto l‟osservazione sia vicina e la conoscenza profonda, le categorie mentali
41
usate per assimilare e poi rendere la diversità culturale, sono sempre categorie
occidentali. Questa osservazione pertiene anche a Casati, e il fatto che lui non
riesca ad uniformare la sua narrazione ai parametri del discorso scientifico
occidentale di fine secolo, non gli conferisce, una posizione super partes, così
come non dà a priori maggior valore alla sua “parziale verità.” Tuttavia, proprio
in ragione di questa sua caratteristica, la rappresentazione dell‟alterità e del
rapporto che l‟autore riesce ad instaurare con essa sono le componenti più
interessanti di questo libro.
L‟immediatezza espressiva e lo svolgimento poco sistematico del contenuto
si rivelano positivi, quindi, in quanto forieri di una diversa prospettiva sull‟Africa,
le cui culture non vengono immobilizzate in tipologie e caratterizzazioni, ma rese
nel loro vissuto quotidiano. Non si vuole guardare a Dieci anni in Equatoria come
ad un testo rispondente ai criteri post-colonial ante litteram, bensì utilizzare
questo approccio per capire come Casati rappresenti il suo “altro.” Come messo in
luce nell‟introduzione l‟importanza dell‟apporto teorico della critica post-colonial
consiste infatti nell‟aver permesso di operare dei distinguo all‟interno di un
corpus di opere e di autori; si può dare per scontato che si tratti di una resa
narrativa ideologizzata e parziale, quello che interessa capire sono le modalità
della rappresentazione soprattutto come l‟incontro agisca sulle strutture culturali
del viaggiatore che si confronta con l‟altro. Parafrasando le parole di Trinh T.
Minh-ha, interessa capire quanto il viaggiatore sia disposto a modificare le proprie
linee di confine. In questo contesto Casati si distingue per essere particolarmente
vicino al modello di viaggiatore che si è identificato con Marco Polo. Anche per
lui attraverso il viaggio avviene la scoperta della diversità; a questa scoperta si
associa immediatamente la sua capacità d‟accettazione ed integrazione in una
cultura estranea alla propria. Su questa attitudine, come si vedrà in seguito,
Bacchelli farà leva per costruire un vero e proprio modello italiano di uomo e
viaggiatore.
Che in relazione al rapporto con gli indigeni Casati sia un po‟ una voce fuori
dal coro è segnalato anche dal fatto che, benché tutti gli studiosi siano d‟accordo
nel considerarlo il meno interessante da una prospettiva scientifica, il suo, fra i
42
volumi scritti dagli esploratori italiani, è quello più citato.16 La storica Paola
Ivanov, nel suo articolo Cannibals, Warriors, Conquerors, and Colonizers:
Western Perceptions and Azande historiography, istituendo un paragone fra Dieci
anni in Equatoria ed il testo di un altro esploratore, il russo Junker, afferma che
spesso Casati è costretto all‟imprecisione perché gli mancano i mezzi, intendendo
questi ultimi propriamente nel significato di attrezzi pratici necessari a fare
misurazioni e valutazioni precise. Scrive la Ivanov: “But unlike Junkers, Casati
showed little detachment in his description and considerable powers of empathy”
(159); e continua poco oltre, affermando: “Casati readily attributed positive
characteristics to the „blacks‟ (neri), and puts any negative ones down to their lack
of education […]” (159). In generale Casati è definito come: “receptive and
relatively free of prejudice” (159). La Ivanov non è la sola ad avere questa
opinione. Maria Carrazzi, nel Dizionario biografico degli italiani, sottolinea la
particolare comprensione di Casati nei confronti della cultura africana, e definisce
questa
singolare
attitudine
“osservazione
partecipante,”
utilizzando
un‟espressione sulla quale si avrà modo di ritornare fra breve. Questo
atteggiamento di osservazione partecipante, se da un lato compromette la
professionalità di Casati, dall‟altro conferma il giudizio della Ivanov, ribadendo
come l‟approccio mentale del protagonista non fosse improntato unicamente ad
un‟ottica imperialista. Il motivo addotto da tutti gli studiosi a spiegazione di tale
interesse per Casati è quindi sempre lo stesso: il rapporto da lui stabilito con le
popolazioni africane, la sua capacità di integrazione in quel contesto, di
conseguenza una resa letteraria delle culture africane relativamente libera da
preconcetti.17 Su questo punto si concorda pienamente con quanto affermato fino
16
Dieci anni in Equatoria, ad esempio, è l‟unico testo scritto da un esploratore italiano che venga
inserito nel volume East Africa Explorers edito da Charles Richard e James Place.
17
Fa eccezione, a questo proposito, il saggio di Francesco Surdich La rappresentazione
dell’alterità africana nei resoconti degli esploratori italiani di fine Ottocento. Surdich, includendo
Casati in un gruppo di autori piuttosto eterogeneo, afferma che gli scritti dei primi esploratori in
Africa rafforzano stereotipi precedentemente esistenti. Il loro radicamento nella coscienza
nazionale sarebbe, sempre secondo Surdich, il motivo per cui questi stessi luoghi comuni
riemersero in epoca fascista rinvigoriti dall‟ideologia nazionalista. È chiaro che su questo punto
non sono d‟accordo con Surdich, in quanto le stereotipie del testo di Casati hanno più valore
retorico che contenutistico. Inoltre, la rilettura nazionalista o fascista del suo testo non può essere
attribuita retrospettivamente a Casati.
43
ad oggi dagli studiosi, ma questa tesi vuole approfondire questa problematica e
vedere come si sviluppi l‟incontro e la relazione con il diverso in Dieci anni in
Equatoria. Rifacendosi al quadro teorico istituito inizialmente, si prenderanno in
considerazione innanzi tutto le modalità del viaggio, in secondo luogo si guarderà
a quali criteri sia stato improntato l‟incontro ed il rapporto con le popolazioni
indigene, e come queste abbiano influito sulle strutture mentali del viaggiatore.
3.1
Il viaggio e l’incontro
Uno dei criteri su cui si è stabilita la dicotomia fra Polo e Colombo, è quella
del viaggiare verso o attraverso. Nelle intenzioni, il viaggio di Casati è
assimilabile a quello di Colombo; come quest‟ultimo anche Casati parte per una
missione esplorativa non scevra da intenzioni colonialistiche, anche se, va detto,
nel suo caso esse sono solo vagamente tali. Come Polo, invece, si troverà a
viaggiare a piedi attraverso un continente largamente inesplorato le cui
popolazioni sono via via sempre meno conosciute. Anche il suo, quindi, è un
viaggio attraverso; anch‟egli si trovò a vivere a contatto con gli indigeni
trascorrendo presso di loro periodi di tempo anche piuttosto lunghi. Dieci anni in
Equatoria testimonia, oltre agli aspetti più pragmatici della missione esplorativa e
degli avvenimenti storici, soprattutto un progressivo avvicinamento e una sempre
più approfondita comprensione della cultura africana. La principale motivazione
del viaggio ha certo influito sul modo in cui ha impostato le relazioni con gli
indigeni, essendo partito in primo luogo per una missione esplorativa, il suo punto
di vista non è necessariamente quello indotto da una prospettiva di dominio. Le
condizioni oggettive in cui Casati si trovò, operarono di fatto a favore di
un‟integrazione: si muoveva a piedi, quindi lentamente, ed ebbe a sua
disposizione ben 10 anni per sviluppare la propria relazione con l‟Africa e gli
africani.
Si trovò, senza averlo programmato, in una situazione che qualsiasi
antropologo dell‟epoca avrebbe considerato ideale, ovvero quella di chi, pur non
appartenendo ad un gruppo sociale, vive all‟interno di esso. Questa posizione
privilegiata consente di essere a strettissimo contatto con la cultura studiata,
44
esaminando comportamenti e modelli sociali di un determinato gruppo, senza
però divenirne parte integrante, permettendo quindi di mantenere la distanza
necessaria ad una descrizione che si vuole oggettiva, o quantomeno scientifica.
Questo metodo antropologico, che ebbe grande sviluppo fra la fine del XIX e
l‟inizio del XX secolo è definito “participant observation,” utilizzando
un‟espressione
coniata
proprio
da
James
Clifford,
che,
come
visto
precedentemente mostra i limiti di questo approccio scientifico. Ma Casati, si è
ampiamente detto, non è uno scienziato e la sua voce fuori dal coro non va cercata
nelle descrizioni più o meno accurate ed oggettive degli usi e costumi degli
africani, quanto piuttosto nel suo modo di vivere fra loro. Casati riuscì a stabilire
una relazione non improntata alla dominazione dall‟altro; grazie in primo luogo ai
quotidiani scambi che egli aveva con loro, egli riuscì ad adottare nei loro
confronti un atteggiamento di apertura, tanto che gli antropologi suoi
contemporanei lo accusarono piuttosto di un eccessivo personale coinvolgimento
nei confronti delle tribù con cui venne in contatto.18 Per Casati, questa
partecipazione fu più una conseguenza che un‟intenzione, ciò nondimeno, i
risultati sono tali per cui la resa testuale della sua esperienza in Africa, avviene al
di fuori dei topoi della letteratura coloniale.
Quest‟ultimo aspetto, ovvero quello relativo ai luoghi comuni non va
sottovalutato in quanto, come già detto a proposito di Polo e Colombo, la
trasmissione letteraria dell‟esperienza di viaggio risente sempre, anche se in
misura più o meno importante, di un canone di riferimento. Non si tratta
necessariamente di un canone letterario, quanto piuttosto di un discorso relativo
ad alcuni luoghi ed argomenti. Si è visto, per esempio, che nel caso di Marco Polo
scrivere dell‟oriente significava raccontarne anche le mirabilia; per Cristoforo
Colombo, invece, che conosceva i testi di altri esploratori, è la meraviglia
suscitata dalla natura selvaggia ad essere l‟elemento inderogabile nel descrivere
l‟altrove. Benché Casati faccia parte ormai di un mondo moderno, lontano dal
18
La Ivanov si sofferma brevemente anche sulle critiche mosse a Casati dall‟antropologo russo
Junker, ma descrive poi quest‟ultimo nei termini di un bieco colonizzatore più che di un
antropologo. Egli considera i neri pigri, bambineschi, senza onore e non degni di fede (Ivanov
160) dimostrando di avere un orientamento ideologico nei confronti dell‟altro che è molto lontano
rispetto a quello di Casati.
45
sistema epistemologico dei due viaggiatori citati, non è esentato dal subire, a sua
volta, il condizionamento culturale dato dall‟appartenere ad uno specifico luogo e
periodo storico. L‟Africa in quel periodo era un continente ancora ampiamente
inesplorato, a causa delle sue caratteristiche morfologiche e naturali, non è
difficile allora capire perché venisse dipinto come un continente misterioso, ostile,
popolato da barbari cannibali, oppure affascinante, ricco, incontaminato e quindi
puro. La presenza di questi elementi canonici nelle narrazioni sull‟Africa alla fine
del XIX secolo è tale per cui non solo essi contribuiscono, un po‟ come accadeva
con Marco Polo, a definire un genere, ma rafforzano nella coscienza comune la
validità del contenuto. In “The Savage in Literature,” Brian V. Street,
occupandosi in particolare delle teorie evoluzionistiche che si diffusero nel XIX
secolo, e che furono utilizzate per supportare l‟imperialismo, ha dimostrato che
esse non sono né successive né contemporanee, bensì antecedenti l‟impero
coloniale (5). Ciò significa che l‟atteggiamento mentale con cui il nuovo veniva
affrontato, era già in parte formato in Europa. Benché i viaggiatori giungessero in
luoghi sconosciuti, perciò, avevano già a loro disposizione dei parametri
all‟interno dei quali inserire ciò che incontravano. Entro un certo limite potevano
riconoscere più che conoscere. Creando un circolo vizioso, gli scritti di viaggio
confermano quelle stesse teorie da cui in parte traggono nutrimento,
rafforzandone in questo modo la validità.
Dieci anni in Equatoria si allontana da questi topoi della tradizione perché
trasmette ampiamente gli aspetti del viaggio che si riferiscono alla scoperta di
un‟altra cultura. L‟intero libro può essere letto nella prospettiva della progressiva
conoscenza che l‟esploratore acquisì attraverso un vero e proprio percorso di
avvicinamento fisico all‟altro. Si comincia qui ad intravedere una tematica che
diverrà centrale nei capitoli successivi, ovvero quella relativa allo spostamento,
inteso nel senso di movimento fisico di avvicinamento all‟altro. Grazie a questo
spostarsi – andare verso – l‟esperienza del viaggio acquisisce una dimensione
cognitiva che Casati riesce a mettere a frutto e trasmettere. In Dieci anni in
Equatoria, tuttavia, questa problematica manca di incisività perché l‟esploratore
non ha piena coscienza di quanto la prossimità fisica giochi un ruolo
46
fondamentale nell‟approccio all‟altro. Nei capitoli successivi, invece, il corpo e la
vicinanza fisica saranno fra i nodi centrali della discussione, perché sia Moravia
che Celati vivranno questo momento con estrema consapevolezza. D‟altra parte
l‟incoscienza di Casati costituisce un elemento a favore del rapporto con l‟altro.
Riesce a viverlo in modo pieno proprio perché non cerca una resa intellettuale al
proprio vissuto. Vive la relazione in modo naturale, lasciandosi quasi trasportare
dagli eventi, senza operare forzature o mettere freni ideologici. Riesce perciò a
fare l‟esperienza dell‟altro, ma anche l‟esperienza di sé con l‟altro, in modo molto
più diretto e disinibito di quanto non riusciranno a fare gli scrittori di cui si parlerà
successivamente.
Per questo motivo, i luoghi comuni a cui si è fatto in precedenza
riferimento, ed il cannibalismo in primis, in Dieci anni in Equatoria sono solo dei
procedimenti formali. La narrazione procede sobriamente, evitando cioè
enfatizzazioni ed esagerazioni volte a suscitare meraviglia, stupore e, trattandosi
di tribù cannibali, anche orrore, nel lettore. Allo stesso modo solo in un paio di
occasioni, egli esalta la cultura primitiva o la bellezza di una vita non contaminata
dalla civiltà. In questi casi, è riconoscibile il cosciente uso retorico di tali
affermazioni, in quanto sono poste all‟inizio o in conclusione di capitolo.
Il segno più forte dell‟originalità del percorso di avvicinamento di Casati
agli africani, è la mancanza sia del completo rifiuto della cultura e dei modi di vita
delle popolazioni indigene, sia la loro idealizzazione; ovvero manca quella
semplificazione culturale che Elizabeth Hallam in Cultural Encounters ha
indicato attraverso l‟espressione “noble or ignoble savages” (3). La mancanza di
questo riduttivo binomio gli permette di trasmettere un‟immagine che non
tralascia gli aspetti culturalmente più interessanti, né quelli che gli sembrano i più
deprecabili della società africana. In questo caso Casati si rivela atipico rispetto al
suo contesto storico perché l‟assenza di questa dicotomia deriva da un
atteggiamento ideologico che sottende la scrittura; si tratta cioè, di un più ampio e
personale approccio al reale.
47
Ad esso va attribuito senza dubbio anche il modo in cui Casati sceglie di
muoversi fra gli africani; fin dalle prime pagine lo troviamo a suo agio presso i
Dinca la prima tribù presso la quale ha sostato:
Nelle lunghe serate, assisteva talvolta a canti e balli, specialmente
improntati ad idee guerresche. Seduti davanti a fuochi crepitanti per
legna non bene essicata, la lancia nel destro pugno, e tenendo colla
sinistra lo scudo intuonavasi dal capo che dirigeva l‟azione un cantico
a strofe, intercalato da cori rimbombanti di maschia robustezza. [...]
Una delle mie gradite occupazioni, durante il mio soggiorno tra i
Dinca, era quella di ascoltare il racconto di qualcuna di quelle favole,
che si perpetuano per tradizione orale nella letteratura, per così dire,
del popolo, e che caratterizzano, e mettono in evidenza le doti
intellettuali e morali di esso, spesso falsamente apprezzate e giudicate
a causa delle esteriorità selvagge. (40-42)
Non sorprende che Casati abbia assistito alle danze indigene, ma interessa il tono
con cui egli trasmette questa esperienza. Le “lunghe serate [...] seduti davanti a
fuochi crepitanti” dà a tutta questa situazione un‟atmosfera tale che, se non fosse
che si tratta di danze guerresche, non sorprenderebbe se quello che segue fosse
accaduto in un salotto della Brianza. Casati, facendo un‟operazione comune a
molti narratori di viaggi riporta l‟ignoto al noto, ovvero legge la novità attraverso
le categorie che gli sono familiari. È certamente parziale la descrizione che Casati
offre, ma leggendolo nelle sue parole, l‟ignoto, l‟Africa, almeno in questo caso,
trasmette una confortevole sensazione di vita comunitaria.
La seconda parte del paragrafo citato è ancor più interessante per due
motivi: il più evidente è l‟affermazione conclusiva, il secondo, è dato
dall‟interesse dell‟autore nelle favole tradizionali.19 L‟esaltazione delle doti
intellettuali degli autoctoni contrapposte alle loro “esteriorità selvagge” è un
luogo molto frequente nelle narrazioni odeporiche, tanto da poter essere
considerato quasi privo di valore. In questo caso, a ridare validità all‟affermazione
19
In Dieci anni in Equatoria vengono riportate 5 favole, le uniche che Casati ricorda fra tutte
quelle che aveva sentito raccontare. Egli le aveva trascritte tutte, ma le sue note furono bruciate dal
re Chiua, ed egli fu perciò costretto a ricostruirle a memoria.
48
di Casati, è quanto afferma a proposito della produzione culturale, nel caso
specifico le favole, della tribù presso la quale si trovava. Stupisce che Casati,
arrivato da pochi mesi sia già in grado di comprendere il racconto, ma questo
punto si chiarisce facilmente: egli aveva con sé alcuni informants20 che
traducevano per lui quanto detto. Le favole gli interessano perché, in assenza di
una cultura letteraria scritta, sono uno dei pochi veicoli attraverso i quali
trasmettere i valori della tradizione popolare. Trascriverle significa portarle ad un
livello ulteriore rispetto a quello della cultura orale: in questo modo esse da un
lato entrano a far parte del patrimonio narrativo comune, dall‟altro sono
testimonianza tangibile di una cultura che contribuiscono così a conservare.
Casati le trascrive anche perché vuole fornire un documento delle loro “doti
intellettuali e morali,” questo significa che egli le ritiene oltre che documenti
culturali anche testimonianza di una civiltà che considera tanto interessante da
volerla far conoscere ai lettori italiani. Il procedimento espositivo di Casati è
interessante: alla descrizione di una delle manifestazioni esteriori, fisiche, della
cultura indigena, data dai canti e dalle danze, segue quella più intellettuale,
rappresentata dalla tradizione orale. Mirando alla completezza dell‟informazione,
l‟autore riferisce i due livelli in cui la cultura si espleta, cercando così di restituire
un quadro che sia il più esaustivo possibile. In questo senso, fin dalle prime
pagine, il viaggio di Gaetano Casati assume delle caratteristiche che lo avvicinano
al viaggio di Marco Polo, ovvero viaggio non solo come spostamento fisico, ma
come esperienza culturale.
Questo interesse nei confronti della tradizioni, valori, e cultura degli
indigeni non vede nell‟esperienza presso i Dinca un episodio isolato. Ogni gruppo
da lui conosciuto viene descritto in tutti i dettagli che gli è possibile ricordare. Fra
le varie tribù, quelle che Casati ha conosciuto meglio, per essersi fermato con loro
più a lungo, sono i discendenti dei Mombettu, a cui dedica ampio spazio nel suo
volume. Il paragrafo in cui egli descrive l‟entrata nella loro regione è
paradigmatico:
20
Anche questo termine è mutuato da Clifford il quale ha così chiamato la figura che spesso si
ritrova a seguito degli esploratori. L‟informant, era una persona del luogo che conosceva più
lingue ed anche il territorio e poteva quindi svolgere la funzione di guida ed interprete.
49
Stavo per entrare nel Mombettu nella regione illustrata dallo
Schweinfurth. Avevo sentito a raccontare cose mirabili di questo paese.
La maestà del suo aspetto, i suoi fiumi dalle ormai celebri gallerie, i
banchetti di carne umana, la popolazione pigmea, il cimpanzé dalle
forme semiumane, la fine tragica di Re Munza, gli obbrobri perpetrati
dagli Arabi, eccitavano la mia curiosità. (81)
Se si guarda solo all‟aspetto cognitivo del viaggio di Casati, questo raggiunge
probabilmente il suo apice mentre si trova nella regione dei Mombettu. Che il
sentimento che anima il protagonista di fronte a tali “meraviglie” non sia timore,
ma la semplice curiosità è significativo dell‟atteggiamento assunto da Casati nei
confronti del nuovo. Benché utilizzi alcuni luoghi comuni sull‟Africa, come la
magnificenza della natura, strani esseri antropomorfi, il cannibalismo, ecc., ad
essi viene conferito un valore positivo, perché suscitano curiosità, e servono da
stimolo per la conoscenza più che da deterrente ad essa. Uno degli atteggiamenti
che contraddistingue Casati e sul quale si ritornerà fra breve, è il suo gusto per
sfatare, minimizzare o addirittura giocare sul valore di alcuni luoghi comuni,
come accade anche in questo caso dove gli “abbrobri perpetrati dagli arabi” e “i
banchetti di carne umana” suscitano curiosità piuttosto che aberrazione.
Quando entra nella regione dei Mombettu, che prende il nome ovviamente
dalla popolazione che la abitava, la tribù originaria è ormai scomparsa, e ne
rimanevano solo i discendenti. Casati passa molto tempo presso di loro e riesce ad
approfondire la conoscenza di questa civiltà, tanto da essere una delle fonti a cui
ci si rifà per la sua storia. La Ivanov ha fatto notare che fra tutti gli antropologi
che si sono occupati della tribù dei Mombettu, Casati non è il più preciso, ma è
l‟unico a riportare le modalità con cui il trono veniva ereditato. È infatti l‟unico a
mettere in luce che si tratta di una dinasta monarchica fondata sul matriarcato.
Casati supera l‟interesse che può derivare dallo scambio quotidiano con le
popolazioni africane, e si mostra non solo interessato, ma estremamente tollerante
anche nei confronti della pratica che da sempre aveva suscitato scandalo fra gli
europei: il cannibalismo. A questo proposito, in Colonial Encounters, Peter
Hulme scrive: “Human beings who eat other human beings have always been
50
placed on the very borders of humanity. They are not regarded as inhuman
because if they were animals their behaviour would be natural and could not
cause the outrage and fear that „cannibalism‟ has always provoked” (14). L‟orrore
provocato dal cannibalismo non deriva dalla pratica in sé, ma da chi la mette in
atto. Come afferma Hulme, essa sarebbe stata accettata come naturale se a nutrirsi
di carne umana fossero stati degli animali; il problema deriva dal vederla praticata
da altri esseri umani. Chi si deve confrontare con l‟antropofagia deve far fronte a
due grosse questioni, da un lato, in quanto uomini, il doversi riconoscere come
parte della stessa specie di cui fanno parte i cannibali, dall‟altro il non volersi
riconoscere come simili ad essi. In passato questo problema è stato risolto nei
termini descritti da Hulme, ovvero allontanando il più possibile quegli uomini
dalla razza umana. Metterli ai bordi serviva proprio a questo: a definirli come
l‟ultimo stadio di un‟umanità che comunque era più progredita. Ancora una volta
la definizione dell‟altro serve a ribadire la propria identità.
Casati su questo punto dà prova di una tolleranza che sfiora l‟incredibile;
egli chiarisce che non pratica l‟antropofagia, ma non è mai esplicitamente critico
nei confronti di essa. Si sarà notato che nell‟entrare nel territorio dei Mombettu,
Casati fra le altre cose elenca “banchetti di carne umana,” senza però fare nessun
commento rispetto ad essi. Allusioni o chiari riferimenti al cannibalismo si
trovano in diversi punti di Dieci anni in Equatoria e l‟atteggiamento di Casati non
cambia: egli prende atto ma non condanna. Il protagonista, che pure in altri
momenti definisce gli indigeni come primitivi e bisognosi di educazione, non usa
mai l‟argomento del cannibalismo a dimostrazione della loro inciviltà. Al
contrario, attraverso l‟uso dell‟ironia, o con dichiarazioni di aperta tolleranza egli
vuole dimostrare che cannibalismo non è necessariamente sinonimo di barbarie.
Casati tocca apertamente l‟argomento due volte, la prima a proposito degli Abacà:
“Sono antropofagi, senza però essere né inumani né feroci” (75). Egli non ha
motivo per sentirsi particolarmente legato alla tribù degli Abacà, è stato presso di
loro poco tempo e non aveva avuto il tempo di approfondire la conoscenza di
questo gruppo; inoltre poco prima li aveva definiti: “Diffidenti, e nello stesso
tempo avidi, sono poco laboriosi, e molto meno guerrieri” (74). La sua
51
comprensione non è quindi da attribuire ad una sua maggiore vicinanza al gruppo,
va quindi eliminato il sospetto di un interesse specifico a quella tribù.
La dichiarazione di Casati interessa soprattutto per la scelta linguistica, più
precisamente l‟utilizzo dei sostantivi “antropofagi” e “inumani.” L‟attenzione su
queste due specifiche parole è derivata dalla lettura di Hulme. Egli, nel paragrafo
citato precedentemente, usa esattamente la parola “inhuman” per indicare il modo
con cui gli europei guardavano alle popolazioni presso le quali si pratica il
cannibalismo. Il fatto che entrambi usino la stessa parola è casuale, ma non
completamente; se il sostantivo è una coincidenza, l‟ideologia che sottende ad
esso non lo è. Casati usa il termine inumano in quanto all‟epoca esso era
largamente usato nel discorso sul cannibalismo. L‟utilizzo dell‟avversativa, poi,
indica proprio la presenza di quel preconcetto culturale a cui Hulme fa riferimento
“sono antropofaghi perciò inumani,” e che Casati vuole sfatare. Evidentemente gli
era familiare il discorso relativo al cannibale che in quanto tale si definisce come
primitivo, ma non lo condivide. Hulme inoltre, sempre nel capitolo “Columbus
and the Cannibals,” percorre brevemente la storia dei due sostantivi “cannibali” e
“antropofagi” e fa notare che da Colombo in poi il termine più comunemente
usato, se non il solo, era il primo, e solo nel XIX alcuni studiosi di discipline
scientifiche hanno ricominciato a far circolare nuovamente anche “antropofagia.”
Le doti letterarie di Casati sono opinabili, ed egli non si sofferma troppo sul labor
limae lessicale, quindi che abbia scelto proprio la parola scientifica per parlarne
significa che egli vuole affrontare l‟argomento con questo criterio, rafforzando
così la credibilità della sua affermazione.
Un secondo esempio del modo in cui l‟autore affronta questa difficile
questione viene offerto alcuni capitoli dopo. Durante il suo soggiorno presso la
popolazione degli Abarambo, il capo tribù gli offre della carne di un tipo
particolare di scimmia, il cinocefalo:
- Che ne debbo fare? È tanto guasta dalle ferite..... [chiede Casati al re]
- Mangiarla; ha una carne squisita. [risponde il sovrano]
- Grazie non usiamo noi cibarci di tali animali.
- Avete torto. La carne di voquo è ottima quanto quella dell‟uomo.
52
Sorrisi. Era la seconda volta che ricevevo una volontaria ed esplicita
confessione dei gusti della cucina antropofaga. (173-74)
Che il dialogo sia frutto della fantasia di Casati è molto probabile. Già Junker,
infatti, restando a quanto afferma la Ivanov, aveva accusato Casati di essersi
inventato questo ed altri dialoghi su questo soggetto. Che il dialogo sia reale o no,
non ha grande importanza; quello che interessa qui è la modalità che in questo
caso l‟autore ha scelto per esprimere la sua opinione: il dialogo riportato dà a tutta
la situazione un tono che è ironico più che specificatamente critico. Casati usa
l‟ironia per ridimensionare uno dei fenomeni più delicati e difficili da trattare, la
pratica del cannibalismo in Africa.
Forse proprio questa sua disponibilità a comprendere anche quelle forme di
cultura che non vuole fare proprie, hanno determinato la vicinanza che si era
venuta a creare fra Casati e alcune tribù del Sudan. Mentre si trovava fra i
discendenti dei Mombettu, ad esempio, arriva persino a stringere un patto di
sangue con Kanna uno dei loro capi (192). Per i capotribù africani avere presso di
sé un bianco, era un punto d‟onore ed in genere questi ultimi erano trattati con
molto riguardo. Stringere un patto di sangue, tuttavia andava al di là del semplice
onore, perché equivaleva a stabilire un legame di fratellanza e di reciproca
fiducia. Che Casati avesse un rapporto privilegiato con queste popolazioni è
testimoniato in particolare, dal suo ruolo come ambasciatore. Così come era
accaduto per Marco Polo, anche Casati si trova a fare da intermediario presso
nazioni straniere e per un paese che non era il suo, in questo caso specifico la
Gran Bretagna. Come affermato nella biografia, non sono chiare le modalità con
cui si sono svolti i fatti, l‟unico elemento certo è che durante la rivolta mahdista
Emin Pascià, con il quale Casati era in contatto più o meno regolarmente, gli
affida il compito di ambasciatore presso l‟Unioro. Compito di Casati doveva
essere quello di convincere il re Chiua ad aprire i confini del suo regno per
permettere il passaggio agli europei. Casati otterrà molto meno di quanto chiede, e
i rapporti con il sovrano saranno, questa volta, improntati alla sfiducia e alla poca
stima reciproca.21 Il risultato, d‟altra parte, non ha grande rilevanza, quello che è
21
Il re dell‟Unioro viene chiamato Chiua da Casati, ma è passato poi alla storia con il nome di
53
interessante, ovviamente, è che sia stato scelto proprio Casati per questo compito.
Evidentemente, la familiarità che egli aveva raggiunto con gli indigeni gli
conferiva uno status molto singolare, e che era riconosciuto non solo dagli
europei, che gli avevano affidato l‟incarico, ma anche dalle stesse tribù africane
che accettavano che fosse lui a fare da intermediario.
3.2
Una difficile sistemazione
Nell‟introduzione si è affermato che questo studio si sviluppa su opere
letterarie; nei capitoli successivi si prenderanno in considerazione testi che
appartengono senza dubbio a quest‟ambito. Dieci anni in Equatoria, invece, è un
testo complesso da definire, certamente non è un‟opera di letteratura in senso
stretto, e come dimostrato in precedenza, non può essere considerato nemmeno un
testo scientifico. Non si è voluta proporre in questa sede un‟analisi stilistico
letteraria dello scritto di Gaetano Casati, in quanto le caratteristiche testuali di
Dieci anni in Equatoria, la disorganizzazione tematica e strutturale, l‟incoerenza
stilistica e una trattazione fondamentalmente impressionistica della materia,
porrebbero dei gravi limiti ad uno studio di questo genere. Casati del resto non
vuole scrivere un‟opera letteraria, ma di divulgazione. Questo non riduce
l‟interesse nei confronti del suo testo, al contrario, si è visto che sono proprio
queste caratteristiche ad aprire possibilità interpretative differenti.
Dieci anni in Equatoria è una narrazione atipica che tenta di riunire stili e
discipline diverse, senza però produrre risultati di rilievo se non per quanto
concerne proprio la relazione che l‟esploratore riuscì a realizzare con gli africani.
Nella sezione precedente si sono esaminati i momenti palesemente dichiarativi
della posizione di Casati rispetto all‟Africa e agli africani. Quello stesso
atteggiamento lo si ritrova all‟interno del testo in momenti che sono meno
esplicativi ma altrettanto interessanti. L‟aspetto tecnicamente più convincente a
questo proposito sono le appendici in calce ai due volumi, che Casati pone a
conclusione delle vicende storiche e personali. La prima è costituita da alcune
Cabrega, che si trova anche con la grafia Chiabrega.
54
tavole meteorologiche in cui con grande precisione riporta rilevazioni fatte mentre
si trovava presso i Mombettu e altre zone dell‟Africa. La seconda appendice
inserita nel primo volume è quella più interessante, perché si tratta di una tavola
comparativa di alcune lingue. Nonostante il lungo soggiorno, Casati non aveva
mai imparato a parlare nessuna delle lingue africane, anche a causa dei continui
spostamenti, e la tavola, come afferma lui stesso, non è solo opera sua: “il Signor
Hassàn Vita, già medico farmacista al servizio del Governo dell‟Equatoria,
gentilmente mi favorì della sua opera nella compilazione di questa tavola” (31617). Nonostante questo, Casati una conoscenza di base dovette acquisirla a
giudicare dal piccolo dizionarietto in cui diversi termini vengono declinati nelle
svariate lingue: Dinca, Morù, Mambettu, Bamba, Sandeh, Bari, ed infine Lur. I
lemmi riportati sono quelli destinati ad una conversazione elementare, per cui ai
numeri seguono in ordine alfabetico: sostantivi indicanti le parti del corpo, gli
attrezzi da lavoro, il cibo, i momenti del giorno, gli animali, ed alcuni verbi
essenziali, fra i quali si trova anche il verbo “russare.” Come era accaduto per le
favole, che Casati aveva trascritto per estenderne la conoscenza anche e chi non
aveva fatto l‟esperienza diretta dell‟Africa, anche nel caso delle lingue
l‟intenzione divulgativa prevale su qualsiasi proposito letterario. Nel caso delle
tavole comparative delle diverse lingue, inoltre, emerge un ulteriore elemento che
merita di essere notato. Nell‟introduzione si è spiegato perché si è scelto di
includere in un unico nome, Africa, la molteplicità sociale, culturale e politica che
caratterizza il continente. Casati, che era rimasto sul luogo per molti anni aveva
vissuto in prima persona questa frammentazione. Nel suo libro se ne colgono
alcuni aspetti, ma senza dubbio queste tavole linguistiche sono quelle che più di
ogni altro commento mettono in luce la natura composita del continente africano.
Dieci anni in Equatoria mira a fornire al lettore un quadro che sia il più esauriente
possibile sulle culture africane.
Infine, terza ed ultima appendice, è quella relativa alla mappatura della zona
dell‟Uele, il motivo principale del viaggio. A conclusione del secondo volume
Casati riporta la mappa, disegnata sulla base delle rilevazioni fatte da lui e da
Junker, dell‟itinerario compiuto nella fase esplorativa in Africa. Quel poco di
55
lavoro sul territorio che Casati era riuscito a fare aveva comunque dato dei frutti,
in fondo lo scopo della sua missione era stato, anche se solo parzialmente,
raggiunto. Queste appendici sono probabilmente fra i pochi dati che si possano
considerare scientifici.
Casati vorrebbe dare al proprio testo un‟impostazione che egli deduce da
The Hearth of Africa di Georg Schweinfurth, che oltre ad essere il volume al
quale si ispira per il valore scientifico, è anche l‟archetipo dell‟organizzazione
grafica del suo libro. In realtà, fatta eccezione per quest‟ultimo aspetto, Dieci anni
in Equatoria è molto lontano dal modello di riferimento, in particolare perché
manca coerenza narrativa ed un‟unità tematica. Idealmente si potrebbe supporre
che l‟autore sviluppi la narrazione sulla base dell‟itinerario da lui seguito in
Africa; l‟intenzione è certamente questa, il testo infatti si apre con una lettera al
Capitano Camperio, in cui Casati descrive la sua partenza da Milano e l‟arrivo a
Suakim, e si chiude con il ritorno in patria. Ma Dieci anni in Equatoria non è un
itinerario perché Casati sembra non voler tralasciare niente di ciò che ha vissuto,
visto e imparato in Africa. Le notizie sono disordinate e confuse perché,
ingenuamente, egli non opera dei distinguo importanti rispetto al materiale
trattato. Di conseguenza al racconto di viaggio in senso stretto, sono affiancate più
che subordinate, la descrizione fisica delle popolazioni incontrate, con i loro usi e
costumi, riportando brevemente, laddove la conosca, anche la loro storia ed in
alcuni casi anche le favole della loro tradizione. Casati era partito per l‟Africa in
missione esplorativa, quindi a quanto qui sopra elencato si devono aggiungere
anche le rilevazioni topografiche e morfologiche. A tutto questo infine si affianca
la cronaca dell‟instabile situazione politica che avrebbe portato alla rivolta
mahdista e che Casati si era trovato a vivere in prima persona.22
22
Mahdi, nella religione islamica, è la figura salvifica la cui funzione è quella di sorgere
contro un‟oppressione, promuovere una trasformazione sociale e quindi riportare giustizia,
seguendo il volere divino. Per gli studiosi che si sono occupati di questo aspetto della religione
mussulmana, non è del tutto inappropriato parlare di “messianesimo islamico”(Sachedina, 1989).
Benché le caratteristiche siano simili a quelle del messia delle religioni cattolico cristiana e
giudaica, vi sono alcune differenze di carattere dottrinale nella figura del Mahdi e dei suoi seguaci.
(Questi ultimi in particolare sono considerati responsabili nella realizzazione del progetto di
salvezza). Nel caso specifico di Gaetano Casati, egli si trovò a vivere uno dei momenti in cui il
movimento mahdista, guidato da un nuovo Mahdi la cui venuta era stata profetizzata dal
Maometto stesso, cercava di prendere il controllo dell‟Africa orientale fin dal 1881. Di fatto
56
Un esempio tipico del modo di procedere di Casati lo ritroviamo nella
pagina riportata di seguito. Oggetto della narrazione sono la passata grandezza dei
Mombettu, da cui deriva la loro superiorità rispetto alle altre tribù, e la
descrizione del loro abbigliamento. Casati procede in modo quantomeno
arbitrario:
La dominazione dei Mambetto, sebbene troncata con la violenza e
colla dispersione delle tribù, pure lasciò duratura la memoria delle sue
gesta, il prestigio del suo nome, la superiorità e la prevalenza nelle arti,
negli usi e nei costumi. Il modo d‟abbigliamento, l‟acconciatura del
capo, le pratiche superstiziose, l‟armamento in guerra le feste ed i
balli, gli utensili per gli usi domestici, tutto è improntato a foggia loro.
La lingua, poi, ebbe un trionfo assoluto e completo; e, se ciascuna
tribù ricorda il proprio idioma, tutti però riconoscono il di lei primato,
e per riverenza alle tradizioni gloriose, e come idioma che soddisfa al
bisogno di facilitare le reciproche relazioni. Mi trovava un giorno
presso il principe Jangara, quando Mbala si presentò a rendere visita.
Tutti scattarono in piedi e Jangara, portatosi ad incontrarlo, lo invitò ad
occupare il di lui posto, acconciandosi egli, in segno di rispetto, su di
un panchetto molto più basso. Era un riflesso della grandezza passata,
sempre splendida e viva, e che imponeva alle menti il rispetto.
L‟abbigliamento è più o meno ricercato secondo la condizione degli
individui; dal ricco vestimento che copre il petto, e, scendendo alle
ginocchia ripiegato, va a coprire il dorso fino all‟altezza delle spalle,
stecchito, ben disteso, dal colorito o rosso, o bruno, o cinereo, stretto
alla cintola con cordoni grossi, di fine lavorio, si scende per una lunga
serie intermedia fino al cencio che copre o meno talune parti del corpo,
rattenuto da una cordicella qualsiasi. (106)
l‟insurrezione mahdista mirava ad eliminare il governo britannico per impadronirsi del Sudan e
dell‟Egitto. Ma le ovvie ragioni pragmatiche fanno sospettare della piena veridicità delle
motivazioni religiose: l‟Africa orientale era in quel momento l‟area geografica più attiva nella
tratta degli schiavi, prendere il controllo di quella regione avrebbe significato assumere il controllo
di una delle attività più redditizie del momento.
57
Questo esempio, benché sia relativo ad un unico soggetto, basta a mostrare come
l‟autore proceda più per associazione di idee che per rigore argomentativo. La
stessa mancanza di coerente sviluppo espositivo incontrato in questo breve
passaggio, la si riscontra anche a livello generale. È difficile indicare un unico
perno attorno al quale si svolge la narrazione, e l‟itinerario spazio-temporale
funge solo da pretesto.
Riccardo
Bacchelli,
che
avrebbe
riscritto
il
testo,
ha
visto
nell‟organizzazione testuale il suo punto debole e, in Africa fra storia e fantasia
afferma che la difficoltà maggiore l‟aveva incontrata nel mettere ordine in una
narrazione che procede in modo estremamente confuso: “Dieci anni in Equatoria
è un libro, o meglio un repertorio confuso e folto, disordinato, e stipato, di notizie
esposte in uno stile e modo illegibile e quasi inintellegibile, salvo a fare quel che
ho fatto, procedendo a sceverarle, chiarirle, ordinarle con metodo filologico e
criterio storiografico” (37). Così come è impossibile dare un‟univoca
interpretazione della struttura narrativa, altrettanto difficilmente si potrebbe
trovare un aggettivo che da solo basti a definire lo stile di Casati. A momenti
volutamente ricercati sul piano letterario, infatti, seguono pagine dalle intenzioni
scientifiche, a cui si alternano qui e lì più o meno vaste riflessioni economicopolitiche e pseudo-filosofiche sul concetto di civiltà. Manfredo Camperio,
direttore della rivista L’esploratore e autore del proemio ai due volumi, anche se
in termini retorici, era riuscito ad evidenziare proprio questo aspetto:
La lunga dimora in quei paesi incantati, la perfetta conoscenza di varie
lingue di quelle tribù e la quasi completa solitudine, nella quale visse
per parecchi anni, interrotta solo dalla breve dimora con Emin e
Jumker, danno poi a questo testo un‟impronta tutta speciale. È
soprattutto la verità che vi traspare, solo la verità. Non vi si trova
nessun artifizio di scrittore provetto che conosce gli effetti che fará sul
lettore. (X-XI)
Casati del resto non scrive Dieci anni in Equatoria con intenzioni letterarie, ciò
che lo interessa, è principalmente divulgare la propria originale esperienza in
Africa e far conoscere agli eventuali lettori la realtà di quei luoghi. Vale la pena
58
soffermarsi su questo elemento in quanto è fondamentale data la lettura critica che
si è proposta. Se da un lato è vero che Casati non sviluppa la sua narrazione in
modo organico in riferimento ad un preciso argomento, è però certo che possiamo
indicare nella rappresentazione dell‟alterità e nel tipo di relazione che era riuscito
a mettere in atto con essa, il momento forte del testo. Egli mira soprattutto alla
completezza e alla veridicità dell‟informazione, e non vuole tralasciare niente che
ritenga degno di essere conosciuto in Europa.
L‟esperienza del viaggio di Casati è molto vicina a quella di Marco Polo,
non solo per le caratteristiche oggettive del viaggio stesso, ma per il modo in cui il
viaggio viene affrontato e descritto. Per entrambi i viaggiatori, la convivenza, o
quantomeno la vicinanza fisica con le popolazioni con cui vennero in contatto,
furono lo strumento grazie al quale riuscirono ad instaurare un rapporto non
sviluppato in base a stereotipi culturali. Casati non era partito per l‟Africa con
l‟intenzione di conoscere le diverse tribù con le quali sarebbe venuto in contatto.
Egli incontra il diverso senza cercarlo direttamente, ma l‟incontro/scontro e,
soprattutto, il rapporto che stabilisce con l‟altro, avvengono perché riesce a
mettersi in una condizione di disponibilità ad accogliere e conoscere ciò che via
via incontra durante il suo viaggio. La conoscenza gli deriva quindi
dall‟esperienza diretta e quasi indipendentemente della sua stessa volontà: pur non
cercando l‟altro è disposto ad accoglierlo, a farlo divenire parte della sua
quotidianità. Casati godeva di una prospettiva privilegiata e quasi unica in merito
agli africani, perché i diversi compiti geografici e politici che gli erano stati
affidati lo avevano portato ad essere in costante contatto con gli indigeni.
Attraverso il contatto quotidiano con essi, il suo viaggio si arricchì di una
dimensione cognitiva rispetto all‟alterità tanto inaspettata quanto profonda. La
meticolosità delle sue descrizioni si deve forse in parte a questa volontà di
trasmettere la sua conoscenza delle culture africane che, data l‟epoca, era
piuttosto eccezionale. La condivisione, la partecipazione in prima persona alla
vita dell‟altro, nei luoghi dell‟altro, introduce un aspetto importante di questa
discussione: ovvero la vicinanza fisica come strumento di conoscenza. Tuttavia
Casati è inconsapevole della rilevanza e degli sviluppi di questo aspetto della
59
relazione. Egli la vive in prima persona, la trasmette attraverso il suo testo ma non
realizza che proprio questa modalità relazionale aprirà le porte ad un nuovo modo
di concepire chi è diverso da sé. Del resto la problematica della relazione con
l‟alterità è recente e l‟esploratore non poteva avere coscienza di tutti gli sviluppi a
cui l‟incontro/scontro con un‟altra cultura avrebbe portato. Per Moravia e Celati,
invece, questo aspetto diventerà il nucleo stesso attorno a cui si svilupperà il loro
rapporto con l‟altro. La vicinanza fisica sarà vissuta in modo molto diverso dai
due autori trattati nei successivi capitoli. Per Moravia essa sarà l‟apice stesso della
relazione, per Celati, al contrario, il trovarsi a diretto contatto con gli africani non
rappresenta un momento significativo perché non è uno strumento per una più
profonda comprensione. Egli dovrà perciò cercare delle modalità diverse per
sviluppare la propria relazione.
3.3
La cultura mussulmana
Si è fino a questo punto messo l‟accento sulla disponibilità che Casati
dimostra nel rapporto con le culture che non conosce. Va fatta una deroga però, in
relazione ai mussulmani: il protagonista di Dieci anni in Equatoria è categorico
nel ripudiare l‟islam e qualsiasi sua manifestazione. Nel caso specifico alle
difficoltà di approccio culturale vanno aggiunte delle questioni di carattere
pratico. Fra la Gran Bretagna e i mussulmani provenienti dalle vicine regioni
dell‟Arabia era scontro aperto per conquistare il dominio territoriale della zona
meridionale del Sudan e con essa anche il monopolio della tratta degli schiavi,
attività particolarmente redditizia. Casati evita di prendere in considerazione
questo aspetto della questione, ma è pronto ad attribuire ai mussulmani
caratteristiche di brutale barbarie, li ritiene incapaci di qualsiasi tipo di morale e li
considera un elemento “sempre pestifero” e “vero incubo che pesa sull‟Africa”
(246–249). L‟affermazione “si comportano come bravissima gente” (9) resta un
caso isolato, tanto più che è immediatamente seguita da una descrizione in cui agli
arabi Biscerini vengono attribuiti tratti quasi animali (10). L‟alterità assoluta,
quella che non solo non si può comprendere, ma con la quale è impossibile ogni
forma di dialogo, è, ancora una volta, la cultura mussulmana.
60
4.
Mal d’Africa: l’invenzione di un eroe italiano
Nel 1932, in piena epoca fascista e coloniale, Riccardo Bacchelli fa
pubblicare a puntate nella rivista Nuova Antologia la sua nuova opera: Mal
d’Africa: romanzo storico. Il romanzo è in realtà una riscrittura letteraria, in
chiave patriottica, delle memorie del capitano Gaetano Casati. Bacchelli non
chiarisce in nessuno scritto quale sia il motivo per cui fra tutti gli esploratori
italiani recatisi in Africa abbia scelto proprio Casati. Dieci anni in Equatoria non
era infatti l‟unico volume di questo genere a sua disposizione, anche Romolo
Gessi, per esempio, per fare un nome già visto, aveva scritto le memorie delle sue
esplorazioni in Africa. L‟ipotesi qui proposta è che il testo di Casati sia quello che
meglio risponde alle esigenze nazionalistiche di Bacchelli. Si dimostrerà, infatti,
che la ripresa di questo testo è un‟operazione non solo appartenente all‟ambito
letterario, ma anche, e potremmo dire soprattutto, a quello ideologico. Con la
riscrittura di Dieci anni in Equatoria, Bacchelli mira alla definizione di
un‟identità nazionale e alla legittimazione delle presenza italiana in Africa. Più
precisamente, attraverso la storia di Casati, egli vuole fornire un esempio più
ampio, ovvero quello di un modo onesto e prettamente italiano di viaggiare,
esplorare, e, perché no, anche colonizzare. Il racconto odeporico di Gaetano
Casati, viene ripreso quindi per portarlo al di fuori dalle strutture letterarie e
proiettarlo in un processo di costruzione di un‟identità italiana. Rispetto a
quest‟ultima l‟accento di Bacchelli è posto in modo vigoroso sulla dimensione
etica di Gaetano Casati ed in particolare sul suo rapporto con gli africani con cui
viene in contatto. Ciò che ha attratto l‟attenzione dello scrittore su Casati è la
particolare comprensione della cultura di cui quest‟ultimo si trovò a far parte, e la
sua personale capacità di trasmetterla nel testo scritto. In “Gaetano Casati
esploratore a piedi,” contenuto nel volume di saggi Nel fiume della storia,
Bacchelli scrive:
Una vivace e intima predilizione portava il Casati ad appoggiarsi sulla
fiducia e l‟amicizia degli indigeni, il suo fondo generoso e veramente
buono dell‟animo suo lo disponeva non a sfruttare cotesta confidenza,
61
ma a parteciparne e a corrispondervi, pure rimanendo lui uomo di
mente razionale, fra quei puri istintivi [...]. Per simili tratti d‟una
umanità veramente vicina alla naturalità primitiva intatta, il Casati ha
una sensibilità comprensiva rara, che sa riferirceli senza guastarli,
freschi, intatti e ingenui. (162)
Il brano citato mette in risalto quanto Bacchelli sia palesemente ancorato ad
un‟ottica di tipo imperialista, molto più di quanto non lo sia Casati. Tuttavia ciò
che mi interessa soprattutto far notare, è il „personaggio Casati‟ che emerge da
questa descrizione.
Bacchelli capisce che la vera ricchezza di Dieci anni in Equatoria consiste
nell‟aver creato e trasmesso una prospettiva diversa rispetto alle tipiche narrazioni
sull‟Africa. L‟inusuale punto di vista del viaggiatore si fonda sulla curiosità nei
confronti dell‟altro, sulla volontà di conoscerlo, sulla capacità di dialogo,
sull‟integrazione, in pratica sul voler e sul saper ridurre la distanza fra il sé e
l‟Altro. In alte parole Casati era riuscito ad inserire il suo rapporto con gli africani
all‟interno di un orizzonte etico nato dall‟esperienza vissuta in prima persona e
fatto di reciproco interesse e tolleranza; non solo, era riuscito anche a trasmetterlo
attraverso il suo testo.
L‟aspetto più discutibile di Mal d’Africa, è proprio quello di servirsi di
questa dimensione etica per costruire un personaggio che diviene simbolico di una
italianità che si sviluppa lungo le linee del valore, dell‟altezza morale e di una
imprescindibile empatia verso gli altri. Bacchelli quindi usa Casati come esempio
per dimostrare la profonda umanità intrinseca nell‟essere italiano. In questo
contesto l‟Africa funge solo da sfondo per tratteggiare un personaggio ideale.
Soprattutto il rapporto con gli africani viene strumentalizzato a fini ideologici e
usato per dimostrare quanto gli italiani siano capaci di aprirsi e comprendere
l‟altro grazie ad una fondamentale bontà d‟animo. Utilizzando una delle classiche
categorie individuate dalla critica post-colonial, l‟altro diviene lo specchio su cui
proiettare la propria identità elaborandola in positivo. L‟elemento più
problematico di Mal d’Africa è proprio questo: partendo da un fatto reale – Casati
era stato veramente quel tipo di uomo – Bacchelli trasferisce al popolo italiano
62
delle qualità che erano state peculiari dell‟esploratore, manipolando così non solo
il testo letterario, ma anche i presupposti ideologici che ad esso sottendono. In
definitiva Mal d’Africa altera sia la forma che il contenuto, perdendo nel processo
proprio quanto di innovativo Casati era riuscito a proporre rispetto alla relazione
con una cultura diversa dalla propria. Dieci anni in Equatoria spiccava rispetto
agli altri testi perché testimoniava un progressivo avvicinamento, una graduale
riduzione della separazione che passando attraverso il continuo contatto fisico
evolveva in una sempre maggiore comprensione della cultura africana tanto da
permettere all‟esploratore di integrarsi. Dieci anni in Equatoria è soprattutto la
testimonianza di una relazione con l‟altro nel suo svilupparsi ed evolversi, e la
reciproca conoscenza che ne consegue ne è il frutto. Facendone una lettura
fortemente ideologizzata e modificando radicalmente l‟intenzione del testo di
Casati, in Bacchelli la relazione con gli africani diviene solo un punto di partenza
per dimostrare l‟essenziale rettitudine, moralità ma anche altruismo e benevolenza
che sono insiti nell‟identità italiana.
Questa riflessione fornisce un‟ulteriore motivazione sulla scelta di Dieci
anni in Equatoria, legata non a ciò che Casati ha scritto o perché lo ha scritto, ma
a ciò che Casati è stato come uomo, o meglio, come scrive Bacchelli nell‟articolo
già citato: “uomo e onest‟uomo e esploratore della scuola italiana, a piedi e con le
buone: amico di negri, prode e generoso” (166). Questa definizione avvalora la
mia tesi che sia proprio la prospettiva morale alla base della scelta di Bacchelli, e
fa luce anche su quale sia l‟anello che unisce l‟istanza nazionalista e quella
coloniale. La problematica dell‟identità nazionale italiana e del suo rapporto con
la letteratura, è molto ampia, è perciò necessario fin da subito segnalare i limiti
entro i quali si svolge questa indagine. Non ci si occuperà qui del contributo che
le opere di Bacchelli in generale possano aver dato alla definizione di un carattere
nazionale, ma si considererà esclusivamente Mal d’Africa, e limitatamente al
contesto della funzione che qui gli si attribuisce in un periodo di imprese
coloniali.
Romano Luperini, in Letteratura e identità nazionale nel Novecento, ha
segnalato che fra il 1880 ed il 1895 nasce una generazione di intellettuali che
63
“conserva un bagaglio etico – politico, […] difende valori patriottici e comunque
nazionali”(10). Fra questi intellettuali c‟è anche Riccardo Bacchelli. Casati,
filtrato attraverso le sue parole, diventa non solo un eroe, ma un onesto eroe, che
si fa portatore in Africa di un esempio di quei valori morali che, come affermato
precedentemente, sono descritti come tipicamente italiani. L‟Italia in quanto
nazione è un concetto recente, e il suo sviluppo, soprattutto nei primi anni, è
simbolicamente legato alla sua presenza in Africa. Sebbene le prime annessioni
africane all‟Italia, datino alla fine del XIX secolo, è solo con il regime fascista che
la colonizzazione diviene massicciamente parte di una retorica nazionalista.
Retorica che, senza voler qui necessariamente toccare il terreno della superiorità
della razza, aveva certamente scopo apologetico dell‟Italia e dell‟identità
nazionale. Esempi di letteratura italiana ambientata in Africa non mancavano.23
Sia D‟Annunzio che Marinetti, per citare solo i più importanti, vi avevano situato
romanzi e drammi teatrali, ma, benché ambientati nel presente, entrambi erano
proiettati in un‟altra dimensione temporale. D‟Annunzio verso il passato della
Roma imperiale, Marinetti verso il futuro. La storia di Casati, invece, apparteneva
al presente, ed era al presente che si rivolgeva. Ad aumentarne il valore, inoltre,
c‟era la considerazione che essa serviva a dimostrare l‟esistenza di una vera e
propria “scuola di viaggiatori d‟Africa a piedi (....) fondandosi sulla buona intesa
e l‟aiuto e l‟ospitalità e l‟amicizia degli indigeni; la scuola, in Sudan, dei Miani e
dei Piaggia.”24 Quello che alcuni anni più tardi sarebbe stato criticato come un
approccio errato alla descrizione dell‟altro, ovvero la “partecipant observation,”
viene considerato da Bacchelli come una categoria positiva. Ovviamente egli non
può riconoscere l‟osservazione partecipante come approccio cognitivo, ma
individua nella narrazione l‟atteggiamento mentale derivante dall‟aver vissuto in
prima persona l‟esperienza del viaggio in Africa e dell‟avvicinamento all‟altro
africano. Proprio perché frutto di una conoscenza diretta perché esperita sulla
propria persona, la storia di Casati acquisiva quel valore di veridicità che mancava
23
D‟Annunzio nella tragedia Più che l’amore che metteva in scena le vicende di un esploratore
italiano in Africa aveva fatto seguire le Canzoni delle gesta d’oltremare.
24
„Gaetano Casati esploratore a piedi‟ in Nel fiume della storia.
64
ai testi non documentari. Ad accrescerne l‟importanza, c‟era inoltre la
considerazione che quelle stesse vicende, erano passate alla storia. Bacchelli
sceglie Casati, quindi, in parte per la singolare esperienza dell‟esploratore, in
parte per le circostanze storiche contingenti, in cui il libro era nato e si era
sviluppato. È perciò palese che Bacchelli, attraverso la storia di Casati, rivendica
anche un ruolo coloniale attivo dell‟Italia in Africa. Ruolo che trae la propria
validità e legittimazione storica dal fatto che Casati non è un personaggio di
fantasia, ma un uomo in carne ed ossa la cui esperienza vissuta è letterariamente e
quindi culturalmente documentata.
Ciò che Edward Said in Orientalism ha chiaramente espresso è che quello
fra colonizzatori-colonizzati è un rapporto di potere che si fonda in primo luogo,
non su una superiorità politica o economica, bensì su una superiorità culturale.
Oggi sappiamo che tale percezione è faziosa; tuttavia, la giustificazione
ideologica dell‟imperialismo ruota proprio attorno a questa sbilanciata visione del
mondo per cui l‟occidente oltre a dominare poteva descrivere l‟oriente sulla base
di un approccio culturale i cui esiti vengono considerati come oggettivamente
veri. Questo privilegio, scrive Said, è giustificato: “because his [dell’occidente]
was the stronger culture, he could penetrate, he could wrestle with, he could give
shape and meaning”25 (44). Sia Casati che Bacchelli, non hanno dubbi sul fatto
che la cultura di cui sono rappresentanti, sia superiore a quella a cui stanno dando
“forma e significato,” per riprendere le parole di Said. Ma, mentre Casati non fa
della propria superiorità culturale un motivo importante del suo testo, Bacchelli la
usa per arricchire di una dimensione nazionalistica ed ideologicamente faziosa le
memorie di Casati. Riprendendo brevemente quanto affermato in precedenza, in
Casati tale superiorità viene messa in ombra da una quotidianità condivisa con gli
africani che metteva in luce le possibilità di dialogo e di scambio fra le due
culture. Per Bacchelli al contrario, tali dinamiche non sono frutto di una dialettica
di reciprocità ma di un movimento unidirezionale in cui Casati, grazie alla propria
superiorità e magnanimità, riusciva a comprendere chi gli era “inferiore.”
25
Va precisato che Said non intende fare una “demonizzazione” dell‟occidente. Ciò che egli
propone non è una rivendicazione politica, ma culturale.
65
Che la rappresentazione culturale dell‟alterità serva a ridefinire l‟identità
europea è stato messo in luce anche da Peter Hulme in Colonial Encounters.
Guardando alle conseguenze dell‟impari rapporto culturale fra colonizzatore e
colonizzato, egli afferma che la percezione della propria superiorità come civiltà,
fornisce non solo giustificazione ideologica al dominio, ma serve agli europei per
riaffermare la loro identità. In accordo con la linea di Hulme, si vuole qui mettere
l‟accento su un preciso aspetto di questa rappresentazione culturale. Viste le
caratteristiche attribuite agli indigeni (i.e. primitivismo, cannibalismo, ecc.)
l‟identità europea non solo si ribadisce, ma lo fa in positivo. La diversità dell‟altro
ha peculiarità tali che l‟Europa non può uscire da questo confronto se non
vedendo rafforzato e giustificato il proprio ruolo di dominatrice. Come avviene
nel caso dello stereotipo, anche qui si tratta di un movimento a doppio senso;
rappresentare la civiltà che si confronta con la barbarie è il frutto di una posizione
ideologica presa a priori, e le narrazioni che ne derivano a loro volta la rafforzano.
Proprio in quest‟ottica, il contesto africano coloniale e l‟esperienza di Casati
serviranno a Bacchelli come sfondo sul quale sviluppare una narrazione
improntata ad un‟ottica imperialista. Mal d’Africa dimostra quanto possa essere
efficace un‟ideologia, ma ne mette in luce anche i limiti e il potere riduttivo
rispetto ad un testo letterario. Le parole di Bacchelli, oltre ad essere una
politicizzata distorsione dei fatti, rendono l‟esperienza vissuta da Casati molto
meno articolata e ne tralasciano proprio la componente etica che si prefiggevano
di esaltare. Casati viene banalizzato e reso un colonizzatore la cui grande qualità e
quella di saper guardare agli africani con una sguardo umano ma chiaramente
paternalistico.
Il romanzo di Bacchelli è una personale riscrittura di Dieci anni in
Equatoria: lo scrittore modifica situazioni e commenta liberamente i fatti storici
narrati da Casati. Il protagonista di Mal d’Africa è un personaggio molto diverso
dall‟esploratore che si conosce attraverso le pagine di Dieci anni in Equatoria.
Scopo di questa libera interpretazione è rendere Gaetano Casati un vero e proprio
eroe, e più precisamente un onesto eroe italiano. La natura di alcuni episodi
aggiunti da Bacchelli è interessante: essi hanno sfondo sentimentale ed in qualche
66
caso sforano nella dimensione erotica. Bacchelli pone, a motivazione del viaggio
di Casati, la sfiducia nei confronti della situazione politica italiana 26 e una
delusione sentimentale. Non vi è accenno ad esse in Dieci anni in Equatoria, ma
con una captatio benevolentiae nei confronti delle lettrici: “E le lettrici hanno già
indovinata una delusione d‟amore” (20-21), Bacchelli definisce ben presto che
tipo di uomo sia Casati: “anche da giovane fra giovani ufficiali, Casati era stato
sempre piuttosto ritenuto e alieno dagli spassi rumorosi e dalla licenza del
costume. Teneva la donna in alto concetto [...]” (21). Bacchelli conferisce
immediatamente al personaggio una dirittura morale che sarà costantemente
ribadita lungo il romanzo, anche quando la situazione contingente sembri
contraddire ad essa.
È il caso ad esempio dell‟orgia di cui Casati è protagonista a Metammeh.
Anche in questo caso l‟episodio è frutto di pura fantasia, perché Casati parla di
questo villaggio in termini molto meno personali: “Metamme, sulla riva destra del
fiume, [...] è celebre per la vita licenziosa e molle delle sue donne” (13). In Mal
d’Africa, Metammeh serve da sfondo per una più precisa caratterizzazione del
personaggio Casati. Egli attira fin da subito l‟attenzione delle donne: “E bisogna
dire per la piena intelligenza del luogo e dei fatti che l‟uomo era di robusta e
maschia persona, e che tale spiccava in confronto col „reiss‟ e con quegli altri
mingherlini e molli” (38). Prova ulteriore e definitiva della virilità, secondo i
canoni dell‟epoca, è data dal fatto che egli non riesce a sottrarsi alle offerte che gli
vengono fatte. Quando esce dalle vie di Metammeh però egli prova “la tristezza
naturale dell‟orgia consumata” (40), e si tratta di una stanchezza fisica che si
riflette anche nell‟animo del protagonista. Il rimorso che ne consegue è
accompagnato dalla risoluzione a non lasciarsi più trascinare in situazioni del
genere, e all‟accenno del reiss ad altri luoghi di quel tipo risponde: “Li terrai per
te e per i pari tuoi, e mi parlerai solo se ti interrogo” (39). Francesco Marcucci,
nel suo articolo “A proposito di Mal d’Africa,” attribuisce all‟episodio il valore
più ampio di una prova d‟iniziazione all‟Africa stessa, e vede in esso un momento
26
La delusione politica si può facilmente ricondurre alle delusioni post-risorgimentali della
generazione di Casati.
67
necessario a conservare i “connotati virili e la saldezza morale” (41) del
personaggio. Sembra più che plausibile quindi anche una lettura in chiave
idealizzante: Casati è capace di dimostrare la propria virilità ma non al prezzo dei
propri valori, non è un caso quindi Bacchelli lo avesse definito “uomo e
onest‟uomo.”
La superiorità di Casati rispetto al contesto africano nel testo di Bacchelli si
sviluppa principalmente in relazione alla sua statura morale, egli non contravverrà
più ai propri valori, e l‟episodio di Metammeh allora ha funzione quasi
apotropaica. Nelle citazioni proposte precedentemente ritorna molto spesso la
parola “onesto”: l‟aggettivo più frequentemente usato per descrivere Gaetano
Casati in Mal d’Africa è infatti proprio “onesto.” Lo troviamo per la prima volta
in apertura di romanzo, “l‟onesto Casati” (21), e poi via via a varie riprese ed in
varie situazioni fino a giungere alle pagine conclusive dove si descrive un Casati
che rientrando in Italia “si affacciò con i suoi occhi chiari, onesti, spaesati, al
finestrino” (433). Ribadire l‟onestà di Casati dà maggior valore e rafforza un altro
suo tratto personale: il suo sincero amore per il prossimo. Si è detto
precedentemente che la sua capacità di empatia nei confronti dell‟“altro,” è uno
dei motivi per cui Bacchelli riscrive Casati, anche questo più volte ribadito e fin
da subito affermato in Mal d’Africa: “E convien dirlo, a modo di prefazione, ora
che il Capitano Casati è alle soglie dell‟Africa selvaggia, perché l‟amor del
prossimo e la sua filosofia l‟accostarono ai negri con una disposizione dell‟animo,
con un tratto così semplice e schiettamente umano che è raro e forse unico” (50).
Nel testo di Bacchelli, la dirittura morale di Casati, insieme a questo sincero
interesse per gli africani gli conquisteranno il rispetto sia degli europei, a partire
da Emin Pascià, sia quello dei diversi capi tribù con cui venne in contatto.
Si è detto che Casati non ha bisogno di sottolineare la propria superiorità
culturale, molto diverso è, invece, il caso di Mal d’Africa. L‟empatia che egli
aveva dimostrato nei confronti della civiltà africana, viene enfatizzata poiché è
tanto più alta in quanto capace di capire quella “umanità primitiva.” Nel romanzo
di
Bacchelli
la
sottolineata
distanza
culturale
viene
colmata
grazie
all‟atteggiamento di Casati. In questo caso è un movimento a senso unico perché,
68
come aveva scritto precedentemente in „Gaetano Casati, esploratore a piedi,‟ fu
lui “a familiarizzarsi con loro e ad amarli e a farsene amare” (161). È merito
quindi della sua apertura mentale, e della tolleranza che gli derivavano dal far
parte di una civiltà più avanzata se seppe integrarsi e farsi poi tramite di quella
cultura.
Si potrebbe obiettare che l‟amore per il prossimo poteva essere un tratto
personale di Casati, e che non assume necessariamente valore nazionale. In
Bacchelli questa possibilità viene presto sventata perché l‟interesse per altre
culture, insieme all‟abilità di sapersi conquistare un ruolo attivo nel mondo
coloniale e la dimostrazione di coraggio, vengono descritte come abilità o virtù
tutte italiane:
Era insomma la vecchia e sempre nuova attitudine del giramondo
italiano, avventuroso e cordiale; vecchia pensava Casati, almeno come
Marco Polo. L‟Italia ha poche merci da esportare e pochissimo denaro
da spendere in colonie. È naturale che non abbia una politica
colonialistica, almeno per ora. Ma ha degli uomini, ne ha sempre avuti,
ne avrà sempre, uomini che vivono di poco, non le costano nulla,
altrettanto economici quanto valorosi. Noi dobbiamo difendere
riscattare, mettere in valore i loro meriti e le loro precedenze. Non è
solo una questione di giustizia, ma di prestigio nazionale, a cui segue
sempre un utile, presto o tardi, politico o economico. (49-50)
Allo stereotipo “italiani brava gente” Bacchelli affianca il nuovo modello di
cittadino italiano che ha una coscienza nazionale e che vuole farsi portatore dei
valori e del prestigio della sua patria. A ben vedere, anche il luogo comune non è
utilizzato casualmente, bensì ha funzione apologetica. Bacchelli istituisce una
vera e propria tradizione nazionale di viaggio che va da Marco Polo a Casati che è
lineare e simbolicamente coerente nei suoi modi: ovvero nel coraggio, nella
tolleranza e nella capacità di “sapersi rapportare al mondo.”
In Mal d’Africa, inoltre, gli italiani vengono definiti “valorosi” e con
“meriti.” Questi valori non sono veri limitatamente ad una tradizione di viaggio,
ma si proiettano in un quadro nazionale e storico quando Casati incontra Romolo
69
Gessi. Questo incontro, che nel libro di Casati ha una rilevanza minima, diventa
nel testo di Bacchelli un‟altra occasione per ricordare il valore di quegli uomini in
relazione a momenti fondamentali della storia d‟Italia. Dice Gessi rivolgendosi a
Casati: “nel „49 sono stato a fare il mio dovere d‟italiano all‟assedio di Venezia;
ho fatto la campagna di Crimea, ho servito con Garibaldi nei Cacciatori delle
Alpi. Dell‟Africa si sa” (89). Nei due esempi citati Bacchelli non fa mai sentire la
propria voce, come fa invece, e abbondantemente, in altri luoghi del romanzo. Nel
primo caso è a Casati che attribuisce la consapevolezza dell‟importanza della
propria tradizione nazionale, nel secondo, invece è direttamente dalla voce di
Romolo Gessi che valore personale e storia nazionale divengono un tutt‟uno.
Bacchelli usa l‟autodefinizione da parte dei due protagonisti per confermare la
validità storica del prestigio nazionale. A nutrire la narrazione di Bacchelli è in
fondo un‟ideologia imperialista, ma egli la cela in parte facendo parlare o pensare
direttamente i due esploratori. Casati, quindi, non è il solo ad essere “uomo e
onest‟uomo,” in quanto egli fa parte di una tradizione di viaggiatori e soprattutto
di una tradizione nazionale.
Homi Bhabha, nel volume da lui edito Nation and Narration, afferma che la
costruzione di nazione in quanto “powerful historical idea” nasce dalla
combinazione della tradizione dell‟ideologia politica e quella del linguaggio
letterario. Homi Bhabha lavora poi sul solco di queste due istanze per evidenziare
l‟ambivalenza insita nel concetto stesso di nazionalismo. Per Bhabha questo non è
da considerarsi come un generico sentimento di fierezza nazionale, ma piuttosto
come l‟insieme di elementi che caratterizzano un popolo in quanto tale. E‟
interessante che Bacchelli non faccia mai direttamente l‟elegia dell‟Italia come
nazione, ma metta invece in chiaro risalto il valore, la prodezza, il coraggio, e
anche l‟umiltà, di quegli uomini che sono la radice nazionale e storica dell‟Italia
in cui Bacchelli viveva. Il nazionalismo di cui il volume di Bacchelli si fa
portatore, va letto in chiave storica, esso vuole essere un contributo all‟identità
nazionale italiana. In pieno regime fascista Bacchelli sceglie di dare ai lettori un
vero e proprio eroe, una gloria nazionale. In Dieci anni in Equatoria, egli vede
non tanto un valore letterario o l‟eccezionalità di un‟esperienza, quanto piuttosto
70
un modello da poter plasmare per esaltare l‟identità italiana. La singolare
esperienza personale di Casati diviene un momento topico della storia dell‟Italia e
mezzo attraverso il quale mettere in luce valori sentiti come tipicamente italiani.
Alla luce di quanto fin qui affermato a proposito di Mal d‟Africa, il paradigma
istituito inizialmente far Marco Polo e Cristoforo Colombo risulta completamente
ribaltato in Mal d‟Africa. Dieci anni in Equatoria aveva trasmesso un modello di
viaggiatore che grazie al proprio interesse verso l‟ignoto, si era saputo avvicinare
ed in alcuni casi anche integrare alle tribù africane che aveva incontrato lungo il
cammino. Un po‟ come era accaduto anche per Marco Polo, il viaggio di Casati si
era trasformato in un‟esperienza cognitiva eccezionale perché egli aveva vissuto
presso alcune popolazioni africane, ed aveva saputo adattarsi al loro stile di vita.
Bacchelli, invece, sposta il baricentro e porta Casati ad essere molto più simile al
modello proposto da Cristoforo Colombo, ovvero quello di un viaggiatore che
vede nella destinazione del proprio viaggio solo un punto di arrivo, e non un
luogo per una partenza verso la conoscenza dell‟altro. In questi termini tutto
l‟aspetto etico di Dieci anni in Equatoria viene destituito e diventa solo
l‟occasione per rivendicare un ruolo internazionale dell‟Italia e contribuire alla
positiva definizione dell‟identità nazionale.
Conclusioni
In questo capitolo si è preso in esame il testo Dieci anni in Equatoria e
ritorno con Emin Pascià scritto da Gaetano Casati al suo ritorno in Italia dopo
aver passato dieci anni nella zona meridionale del Sudan presso diverse tribù
autoctone. Il testo di Casati è stato inserito all‟interno di un paradigma teorico,
che farà da guida a tutto il percorso di questa tesi, e che vede in Marco Polo e
Cristoforo Colombo i due viaggiatori-simbolo di due opposti modi di viaggiare e
relazionarsi all‟altro. Si è dato rilievo a questo aspetto della narrazione di viaggio
in quanto è uno degli argomenti che da sempre suscita l‟interesse del lettore.
L‟incontro con culture diverse, inoltre, è uno degli elementi ineliminabili di
qualsiasi narrazione di viaggio a prescindere dal periodo storico in cui è stata
scritta. La critica post-colonial, tuttavia, ha segnalato i limiti cognitivi di queste
71
narrazioni perché ha messo in evidenza come nel passato la descrizione della
diversità avvenisse in modo fazioso e servisse in fondo a giustificare la
dominazione coloniale. Questo approccio critico, inoltre, ha permesso di
distinguere le diverse modalità di avvicinamento all‟altro e come esse
contribuiscano a creare, od ostacolare, la relazione. Nel caso del presente studio si
è fatto inoltre riferimento alla proposta del fenomenologo Emmanuel Lévinas che
propone un‟etica dell‟incontro con l‟altro che non si fonda su rapporti di potere,
ma che fa dell‟assoluta diversità dell‟altro il punto centrale del rapporto. Allo
stesso modo Casati, pur non potendo capire nella sua interezza la cultura africana,
si era aperto ad essa e si era dimostrato pronto ad accoglierla nella sua
quotidianità; questa costante vicinanza all‟alterità ha certo contribuito a fornirgli
gli strumenti per una conoscenza sempre più profonda. Casati instaura con le
popolazioni del luogo un rapporto improntato alla comprensione, alla tolleranza, e
all‟amicizia, tanto da non potersene separare nemmeno quando tornerà in Italia.
Molti anni dopo, nel 1932, il testo di Casati è stato ripreso da Riccardo
Bacchelli che lo usa per farne un‟apologia dell‟identità nazionale italiana. Egli
opera una libera interpretazione di Dieci anni in Equatoria e trasforma Gaetano
Casati in un eroe nazionale. Mal d’Africa, che viene pubblicato in un momento
storico che vedeva l‟Italia impegnata in Africa proprio come nazione
colonizzatrice, vuole fornire un modello positivo di identità italiana. Casati è un
esempio di virilità e rettitudine morale: costantemente definito “onesto,” egli
viene proposto come esempio eroico degli italiani in Africa. Il sottotitolo di Mal
d’Africa, “romanzo storico” serve quindi anche a ricordare che la storia e
l‟identità nazionale si raccontano e si costruiscono anche attraverso la letteratura.
Bacchelli, però, fa un passo indietro rispetto a Casati, l‟esploratore era
riuscito in buona parte ad evitare di usare l‟altro per definire la propria identità.
Per Bacchelli, invece, l‟Africa non è qualche cosa di vero, di vissuto, è solo un
luogo quasi di fantasia in cui ambientare la storia di un eroe. In Bacchelli manca
l‟elemento che aveva reso davvero unico il racconto di Casati, ovvero il fatto che
lui aveva veramente vissuto in Africa. L‟esperienza di Casati era stata fisica,
reale; era andato in Africa ed era entrato veramente in contatto con gli africani,
72
mentre per Bacchelli si tratta solo di un‟operazione a tavolino, compiuta a fini
ideologici. È il ruolo del corpo a determinare la diversa prospettiva con cui si
guarda all‟Africa. Per l‟esploratore il viaggio, aveva portato ad un vero sviluppo
della conoscenza, per Bacchelli, che invece andrà in Africa solo molto dopo aver
scritto Mal d’Africa, non c‟è nessuna componente cognitiva che arricchisca
veramente il suo romanzo. Anzi, ad essere determinante è proprio il fatto che sia
rimasto in patria; è forse questo il motivo per cui ad emergere, in Mal d‟Africa,
sono problematiche legate all‟Italia stessa più che all‟incontro con l‟altro.
Secondo capitolo
Nel corso del Novecento non furono molto numerosi gli scrittori italiani che
si recarono in Africa. Chi lo fece, ci andò per i più disparati motivi: dalla guerra
d‟Africa alla ricerca di avventure esotiche, dall‟interesse per le culture africane al
più semplice turismo. Elvio Guagnini, nel suo articolo “Italiani in Africa da
Scarfoglio a Celati: Alcune linee per un bilancio,” ha tracciato in maniera
generale ma comunque piuttosto chiara quale sia stata la presenza italiana in
Africa.
Si nota subito, dall‟articolo di Guagnini, che vi è una netta separazione, che
si riflette anche a livello quantitativo, fra la prima parte del secolo e gli anni
successivi alla seconda guerra mondiale. I primi decenni sono caratterizzati da
una presenza italiana, che è quasi sempre, in modo diretto o indiretto, legata al
colonialismo. I testi narrativi che ne derivano sono testimoni di un preciso
momento politico e, in alcuni casi, anche di una specifica ideologia, ovvero quella
imperialista. Si è visto nel primo capitolo che questo è il caso, ad esempio, di
Bacchelli27 che riprende a scopo nazionalistico il testo di Casati; similmente,
frutto di una proiezione colonialista è anche l‟improbabile Mafarka le futuriste di
Marinetti ambientato appunto in Africa, dove lo scrittore aveva vissuto alcuni
anni.28 Nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, invece, la presenza
italiana in Africa cambia completamente le proprie modalità. Al tentativo di
dominio coloniale o alla ricerca di avventure eccentriche, subentra, nella maggior
parte dei casi, una più innocua motivazione, quella turistica. Mentre per altre
mete, quali Stati Uniti, Russia, India ecc. sono numerose le testimonianze di
autori che vi si erano recati, è invece piuttosto esiguo il numero di volumi dedicati
ai viaggi in Africa, o le narrazioni che scaturiscono da un soggiorno in quei
27
Potrebbe essere opinabile l‟inserimento di Bacchelli in questo contesto, in quanto egli si recherà
in Africa solo alcuni anni dopo aver scritto Mal d’Africa. Ció nonostante lo si è voluto citare in
quanto il suo romanzo riprende una vicenda che scaturisce da un viaggio realmente effettuato.
28
Si sono qui volutamente ripresi solo alcuni degli autori citati nel primo capitolo e che sono
legati ad un‟ideologia colonialista, anche se espressa con modalità molto differenti. La letteratura
coloniale italiana in Africa è un argomento largamente inesplorato, ma un‟ottima introduzione alla
materia è il volume di Giovanna Tommasello L’Africa tra mito e realtà: storia della letteratura
coloniale italiana.
74
luoghi. Fra i pochi autori che visitarono il continente africano, e che ne scrissero,
un posto di primo piano rispetto agli altri lo occupa Alberto Moravia, il quale, a
partire dal 1962, si reca in Africa almeno una volta l‟anno.
1
Alberto Moravia: precisazioni relative alla scelta
I motivi che portano a considerare Moravia un autore inevitabile all‟interno
della discussione sulla rappresentazione narrativa dell‟altro in Africa sono
numerosi. In primo luogo Moravia era un instancabile viaggiatore; egli è
probabilmente lo scrittore italiano del Novecento che ha viaggiato di più. Basti
pensare che una delle sezioni del suo vasto volume Viaggi: Articoli 1939-1990, è
intitolato “Mondo 1964: Viaggio senza illusioni sui cinque continenti.” Moravia
rappresenta una tipologia non troppo atipica nella storia letteraria italiana, quella
dell‟intellettuale viaggiatore. Quello che lo distingue, però, oltre alla quantità, è
soprattutto la qualità piuttosto eccezionale delle sue esperienze. Come giornalista,
scrittore o semplicemente turista, ad esempio, egli andò negli Stati Uniti e nell‟ex
Unione Sovietica durante la guerra fredda, visitò poi la Cina in epoca maoista,
assistette al funerale di Nehru, e poi ancora Cuba, il sud America, il Giappone,
oltre all‟ovvia Europa. Quando arriva in Africa, perciò, ed avviene piuttosto tardi,
ovvero negli anni ‟60, Moravia non è un viaggiatore novello, pronto a stupirsi ad
ogni passo. Aveva visto, e ne aveva scritto, realtà completamente diverse tra loro,
alcune delle quali avevano plasmato la storia mondiale del Novecento. Queste
esperienze, unite alla sua sensibilità personale, sulla quale ritorneremo fra breve,
gli hanno permesso di sviluppare un‟attenzione nei confronti del momento del
viaggio, che raramente si riscontra in altri autori che si sono occupati dell‟Africa.
In secondo luogo Moravia non fu solamente uno scrittore, ma anche un
intellettuale di primo piano, caratterizzando la vita culturale italiana per buona
parte del XX secolo. Lo storico della letteratura Giulio Ferroni ha giustamente
indicato il ruolo di Moravia come quello di: “una sorta di figura ufficiale, di
„mostro sacro,‟ di maître à penser, con un giudizio sicuro su qualsiasi evento
culturale, politico, sociale” (431). La sua funzione in quanto intellettuale, ed il suo
impegno anche in campo politico, sono il segno della sua consapevolezza rispetto
75
alle dinamiche culturali, sociali ed economiche di cui era partecipe. Proprio in
quanto intellettuale, egli non cercò mai un isolamento dalla società, ma, al
contrario si sentì spinto a riflettere sui meccanismi che la regolano. Una delle
grandi abilità di Alberto Moravia fu quella di saper individuare e concettualizzare
i principi regolatori della realtà circostante. Questo suo atteggiamento attento,
analitico ed insieme partecipe, è importante in questo studio perché si rifletterà in
modo duplice nelle sue narrazioni sull‟Africa. Da un lato egli andrà in Africa da
turista “informato” nel senso che sarà a conoscenza dei processi politico-sociali in
atto nel paese e anche ad essi rivolgerà la sua attenzione, dall‟altro la sua tendenza
all‟astrazione lo porterà, almeno in un primo momento, a cercare di comprendere
razionalmente la realtà africana. Si afferma che questo avviene soprattutto
inizialmente perché il rapporto fra Moravia e l‟Africa è complesso e in alcuni
momenti contraddittorio. Il suo bisogno di esplicitare le dinamiche umane
attraverso la razionalizzazione si stempera progressivamente, man mano che la
sua conoscenza dell‟Africa aumenta. In altre parole, paradossalmente, quanto più
conosce dell‟Africa, tanto meno la vuole spiegare a se stesso e agli altri. Come si
può già intuire, l‟incontro di Moravia con l‟Africa scatena dei meccanismi
contraddittori, e proprio attorno a questi ultimi si sviluppa questo capitolo.
Parzialmente collegato a quanto detto rispetto alla consapevolezza
intellettuale è il terzo motivo per cui si è voluto inserire Moravia in questo studio:
la sua sensibilità. In essa l‟autore aveva una gran fede, e come dice ad Alain
Elkann: “Ci sono quelli [bambini] che sono molto sensibili, ipersensibili, quelli
ipersensibili possono diventare dei disadattati; ma possono anche diventare degli
artisti” (Vita 7). L‟autore, già con Gli Indifferenti, aveva dimostrato di avere, uno
spirito particolarmente acuto nel saper narrare attraverso i puri fatti, le
motivazioni psicologiche che ad essi sottendono. A questo proposito, in Alberto
Moravi:. Vita parole e idee di un romanziere, Enzo Siciliano scrive:
Ma tanta difesa nei confronti di quella realtà crolla al momento di
scrivere, dove proprio di ciò che oltrepassa l‟essere egli va in cerca:
ma anche in quel caso, ancorando nei fatti, o in un sistema a scatola
cinese di fatti […], la sua percettività. Sesso e denaro, irrinunciabili
76
certezze dell‟invenzione moraviana, fissano il telone su cui si profila
l‟orizzonte di quella realtà. (10)
Nel binomio sesso e denaro Moravia aveva individuato una chiave
interpretativa delle azioni degli esseri umani. Trattandosi di un atteggiamento
mentale che gli è proprio, il bisogno di estrarre dal quotidiano le determinanti
comportamentali non si riferisce solo alla sua opera narrativa in senso stretto, e lo
si ritrova anche quando scrive a proposito dell‟Africa. Benché sia meno
penetrante, questa stessa attenzione nei confronti del quotidiano è presente anche
nei suoi libri di viaggio. Moravia non si ferma in un luogo abbastanza a lungo da
sviluppare una conoscenza tanto approfondita da potersi tradurre nella
comprensione delle “idee strutturali profonde”; tuttavia questo non gli impedisce
di cercarle. La sua personale tendenza alla riflessione non viene meno quando lo
scrittore si trova in viaggio; al contrario, grazie ai suoi frequenti spostamenti egli
aveva avuto la possibilità di sviluppare la sua curiosità e la sua sensibilità nei
confronti della diversità culturale. Moravia non viaggia per obbligo, motivi di
lavoro o altro, lo fa perché ama incontrare ciò che non conosce e, come si vedrà, il
viaggio è il momento in cui Moravia cerca il nuovo e attraverso esso incontra il
diverso. Come si è detto in precedenza, però, quando viaggia in Africa gli esiti di
questo incontro sono per molti versi incerti, e l‟ambiguità che egli manifesta di
fronte all‟alterità sarà uno delle principali problematiche di cui ci si occuperà in
questo capitolo.
Infine, ma questa potrebbe essere considerata la ragione principale, si è
scelto Moravia per il suo grande amore per l‟Africa. Lo scrittore parla volentieri
della sua passione, o del suo amore per l‟Africa, senza però chiarire che cosa
intenda affermare attraverso queste espressioni, ovvero cosa significhi questa
passione. Sappiamo di certo che uno dei modi in cui questo amore si manifestò
furono i numerosissimi viaggi che vi fece; ma Moravia non spiega come questo
sentimento si traduca, sia a livello emozionale che fisico. Il rapporto di Moravia
con l‟Africa diventa sempre più viscerale, e forse perché si tratta di una relazione
che è in primo luogo sentita e non controllata dalla razionalità, preferisce lasciare
questo nodo irrisolto, non fornendo spiegazioni raziocinanti, ma astratte, e
77
lasciando che sia il vissuto a prendere il sopravvento. Questo mette in luce una
delle problematiche più interessanti che si incontrano nell‟occuparsi degli scritti
africani di Moravia. Il suo bisogno di comprendere la realtà sembra essere
unidirezionale, ovvero proiettato verso l‟esterno, evitando invece la riflessione
introspettiva; quasi che Moravia rifiutasse di voler capire cos‟era quell‟amore, e
volesse solamente viverlo. In questa sede, però, non si poteva lasciare intentata
un‟osservazione più analitica di questo “amore per l‟Africa,” relegandolo
unicamente al campo dell‟impressione momentanea. Questo rifiuto ad esprimere
le ragioni per cui ama l‟Africa, d‟altra parte, è coerente con il suo modo di
affrontare il viaggio. Il bisogno di vivere l‟alterità diviene via via superiore a
quello di capirla. L‟esperienza fisica, quindi, non solo precede quella intellettuale,
ma finisce per prevalere su essa. Questo allora si traduce in una disponibilità
all‟incontro che è proprio al cuore del suo entusiasmo, o del suo amore, per il
continente nero. A portarlo in Africa, quindi, non è solo un superficiale interesse o
la curiosità per luoghi che non aveva mai visitato prima, ma il desiderio di fare
l‟esperienza fisica dell‟assoluta diversità. È attorno al desiderio che ruota la
relazione fra Moravia e l‟Africa, desiderio di essere fisicamente in un luogo, di
aprirsi ed accogliere ciò che esso offre. Moravia è fortemente attratto dal nuovo,
da ciò che non conosce, soprattutto quando viaggia, e l‟Africa è il continente in
cui più di ogni altro le sue strutture culturali e mentali sono continuamente
sollecitate perché esposte a situazioni che per lui sono, e talvolta resteranno,
incomprensibili. Ma, come detto, prima ancora di capire, quando viaggia in Africa
egli vuole sentire. Tuttavia proprio questo punto fa emergere il principale
paradosso di Moravia rispetto all‟Africa; vuole viverla in modo diretto, senza che
si frappongano barriere intellettuali o culturali. Se però egli riesca davvero a
frenare la sua inclinazione all‟analisi e a lasciare che sia l‟esperienza diretta a
determinare il criterio della sua relazione con l‟atro, è quantomeno opinabile.
L‟amore per un luogo, del resto, non è necessariamente un criterio positivo
nel momento in cui si voglia procedere ad un esame critico dei testi, in quanto ne
potrebbe emergere una descrizione idealizzante ed acritica. Ciò è particolarmente
vero per questo studio, in cui i testi narrativi sono esaminati sulla base di un
78
modello teorico il cui principale criterio selettivo è il rapporto con il diverso che
questi testi descrivono. In altre parole, un‟eccessiva idealizzazione del luogo e dei
suoi abitanti, potrebbe portare ad una narrazione priva di interesse, in questa sede,
perché sarebbe testimonianza più di una celebrazione della diversità che di un
rapporto in cui si cerca di sviluppare un dialogo con essa. Non è il caso di
Moravia, per cui l‟attrazione nei confronti del continente africano non si traduce
mai in un‟apologia. Quanto detto in precedenza rispetto alla sua capacità di analisi
e contestualizzazione si riflette anche nei suoi testi di viaggio, in cui l‟esperienza
personale ha una resa narrativa che testimonia un interesse non indiscriminato, ma
elaborato con consapevolezza sociale e storica.
2.
Moravia in relazione a Casati e Bacchelli: continuità ma anche un
problema critico
Le narrazioni nate dalle sue esperienze di viaggio in Africa e qui analizzate
sono raccolte in tre libri di saggi: A quale tribù appartieni? del 1972; Lettere dal
Sahara del 1981 e Passeggiate africane del 198729. In parte per il mutato contesto
storico, in parte per le convinzioni politiche di Alberto Moravia, i testi considerati
sono informati da una posizione ideologica molto più complessa rispetto a quella
di Gaetano Casati e Riccardo Bacchelli. Per questi ultimi, il rapporto con le
culture africane era in stretta relazione al ruolo dell‟Italia in Africa. Considerato il
momento storico, è piuttosto naturale che fosse così: gli imperi coloniali erano in
piena attività all‟epoca di Casati, e con Bacchelli si è addirittura ad uno stadio che
avrebbe dovuto essere quello pre-costitutivo dell‟impero coloniale italiano.
L‟ideologia imperialista e nazionalista che nutriva il discorso sull‟Africa, e più in
generale sui paesi del Terzo Mondo, è perciò implicita nei loro testi. Essa è il
presupposto teorico che indirizza le loro narrazioni, dato che entrambi vivono e
scrivono in un periodo in cui non ci si pongono dubbi sulla funzione civilizzatrice
dell‟Italia nei confronti dell‟Africa. Essendo quello colonialista un progetto molto
esplicito anche a livello culturale, a posteriori è facile riconoscerlo, così come è
facile riconoscere gli scostamenti rispetto ad esso. Benché Gaetano Casati deroghi
29
Quando non indicati per esteso, i titoli verranno abbreviati rispettivamente in AQ; LS; e PA.
79
in parte all‟ideologia imperialista, infatti, questa resta un punto di riferimento per
il suo libro perché di essa è permeato il panorama intellettuale dell‟epoca.
Ciononostante, egli aveva dimostrato come ci si potesse allontanare dal ruolo di
esploratore/colonizzatore, grazie ad un atteggiamento ricettivo rispetto alla cultura
indigena. La sua posizione verso l‟alterità africana era di piuttosto facile
comprensione e sistemazione teorica: pur con tutti gli inevitabili limiti derivanti
dall‟ideologia coloniale che egli mutua dal contesto storico di cui fa parte, Casati
riesce a creare una relazione con le popolazioni indigene che trascende gli
equilibri di potere, permettendogli di descrivere le culture africane in modo non
totalmente pregiudicato dal proprio modello culturale.
Moravia, invece, è partecipe di un momento storico che vede non solo la
fine degli imperi coloniali, ma anche i mutamenti che ne conseguirono. Egli fa
l‟esperienza diretta del primo post-colonialismo, e vede che nonostante la fase
politica imperialista sia conclusa, l‟impronta che ne resta nella società africana è
molto profonda. Moravia va in Africa in un periodo in cui il continente è in
transizione, dal colonialismo all‟indipendenza, dietro a cui spesso si nasconde il
neocolonialismo. Il suo punto di vista è influenzato dal fatto che egli sta
assistendo al processo di decolonizzazione mentre è ancora in atto. Questa
precisazione è importante sul piano epistemologico perché quando Moravia si
reca nel continente nero, non era ancora stato elaborato un discorso nuovo
sull‟Africa. Parafrasando le parole di Homi Bhabha, potremmo dire che viene a
mancare la fissità che è l‟elemento costitutivo del discorso coloniale. In The Other
Question egli scrive: “An important feature of colonial discourse is its
dependence on the concept of „fixity‟ in the ideological construction of otherness”
(37). I parametri del discorso imperialista servivano anche a definire i limiti entro
i quali collocare gli sviluppi del pensiero coloniale. In altre parole, perché fosse
possibile il concetto stesso di “alterità,” era necessaria una fissa struttura
ideologica che segnalava e definiva l‟alterità stessa. Stabilendo una rigida
differenza fra l‟Europa e “l‟altro,” si stabilivano anche le reciproche identità e si
creava la dicotomia fra „the west and the rest.‟ Con la fine degli imperi coloniali,
venne a mancare questa monocorde rappresentazione del mondo. Se da un lato si
80
pose finalmente fine alla giustificazione ideologica del colonialismo, dall‟altro il
panorama si presentò in tutta la sua eterogeneità e complessità. In quel momento,
ad esempio, era estremamente popolare la teoria pan-africanista,30 la quale pur
trovando l‟appoggio di molti intellettuali, soprattutto di sinistra, restò un progetto
o un‟ipotesi di sviluppo più che una realtà. Durante la decolonizzazione, d‟altra
parte, non ci fu nessuna linea ideologica che emergesse in modo dominante
rispetto alle altre, e benché quella terzomondista fosse probabilmente la più nota,
non riuscì mai ad avere un peso decisivo per il futuro dell‟Africa.
Venne meno, quindi, un riconosciuto modello teorico: da un lato la
concezione imperialista non era più applicabile, dall‟altro mancava una struttura
concettuale unitaria e stabile che la sostituisse. Gli scritti di Moravia riflettono
considerazioni personali che si inseriscono in un contesto politico ed ideologico
molto poco definito, e non si pone unicamente in termini di distacco o
adeguamento rispetto ad un comune atteggiamento culturale. Mancando un
discorso strutturato che funga da punto di riferimento, non è infatti possibile
leggere i suoi testi cercandovi un adattamento o una deviazione rispetto ad un
pensiero dominante. Con Moravia, quindi, la problematica del rapporto con l‟altro
deve essere sviluppata seguendo dei parametri diversi rispetto a quelli di Gaetano
Casati. Restando sempre nell‟ottica di capire quale sia stato l‟approccio all‟altro e
30
Le radici del movimento pan-africanista, noto anche con il nome di “terzomondismo,” risalgono
alla fine del XIX secolo. Nasce nelle comunità afro-americane degli Stati Uniti e dei Carabi, ma
arrivò ad essere attivo in Africa solo in un secondo momento, ovvero durante la fase di
decolonizzazione. Il primo congresso Pan-black o Pan-negro si tenne a Londra nel 1900, il
secondo a Parigi nel 1919, in concomitanza della Conferenza di Pace a cui partecipavano le
nazioni vincitrici della prima guerra mondiale. Il primo congresso veramente Pan-Africanista si
tenne a Manchester nel 1945; questa fu anche la sede in cui venne fondata l‟Organizzazione per
l‟Africa Unita. Il movimento si basava sulla considerazione che l‟Africa avrebbe dovuto muoversi
unitariamente per risolvere le situazioni problematiche che la caratterizzavano. Nel 1963, 32
governi africani si unirono per dar vita a strutture economiche, politiche ed anche militari che
permettessero di rispondere ai problemi africani con metodi africani. A questa presa di posizione
quasi autarchica corrispondeva una scelta di politica economica non capitalista, o per usare il loro
linguaggio “di non allineamento.” I risultati, purtroppo, furono limitati, ciononostante, lo storico
Basil Anderson afferma che quel momento segnò, per la prima volta, una svolta positiva nella
concezione di sé e del proprio continente da parte degli africani (Africa in History 353-354). Il
pensiero terzomondista ebbe comunque una certa presa sugli intellettuali di sinistra. L‟espressione
“paese allineato” o “non allineato,” ad esempio, la si ritroverà anche in alcuni brani di Moravia,
nonostante lui non si sia mai voluto occupare troppo della situazione politica africana. Sul panafricanismo e sull‟influenza che ebbe sulla storia africana del XX secolo si veda di Basil Davidson
anche il volume The Black’s Man Burden: Africa and the Curse of Nation State.
81
i conseguenti esiti pratici, in questo capitolo si farà soprattutto attenzione alle
modalità con cui lo scrittore ha voluto avvicinarsi all‟alterità in Africa.
L‟originalità dell‟atteggiamento nei confronti dell‟altro non è più una categoria
valida per i testi di Moravia. Che vi sia un interesse è da dare per scontato, quello
che interessa ora è vedere come si sviluppi, ovvero cosa segua all‟impulso iniziale
grazie al quale avviene l‟incontro. In altre parole si vuole indagare su come
Moravia scelga di avvicinarsi alla diversità, e quali siano le motivazioni del suo
approccio. Il momento dell‟incontro rimane fondamentale, ma essendo Moravia
cosciente delle complesse dinamiche caratterizzanti le relazioni fra Europa ed
Africa, diventa essenziale guardare a come lo scrittore abbia scelto di muoversi
all‟interno di un contesto estremamente articolato.
Proprio in considerazione della complessità del panorama africano, e della
molteplicità di teorie che ne derivarono, si è scelto uno sviluppo monografico, non
inserendo nell‟analisi altri testi di autori contemporanei.31 A ben vedere, del resto,
nemmeno dagli scritti di Moravia emerge un discorso unitario sull‟Africa, le sue
riflessioni sono a volte contraddittorie e in qualche caso contrastano apertamente
con una concezione evoluta dell‟Africa. È il caso ad esempio dei primi capitoli di
AQ in cui afferma che una delle ragioni del successo del neocapitalismo in quei
luoghi, è il carattere infantile dell‟uomo africano (10), salvo poi contraddirsi
affermando che è più vecchio perché le sue credenze religiose sono precedenti il
calvinismo (13). I criteri che guidano le osservazioni di Moravia sono molteplici,
spaziando dal campo politico a quello storico, dalla seria riflessione
dell‟intellettuale che cerca una spiegazione all‟apartheid (PA 154) a quella di
turista divertito nel vedere un elefante passeggiare a bordo piscina (PA 62-63).
L‟assenza di un uniforme contesto ideologico a cui si è fatto riferimento è
solo uno degli effetti della fine dell‟imperialismo, e l‟eterogeneo quadro storicopolitico che Moravia incontra in Africa negli anni settanta e ottanta è tutt‟altro che
risolto. I suoi sviluppi ci riguardano oggi molto da vicino come testimoniano, tra
l‟altro, gli aumentati flussi migratori ed il sempre più frequente utilizzo
31
Questo è quanto si è fatto, per esempio, nel primo capitolo a proposito di Dieci anni in
Equatoria, in cui la discussione si era sviluppata anche tenendo parzialmente conto della
rappresentazione dell‟alterità fornita da altri testi di esploratori del periodo.
82
dell‟aggettivo „multietniche‟ per definire le società in cui viviamo. In altre parole,
Moravia ha assistito solo alla fase iniziale delle dinamiche politiche e sociali che
caratterizzano la contemporaneità. Fra le discipline che si occupano dei fenomeni
derivanti dalla decolonizzazione, la teoria post-colonial gioca un ruolo di primo
piano, diventando oggi imprescindibile in campo culturale. Essa viene ripresa
anche in questo capitolo in virtù della sua efficacia nel dare gli strumenti
necessari a comprendere i nuovi meccanismi culturali, e la si applicherà con lo
stesso criterio con cui lo si è fatto in Dieci anni in Equatoria. Non si cercheranno,
quindi, nei testi di Moravia elementi narrativi che lo potrebbero avvicinare a
questo quadro teorico, ma si utilizzerà questo approccio per appurare come la
rappresentazione della diversità sia stata sviluppata.
Vale quindi la pena di ribadire a questo punto che la lettura critica dei
volumi di Moravia riprenderà lo schema interpretativo che era stato fissato nel
primo capitolo. Si vedrà quale sia stata la mediazione che lo scrittore ha messo in
atto fra il noto e l‟ignoto, esaminando in che misura sia stato capace di modificare
i propri presupposti culturali. Si analizzerà con quale atteggiamento Moravia si sia
avvicinato all‟altro rappresentato dall‟Africa e dai suoi abitanti, e quali ne siano
stati gli esiti. Come affermato, infatti, scopo di questo studio è capire come il
viaggio, e l‟incontro con il diverso che si realizza durante lo spostamento nel caso
specifico in Africa, determini dei cambiamenti nella struttura culturale di coloro
che lo compiono. Come dimostrato a proposito di Marco Polo e Cristoforo
Colombo, il viaggio non è necessariamente un momento cognitivo, ma può
diventarlo se il viaggiatore si rende disponibile alla comprensione e accettazione
delle nuove realtà con cui si confronta. Nel caso di Moravia, l‟interesse ci è
testimoniato dallo scrittore stesso che ne parla sempre con grandissimo
entusiasmo, arrivando a definire l‟Africa: “la cosa più bella che esista al
mondo.”32 La passione per l‟Africa, però, in questa sede è il punto di partenza e
non quello d‟arrivo. Non si tratta di determinare il suo interesse e la sua
disponibilità nei confronti dell‟Africa, ma di capire come egli elabori la sua
esperienza.
32
Moravia, Alberto, e Alain Elkann, Vita di Moravia (Milano: Bompiani, 1990) 215.
83
3.
Viaggiare, spostarsi, abbandono e scoperta: le modalità dell’approccio
all’altro e all’Africa
Oltre ai volumi sull‟Africa citati in precedenza, a questo punto vale la pena
fare brevemente riferimento anche alla serie di articoli dall‟Egitto scritti nel 1965
e raccolti nel volume Viaggi: Articoli 1930-1990. Strettamente legato ai suoi
viaggi è anche il suo unico romanzo ambientato in Africa, La donna leopardo,
pubblicato postumo nel 1990. Moravia giunse alla “scoperta dell‟Africa” come la
definisce lui stesso, piuttosto tardi. Nel libro intervista Vita di Moravia scritto in
collaborazione con Alain Elkann, lo scrittore la descrive in questi termini: “Gli
anni di Dacia furono però caratterizzati da una grande scoperta. [...] Sembra il
titolo di un libro sugli esploratori del cosiddetto continente nero: la scoperta
dell‟Africa” (212), e poco dopo continua affermando: “Fu la rivelazione della
terra in cui avrei dovuto andare prima; [...]. Avevo ormai cinquant‟anni. Avrei
dovuto andarci venti, trent‟anni prima. Non l‟ho fatto, non so perché. Lo
rimpiango. Per me l‟Africa è la cosa più bella che esista al mondo.” (215) Alla
scoperta dell‟Africa, si accompagna anche un‟altra importantissima scoperta per
Moravia, quella del viaggio. L‟affermazione potrebbe sembrare contraddittoria
rispetto a quanto sostenuto in precedenza, dove Moravia viene descritto come
viaggiatore instancabile. Benché sia vero che le sue esperienze in questo senso
erano innumerevoli, con l‟Africa egli si apre ad un nuovo modo di viaggiare. È
sempre in Vita di Moravia che egli descrive in quali termini avvenne questo
cambiamento:
Elsa [Morante] dava il meglio di sé in circostanze eccezionali, di
emergenza. Ma nei viaggi aveva la particolarità di portarsi dietro il
rapporto psicologico che è proprio della vita quotidiana. Potevamo
anche andare in capo al mondo, ma sembrava che fossimo tutt‟ora a
via dell‟Oca. Non viaggiava Elsa, si spostava, ecco tutto. Con Dacia,
invece, ho veramente viaggiato, in un senso in qualche modo
avventuroso che non è tanto fatto di avventure ma di completa
dimenticanza del mondo stabile e ben definito lasciato in patria. Ho
viaggiato come si sogna; con questo voglio dire che per molte ragioni
84
tra le quali principale il carattere cosmopolita di Dacia [...] ho
finalmente viaggiato con abbandono e scoperta. (212)
Dimostreremo nel corso del capitolo che di fatto l‟abbandono di Moravia durante
il viaggio non è così totale come il paragone col sogno potrebbe far supporre. In
realtà la sua razionalità farà molto spesso da filtro, e non solo nella resa narrativa,
alle sensazioni e alla percezione del nuovo incontrato in viaggio.33
Prima di proseguire, ci si vuole soffermare su una fondamentale distinzione
da lui stesso operata nel passo citato, e che viene riferita al diverso carattere delle
sue due compagne: quella fra viaggiare e spostarsi. Spostarsi significa portare il
proprio corpo in un altro luogo, senza che la curiosità per il nuovo divenga una
componente psicologica determinante; viaggiare, invece, significa essere ricettivi
nei confronti della realtà visitata. Questa distinzione riconduce ai due diversi
modelli di viaggio proposti nel primo capitolo, e simboleggiati dalle figure di
Marco Polo e Cristoforo Colombo. Moravia attribuisce al viaggio un significato
che va oltre il semplice spostamento, e per trasmettere l‟intensità della sua
esperienza, usa due sostantivi importanti: abbandono e scoperta, entrambi
riferibili ad una sfera psicologica oltre che fisica. Per Moravia il viaggio, un po‟
come era stato per Polo, non è solo lo spostamento fisico necessario al
raggiungimento di un luogo, ma un‟esperienza più complessa che si realizza
anche a livello mentale. Da quella prima vacanza nel 1962, per Moravia,
viaggiare in Africa significherà da un lato abbandonarsi, ovvero abolire
temporaneamente le proprie strutture culturali, dall‟altro scoprire, aprendosi al
nuovo.
Nel primo capitolo una delle principali distinzioni operate in relazione alle
figure di Polo e Colombo era proprio quella relativa al viaggiare verso o
attraverso. Marco Polo aveva viaggiato anche attraverso i luoghi che lo
avrebbero portato in Cina, mentre Colombo è semplicemente andato verso le
presunte Indie. Con termini diversi Moravia ripropone questa distinzione.
Spostarsi semplicemente, significa non abbandonare mentalmente il punto da cui
33
Per il rapporto tra “nuovo,” “diverso” e “altro” si ricordino le riflessioni nell‟introduzione a
questo studio (3).
85
si era partiti; un po‟ come aveva fatto Colombo che pur spostandosi non aveva
mai dimenticato la sua funzione. A ben vedere, il viaggio di Colombo doveva
servire ad allargare il proprio punto di partenza, aggiungendo nuovi domini al
regno di Spagna; egli, non solo non aveva abbandonato “il mondo stabile e
definito lasciato in patria” ma aveva viaggiato per portare quello stesso mondo in
altre terre. Il viaggiatore veneziano, invece, aveva viaggiato proprio nel senso che
Moravia attribuisce a questo verbo, perché si era aperto ai paesi visitati,
abbandonando i propri riferimenti culturali ed imparando a vivere all‟interno di
una diversa cultura. Le modalità del viaggio che Alberto Moravia apprende in
seguito a questa sua prima visita in Africa sono, per alcuni aspetti, molto vicine
all‟archetipo di Polo; anche per lui il viaggio è un‟esperienza culturale e di
crescita cognitiva. Anche Moravia, inoltre, viaggia attraverso; i suoi soggiorni in
Africa non si svolgono quasi mai in un unico luogo, ma sono invece dei più o
meno lunghi spostamenti da una località all‟altra, effettuati di solito via terra. Usa
l‟aereo, infatti, solo per arrivare in Africa, o per effettuare escursioni o
trasferimenti che a causa della morfologia del territorio non potevano essere fatti
in altro modo.
Il modo in cui sceglie di spostarsi non è un particolare di poco conto, poiché
Moravia, come si è detto precedentemente, è un uomo estremamente consapevole
dei meccanismi sociali in cui si trova coinvolto. In questo caso, a vederlo
partecipe è la dinamica del turismo, che in Africa, si svolge secondo prevedibili
schemi di esotismo e avventura. Sa che l‟Africa è meta di vacanze, e che non solo
è già sta scoperta, ovviamente, ma è anche stata classificata e codificata. Nel
capitolo “Sulle orme di Gide,” scrive: “Già perché in Africa non si fa in tempo ad
adottare un certo modo di viaggiarci che subito esso diventa luogo comune”
(249). Fra le diverse, ma tutte catalogate e ormai consuete, possibilità di viaggiare
nel continente africano, sceglie quella che gli consente di avere un contatto più
diretto e personale con i luoghi visitati e le popolazioni. La sua ricerca del nuovo
avviene in primo luogo sul piano fisico, attraverso un contatto con il territorio che
non prevede nessun tipo di mediazione. Il modo in cui Moravia sceglie di
spostarsi è sintomatico di quello che cerca in Africa e del tipo di relazione che
86
vuole instaurare con chi incontra. Le sensazioni fisiche che l‟Africa suscita in lui
sono strettamente collegate al desiderio che lo porta a ritornarvi continuamente.
L‟immediatezza dell‟esperienza è l‟elemento irrinunciabile di ogni suo viaggio.
Moravia si muove su pista, con delle land-rover, decidendo autonomamente
l‟itinerario. In questo modo egli può fare l‟esperienza del nuovo in maniera più
diretta e meno limitata dalle informazioni fornite dalle guide turistiche. La libertà
di movimento, che nessuna gita organizzata gli avrebbe potuto consentire, è la
condizione necessaria per vivere pienamente l’abbandono e la scoperta
dell‟Africa. Perché il viaggio possa rispondere alle sue esigenze, mettendolo in
condizione di fare un‟esperienza che apre prospettive diverse da quelle già note, e
non sia quindi solo una semplice vacanza, lo scrittore ha bisogno di allontanarsi
dai percorsi comuni, e di vivere il viaggio in Africa in modo individuale.
È utile soffermarsi sulle modalità dello spostamento per capire che cosa
significhi, per Moravia, viaggiare con abbandono e scoperta. Si è già visto che
questi sono gli elementi costitutivi irrinunciabili perché il viaggio sia un momento
cognitivo, ma come è vissuto ad un livello pratico questo spostamento?
L‟abbandono, per lo scrittore, corrisponde innanzitutto all‟allontanamento dalla
propria cultura, quella occidentale. Delle molteplici Africa possibili, Moravia
rifiuta apertamente quella che assomiglia o vuole assomigliare all‟Europa, e più in
particolare quella in cui si riconosce la presenza del modello economico
occidentale.34 Evita perciò di visitare i luoghi che esibiscono palesi espressioni del
capitalismo nel continente africano. Non solo non ama alberghi, ristoranti e guide,
ma ogni volta che gli è possibile evita le forme di viaggio tipiche del turismo di
massa. Dacia Maraini, che ha quasi sempre accompagnato Moravia nei suoi
viaggi, nell‟introduzione a Passeggiate Africane afferma che hanno cercato “di
visitare il paese nel modo meno turistico possibile” (v). Prosegue poi spiegando
più dettagliatamente quale fosse il loro atteggiamento:
Appena arrivati cercavamo di lasciarci alle spalle l‟Africa delle grandi
città, dei grandi alberghi, dei ristoranti di lusso, delle piscine e delle
34
L‟importanza di questa osservazione sarà ulteriormente elaborata in seguito, quando si rifletterà
su come Moravia definisce la “sua” Africa.
87
autostrade. Per trasferirci verso l‟interno, dove le strade sono pantani
pieni di buche, dove per dormire ci si deve affidare alle missioni e per
mangiare bisogna accontentarsi delle banane fritte e della pasta di
ignam. (v)
I due, che rifiutano quasi altezzosamente la definizione di turisti, appena arrivati
in Africa si allontanano dalla modernità. Lasciandosi alle spalle alberghi e
piscine, prendono le distanze da una situazione di benessere economico costruito
secondo parametri occidentali. Per scoprire è necessario mettersi in relazione con
il nuovo, cercandolo laddove la realtà si presenta con caratteristiche affatto
diverse da quella che già si conosce.
La ricerca del nuovo, criterio e motivo dei viaggi di Moravia in Africa, si
applica anche al suo rapporto con l‟altro africano, con gli autoctoni. La volontà di
scoperta, quindi, è strettamente collegata al desiderio dell‟altro che obbliga ad
andare verso ciò che non si conosce. Per trovare una realtà così nettamente
differente rispetto alla propria, però, è necessario sapere in quale direzione
muoversi. Riprendendo la Maraini, è necessario lasciarsi alle spalle hotels ed
autostrade per andare incontro ad una quotidianità fatta di incertezza e precarietà.
Ci troviamo qui, di fronte ad una delle numerose contraddizioni che caratterizzano
le riflessioni di Moravia sull‟Africa: egli afferma di averla scoperta grazie
all‟abbandono, in realtà, questo è accaduto solo in parte. Lo scrittore non si è mai
lasciato andare in maniera incondizionata, lasciando che fosse l‟Africa con le sue
mille sfaccettature ad andare verso di lui, ma ha sempre imposto a priori una
direzione ai suoi viaggi, cercandovi l‟altro ma, più precisamente, l‟altro che non
assomiglia in nessun modo all‟europeo. Questa riflessione fa sorgere alcune
problematiche: come si sviluppa la ricerca dell‟altro per Moravia? Cosa accade
quando giunge infine a fare l‟esperienza dell‟alterità? Che tipo di rapporto riesce a
stabilire con gli africani?
4.
Moravia e l’alterità in Africa
Dovendo riassumere in un unico sostantivo l‟atteggiamento di Moravia nei
confronti degli africani, si sarebbe forzati ad usare distanza. Le popolazioni
88
autoctone suscitano nello scrittore, lo stesso fascino, spesso anche con le stesse
modalità che, come vedremo in seguito, gli provocherà il territorio. Diversamente
da quanto accade per quest‟ultimo, però, che resta sempre primitivo, la sua
posizione rispetto alle popolazioni è più complessa. I suoi contatti con i locali
sono piuttosto limitati: “è raro avere rapporti con gli africani” (Vita 222), si sposta
soprattutto con europei, generalmente italiani, e le sue relazioni con gli indigeni
sono circoscritte nel tempo e funzionali al viaggio; si tratta in genere di guide,
autisti, negozianti. Solo in pochi casi egli entra in contatto con uomini politici o
intellettuali del luogo, e ancora più raramente ha rapporti con membri delle tribù
dell‟interno dell‟Africa. Ad imporre questo limite, quasi una vera e proprio
barriera fisica, non sono le circostanze, ma lo scrittore stesso; vale quindi la pena
esaminare quali siano le ragioni di questa scelta.
Le considerazioni sulle popolazioni locali contenute nel suo primo libro
sull‟Africa, A quale tribù appartieni, possono sembrare contraddittorie. I diversi
incontri con l‟alterità, fanno infatti nascere in lui sentimenti contrastanti,
addirittura opposti. Le reazioni possono essere riepilogate, pur senza voler
semplificare eccessivamente, in tre atteggiamenti che ritorneranno con modi ed
intensità molto variabili ma che in fondo resteranno costanti. Particolarmente nel
primo libro emerge la sensazione di trovarsi di fronte ad una civiltà ancora
infantile in cui l‟uomo è, per qualche motivo che lo scrittore non spiega mai in
modo dettagliato, ad uno stadio di sviluppo precedente a quello europeo. Ad una
semplificazione culturale di questo genere sono riconducibili le affermazioni
contenute ad esempio in “La paura in Africa,” dopo aver cercato di stabilire se sia
più giovane l‟Africa o l‟Europa, sposta la sua riflessione sulle popolazioni:
Ma non è forse l‟africano più giovane dell‟europeo in quanto più
irrazionale, più spensierato, più infantile, più portato al ballo, al canto,
alla pantomima ossia forme d‟arte che non esigono maturità
intellettuale e così via? In realtà a conti fatti, gli africani sono insieme
giovani e vecchi cioè la cultura dell‟Africa nera è arcaica e al tempo
stesso il suo innesto nel mondo moderno è ancora problematico e
immaturo. (AQ 13-14)
89
Nell‟articolo “Moravia viaggiatore nella preistoria,” Jorn Moestrup desume
da affermazioni come questa un atteggiamento “quasi rousseauviano” nello
scrittore (45).35 L‟interpretazione di Moestrup, benché non completamente
inesatta, non può essere tuttavia condivisa. Lo sguardo dello scrittore verso
l‟alterità sembra rifarsi ad un modello epistemologico addirittura pre-coloniale, le
considerazioni sull‟infantilismo, intellettuale e civile, degli africani potrebbero
infatti suggerire un paragone fra Moravia e Cristoforo Colombo. Molti secoli
prima sbarcando in America Colombo aveva guardato alle popolazioni indigene
come ad esseri primitivi in quanto non aveva riconosciuto in loro nessuna delle
categorie per lui costitutive della civiltà. Moravia si trova in parte nella stessa
posizione; nelle popolazioni indigene dell‟Africa non vede caratteristiche
riconducibili alla civiltà così come viene intesa in occidente. Essendo un
intellettuale del XX secolo, però, è cosciente che il mancato riconoscimento delle
manifestazioni culturali di un popolo, non ne comporta l‟assenza. Le affermazioni
sul primitivismo, che fanno supporre una semplificazione culturale da parte di
Moravia, non sono infatti sentite come una contraddizione rispetto al suo sincero
interesse per l‟Africa.
A questa poco evoluta percezione dell‟Africa si affianca pian piano la
consapevolezza che la realtà africana non è semplificabile in termini di maggiore
o minore evoluzione. Nei viaggi successivi egli affronterà l‟Africa con spirito
molto diverso. In questo senso un‟indicazione importante viene fornita da
Moravia stesso che letterariamente, descrive quale sia l‟atteggiamento mentale
con cui viaggia. Alla domanda di Elkann “Ma che cosa ti affascina di più nel
viaggiare?” risponde: “L‟ignoto. Lo dice Baudelaire, del resto: Au fond de
l‟inconnu chercher du nouveau. L‟accoppiamento dello sconosciuto con il nuovo”
(Vita 96). Il primo viaggio in Africa gli servirà per comprendere dove cercare il
veramente nuovo e gli insegnerà a distinguere il veramente diverso. La volontà di
trovare ciò che non conosce è il criterio fondamentale che Moravia applica nei
confronti dell‟incontro con le popolazioni. Pur non facendone mai un‟esplicita
35
Jorn Moestrup, “Moravia: Viaggiatore nella preistoria,” Studi d’italianistica nell’Africa Australe
6.2 (1993): 36-50.
90
critica, egli manifesta una chiara indifferenza per gli indigeni che si sono adattati
alla modernità e nei quali è possibile riconoscere una forma di classe sociale. La
mancanza di interesse è dovuta alla conoscenza del presupposto economico e
culturale che determina i loro comportamenti. Si è detto ad inizio capitolo che uno
dei modi in cui la cerebralità di Moravia si espleta è il suo bisogno di capire quali
siano le determinanti comportamentali degli uomini; questo avviene anche nel
caso delle popolazioni dell‟Africa. Un africano che vuole arricchirsi, o che ha già
conquistato una posizione nella società neocolonialista, per Moravia corrisponde
ad un piccolo borghese europeo, di cui rappresenta, al massimo, una versione più
recente. La discriminante per riconoscere il veramente altro diviene l‟incolmabile
distanza culturale, quella che non consente di capire quali siano i criteri, o le “idee
strutturali profonde” a cui si è fatto riferimento all‟inizio del capitolo, che sono
alla base di qualsiasi manifestazione, intellettuale o civile, della popolazione alla
quale si sta rapportando.
Lo scrittore arriva a concludere che in fondo Africa ed Europa, con le loro
rispettive civiltà, sono complementari. Nel capitolo „Conterie e turismo‟ afferma
che: “l‟africano non è „diverso,‟ non è un „altro.‟ È semplicemente l‟altra faccia
dell‟Europeo, il suo completamento, la sua alternativa” (AQ 140). Si potrebbe
obiettare che “alternativa” e “completamento” hanno significati divergenti;
nonostante l‟incoerenza, tuttavia, la scelta lessicale è per certi aspetti
chiarificatrice. Quella di Moravia è, almeno in questo caso, un‟astrazione ancorata
ad un pensiero europocentrico e modernista: la cultura africana acquisisce
significato non in sé, ma in quanto completamento di quella europea. All‟ingenua
percezione della diversità che emerge dai primi capitoli di A quale tribù
appartieni, segue una sistemazione funzionale: l‟africano è “l‟altra faccia della
medaglia”
rispetto
all‟europeo.
La
definizione
della
relazione
come
complementare nasce da un‟impressione momentanea basata sul contrasto, su ciò
che allontana e segnala una differenza. Questa caratterizzazione costruita su
parametri negativi della relazione con l‟altro, non sarà molto frequente in
Moravia. Solo in pochi casi egli percepisce la cultura africana come
completamento; più frequentemente, e più interessante in questa sede, essa è
91
percepita come irragiungibilmente lontana. È quindi appropriato parlare di
alternativa, se si intende quest‟ultima come possibilità di sviluppo positivo, e non
limitatamente come integrazione. Tuttavia queste sue affermazioni fanno
emergere un atteggiamento mentale molto modernista da parte di Moravia, che
mette in gioco la dialettica tradizione/innovazione e che inserisce i due continenti,
Europa ed Africa, all‟interno di un medesimo sviluppo storico. In Moravia c‟è
sicuramente un approccio di questo tipo, cercare l‟ignoto ed il nuovo significa in
fondo cercare l‟alternativa a quello che si è, ed il continente africano sembra
offrire proprio quelle qualità che lo scrittore identifica con il nuovo. Tuttavia egli
non riduce l‟Africa a mero specchio di ciò che l‟Europa e gli europei non sono
più. Il sentimento del nuovo gli apre nuove prospettive, l‟esperienza diretta
dell‟ignoto gli permette di avere parametri diversi con cui guardare all‟Africa e
agli africani. Guardare ad essi come ad una alternativa è possibile quindi, se ciò
significa guardare all‟assolutamente altro.
La sensazione che emerge con maggior intensità e persistenza nei testi
successivi, infatti, è quella di trovarsi di fronte ad una incomprensibile diversità,
tanto distante da non poter essere colmata in alcun modo. Ci si soffermerà su
quest‟ultima modalità del rapporto con l‟altro, non solo perché è quella che
emerge con maggior decisione, ma soprattutto perché è quella che si rivelerà
foriera di ulteriori sviluppi. Esempi di questo modo di vivere l‟incontro con l‟altro
si trovano già nel primo libro A quale tribù appartieni (54, 150), ma si sviluppa
soprattutto nei libri successivi Passeggiate africane e Lettere dal Sahara, e lo si
deve, per quanto possa sembrare contraddittorio, alla maggiore esperienza che lo
scrittore andava acquisendo dei luoghi e delle popolazioni. L‟ambiguità nei
confronti delle culture africane resterà uno dei punti più importanti nel discorso
sull‟alterità in Moravia; il suo desiderio di avvicinarsi e conoscere, si realizza
attraverso il mantenimento della distanza. In seguito ai primi viaggi lo scrittore
prova un crescente interesse nei confronti del continente africano perché lo sente
come assolutamente diverso, ma per mantenere tale diversità è necessario non
invaderla, restando al di qua di ogni dialogo. Per Moravia proprio quest‟ultimo è
un punto di non ritorno nel rapporto con l‟altro. Il linguaggio non serve ad
92
avvicinare, ma piuttosto a frapporre codici culturali che precludono ogni
possibilità cognitiva. Lo scambio, che avviene, nonostante le premesse sembrino
garantire il contrario, deve trovare perciò altre vie per realizzarsi. Occorre quindi
riflettere su come Moravia abbia scelto di mettere in atto la sua personale
mediazione fra noto ed ignoto.
Moravia riconosce con entusiasmo la propria incapacità a comprendere la
cultura africana, e, cosa ancora più importante, ribadisce la volontà di non voler
colmare il divario che li separa. Questa distanza, che egli concettualizza in diversi
modi e di cui fornisce numerosi esempi, è alla base della sua resistenza ad
avvicinarsi agli africani. La modalità fondamentale con cui l‟incontro con il
diverso si sviluppa, è fissata in uno dei capitoli iniziali di A quale tribù appartieni.
Come si è detto, gli incontri saranno numerosi nei libri successivi, cambieranno i
contesti e le occasioni, ma le caratteristiche di trascendenza descritte in “L‟abisso
dei secoli” resteranno: “Ed ecco avverto al mio fianco la presenza di qualcuno.
Non mi tocca ma sento che c‟è. È una donna giovane, forse può avere venti anni.
[...] Accanto a lei sta un giovane completamente nudo salvo un piccolo cencio
rosso stretto intorno ai fianchi” (54-55) (corsivi miei). Alla minuziosa descrizione
fisica e dell‟abbigliamento della coppia che ha a fianco, Moravia fa seguire una
riflessione:
Provo, guardandoli, la stessa sensazione che ispira una divisa o un
costume di cerimonia o qualsiasi altro vestito di indubbio significato
simbolico: una curiosità quasi scientifica, come di fronte ad un
messaggio oscuro che vada decifrato. Ma l‟uniforme o l‟abito di
cerimonia europea sono facilmente riferibili ad una cultura nota e
familiare; quei cerchi di rame, quella tintura rossa, quelle trecce,
quello sterco di vacca, sono invece il prodotto di una cultura del tutto
straniera, probabilmente espressiva di un rapporto ancora diretto e non
mediato con la natura. Quanto a dire che quell‟uomo e quella donna
per me è come se fossero mascherati mentre in realtà sono soltanto
indecifrabili. In altri termini tra loro e me c‟è un abisso di dieci,
quindicimila anni; com‟è possibile colmarlo? (55)
93
Si è voluta sottolineare la scelta lessicale di Moravia perché i verbi da lui
usati definiscono l‟incontro come una situazione eccezionale. Lo scrittore, che in
Africa vuole trovare il diverso e cerca l‟alterità, si trova qui a provarla, quasi
fisicamente, perché non la vede semplicemente, ma la avverte, la sente.
L‟incontro/scontro con l‟altro è vissuto a più livelli. In un primo momento c‟è la
percezione fisica dovuta alla vicinanza. Ma avvicinarsi non significa solo
annullare la distanza, significa anche far entrare in campo altre dinamiche, e nel
caso di Moravia queste sono soprattutto di carattere intellettuale. La dicotomia
intellettualità/corporeità è una delle costanti, ed insieme anche la contraddizione
più profonda, del modo in cui Moravia si relaziona all‟altro. Egli cerca l‟altro ma
nel momento in cui il contatto fisico avviene non vuole gestire nessun tipo di
relazione perché la consapevolezza, tutta intellettuale, di quali possano essere le
conseguenze dell‟incontro gli impedisce di instaurare un vero scambio. Questo
primo incontro è l‟unico in cui l‟alterità si palesa allo scrittore in modo così
intenso, ed è anche quello che fissa il paradigma per i successivi.
Le due dominanti della riflessione di Moravia sono l‟indecifrabilità e la
distanza, e questi due elementi resteranno le costanti invariabili ogniqualvolta si
debba relazionare con gli autoctoni. Questo non significa, però che non sia
interessato o curioso nei loro confronti, è piuttosto vero il contrario. Le
affermazioni relative alla primitività e “all‟abisso dei secoli” potrebbero essere,
infatti, fuorvianti e potrebbero portare a risolvere la discussione ritornando
all‟ormai noto argomento della rappresentazione come forma di dominazione.
Ma, come già affermato, l‟approccio qui utilizzato è quello degli studi postcolonial, il cui fine non è tanto di fare una critica tout court di qualsiasi testo che
abbia come oggetto la rappresentazione dell‟alterità, quanto piuttosto il
riconoscimento dell‟atteggiamento con cui l‟autore si pone nei confronti di essa.
Qualsiasi testo di viaggio è, indirettamente, anche una rappresentazione culturale,
ma essa non si risolve necessariamente in una riduzione, o meglio il grado di
riduzione è variabile: “Narratives of encounter are undeniably dominated by the
viewpoint of the mobile culture, yet it is possible to exaggerate the degree of
superiority implied” (Steve Clark 1999). L‟interesse dello scrittore è tanto
94
maggiore in quanto riconosce la cultura africana come illeggibile attraverso i
propri parametri culturali. Quanto fin qui affermato porta alla conclusione che lo
scrittore non si è mai completamente abbandonato; ma ha volutamente cercato il
nuovo individuandolo solo nella forma che per lui era veramente rappresentativa
dell‟assoluta diversità. Lo scopo dichiarato della sua ricerca intellettuale in Africa,
è quello di trovare l‟ignoto, che nel caso delle popolazioni si può interpretare
come “l‟assolutamente diverso” riconoscibile nel momento in cui avverte
l‟impossibilità di comprendere. L‟atteggiamento di Moravia è quasi paradossale,
vuole incontrare il limite della propria capacità di comprendere per assicurarsi che
la vera alterità sia ancora possibile. L‟incontro ha luogo sul piano fisico ma ad
esso non conseguono sviluppi; questo sua personale modalità di avvicinamento
all‟altro pone però dei problemi. Il suo modo di porsi di fonte all‟alterità sembra
infatti contraddire quanto afferma Lévinas, per il quale la realizzazione della
distanza porta invece al desiderio di avvicinamento. Il paradosso in realtà si
risolve se si considera che Moravia vuole “sentire” l‟altro attraverso i sensi,
ovvero in modo viscerale. Questo aggettivo non è stato usato in modo casuale, a
conferma della coerenza con cui Moravia affronta l‟altro e l‟altrove, esso ritornerà
anche a proposito del suo rapporto con il paesaggio. L‟esperienza fisica dell‟altro
è sufficiente per lo scrittore, il quale non vuole frapporre ulteriori barriere, che
nello specifico sono le barriere del linguaggio. Moravia desidera il contatto con
l‟altro e l‟ignoto ed è proprio a questo fine che si reca in Africa, ma preferisce che
questo contatto resti ad un livello viscerale appunto; in altre parole, non vuole che
venga frapposta alcuna barriera razionale o culturale. Qualsiasi tipo di mediazione
o comunicazione, in particolare il linguaggio, porterebbe alla corruzione
dell‟incontro e del rapporto stesso. Egli è quindi molto disponibile nei confronti
del veramente altro. Ciò che forse può sorprendere è vedere come Moravia decida
di gestire la propria disponibilità.
Si è voluta sottolineare la scelta dei verbi avverto e sento, perché essi
ricordano il palesarsi di Altri, che Lévinas chiama anche Autrui, così come è
descritto in Totalità e infinito. Con questo termine il filosofo non indica
semplicemente l‟altro in quanto essere umano diverso da me; Autrui è la proprietà
95
assoluta per cui l‟altro uomo si definisce come tale. Il filosofo descrive
l‟esternarsi di Autrui come un fenomeno che precede la vista ed il tatto, entrambi
atti che già inglobano e quindi riducono al medesimo (TI 199-200). Egli propone,
attraverso il linguaggio, una soluzione positiva alla distanza esistente fra il
medesimo e l‟altro;36 grazie al discorso egli ipotizza un rapporto dialettico che
non si conclude semplicemente con la comprensione, che, nel caso di Altri, resta
comunque inattuabile. Il discorso consente di presentare la diversità senza che
questa venga definita e quindi limitata. Moravia percepisce una presenza, e lo
sguardo, che comunque è già un atto di appropriazione, gli conferma che si tratta
di una diversità che non può spiegare facilmente e che determina una distanza fra
lui e la coppia che egli sente come incolmabile. Inversamente alla proposta di
Lévinas, dove la realizzazione dell‟esistenza dell‟assolutamente altro spinge verso
il dialogo, per Moravia questa porta ad una stasi conoscitiva, una voluta,
rispettosa separatezza. Il suo interesse per gli africani ha allora un fine piuttosto
sorprendente, Moravia cerca l‟irriducibilmente altro per essere testimone della
diversità assoluta. Si potrebbe addirittura affermare che nell‟altro egli cerca la
conferma che la diversità è ancora possibile. L‟ignoto che egli cerca in Africa e
nelle tribù autoctone, allora, ha qui un doppio valore, significando ciò che non si
conosce ancora, ma anche ciò che non si conoscerà mai. Ciò che Moravia cerca in
Africa e negli africani allora, va al di là di quello che egli può trovare in quei
luoghi, perché il suo desiderio si riferisce al bisogno di trovare una dimensione
metafisica che vada al di là delle situazioni contingenti e che gli permetta di aprire
il campo a riflessioni che non si indirizzano agli africani piuttosto che agli
europei, ma all‟uomo in generale.
L‟esempio più interessante di questa necessaria distanza si trova nelle
pagine che raccontano la visita di Moravia al Sultano dei Tuareg. Lo scrittore
viene condotto in uno spiazzo, che egli interpreta come una necessaria anticamera
36
Lévinas definisce il linguaggio come: “un rapporto tra termini separati” (TI 200), e non si
riferisce esclusivamente alla lingua parlata, che può comunque essere intesa come un tipo di
linguaggio.
96
prima di accedere alla sala reale, viene fatto accomodare, gli viene dato in dono
un libro, ed è poi lasciato ad aspettare:37
La visita si protrae a lungo, pur sempre nell‟immobilità e nel silenzio,
tra il sorriso del fratello del sultano, l‟espressione severa delle guardie
e quella inquieta del capoguardia. Alfine quest‟ultimo rompe gli
indugi, chiede spiegazioni, si spiega a sua volta; e la verità viene alfine
a galla: il sultano è a Parigi e il fratello ne fa le veci; questa era
l‟udienza e avrei dovuto capirlo e parlare, interrogare, levarmi le mie
curiosità col fratello. Quanto, poi, ad essere introdotto nel palazzo, non
se ne parla neppure: gli stranieri non possono entrarvi.
Il capoguardia è un po‟ arrabbiato per l‟equivoco; mi domanda
nervoso, che cosa volevo dal sultano, perché avevo chiesto l‟udienza.
Rispondo con sincerità che volevo soltanto vederlo. È la verità, dopo
tutto. Infatti quel libro così prezioso e così mal ridotto è un segno
eloquente dell‟impossibilità di qualsiasi rapporto altro che visivo. Cosa
avrei potuto apprendere, insomma, che non avevo già letto nella
burbanza della guardia, nel sorriso ironico del fratello del sultano,
nell‟inquietudine del capoguardia? (100)
Il dialogo è ritenuto inutile, perché la situazione e la vista dei tuareg, gli basta a
fargli comprendere che la distanza che li separa è troppa per essere colmata con
un semplice scambio di parole. Il non voler approfondire il rapporto con gli
africani non deve essere letto in chiave negativa, in quanto lo scrittore crede che
quella distanza debba essere mantenuta perché la diversità resti tale. Cerca nelle
popolazioni la stessa autenticità che cercava nel territorio, ma per poter far questo
ha bisogno di essere il meno invasivo possibile. Più le manifestazioni a cui assiste
sono spontanee, ovvero meno influenzate dalla presenza di europei, più lo
interessano. Le danze fatte da professionisti a beneficio dei turisti sono falsate in
quanto, perché queste siano vere, è necessario che il turista sia dimenticato, è
necessario: “il sentimento di assistere ad una manifestazione che ci „ignora,‟ che
37
È interessante notare che il libro che viene regalato a Moravia è una storia dei regni Tuareg in
una versione francese tradotta dall‟originale in tedesco.
97
ci „esclude,‟ che non ha bisogno della nostra presenza ed attinge la propria ragion
d‟essere in motivi che non ci riguardano” (AQ 148). Nell‟istante stesso in cui la
diversità si manifesta a favore di un‟altra persona, essa si annulla.
Non sarebbe corretto vedere in questo atteggiamento una forma di
disinteresse, si è già detto che per lo scrittore la disponibilità e la curiosità non
devono essere dimostrate perché sono da lui stesso dichiarate fin dal primo
momento, e sono implicite nel fatto che lui desidera andare in Africa. Altrettanto
improprio sarebbe vedere queste riflessioni come una prova o conferma della
propria superiorità culturale. Il discorso di Moravia sull‟Africa consiste proprio in
questo, egli non considera il primitivismo come segno di inferiorità, e non vede
l‟impossibilità di comunicare come un fattore negativo al quale si deve porre
rimedio. Su questo punto Moravia riesce a raggiungere una notevole lucidità; non
è in grado di capire cosa stia dietro a determinate manifestazioni culturali delle
tribù, non riesce ad interpretare i loro simbolismi, ma questo non si traduce in
pregiudizio. Anzi, al contrario un‟osservazione contenuta in Lettere dal Sahara,
spiega molto bene quale sia l‟atteggiamento con cui lo scrittore guarda a quelle
culture. Si trova in Costa d‟Avorio dove Dacia Maraini segue da vicino alcune
tribù per farne un documentario:
Dopo i primi giorni tutto mi pareva naturale, inalterabile e definitivo
anche si ingiusto e magari deplorevole: i piattelli nelle labbra come
l‟aspetto di termitai delle case; le pance gonfie dei bambini con
l‟ombelico sporgente come un tappo di champagne, allo stesso modo
della pettinatura delle donne composta di mille minime trecce
zampillanti dal cranio tutto intorno al collo e alla fronte. E allora viene
subito in mente questa riflessione: come hanno fatto nel passato i
razzisti, i colonialisti, gli imperialisti di ogni sfumatura a preservare
pur nel quotidiano rapporto con gli africani, il sentimento di una
diversità irreparabile, giustificatrice di ogni sopraffazione e ogni
violenza? Insomma come si fa, dopo una giornata di contemplazione, a
non sentire i piattelli nelle labbra come qualche cosa di necessario
98
[...]? E a servirsene invece come una pezza di appoggio per una
cervellotica e interessata convinzione di superiorità razziale? (LS 44)
Moravia non cerca spiegazioni all‟uso di perforarsi il corpo con scopo decorativo
o alla particolare forma delle loro acconciature, ma con spirito polemico, tiene a
sottolineare quanto sia improbabile l‟interpretazione delle suddette usanze come
dimostrazione di inferiorità.
La posizione ideologica di Moravia nei confronti dell‟alterità africana non
lascia quindi spazio a molte interpretazioni: la loro diversità non è sinonimo di
inferiorità. Va sottolineata, però, anche un‟affermazione implicita fatta in
relazione al rapporto quotidiano con queste popolazioni. Moravia si stupisce che
nonostante la convivenza gli europei non fossero riusciti a capire le loro tradizioni
e a non sentirle come “necessarie.” La quotidianità viene vista come un possibile
mezzo di comprensione della cultura e quindi di avvicinamento alla realtà
africana attraverso una complicità data dalla comunione di gesti, dalla
condivisione degli stessi luoghi; un dialogo insomma, ma senza parole. Solo alla
fine di una giornata Moravia sente che i piattelli sono necessari. In altre parole la
diminuzione della distanza rende l‟altro meno indecifrabile. Indirettamente lo
scrittore afferma che nella quotidianità la diversità svanisce. Si tratta proprio di
quella vicinanza che lui aveva così attentamente evitato, e che in varie occasioni
lo aveva fatto sentire un intruso. Sempre durante le riprese per il documentario
pensa: “Trattengo il fiato apprensivo; immagino che adesso i parenti infuriati
dalla nostra slealtà, si slanceranno sulla Land Rover, faranno a pezzi la macchina
da presa. Confesso che dentro di me non riesco a dargli torto” (LS 51). Vi è
l‟impressione che Moravia non voglia violare fisicamente il loro mondo, e che
preferisca piuttosto limitarsi a guardarlo, ammirarlo anche, come se la sua
presenza fosse un pericolo per la diversità che quelle popolazioni rappresentano.
C‟è negli scritti di Moravia un costante sforzo di mediazione, tutt‟altro che
conciliabile con l‟abbandono, tendente ad evitare sovrapposizioni culturali.
Questo atteggiamento è, ancora una volta, paradossale perché la volontà di tenere
la relazione solo sul piano della percezione fisica, mantenendo una separazione di
fondo, corrisponde in parte a non voler mettersi in gioco per creare davvero una
99
relazione significativa, fondata sullo scambio. Inoltre mantenere la distanza serve
ancora una volta a ribadire la propria identità in contrapposizione all‟alterità.
Paradossalmente, viste le affermazione sulla mancanza di storia in Africa, fra
l‟Europa ed il continente nero c‟è troppa storia perché sia possibile un rapporto
non pregiudicato dal passato.
5.
Quale fra le “Africa” possibili?
Lo svolgimento della problematica del rapporto con l‟alterità fa sorgere
un‟altra questione importante all‟interno del discorso sull‟Africa in Moravia,
quella di che cosa effettivamente indichi questo nome. Fino ad ora si è parlato, in
termini piuttosto generali di Africa quasi come se la si considerasse in modo
unitario. Evidentemente, parlare del continente africano come di un unicum è
inappropriato. L‟astrazione che si è operata utilizzando un solo nome per indicare
una vastissima quantità di luoghi e culture non vuole essere una banalizzazione
delle differenti realtà che nel loro insieme costituiscono l‟Africa. Non c‟è una sola
Africa, e come questo è evidente per noi oggi, nell‟epoca della „postdecolonizzazione,‟ lo era anche per Moravia. Parlando di Africa, egli si riferisce
ad un concetto tanto specifico quanto personale. Va fatta, perciò, una
precisazione: egli dice di aver “scoperto l‟Africa,” grazie ad un viaggio fatto con
Dacia Maraini nel 1962. In realtà, si era già recato in Africa alcuni anni prima.
Nel 1954, infatti, consegnava al quotidiano Corriere della sera alcuni articoli
scritti dall‟Egitto. Evidentemente, benché appartenente al continente dal punto di
vista geografico, l‟Egitto, per Moravia, non è compreso nel suo concetto di Africa.
Vale la pena fare chiarezza su questa incongruenza, dato che non si tratta di una
questione semplicemente geografica, ma si riferisce ad un concetto astratto, più
vasto, corrispondente alla sua personale concezione dell‟Africa. Per Moravia
Africa significa l‟Africa nera, ovvero quella che inizia a conoscere nel Ghana, nel
Togo e nella Nigeria, i primi paesi da lui visitati (sempre ad eccezione
dell‟Egitto). È l‟Africa centro-meridionale, quella geograficamente più lontana
dall‟Europa e quella che, almeno all‟epoca, preservava uno stato di natura e di
cultura che agli occhi di un occidentale si potevano presentare come relativamente
100
incontaminati. L‟aggettivo “incontaminati,” che potrebbe suggerire un luogo
comune, viene ripreso perché utilizzato spesso proprio dallo scrittore, il quale è
particolarmente
affascinato
dai
luoghi
che
non portano traccia
della
colonizzazione. L‟intuizione di quello che l‟Africa è, al di là di tutti gli
avvenimenti storici, è fra gli aspetti che maggiormente hanno attratto Moravia.
Lo scrittore non farà luce su questo punto, ovvero non espliciterà mai la
discriminante che separa l‟Egitto dal resto delle nazioni africane da lui visitate.
Che ci siano uno o più elementi disgiuntivi, però, è confermato anche dall‟assenza
di narrazioni sull‟Egitto, o dall‟Egitto, nei suoi libri sull‟Africa. Anche alla luce di
quanto
scriverà
successivamente
è
tuttavia
possibile
motivare
questa
differenziazione in base a due elementi: la storia dell‟Egitto e le modalità del
viaggio. L‟Egitto non appartiene al concetto di Africa per Moravia, perché ha una
storia ben documentata e molto nota. Lo scrittore, come avremo modo di
approfondire, reputa l‟Africa il paese del preistorico, definendolo addirittura un
luogo astorico.38 Chiaramente l‟Egitto non si può conformare a questa
definizione; anzi, proprio la storia, con le sue monumentali testimonianze, è la
ragione stessa del viaggio. I reportage che lo scrittore manda al Corriere della
sera, infatti, sono documenti e riflessioni sulle visite compiute nei luoghi
dell‟antica civiltà egizia. Inoltre, quando va in Egitto Moravia fa parte di un
normale gruppo di visitatori, tutti facenti riferimento alla stessa guida turistica. Le
modalità con cui il viaggio si svolge sono simili a quelle tipiche del turismo di
massa, benché in proporzioni probabilmente ridotte rispetto a quelle odierne.
Quest‟ultima riflessione si ricollega al secondo motivo per cui l‟Egitto viene visto
come un paese a sé rispetto al continente di cui fa parte. Durante quel viaggio egli
aveva visto luoghi e monumenti di una storia e di una civiltà specifica, quella dei
faraoni. Lo stesso, mutatis mutandis, avrebbe potuto fare in qualsiasi altro paese
dell‟Europa o dell‟oriente, ad esempio. Nell‟Africa nera, invece, egli scopre la
possibilità di viaggiare in modo diverso, ovvero cercando consapevolmente, oltre
38
Chiaramente l‟opinione di Moravia è assai discutibile perché anche altre nazioni africane hanno
avuto una storia importante ed articolata, vedi ad esempio il Ghana, l‟Etiopia ecc. Tuttavia qui non
si vuole affermare che l‟Egitto ha più storia rispetto alle altre nazioni, ma che questo è il modo in
cui Moravia lo recepisce.
101
che l‟esperienza culturale in senso tradizionale, anche l‟esperienza fisica
dell‟incontro-confronto con ciò che risulta assolutamente „altro.‟ L‟esperienza
dell‟Africa sub-sahariana gli insegna quindi che viaggiare vuol dire anche
inseguire ciò che non si conosce per trovare il veramente nuovo. In Egitto era
andato per guardare, nel resto dell‟Africa, invece, per conoscere. Anche in questo
caso, l‟abbandono di cui parla con tanto entusiasmo, è solo parziale. Lo scrittore,
volendo scoprire, impone ai suoi spostamenti una finalità determinata a priori. La
ricerca del nuovo, inoltre, gli fa operare delle scelte in relazione, oltre che ai
luoghi da visitare, anche alle modalità degli spostamenti.
Nel primo capitolo di Lettere dal Sahara si trova quella che può essere
definita una dichiarazione di poetica da parte dello scrittore, il quale afferma che
scriverà:
quello che penso della cosa nel momento stesso che la vedo. Sarà,
insomma, il diario di un turista. So bene che le parole turista e turismo
sono screditate; e che fanno pensare subito alle agenzie di viaggi, alla
pubblicità delle crociere agli autobus Rome by night. Ma, dopo tutto, il
turismo non è sempre stato soltanto consumismo; originariamente era
una forma di educazione sentimentale [...] Il turismo, insomma era un
modo di vedere la realtà non di spiegarla; di raccontarla non di
mascherarla. (8)
Oltre a fornire al lettore le indicazioni su come l‟argomento sarà trattato,
Moravia chiarisce la sua posizione in relazione al turismo. Come brevemente
visto in precedenza, dei diversi modi di viaggiare egli ne rifiuta apertamente uno:
quello legato al turismo di massa. Si tratta, probabilmente, anche di un certo
snobismo sociale, ma lo scrittore rifugge le compagnie di turisti, soprattutto
perché esse sono indicative di quanto l‟Africa sia “consumata.” L‟aggettivo è lo
stesso che Moravia usa molto di frequente nei suoi scritti e che ha sempre
un‟accezione negativa. L‟Africa consumata è quella frequentata dai viaggiatori
occidentali che cercano, tutto compreso, l‟esotismo africano. Consumare l‟Africa,
per Moravia, non significa visitarla per conoscerla, ma, riprendendo la sua
espressione, per “mascherarla” di quello che ci si aspetta da lei.
102
Strettamente collegata, anche per ragioni ideologiche, al rifiuto dell‟Africa
consumata, è anche l‟indifferenza dello scrittore nei confronti dell‟Africa
consumistica, ovvero quella che si è adattata più facilmente al modello economico
occidentale. Inizialmente si è detto che Moravia non accetta l‟Africa in toto; egli,
infatti, si mostra molto poco interessato alla parte più moderna del continente: gli
alberghi di stile europeo, le cittadine di recente costruzione che gli ricordano la
provincia americana, le multinazionali, i supermercati. In altre parole rifiuta la
modernità africana costruita sul modello capitalistico, per le stesse ragioni per le
quali era stato indifferente di fronte ad un africano in cui poteva riconoscere
modelli comportamentali europei. Questo rifiuto è dovuto alle sue convinzioni
politiche, ed è manifestato soprattutto in A quale tribù appartieni?, dove sono
frequenti le riflessioni sulle modalità e gli esiti del neocolonialismo. Le città
africane che si stavano sviluppando sotto la spinta capitalistica, ad esempio, non
rappresentano il nuovo per Moravia, ma solo la versione più recente di una realtà
di cui conosce già ogni tipo di presupposto sociale, economico, politico.
Passeggiando lungo la “main street di Accra” (AQ 10) paragona le nuove
costruzioni della capitale del Ghana alle: “[…] orgogliose, tetre, e gelide sedi di
banche, con quei marmi neri e lustranti e quei graniti di grana fitta e grigia che si
vedono a Zurigo, a Londra, a Nuova York, a Francoforte […] (AQ 8). Le
considerazioni politiche, aspetto quasi inevitabilmente immanente del pensiero di
Moravia, sono solo un fattore secondario. L‟autore, ad esempio, vuole capire le
ragioni per cui le nazioni africane abbiano mantenuto molte delle strutture
amministrative e burocratiche imposte loro dal colonialismo; allo stesso modo, è
interessato allo scontro ancora visibile fra la cultura africana e quella europea.
Questi argomenti, però, offrono solo lo spunto per alcune riflessioni di carattere
generale e non diventano mai il nucleo delle sue narrazioni. Il centro
dell‟attenzione, e vero protagonista della narrazione, è il sentimento che l‟Africa
gli ha ispirato fin dalla prima visita e che lo aveva attratto in modo irresistibile.
In questa sezione si sono finora analizzati i lati dell‟Africa che lo scrittore
rifiuta apertamente; è lecito a questo punto chiedersi di cosa si era innamorato,
ovvero che cosa lo spingesse a recarvisi con tanta frequenza. Una parziale risposta
103
la troviamo nell‟articolo “Passeggiate africane: il fascino del mistero,” pubblicato
nel 1987 in un quotidiano ed oggi posto ad introduzione dell‟omonimo volume:
Mi è stato rimproverato che nei molti viaggi che ho fatto in Africa nera
non mi sono mai abbastanza occupato delle situazioni politiche,
sociali, economiche, ideologiche, ecc. ecc. del continente nero. Questo
è vero almeno in parte ma paradossalmente è un effetto del mio grande
amore per l‟Africa. […] Bellezza! io sono stato affascinato dalla
bellezza dell‟Africa e per bellezza non intendo la bellezza delle
cartoline illustrate in tricromia, bensì qualche cosa di inspiegabile, di
misterioso, di indicibile che si direbbe aleggia sul continente nero allo
stesso modo dell‟Anima secondo i greci, cioè qualche cosa di
superficiale e di esterno e appunto per questo affascinante per la
sensibilità che è il mezzo privilegiato di ogni visione estetica. (xi)
Quello che fa innamorare Moravia è dunque la bellezza del continente, sensazione
che diventa un‟esperienza estetica vissuta appieno perché nel momento in cui la
percepisce egli vi si abbandona. La bellezza dell‟Africa la troverà nei luoghi che
più sono lontani da ciò che gli è familiare, quindi più la natura ed il paesaggio
sono primordiali – egli stesso usa sovente l‟aggettivo primitivo – tanto più cresce
in lui l‟attrazione verso di essi. Nel caso dell‟alterità a suscitare il desiderio era il
bisogno di perdere i propri riferimenti culturali, abbandonandosi al diverso; nel
caso del paesaggio sarà la sensazione di trovarsi in un luogo dalle caratteristiche
primigenie che gli susciterà il desiderio di abbandono. Nell‟Africa che gli procura
la sensazione di primordialità, Moravia trova il suo inconnu: quello di un
continente dalle caratteristiche preistoriche, in cui uomo e natura vivono in
atavica, ma non idealizzata, comunione.
6.
L’Africa ed il primitivo: l’esperienza dell’indicibile
L‟analisi dei testi di Moravia vuole esaminare quale sia la relazione che egli
stabilisce con il noto, ovvero la propria cultura, e l‟ignoto, rappresentato
quest‟ultimo dal nuovo che incontra in viaggio. Il compito è in parte facilitato
dallo scrittore stesso che, come visto nella sezione sul rapporto con l‟alterità,
104
afferma che lo scopo dei suoi viaggi è di cercare: “L‟accoppiamento dello
sconosciuto con il nuovo” (Vita 96). Vale la pena ribadire che questa
affermazione evidenzia insieme la disponibilità ed il limite con cui Moravia si
pone nei confronti del viaggio, in quanto egli vuole trovare il nuovo, vuole cercare
il diverso. La sua apertura verso ciò che non conosce, atteggiamento certamente
positivo, è controbilanciato in negativo dal fatto che si tratta di un‟intenzione
quasi imposta a priori. Benché la meta nel suo caso sia diversa,
inconsapevolmente mette in atto lo stesso meccanismo dei turisti che si muovono
con le gite organizzate. I turisti cercano l‟esotismo, l‟avventura, il selvaggio;
Moravia cerca l‟autenticità. Autentico, per Moravia è tutto ciò che sente come
troppo lontano per essere compreso nella sua totalità e che proprio per questo fa
nascere in lui l‟interesse ed il desiderio di abbandonarsi all‟esperienza del nuovo.
Rispetto all‟Africa che si sta modernizzando, si è visto, egli ha la stessa
indifferenza che prova nei confronti degli africani che si sono conformati
all‟occidente. La citazione di Beaudelaire chiarisce allora anche perché avesse un
atteggiamento così incurante nei confronti dell‟Africa consumata e consumistica.
Accra, o Timbuctù non hanno per lui nessun interesse perché non sono veramente
sconosciute, e soprattutto non sono la sua vera Africa. Quello che Moravia
considera come elemento veramente autentico, ed in cui identifica la novità
dell‟esperienza in Africa, è la natura, il paesaggio, soprattutto quello delle regioni
sub-sahariane. Sempre in Vita di Moravia, afferma: “Ho pubblicato tre libri
sull‟Africa con uno slogan: il maggiore e più nobile monumento che la natura
abbia eretto a se stessa. E ancora: in Europa la natura è più debole dell‟uomo; in
Africa è più forte” (212). La successione cronologica dei tre libri, che si
riferiscono a viaggi fatti in periodi diversi, riflette una crescente conoscenza e
familiarità con l‟Africa. Ciononostante, alcune riflessioni nate durante il primo
viaggio resteranno praticamente immutate. Jorn Moestrup, a proposito di A quale
tribù appartieni? rileva giustamente che: “alcune osservazioni fondamentali
resteranno come punti fermi nel sempre più viscerale rapporto soprattutto con il
paesaggio africano” (40). Fin dal primo momento, l‟Africa è per Moravia il
105
continente del primitivo, a molti livelli, ma a suscitare questa sensazione è in
primo luogo il paesaggio:
Così un viaggio in Africa, quando non è una scorribanda
insipida per i grandi alberghi che gli occidentali hanno disseminato sul
continente nero, è un tuffo nella preistoria. Ma cos‟è questa preistoria
che tanto affascina gli europei? Prima di tutto, diremmo, la
conformazione stessa del paesaggio africano. [...] è più simile al volto
della terra nella preistoria, quando non c‟erano stagioni e l‟umanità
non era ancora comparsa, che al volto della terra oggi, con le
innumerevoli modificazioni apportate così dal tempo come dall‟uomo.
(14)
L‟impressione di essere in un luogo preistorico, che si riscontra fin dalle
prime pagine del primo libro scritto sull‟Africa, si rinnoverà nei successivi.
Passeggiate africane, l‟ultimo dei libri in cui racconta i suoi viaggi, si apre con il
capitolo “In un‟aria di preistoria ritrovo il cuore della mia Africa,” ed in uno dei
capitoli successivi, a proposito dell‟interno del Gabon scrive: “Altro che
Capodanno! Per quanto ne sappiamo, tra quegli sterminati arruffii vegetali, siamo
ancora alla preistoria, poco dopo i dinosauri, poco prima dell‟homo abilis” (71).
Questa affermazione verrà ripresa quasi in toto nel romanzo La donna leopardo,
quasi a confermare l‟intensità con cui Moravia viveva l‟esperienza del paesaggio
africano, sentito in modo tanto viscerale da diventare parte di un lessico
personale. Riflessioni di questo tipo sono innumerevoli, in tutti e tre i volumi, la
prima percezione, quindi, non cambierà. A cambiare sarà, invece, il suo modo
muoversi in Africa. Nel primo libro si trovano di sovente riferimenti ad alberghi e
luoghi creati artificialmente per turisti e uomini d‟affari occidentali, nei libri
successivi, invece, questi luoghi verranno frequentati solo in mancanza di
alternative e ad essi preferirà soggiorni itineranti.
Moravia, dopo il primo viaggio, capisce dove vada cercato il nuovo: nelle
foreste, nelle savane, nei deserti; i luoghi, cioè, in cui non sono riconoscibili segni
lasciati dagli esseri umani. Questi enormi paesaggi vuoti sembrano difficilmente
offrire qualche cosa di nuovo, ma per lo scrittore è proprio quest‟assenza di
106
“cose” ad avere significato perché gli suggerisce la possibilità di viaggiare: “fuori
del tempo o meglio in un tempo astorico, di tipo religioso. In altri termini e a dirla
in breve, quello del Sahara è uno spazio metafisico” (LS 68). Il viaggio in Africa
riempie un vuoto esperienziale rendendo possibile uno spostamento al di fuori del
tempo. Gli altri viaggi erano sempre collegati, per motivi storico-culturali, ad altre
epoche: Parigi e Londra all‟Ottocento, la Russia all‟epoca liberty (LS 12) e via
dicendo. L‟Africa, invece, è il continente senza epoche perché mancano le tracce
della storia dell‟uomo. Quest‟assenza corrisponde ad un‟impossibile percezione,
ad una rivelazione metafisica, ovvero l‟intuizione di come, forse, è stata la terra
prima che l‟uomo l‟abitasse e la modificasse. È l‟esperienza dell‟indicibile,
appunto, sensazione solo metafisica perché di fatto irrealizzabile; l‟essere umano
infatti non può fare l‟esperienza della preistoria a cui si riferisce Moravia, ovvero
l‟esperienza di un tempo in cui l‟uomo stesso non era ancora presente sulla terra.
Si tratta, quindi, di una sovrapposizione culturale, i paesaggi africani sono
percepiti come primordiali perché la natura non modificata dall‟uomo è
l‟immagine più frequentemente associata alla preistoria.
Moravia sembra rifarsi al più datato, e forse più difficile da estirpare,
stereotipo sull‟Africa, quello relativo alla sua primitività. L‟atteggiamento “quasi
rousseauviano” a cui fa riferimento Moestrup trova forse proprio in queste pagine
la sua massima applicazione. Non mancano, soprattutto nel primo libro, alcuni
slittamenti verso una idealizzazione del rapporto uomo-natura, che in generale,
però, non sono mai riferiti esclusivamente al paesaggio africano, ma piuttosto a
coloro che lo abitano. Tuttavia anche in questo caso si tratta di un‟opinione che
verrà successivamente modificata. È vero che l‟Africa rappresenta per Moravia il
continente ancora incontaminato, ma la sua presa di conoscenza di quella realtà,
selettiva ed anche elitaria per certi aspetti, non è mai ingenua. Recarsi in Africa e
trovare uno stato di natura in cui l‟uomo vive in “perfetta armonia” con
l‟ambiente, sarebbe stato piuttosto banale. In riferimento al paesaggio africano,
vale la pena riprendere quanto scritto da Mary Louise Pratt, che in Imperial Eyes
offre un‟interpretazione solo parzialmente esatta della produzione moraviana
rispetto all‟Africa. Riferendosi esclusivamente a A quale tribù appartieni, la
107
studiosa evidenzia come lo sguardo ancora europocentrico di Moravia si
deducibile da due elementi: il fatto che egli ammiri l‟Africa dai balconi di qualche
hotel di lusso, e la sua esaltazione per il primitivismo del paesaggio africano.
Sullo sguardo turistico di Moravia non vale la pena soffermarsi in quanto nel
complesso i suoi libri dimostrano come egli cerchi di evitare proprio tutte le
situazioni tipiche del turismo capitalistico occidentale. Più stimolante invece è la
riflessione della Pratt in relazione al paesaggio. Riferendosi agli scritti di Theroux
e Moravia la Pratt scrive: “The accounts of both the South American [il
riferimento è a Theroux] and African countryside complain of a kind of esthetic
and semantic underdevelopment which both writers, in pure Euroimperial fashion,
connect with the prehistoric” (218). È vero, almeno per Moravia, che la
sensazione estetica che il paesaggio gli suscita è quella che rimanda alla
preistoria, ed è certamente corretta anche l‟osservazione che “There is never an
excuse for this dehumanizing western habit of representing other parts of the
world as having no history” (219). Tuttavia, vale la pena riflettere su questo
atteggiamento di Moravia secondo una prospettiva un po‟ più ampia. Senza
cercare giustificazioni nel relativismo culturale, va tuttavia tenuto conto che negli
anni sessanta e settanta, l‟approccio all‟altro non poteva essere guidato dai
principi a cui facciamo riferimento oggi. Come affermato nell‟introduzione, usare
la critica post-colonial per fare della dietrologia non ha molta utilità. È più
interessante usare quegli stessi strumenti per cercare di capire quali siano gli
sviluppi positivi del desiderio di trovarsi nell‟altrove e di avere una relazione con
l‟altro. Questo bisogno non si giustifica semplicemente con la necessità di ribadire
la propria superiorità culturale. La Pratt assimila la sensazione estetica che il
paesaggio suscita in Moravia alla percezione tipicamente occidentale, che vede
l‟Africa come una specie di Eden. La rappresentazione narrativa che ne consegue
è, secondo la studiosa, un tipico esempio di retorica europocentrica. Uno dei
maggiori problemi nel leggere i testi di viaggio consiste nel dover confrontarsi
con affermazioni quali, ad esempio, “assenza di civiltà”; questa espressione non
sempre è caricata di valore negativo. Assenza di civiltà per Moravia significa
quasi sempre mancanza di presenza umana, non mancanza di civiltà occidentale.
108
L‟ottica europea è immanente ed inevitabile, ma le considerazioni relative alla
natura si riferiscono al suo aspetto, e non vogliono designarne una caratteristica
intrinseca e certo non vogliono rappresentare l‟Africa come un paradiso terrestre.
Effettivamente, questi luoghi sono oggi nel mondo la cosa più
somigliante [...] al vecchio Eden biblico. Ma da questo Eden, Adamo
non è mai stato scacciato; oppure vi è rientrato in forza dopo un breve
esilio, e vi si è impiantato questa volta con tutte le comodità moderne.
Adamo è francese o tedesco o magari milanese; è banchiere
industriale, rentier. (LD 13)
Si è affermato che lo scrittore, pur amando il continente, non cede alla facile
esaltazione di esso; la natura africana è suggestiva di altre epoche, ma la realtà si
impone su qualsiasi possibile idealizzazione alla Rousseau. L‟impressione estetica
si sviluppa in una riflessione più ampia, considerando a cosa corrisponda sul
piano pratico questa primordialità e le conclusioni a cui giunge sono tutt‟altro che
ideali. Se, parafrasando quanto afferma in “Edoardo, Alberto, Rodolfo, Vittoria,”
la storia è prodotto umano in relazione alla propria misura del tempo, allora: “la
preistoria è eternità” (AQ 184). Quest‟ultima, però, è tutt‟altro che desiderabile
perché: “L‟eternità in Africa è l‟assenza di strade, di coltivazioni, di centri abitati.
[...] Sono infine le malattie, dalla bilarzia alla mosca tze tze, dalla malaria alla
dissenteria. Insomma l‟eternità è squallida”(AQ 184). Ma se a questa assenza di
civiltà non corrisponde un ideale positivo, è allora lecito chiedersi perché Moravia
ne subisca così fortemente il fascino.
Lo scrittore è attratto in primo luogo dall‟esperienza che questa assenza gli
consente di fare. Si tratta di un‟esperienza sia intellettuale che fisica: l‟Africa nera
è l‟unico contesto in cui l‟uomo non abbia ancora completamente dominato la
natura e questo fa sorgere, nella mente del turista Moravia, la sensazione di fare
un viaggio nel tempo oltre che nello spazio. L‟interno del continente africano, è
l‟unico ad offrirgli una realtà davvero nuova, non paragonabile a niente di simile
visto in altri paesi, e non riconducibile a nessun paradigma culturale noto, se non,
appunto, quello della preistoria. Il viaggio è al di “fuori del tempo” perché nella
preistoria, la sistemazione umana degli eventi nel tempo, la storia appunto, non
109
era ancora cominciata. Il protagonista degli altri viaggi era stato l‟essere umano
attraverso la sua storia, passata e contemporanea, e le diverse forme di civiltà che
ha saputo sviluppare; in Africa invece è la natura a porsi in primo piano.
Quest‟ultima, non è semplicemente la natura che l‟uomo non ha ancora
trasformato, come potrebbe essere, ad esempio, una qualsiasi vallata alpina in cui
non sia sorto un villaggio, ma grazie alla propria conformazione dà l‟impressione
di tornare indietro di millenni. La monotonia del paesaggio, inoltre, elemento su
cui Moravia ritorna molto spesso, rafforza la sensazione di essere in un luogo
dalla dimensione astorica. In questo caso non si tratta di una sovrapposizione
culturale, ma di una vera e propria sensazione fisica dovuta al fatto che pur
spostandosi il paesaggio non cambia. La mancata percezione del movimento nello
spazio, fa venir meno anche la percezione dello scorrere del tempo. Il paesaggio
africano lo affascina esteticamente perché gli permette di percepire l‟autenticità di
una natura a cui l‟uomo non ha imposto ancora nessun limite. Questa primitività
ambientale lo attrae perché gli dà l‟illusione di avere accesso ad epoche remote; si
tratta, quindi, di un viaggio che va oltre il normale spostamento nello spazio, in
quanto allude anche ad un'altra dimensione, quella del tempo. Nell‟Africa nera
Moravia ha l‟impressione di trovarsi in un pianeta in cui l‟umanità non si è ancora
sviluppata.
La dimensione metafisica in cui Moravia percepisce di muoversi quando si
trova nell‟interno dell‟Africa, lo spinge a fare riflessioni più articolate, che vanno
oltre la semplice impressione estetica. La seconda sezione di Lettere dal Sahara,
quella che dà anche il titolo al libro, benché non sia stata scritta al termine dei
suoi viaggi, contiene numerose riflessioni che si possono considerare come
essenziali e risolutive del rapporto di Moravia con l‟Africa nera. In esse, gli spazi
africani divengono l‟occasione per metafore esistenziali e considerazioni sulla
condizione dell‟uomo. Nella prima lettera, ad esempio, la pista nel deserto è
metafora della vita umana, mentre nella seconda è il valore simbolico del
miraggio ad essere oggetto delle meditazioni dello scrittore. La distanza fra il
disperato che cerca rifugio ed il miraggio, conducono ad una riflessione non solo
sulla vita nel deserto, ma sulla vita in generale. L‟attrazione che questi luoghi
110
esercitano sullo scrittore, quindi, è dovuta anche alla loro dimensione allusiva di
realtà non tangibili e per questo riconducibili a condizioni universali. La
mancanza di “cose” consente di sviluppare relazioni simboliche molto vaste,
perché i segni lasciati dall‟uomo non impongono limiti ai campi di riferimento. In
altre parole, al vuoto umano delle savane e dei deserti, corrisponde la completa
libertà intellettuale, che dà l‟illusione di poter ripartire da zero. Questa possibilità
viene riconosciuta dallo stesso autore che conclude “Oasi come isole,” la quarta
delle lettere, scrivendo: “Così il mondo del Sahara, così morto, così inumano, così
nudo nella realtà quotidiana, si rivela invece, attraverso la storia, come il luogo
privilegiato dell‟immaginazione dello spirito” (LS 95). Il viaggio è percepito
come movimento in luoghi metafisici, che divengono lo spunto per riflessioni
intellettuali: “Oltre alle tracce che l‟esperienza del deserto ha lasciato nel nostro
linguaggio quotidiano […], lo dimostrano soprattutto i continui, irresistibili
slittamenti della nostra mente nella dimensione simbolica, mentre lo
attraversiamo” (LS 68-69).
Si può affermare che, nonostante la dichiarazione iniziale in relazione
all‟abbandono e alla scoperta, Moravia non si è mai completamente abbandonato
aprendosi a tutte le diverse sfaccettature dell‟Africa, allo stesso modo non si
lascia andare nemmeno di fronte al nuovo. Inizialmente aveva paragonato il
proprio modo di viaggiare ad un sogno, ma i sogni sono frutto di un‟attività
mentale irrazionale, mentre lo scrittore ha sempre esercitato un forte controllo
intellettuale sulle proprie esperienze di viaggio, che non si sono mai risolte in una
semplice percezione impressionistica. Le sensazioni suscitate dai luoghi sono
state fatte oggetto di riflessione ed astrazione, ed i luoghi stessi sono divenuti, in
ultima analisi, simboli di una dimensione che non è esclusivamente la loro. La
mediazione messa in atto fra noto ed ignoto è complessa. Moravia si è aperto al
nuovo, cercando il veramente diverso, ma nel momento in cui si è confrontato con
esso, lo ha reso astratto, facendone il mezzo attraverso il quale cercare le “idee
strutturali profonde” che sono proprie dell‟essere umano in generale, non solo in
Africa. Il paesaggio, così come l‟alterità, è cercato e desiderato, ma vissuto in
modo contradditorio. Ritorna ancora una volta la dicotomia fisicità/intellettualità.
111
Al desiderio fisico, che lo spinge ad andare in Africa e a restarci per lunghi
periodi, fa da controparte un forte bisogno di razionalizzare, intellettualizzare ciò
che vive. Questo evidenzia il limite dello scrittore, ovvero la sua incapacità di
superare le barriere che la storia aveva frapposto fra Africa ed Europa. Va
ricordato che il principale motivo per cui l‟incontro/scontro di Moravia con l‟altro
resta per alcuni aspetti sterile è il suo timore di invadere la cultura africana.
Tuttavia, benché vi sia questo limite, è più interessante sottolineare la volontà da
parte dello scrittore di andare oltre i luoghi comuni dell‟Africa e di cercare di
conoscerla veramente, direttamente.
7.
Alberto Moravia e la sua narrativa africana
L‟ambiguità del rapporto di Moravia con l‟Africa, di cui si è fin qui scritto,
ovvero la sua scelta di mantenere una distanza fra sé e una cultura che vuole
mantenere fondamentalmente inconoscibile, si riflette anche nel suo ultimo
romanzo, pubblicato postumo, e l‟unico ad essere ambientato in Africa. La donna
leopardo riprende uno dei temi prediletti di Moravia, quello del rapporto
coniugale. Enzo Siciliano, nella postfazione al romanzo nell‟edizione di Bompiani
del 1991, scrive che questo testo: “Anzi, potrebbe apparire una ripresa e
variazione di quest‟ultimo [L’amore coniugale] spostando l‟asse verso una sfera
di maggiore, inquieta e lirica, enigmaticità” (171). Siciliano coglie appieno
l‟atmosfera che il romanzo comunica, quella di un enigma che nemmeno nelle
ultime pagine del romanzo verrà risolto. Siciliano continua, infatti, mettendo
l‟accento sull‟atipica conclusione di La donna leopardo: “ed è strano in un
narratore come Moravia, che ha sempre tenuto ad un explicit dei suoi romanzi
quanto mai luminoso, di una luce cioè che chiarisse in ogni particolare quanto la
vicenda poteva avere accumulato di ombra e di dubbio” (171).
Di fatto la vicenda accumula, nel suo svolgimento, numerose zone d‟ombra
dai contorni morbosi, benché sia, nelle sue linee generali, piuttosto semplice.
Nora e Lorenzo si recano Gabon per un viaggio di vacanza-lavoro con il
proprietario del giornale per cui lavora Lorenzo, Flavio Colli, e sua moglie Ada.
Fra Nora e Colli, nasce una simpatia che si manifesta ancor prima che i quattro
112
partano, ma che raggiunge un livello platealmente esplicito solo in Africa. Se fra i
due vi sia una relazione che va al di là della complicità e della simpatia e ci sia
anche una relazione amorosa non è mai esplicitato e i due rispettivi coniugi non
sapranno mai la verità, così come non la saprà mai nemmeno il lettore. La vicenda
si concluderà in modo tragico, con la morte per annegamento di Colli in
circostanze ambigue: sua moglie Ada, vedendo che la barca in cui si trovano sta
per affondare si aggrappa a lui facendolo cadere in acqua e causandone la morte.
L‟episodio conclusivo è raccontato in pochissime righe, quasi si trattasse di una
sbrigativa sintesi, e non chiarisce se si sia trattato veramente solo di un
incidente.39
La scelta dell‟Africa per ambientare una vicenda dai contorni così
volutamente non chiari è evidentemente non casuale. L‟Africa non svolge solo la
funzione di scenario, come si intuisce in parte già dal titolo, ma si identifica con il
mistero stesso. Si tratta di un mistero presente fin dal principio, che viene
immediatamente associato al continente ed è potenziato dal fatto che da subito
acquisisce caratteristiche indecifrabili, quasi metafisiche. Nelle prime pagine del
libro Lorenzo cerca di convincere Nora a prendere una decisione definitiva:
andare o no in Africa con lui; ma lei non può decidere a causa del “presentimento
che succederà qualche cosa” (8). Lorenzo cerca di esplicitare questo
presentimento, ma Nora, mettendo subito in evidenza la caratteristica dominante
del suo rapporto con il marito, rimarrà evasiva, riuscendo solo a dire che
“succederà qualche cosa „a causa‟ dell‟Africa” (9), e che “ho il presentimento che
l‟Africa in questo momento, per me avrebbe un‟importanza particolare. Non
sarebbe un viaggio come un altro, ecco” (9). La discussione fra i due continua ed
infine lei ammette che in quel momento della sua vita: “Sento [...] che potrei fare
qualsiasi cosa. E l‟Africa è il luogo appunto in cui me la sentirei di fare qualsiasi
cosa” (9), proseguendo poi con l‟affermazione: “Ma non è la noia che magari mi
39
I critici che si sono occupati di quest‟ultimo romanzo non rilevano nessuna particolare
ambiguità nella morte di Colli. A mio avviso, invece, resta anch‟essa oscura perché Ada, essendo
sua moglie dovrebbe essere a conoscenza del fatto che lui non sa nuotare ma, nonostante questo, si
aggrappa a lui. Questo dubbio sull‟intenzionalità è supportato anche dalle caratteristiche stesse del
rapporto dei due coniugi; Ada prova una morbosa gelosia nei confronti del marito, prova a
lasciarlo ma non ci riesce, ritrovandosi così ad essere vittima consenziente ma infelice di un
rapporto estremamente complesso.
113
farà fare qualsiasi cosa. Insomma sarà l‟Africa ecco, non la noia” (10). Solo al
termine del suo lungo atto d‟accusa nei confronti dell‟Africa, e solo dopo aver
creato attorno ad essa un strano alone di indecifrabile “qualche cosa,” Nora
ammette che il presentimento riguarda lei e la “simpatia” (11) che sente potrebbe
nascere con Colli.
Ancor prima che i protagonisti ci arrivino e ne facciano l‟esperienza,
l‟Africa viene identificata come il luogo dell‟anarchia comportamentale, in cui si
può fare “qualsiasi cosa,” in cui tutto è concesso. Nora sembra aver paura che in
Africa i suoi istinti, così come accade agli animali, prevalgano sulla sua
razionalità. La lunga discussione fra Nora e Lorenzo ha un‟ulteriore funzione:
stabilire quella che Giuseppe Stellardi, nel suo articolo „L‟Africa come metafora
del femminile (e viceversa) ne La donna leopardo di Alberto Moravia,‟ chiama la
“metafora reciproca.” Egli applica questo concetto al rapporto di significati che si
instaura fra Nora e l‟Africa stessa.40 Attraverso una precisissima analisi del testo,
Stellardi dimostra come l‟Africa e Nora siano descritte da aggettivi comuni ed
abbiano addirittura uno sviluppo identico. Entrambe inizialmente conosciute e
quasi familiari, si riveleranno poco a poco sempre più enigmatiche e difficili da
definire, in una parola indecifrabili. L‟avvicinamento dei protagonisti al
continente nero assume le caratteristiche di un vero e proprio percorso simbolico:
dal noto all‟ignoto. Essi si sistemano inizialmente in un albergo dalle
caratteristiche europee, ma man mano che si spingono verso l‟interno del Gabon il
viaggio diventa sempre più difficile, l‟Africa diventa sempre meno nota e quasi
ostile. Allo stesso modo, durante il viaggio, crescerà la distanza fra Nora e
Lorenzo, benché alla fine i due sembrino essere ricongiunti.
L‟analogia fra la donna e l‟Africa, già di origine freudiana, viene resa più
complessa in questo romanzo dalla constatazione che essa non si applica solo ai
due termini “donna” e “Africa” ma è riferibile ad un terzo elemento, quello
dell‟alterità. La donna è il simbolo dell‟alterità assoluta tanto quanto lo è l‟Africa,
40
Stellardi elabora la sua “metafora reciproca” sulla base di una riflessione di Derrida su
Heiddeger. All‟interno dello stesso articolo, infatti, Stellardi chiarisce che la sua metafora
reciproca non è dissimile da quella che Derrida: “indica talvolta con l‟appellativo (un po‟
terroristico) di „metafora catastrofica‟” (74).
114
ed è necessario quindi che esse diventino sempre più misteriose, indecifrabili e
distanti da coloro che invece rimangono ancorati alle proprie strutture culturali.
La metafora reciproca si applica anche all‟alterità: l‟altro è inconoscibile in
quanto “altro” ed è tale proprio perché è inconoscibile. Le costanti dell‟approccio
di Moravia si riflettono anche nel romanzo, l‟incapacità di decifrare i
comportamenti e la distanza, costituiscono il perno su cui egli costruisce tutta la
misteriosa atmosfera in cui la vicenda si sviluppa.
Nora diventa sempre più sfuggente ed i suoi comportamenti sono sempre
meno coerenti agli occhi di Lorenzo, man mano che il loro viaggio verso l‟interno
del Gabon prosegue. L‟Africa, che si presenta inizialmente come rassicurante e
seducente, diviene poi minacciosa e pericolosa, fino ad essere, per Colli, mortale.
Ma l‟Africa non è costituita solo da natura; un aspetto interessante, proprio in
relazione all‟indeterminatezza, è dato dalla funzione degli autoctoni nel romanzo.
La loro presenza è molto limitata, e quando Moravia dà loro voce, stranamente, li
rappresenta come incredibilmente vaghi ed ambigui nelle loro affermazioni. Non
c‟è, in tutto il romanzo, un‟asserzione certa da parte di un africano. Un dialogo fra
Nora, Colli e il ragazzo africano alla guida della barca che li deve portare al
lebbrosario, è particolarmente esemplificativo:
“Ci sono molti lebbrosi?” Domandò Nora incuriosita.
Il ragazzo rispose con sicurezza: “Sì molti.”
“Quanti.”
“Più di cento.”
“Cento lebbrosi in un edificio così piccolo?”
“Oppure dieci.”
Colli si inalberò: “O cento o dieci, bisogna scegliere. Vogliamo dire
una ventina?”
Il ragazzo approvò con fervore: “Sì, ecco, una ventina.” (150-51)
L‟africano è certo di quanto afferma ma al contempo è disposto a ritrattare
immediatamente, come se l‟affermazione precedente non avesse alcuna validità,
come se fosse al contempo vera e falsa. Questo crea un senso di irrequietezza e
quasi insofferenza, sia nel lettore, sia, soprattutto in Colli, il quale invece ha
115
bisogno di certezze. Ma le sicurezze, che nel caso di Colli sono quelle di un uomo
di successo occidentale, non sembrano poter far parte dell‟esperienza africana;
l‟Africa restituisce solo enigmi. D‟altra parte decifrare Nora, l‟Africa, l‟alterità,
significherebbe eliminarle, come fin qui dimostrato per Moravia è invece
fondamentale mantenere la lontananza perché questa possa mantenere la diversità.
Il libro nasce da un‟esperienza autobiografica, Moravia aveva festeggiato in
Africa il capodanno del 1984, come testimoniato dal “Ho incominciato l‟anno in
un supermercato all‟Equatore” (PA 71), e alcune delle situazioni vissute dai
protagonisti del romanzo, per esempio il pic-nic di mezzanotte, sono situazioni
che lo scrittore aveva vissuto in prima persona. Stupisce quindi che Moravia
decida di far pronunciare a Colli alcune riflessioni sull‟Africa che gli
appartengono. La sorpresa è dovuta al fatto che senza dubbio Colli, fra i quattro, è
il personaggio per il quale si è meno propensi a provare empatia. Egli è un uomo
di successo ma senza scrupoli e senza una gran coscienza sociale; i suoi interessi
in Gabon riguardano la costruzione di una strada a causa della quale deve essere
abbattuta parte di una foresta, ma questo non lo disturba affatto. In effetti Colli
incarna piuttosto bene il tipo del colonizzatore, con commenti a sfondo razzista
sugli africani e sul loro modo di lavorare, e la sua convinzione sulla necessità di
portare la civiltà in Africa. Egli sembra essere il meno interessato al luogo e ai
suoi abitanti, nonostante questo, però, è il più ricettivo di quegli elementi che
avevano colpito Moravia, tanto che lo scrittore lo usa come veicolo per le proprie
riflessioni. La notte prima di morire, Colli spiega a Lorenzo che in Europa si sente
protetto dalla storia mentre: “in Africa c‟è il vuoto” (145). Lorenzo non capisce
esattamente a cosa si riferisca Colli e allora quest‟ultimo chiarisce: “In Africa si
vive nel presente, momento per momento, oppure si precipita giù giù,
vertiginosamente fino alla preistoria” (146). La situazione è contraddittoria, colui
che sembra meno disposto ad aprirsi, è quello scelto dall‟autore per dare voce ai
propri pensieri. Forse, però, si tratta di una contraddizione solo apparente. Benché
alcune delle dichiarazioni dell‟imprenditore siano discutibili, egli è l‟unico a
vedere veramente l‟Africa, è il solo che, pur mantenendo la distanza necessaria,
sia veramente curioso.
116
Conclusioni
In questo capitolo, attraverso gli scritti africani di Moravia, si è analizzato
un diverso momento del rapporto con l‟altro, quello immediatamente successivo
alla decolonizzazione. Si è aperto il capitolo sottolineando l‟importanza della
mutata situazione socio-politica africana. Si è voluto mettere l‟accento su questo
punto soprattutto per segnalare la diversa posizione di Moravia rispetto a Casati.
Quest‟ultimo aveva fatto un passo importante verso l‟altro, in primo luogo
scoprendolo e poi instaurando con esso un rapporto positivo, dinamico, fatto di
scambio e non di prevaricazione. Data la rigida struttura ideologica che
caratterizzava il panorama intellettuale di quel periodo, era relativamente
semplice individuare i caratteri di novità nel rapporto con l‟altro che emergono
dal testo di Casati. Con Moravia, invece, ci si trova in una condizione tutt‟altro
che semplice per quanto riguarda la comprensione delle dinamiche dei rapporti fra
etnie diverse. La fine dell‟imperialismo aveva lasciato vacante il ruolo di
dominazione culturale occupato fino a quel momento dall‟ideologia colonialista e,
fra le diverse teorie che cercavano di trovare soluzioni per la nuova situazione in
cui l‟Africa si veniva a trovare, nessuna fu sufficientemente forte da prevalere.
Alberto Moravia, oltre ad essere un esperto viaggiatore era un attento
osservatore degli uomini, ed un intellettuale partecipe delle vicende politiche della
sua epoca, era consapevole delle diverse dinamiche che si stavano sviluppando
nell‟Africa post-coloniale. Egli prova un profondo interesse per quei luoghi e
quelle popolazioni, perché gli suggeriscono l‟idea di primordiale. L‟Africa di cui
Moravia si innamora, infatti, è quella che risveglia in lui la meraviglia estetica per
la bellezza dell‟Africa che non può essere spiegata in alcun modo.
All‟impossibilità di capire e spiegare si rifà anche il rapporto con l‟altro africano,
che Moravia preferisce mantenere su un piano di contatto solo fisico. Il rapporto è
vissuto principalmente sul piano viscerale, in relazione alle emozioni e alle
sensazioni che il continente africano e i suoi abitanti gli trasmettono. Vi è il
desiderio del contatto ma quando esso avviene Moravia si blocca per discrezione
e per non intaccare una cultura che non è la sua.
117
Questo desiderio deriva in primo luogo dal suo bisogno di incontrare la vera
alterità, che sa riconoscere perché sente essere indecifrabile. Per lo scrittore
l‟Africa e gli africani sono l‟assolutamente altro, e per restare tali è necessario che
non vi sia uno scambio con essi. L‟unica forma di conoscenza che egli si concede
è proprio la presa di contatto fisica che però non vuole sviluppare in nessun modo,
ma che poi verrà metabolizzata in quelle riflessioni estremamente astratte e
metafisiche sulla condizione umana provocate dal paesaggio africano.
Terzo capitolo
Per un verso si respira dunque la grande identità
dell‟avventura terrena, per un altro si capisce
come sia legittimo vedere cose e vita con occhi
del tutto diversi dai nostri. Percezioni ambedue
importanti, ora che il mondo sta diventando
sempre più piccolo di spazi, sempre più vasto di
popolo. (Fosco Maraini, “Prefazione,” Ore
giapponesi)
Gli ultimi trenta anni del Novecento, in Italia, hanno visto lo sviluppo di un
importante fenomeno economico e culturale: il turismo. Da nazione percorsa in
ogni direzione da visitatori provenienti da tutto il mondo, l‟Italia diviene paese
esportatore di turisti. Come è oramai noto, l‟aumentata disponibilità economica e
la facilità degli spostamenti ha consentito agli italiani di raggiungere luoghi
sempre più lontani, tanto che, alla fine del Novecento fare vacanze anche in
luoghi esotici è diventata esperienza piuttosto normale. Proprio la ricerca di
esotismo, sul quale si avrà modo di ritornare più diffusamente verso la fine di
questo capitolo, ha reso l‟Africa una delle mete imprescindibili. Alla fine del XX
secolo la presenza italiana in Africa si intensifica raggiungendo destinazioni
sempre più diversificate41 ma muovendosi secondo modalità che sono, invece,
sempre più uniformate: quelle del turismo di massa. A suscitare l‟interesse e la
curiosità dei turisti per l‟Africa, sono la magnificenza dei suoi siti archeologici, la
bellezza della natura e il fascino di culture che vengono percepite come ancora
per buona parte sconosciute.42 Inoltre, le si attribuisce tuttora un‟atmosfera da
“mondo incontaminato,” benché non sia più tale ormai da molti anni. Nel passato
il viaggio nel continente africano aveva rappresentato un‟esperienza esclusiva, le
41
Benché a titolo solo indicativo va segnalato che fra il 2003 ed il 2006 nella sola Africa
settentrionale la presenza di turisti italiani è aumentata del 20%. La meta prediletta da questi ultimi
resta il Mar Rosso, ma anche l‟Africa occidentale, ed in particolare il Marocco, sono state fra le
destinazioni scelte più frequentate.
42
Va ricordata la precisazione terminologica operata nell‟introduzione: Africa designa un
continente, quindi un insieme eterogeneo di luoghi, culture, situazioni sociali e politiche. Parlare
di Africa, come se si trattasse di un concetto unitario è certamente riduttivo. Tuttavia si tratta di
una semplificazione necessaria: la frammentarietà che contraddistingue l‟Africa non consente una
facile resa delle realtà che la compongono. Inoltre, questo studio si occupa dell‟incontro e della
relazione con l‟altro. Questo‟ultimo è inteso come il diverso da sé, quindi ha una connotazione
ampia che non si rivolge solo ad una specifica etnia o gruppo.
119
cui caratteristiche, come era stato per Gaetano Casati, potevano rimandare
direttamente alla tradizione dei viaggi d‟esplorazione. Verso la metà del
Novecento l‟Africa diviene meta turistica, ma si tratta, anche in questo caso, di un
viaggio elitario, un tipo di turismo non facilmente accessibile. I viaggi di Alberto
Moravia, per esempio, non solo prevedevano, a volte, dei compagni d‟eccezione,
come era stato nel caso di Pier Paolo Pasolini e Maria Callas, ma si svolgevano
con modalità tali da rendere il viaggio stesso un momento eccezionale. Come
visto nel secondo capitolo, lo scrittore si muoveva autonomamente scegliendo
tempi e modi del proprio itinerario, perché questa indipendenza gli permetteva di
vivere il viaggio come un‟esperienza culturalmente significativa. Lo scrittore,
inoltre, sceglie di muoversi indipendentemente per evitare le gite organizzate e i
bus turistici, situazione che egli non a torto considera come fenomeno tipicamente
consumistico.
Già con Moravia, quindi, si hanno i primi segnali di un turismo organizzato
in Africa, ma solo alla fine del secolo questo fenomeno assumerà dimensioni
veramente importanti. Fra la fine del Novecento e l‟inizio del Duemila, benché la
motivazione del viaggio resti praticamente immutata rispetto agli anni sessanta e
settanta, viene meno proprio l‟esclusività che aveva, fino a quel momento,
caratterizzato gli spostamenti verso il continente africano. Il viaggio in Africa non
è più percepito come eccezionale, ma, al contrario, è diventato un‟esperienza
piuttosto comune. Fra i turisti recatisi in vacanza in Africa c‟è anche lo scrittore
Gianni Celati, che nel 1997 accompagnò il regista francese Jean Talon in
Mauritania, Senegal e Mali durante un sopraluogo per un documentario sui
metodi di guarigione dei Dogon.43
Sul piano narrativo, nel passato scrivere dell‟Africa significava anche
descrivere l‟ignoto, il luogo in cui si trovavano gli animali più mostruosi e gli
esseri umani più strani, in altre parole l‟Africa era il continente misterioso per
antonomasia. Se nella tradizione letteraria le meraviglie descritte dai viaggiatori
43
Si erano già trovati numerosi riferimenti a questa tribù nei libri di Alberto Moravia; quest'ultimo
è affascinato dalla particolare cosmogonia che i Dogon erano riusciti a concettualizzare. Celati,
invece, che almeno in apparenza è molto meno interessato di Moravia alle sistemazioni, non si
sofferma a lungo su essa, ma vi accenna solo indirettamente ed in riferimento ad un libro
dell'antropologo Marcel Griaule.
120
medioevali erano a poco a poco sfumate lungo i secoli, e l‟oriente aveva acquisito
connotazioni più realistiche, l‟Africa, invece, rimane sempre caratterizzata da un
alone di mistero che la fa percepire come inconoscibile. In epoca moderna e
contemporanea si assiste però ad una inversione di tendenza. Le relazioni dei
viaggi in quelle zone, fra cui ritroviamo anche Dieci anni in Equatoria, erano
servite anche a demolire gli stereotipi negativi che venivano associati a quei
luoghi, e che vedevano nel cannibalismo e nella magia nera i loro maggiori punti
di forza. Contemporaneamente, quei testi facevano filtrare, anche se con i limiti
ideologici del caso, notizie ed informazioni sulle civiltà che vivevano in quei
luoghi e, fermo restando la loro diversità rispetto alla cultura europea, esse
cominciavano ad assumere caratteristiche meno spaventose. Al tradizionale hic
sunt leones si sostituisce una più precisa e approfondita mappa dei luoghi, a cui
corrisponde anche una aumentata conoscenza delle popolazioni e dei loro usi e
costumi. Il processo che porterà ad un approccio meno diffidente nei confronti
della cultura africana sarà molto lungo e per alcuni versi non è ancora stato
completato.44 Ciononostante si può affermare che nel Novecento, soprattutto nella
sua seconda metà, si dipana l‟alone di mistero attorno all‟Africa. La sua geografia
è ormai completamente nota, le sue culture sono state, e sono tuttora, oggetto di
studio e approfondimento, ma soprattutto le sue relazioni con altri paesi sono
ormai parte della quotidianità.
In questo quadro si inserisce il testo di Gianni Celati, il reciproco
avvicinamento ha raggiunto un livello tale che oggi la distanza fra le culture
africane e quella occidentale, sembra ridotta al punto che, per alcuni aspetti, è
lecito dubitare che esistano ancora delle differenze. Come affermato nel capitolo
precedente, per Moravia individuare l‟alterità era necessario per poter confermare
la possibilità della diversità. Quest‟ultima aveva valore per il fatto stesso di essere
tale; spiegarla, decodificarla, ma anche avvicinarsi eccessivamente ad essa,
avrebbe costituito un‟appropriazione culturale e quindi indirettamente anche un
atto di limitazione, se non addirittura di negazione, della cultura locale. Di seguito
44
Peter Pels, in The Magic of Africa: Reflections on a Western Commonplace, ad esempio,
dimostra che sono ancora ampiamente diffusi nella mentalità occidentale i luoghi comuni
specificatamente legati alla magia africana.
121
si vedrà come alla fine del XX secolo, invece, il confine fra ciò che si percepisce
come proprio e ciò che si considera diverso, sia sempre più labile.
Avventure in Africa di Gianni Celati prosegue e conclude il discorso sulla
relazione con l‟alterità africana che è stato fin qui esaminato attraverso i testi di
Gaetano Casati, Riccardo Bacchelli e Alberto Moravia. In particolare, in questo
capitolo si vedrà come in epoca contemporanea il rapporto con l‟altro sia investito
di caratteristiche quasi paradossali. In Africa Celati si trova immerso in un mondo
in cui risulta più facile riconoscere comportamenti e strutture tipicamente
occidentali, piuttosto che trovare la reale diversità. La consapevolezza di una
distanza è ovvia, ma essa non è più così immediata o scontata come lo era in
precedenza. L‟approccio si sviluppa quindi in relazione alla volontà di
comprendere in primo luogo a quale livello si manifesti la reale diversità dell‟altro
in un mondo che, almeno in alcune delle sue strutture più superficiali, sembra
annullare le differenze. La percezione di uno scarto culturale che si va riducendo
sempre più è, per Celati, motivo sufficiente per voler capire dove è situata la
differenza, al di là delle strutture omogeneizzanti della società contemporanea.
1.
Gianni Celati
Gianni Celati ha spesso utilizzato le proprie esperienze autobiografiche
come spunto narrativo. Era stato così fin dai primi romanzi, Lunario del paradiso
e Le avventure di Guizzardi,45 ma nel caso del suo recente libro di viaggio,
Avventure in Africa, l‟esperienza personale non è solo lo spunto, ma l‟oggetto
stesso della narrazione.46 In questa sede ci si occuperà specificatamente di
quest‟ultimo volume, pubblicato nel 1997 in seguito ad un viaggio fatto
nell‟Africa orientale con Jean Talon. Il volume riproduce i taccuini compilati
dallo scrittore in Africa. Pur dandoli alle stampe, Celati non riorganizza gli scritti
in capitoli o in sezioni, e precisa: “Pubblico i diari di viaggio come li ho scritti per
strada, con revisioni e adattamenti per renderli leggibili” (5). È lecito dedurre,
45
Su questo punto vedi anche Rebecca West, The Craft of Everyday Storytelling (221).
Lo stesso avviene in Verso la foce volume pubblicato nel 1989, in cui l'autore racconta un
viaggio da lui veramente compiuto nelle campagne della valle padana. A mia conoscenza questi
sono gli unici volumi in cui l'autore racconta direttamente, ovvero senza romanzarla, la propria
esperienza di viaggio.
46
122
quindi, che quanto si legge nel libro è espressione quasi diretta di ciò che l‟autore
ha visto, pensato e fatto durante il viaggio. I suoi taccuini seguono
scrupolosamente l‟itinerario seguito durante la vacanza africana e registrano, con
uno stile apparentemente semplice, le avventure, le disavventure e le impressioni
di un turista atipico. Avventure in Africa si inserisce agevolmente in questo
contesto, non solo per uniformità tematica, ma per l‟originalità di prospettiva che
anche Celati, come i due autori precedentemente trattati, dimostra in relazione alla
descrizione della realtà africana di cui ha fatto l‟esperienza in prima persona. Lo
scrittore, fin dalle primissime prove narrative, aveva dimostrato di amare la
sperimentazione stilistica e linguistica, che non era mai fine a se stessa perché vi
era, a determinarla, la volontà di raccontare il mondo in modo inconsueto, a volte
addirittura grottesco. Robert Lumely, in “Gianni Celati. Fiction to Believe in.”
evidenzia il suo “engagement with non-literary language. Much of his writing is
unusual for its extraordinary closeness to form of spoken Italian” (44). In
Avventure in Africa non si trova nessun particolare sperimentalismo, ma la lingua
è certo quella della quotidianità, spesso utilizzando proprio forme che sono vicine
al parlato: “si sbudellavano di ilarità gli indigeni a sentire il bianco balengo che
vuole andare a piedi attraverso la brousse” (119). A rafforzare questa scelta
linguistica è, anche in questo caso, una prospettiva, un‟angolatura dello sguardo
sulla realtà, che resta insolita ed originale. La sua prosa è perciò ingannevolmente
semplice, in quanto alla leggerezza e alla fluidità della lingua fa da contropartita
una densità del contenuto che spesso sfora nelle considerazioni filosofeggianti.
Ma queste ultime restano sempre nell‟ambito di una riflessione personale, anche
quando ad esserne l‟oggetto sono la povertà degli africani o la perdita della loro
cultura a favore di quella (pseudo)-americana. Se, come ha scritto Silvana
Tamiozzo Goldmann, Avventure in Africa è “un romanzo filosofico,” quelli di
Celati non sono mai tentativi di sistemazione teorica sulla generale condizione
dell‟Africa post-coloniale.47 Si tratta, piuttosto, di osservazioni personali anche
nel senso letterale dell‟espressione, in quanto scaturiscono proprio dal vedere
47
Silvana Tamiozzo Goldmann, “Scrittori contemporanei, interviste a Sandra Petrignani, Giovanni
Roboni, Gianni Celati,” Leggiadre donne: Novella e racconto breve in Italia (Venezia: Marsilio,
2000) 319.
123
persone e situazioni sulle quali egli elabora le proprie considerazioni. Il romanzo
si sviluppa in modo quasi impressionistico, in cui la trascrizione delle cose viste e
vissute non deriva necessariamente da una presa di posizione ideologica. Secondo
Charles Klopp, lo scrittore non solo non prende posizione, ma evita addirittura di
sbilanciarsi esprimendo opinioni personali: “he tells us nothing about whatever
feelings he may have for the way they make a living in these circumstances of
post-colonialism” (340).48 Si concorda solo parzialmente con quanto affermato da
Klopp, in quanto quello che Celati riesce ad evitare sono i giudizi morali, ma non
la rielaborazione personale di ciò che vede e vive. Perciò, se davanti ad una scena
stranamente frequente, visto che si trova in Africa, si limita a trascrivere: “la
musica del registratore francamente fastidiosa. I giovani rapati come i ragazzi del
ghetto americano, uno con le trecce da rasta, stavano lì svaccati sui panchetti”
(60); egli non evita però di trasmettere tutta la drammaticità della situazione del
Ruanda quando, attraverso uno schermo televisivo, assiste alla “mancata
civilizzazione delle tenebre africane” (15).
Anche con Avventure in Africa, quindi, si è applicato il criterio che aveva
portato a scegliere i libri di Casati e Moravia, optando anche in questo caso per un
testo che restituisce un‟immagine dell‟Africa che non è mai banale o stereotipata
e in cui l‟incontro con l‟altro è un momento fondamentale all‟interno della più
ampia esperienza del viaggio. Si è voluto inserire Celati in questo studio
soprattutto in funzione della sua particolare sensibilità, per l‟inusuale punto di
vista sulla realtà e sulla quotidianità africana che il suo libro riesce a trasmettere.
Interessa rilevare, in relazione allo svolgimento della problematica dell‟alterità,
quella che è probabilmente una della cause determinanti della sua originale
rappresentazione dell‟Africa, ovvero il fatto che la sua prospettiva culturale non è
legata esclusivamente all‟Italia. Lo scrittore, infatti, ha vissuto per alcuni anni
negli Stati Uniti e, a giudicare da quanto scrive proprio in Avventure in Africa, ha
vissuto in Gran Bretagna abbastanza a lungo da sentire quei luoghi come suoi.
Parlando di una guida, infatti, egli scrive “mi piacerebbe che venisse in Inghilterra
per portarlo a camminare nei miei posti” (84) (corsivo mio). Celati non si
48
Charles Klopp, Buster Keaton Goes to Africa.
124
riconosce in un unico paese, ma è legato ad una realtà vasta e dai confini non bene
definibili, realtà più facilmente identificabile come occidentale piuttosto che
unicamente italiana. In questo senso, da un lato egli perpetra l‟immagine
tradizionale dell‟uomo di cultura in Italia, il quale fin dall‟umanesimo è stato
caratterizzato dal fatto di sentirsi più europeo che esclusivamente italiano;
dall‟altro rappresenta pienamente la figura dell‟intellettuale contemporaneo, che,
in virtù delle caratteristiche multi-etniche che la società occidentale ha acquisito,
deve adottare un‟ottica cosmopolita. Questa prospettiva molto ampia, di scrittore
abituato a vivere e a relazionarsi con realtà dissimili, è importante perché anche in
questo caso a guidare la discussione sarà l‟analisi di come viene vissuto, descritto
ed elaborato l‟incontro con l‟altro. Non si guarderà alla biografia dell‟autore o alle
sue esperienze personali in funzione di Avventure in Africa, ad esse si è fatto
riferimento solo in quanto costitutive della sua forma mentis, e perciò presupposti
importanti nel determinare l‟approccio all‟alterità. Nel caso di Celati, infatti, il
rapporto con culture diverse dalla propria non avviene solo in circostanze
eccezionali, come poteva essere stato per Casati o Moravia, che dovevano uscire
dai confini nazionali per trovare una cultura diversa. In parte grazie alle sue
esperienze fuori Italia, in parte per i recenti flussi migratori, la convivenza con
altre forme di civiltà, è diventata parte della sua quotidianità. La diversità, quindi,
non è più una scoperta da fare, ma è qualche cosa di immanente da comprendere.
Nel paragrafo precedente si è spesso, e volutamente, fatto uso del verbo
“dovere” in riferimento al rapporto con la diversità, per due motivi, uno oggettivo
o derivato da un dato di fatto, l‟altro più astrattamente filosofico e che rimanda ai
criteri su cui si costruisce la relazione con l‟alterità. Anthony Appiah in
Cosmopolitanism prende cura di giustificare la necessità di fare dell‟ottica
cosmopolita un valore positivo. L‟introduzione, tuttavia, conferisce a tutto il
saggio un‟impronta di concretezza, in quanto si conclude con una presa d‟atto
tanto pragmatica quanto inesorabile: “The world is getting more crowded: in the
next half a century the population of our once foraging species will approach nine
billion. Depending on the circumstances, conversation across boundaries can be
delightful, or just vexing: what they mainly are, though, is inevitable” (xxi)
125
(corsivo mio). La società attuale ma ancora di più quella di un futuro prossimo,
non consente un approccio che perpetri chiusure. Il confronto con culture diverse
non solo è auspicabile, come giustamente dimostra Appiah, ma è anche, e
soprattutto, inevitabile. In particolare, in riferimento alla società italiana,49 negli
ultimi decenni la popolazione si è arricchita di diverse etnie, tanto che oggi è
normale riferirsi ad essa come ad una società multietnica. In una collettività con
tali caratteristiche è di fatto inevitabile il rapporto quotidiano con l‟alterità.
L‟incontro con l‟altro in questo contesto, ovvero in una relazione che si svolge nel
“giorno per giorno” necessariamente assume una dimensione etica. Questo
rimanda al secondo motivo per cui si è fatto uso del concetto di „dovere‟ quando
si prenda in considerazione il rapporto con l‟altro. L‟argomentazione teorica
completa le ragioni per cui l‟approccio cosmopolita sta diventando sempre più
un‟esigenza piuttosto che una scelta. Filosofi quali Lévinas e Ricoeur hanno
elaborato un‟etica che si fonda proprio sulla relazione con l‟alterità. In particolare
per Lévinas la soggettività si scopre proprio grazie al rapporto con l‟altro, benché
questo confermi l‟inacessibilità dell‟alterità. Uno dei motivi guida dell‟etica di
Lévinas, è proprio la necessità di una relazione in cui viene mantenuta la
differenza, ma in cui si vuole ridurre la distanza rispetto all‟altro da sé. L‟utilizzo
del verbo dovere, si legittima quindi perché nella contemporaneità non si può
escludersi dalla relazione con il diverso; inoltre, è proprio anche grazie a questo
incontro che il soggetto si definisce. Su questi concetti si avrà modo di ritornare
fra non molto, quando si guarderà più da vicino alla relazione di Celati con l‟altro
africano. Come si vedrà, la consapevolezza, in Celati, che il rapporto con la
diversità sta diventando uno dei tratti costitutivi delle società occidentali, e
contemporaneamente la sua esperienza di vita vissuta in società multiculturali,
avrà una grande influenza nel definire le modalità con cui avviene
l‟avvicinamento alla cultura africana.
49
Si è voluto fare riferimento alla crescente componente multietnica in particolare in Italia solo in
quanto l‟autore trattato è italiano; lo stesso fenomeno, però, pertiene alla maggior parte delle
società occidentali.
126
2.
Un’importante distinzione
Prima di affrontare la tematica dell‟alterità in Avventure in Africa, occorre
fare una precisazione sul piano terminologico, distinguendo fra „viaggiatore‟ e
„turista.‟ Essendo il turismo uno dei principali cardini tematici attorno ai quali si
svolge il libro di Celati, è utile soffermarcisi brevemente per chiarire alcune
caratteristiche di un fenomeno al quale si farà spesso riferimento nel corso della
discussione. Inoltre, questa distinzione segna una continuità rispetto ai capitoli
precedenti in quanto riprende il distinguo fatto in relazione ai modi in cui il
viaggio
può
essere
intrapreso,
modalità
che
risultano
determinanti
nell‟atteggiamento mentale verso ciò che è sconosciuto. La distinzione fra turista
e viaggiatore è un‟ulteriore declinazione del paradigma istituito inizialmente e che
si è ripreso poi lungo i diversi capitoli attraverso le figure di Marco Polo e
Cristoforo Colombo, l‟opposizione fra viaggiare verso o attraverso, viaggiare o
spostarsi. Qui la stessa antitesi si ripresenta; Celati usa termini diversi, più adatti
alla situazione contemporanea, ma il concetto di base rimane invariato.
Etimologicamente, il turista è colui che fa un tour, un giro. Nel concetto di
tour è strutturale l‟idea del ritorno; il giro, infatti, è un movimento circolare che
prevede un‟andata ed un ritorno. Ancora oggi un turista è colui che si reca in un
luogo per un periodo di tempo limitato, sapendo fin dal giorno della partenza che
al termine del viaggio ritornerà a casa. Storicamente il turismo è una pratica dalla
valenza eminentemente culturale. Il gran tour, antesignano dell‟attuale turismo,
aveva un ruolo molto importante nell‟educazione dei giovani europei di estrazione
aristocratica o alto-borghese del XVIII secolo, di conseguenza le mete non erano
casuali, ma si trattava di nazioni considerate particolarmente ricche sul piano
artistico e culturale quali, ad esempio, l‟Italia, la Grecia e la Francia. Il turismo
era quindi inteso come un momento formativo ed educativo della persona. In
epoca contemporanea, invece, il termine ha assunto una connotazione diversa,
identificandosi più semplicemente con un periodo di vacanza, indipendentemente
dal luogo in cui si decida di trascorrerla. Che nella contemporaneità sia venuto
meno l‟aspetto intellettualmente formativo di questa attività, è reso palese anche
dal fatto che il “turismo culturale” è solo una delle sottocategorie in cui sono
127
organizzati i tipi di vacanza praticabili. La connotazione parzialmente negativa
che si vede a volte associata al termine, deriva in primo luogo dalla perdita della
componente culturale che in precedenza era costitutiva del viaggio, ma in parte
anche dal fatto che il turismo è diventato un normale bene di consumo. Nelle
modalità in cui si svolge oggi, quindi, non è più necessariamente un momento di
crescita culturale, ed essendo divenuto fenomeno tipico della società
consumistica, è spesso considerato interessante più per i suoi risvolti economici
che per quelli culturali.
Concettualizzare la differenza fra viaggiatore e turista è piuttosto complesso,
essendo difficile dare un‟univoca definizione delle categorie. Risulta più agevole
descriverle che definirle. Alessandro Villamira, studioso del fenomeno del
turismo, in Psicologia del viaggio e del turismo afferma che la distinzione
avviene principalmente in base ad elementi estrinsechi, ovvero che non
pertengono al viaggio in senso pratico; fra essi, ad essere determinante è
soprattutto l‟atteggiamento mentale nei confronti del luogo e delle popolazioni
visitate. Più precisamente al viaggiatore, a differenza del turista, si riconosce un
approccio più interessato ed aperto. Chi viaggia, quindi, vuole soprattutto
conoscere, non solo vedere, come se si trattasse di uno spettacolo da subire
passivamente. Inoltre il viaggiatore, pur avendo un itinerario, non ha percorsi
fissi, come accade spesso nel caso dei turisti, ma si sposta in modo elastico,
essendo disposto a fare cambiamenti o deroghe. Un‟ulteriore prerogativa del
viaggiatore, direttamente collegata all‟elasticità dei movimenti, è quella di
muoversi preferibilmente in gruppi molto ristretti, in genere con persone abituate
a viaggiare. Il viaggiatore odierno è certamente l‟ideale discendente di chi faceva
il gran tour nel 1700, cercando nel viaggio soprattutto la realizzazione delle
proprie aspettative culturali. Un altro fattore importante nel determinare la
differenza fra turista e viaggiatore è il tempo, mentre il primo si sposta
generalmente per periodi piuttosto brevi, il viaggiatore in genere si muove su un
lasso di tempo abbastanza lungo. Questa preferenza è chiaramente motivata dallo
stesso principio che anima il tour, spostarsi per una settimana o due permette di
vedere, ma non consente di approfondire la conoscenza. Per concludere si può
128
dire che, in generale, il viaggiatore è visto come colui che è in grado di instaurare
una relazione più profonda con il luogo visitato e le persone incontrate. La breve
distinzione qui proposta non vuole essere definiva né esaustiva, non essendo
questo uno studio sociologico, essa vuole rispondere essenzialmente al bisogno di
segnalare almeno alcune delle basilari differenze fra le due figure. Inoltre, queste
due categorie non sono inderogabili; ci sono sovrapposizioni e commistioni, un
turista può diventare un viaggiatore, e viceversa un viaggiatore può concedersi
momenti di turismo.
La distinzione fra viaggiatore e turista, inoltre, permette di riprendere quello
schema teorico che ha fin qui guidato la discussione, e che è stato esemplificato,
di volta in volta, con termini diversi: viaggiare verso o attraverso, spostarsi o
viaggiare. Nel primo capitolo si era affermato che uno degli aspetti più
interessanti della letteratura di viaggio, è dato dal fatto che può essere letta nella
prospettiva di una ridefinizione delle strutture intellettuali di chi compie il
viaggio. Mutuando un‟espressione di Trinh T. Minh-ha, si affermava che ogni
spostamento comporta dei mutamenti nelle “linee di confine” culturali del
viaggiatore. Quest‟ultimo, si era affermato, trovandosi di fronte a realtà nuove,
deve attuare una mediazione, che è in prima istanza di carattere cognitivo.
Quando il nuovo incontrato durante il viaggio è veramente tale, infatti, diventa
parte del bagaglio esperienziale e cognitivo del viaggiatore, ridefinendo la sua
percezione del reale. Era stato così per tutti i viaggiatori fin qui incontrati, anche
se con esiti diversi. Basandosi sulle esperienze di Marco Polo e Cristoforo
Colombo, che si considerano gli archetipi di due opposti modi di concepire il
viaggio e di porsi di fronte al nuovo, si era guardato a come Casati e Moravia
avessero viaggiato e si fossero relazionati all‟ignoto incontrato durante i loro
spostamenti. Per Casati la diversità culturale era diventata parte integrante della
sua esplorazione dell‟Africa e aveva imparato a convivere con la cultura africana
e per alcuni aspetti l‟aveva fatta propria. Moravia si accontentava invece di poter
riconoscere la differenza, identificandola come ancora possibile, astenendosi però
dal cercare una relazione più profonda per non correre il rischio di eliminare lo
scarto culturale. In entrambi i casi a guidare i due uomini era stato l‟interesse di
129
fronte ad una forma di civiltà molto diversa dalla propria. Nel caso di Celati la
mediazione fra noto ed ignoto, ovvero fra una cultura che si considera propria e
una civiltà diversa, sembra ridursi ad uno scarto minimo. L‟Africa che si presenta
al visitatore è già nota sotto alcuni aspetti, in parte perché era stata studiata prima
di partire, in parte, cosa più rilevante, perché vi si possono riconoscere alcuni
modelli culturali occidentali. Gli effetti della globalizzazione, che produce una
cultura che sembra divenire monocorde, avranno un posto rilevante nel libro di
Celati, nel quale non mancheranno anche alcune delusioni dovute proprio alla
mancanza di differenze.
Come ha notato anche Charles Klopp in Buster Keaton Goes to Africa,
ancor prima di andare nel continente africano e scrivere Avventure in Africa,
Celati aveva dimostrato interesse per il fenomeno del turismo. La sua attenzione
era rivolta agli italiani che vanno all‟estero, ma anche ai turisti stranieri che
vengono in Italia. Egli evidenziava le potenzialità del turismo proprio sul piano
della comunicazione, caratterizzandolo, in ultima analisi, come un momento
positivo. In Quattro novelle sulla apparenze, per esempio, il protagonista Baratto
alienato e svuotato dalla vita che conduce decide di non parlare più. Durante un
viaggio in moto, egli è incuriosito da un gruppo di turisti giapponesi e americani,
prima li segue, poi si fa fotografare con loro ed infine sarà proprio con queste
persone sconosciute che parlano lingue completamente diverse dalla sua che
riuscirà ad avere una comunicazione. Baratto finisce per sentirsi completamente a
suo agio: “Si direbbe che lui abbia finalmente trovato il suo popolo, e che si senta
simile a quegli stranieri condotti in giro a branchi […], persi nel grande mistero
turistico del mondo” (27). Dopo qualche giorno dal rientro dal viaggio, durante il
sonno, il protagonista ricomincerà a parlare.50 Nella novella il turismo è uno
spettacolo a cui si può assistere; Baratto non segue la comitiva per vedere luoghi o
monumenti, ma per visitare una strana meta, i turisti stessi. Questi ultimi sono
tutt‟altro che restii di fronte alla curiosità del protagonista, e dimostrando una
grande apertura nei suoi confronti, dopo averlo invitato ad unirsi a loro, saranno
50
La novella „Baratto‟ meriterebbe una trattazione a sé. Qui, tuttavia, si vuole semplicemente
sottolineare la presenza della tematica del turismo senza offrire interpretazioni o soffermarsi su
altre problematiche.
130
di fatto gli unici a cercare un mezzo per comunicare con lui. I turisti insomma si
trovano in una condizione anomala ma positiva, fuori dalla propria patria e dalla
propria quotidianità riescono ad instaurare rapporti con altre persone che in una
condizione normale non si attuerebbero. Il turismo, almeno in questo caso, offre
una possibilità di comunicazione e scambio, di apertura e conoscenza dell‟altro.
Lo stesso interesse nei confronti del fenomeno turistico, è presente anche in
Avventure in Africa, dove il protagonista, che come vedremo, sarà in alcuni casi
turista suo malgrado, osserva sé e quelli che si trovano nella sua stessa condizione
con uno sguardo curioso ma anche estremamente ironico. Anche per Celati
viaggiatore, quindi, il turismo è un fenomeno da osservare e studiare.
3.
Gianni Celati e l’Africa contemporanea: l’esperienza della complessità
Nei due capitoli precedenti le esperienze di Gaetano Casati e Alberto
Moravia, avevano offerto lo spunto per fare indirettamente luce anche sui
cambiamenti avvenuti nella realtà africana. Alla fine del XIX secolo il continente
africano era un territorio ancora in parte inesplorato, sede di guerre per il possesso
territoriale da parte degli europei e le cui forme di civiltà e cultura erano ancora
oscure. Queste ultime saranno pian piano rese note solo più tardi; come visto nel
capitolo su Gaetano Casati, infatti, erano in pieno sviluppo in quegli anni i field
work degli antropologi e degli etnografi in quelle zone. Nella metà del XX secolo,
quando lo scrittore Alberto Moravia vi si reca, l‟Africa stata vivendo il processo
di decolonizzazione politica. Se geograficamente il continente era oramai noto,
sul piano culturale restava il luogo in cui era ancora possibile trovare il primitivo
e poter essere testimoni di un mondo diverso da quello occidentale. Gianni Celati
chiude idealmente questo percorso raccontando l‟Africa contemporanea. L‟Africa
che Celati conoscerà non è molto diversa da quella che aveva visto Moravia, ma,
benché anche lui ritrovi le contraddizioni legate alla decolonizzazione, si
aggiungono, nel suo caso, le anomalie economiche dovute alla globalizzazione. Il
sostantivo globalizzazione, pur nella consapevolezza di quanto sia oggi abusato,
viene utilizzato in questa sede nella sua accezione più comune, non facendo
perciò riferimento unicamente alla strategia economica originariamente indicata
131
con questo nome. Con esso si intende piuttosto il processo di uniformazione
economica e culturale che caratterizza, almeno ad un livello superficiale, le
società contemporanee. Celati assiste alla paradossale situazione dell‟Africa, la
quale si sta occidentalizzando sempre più, mantenendo però una situazione
economica di estrema indigenza. Moravia aveva ipotizzato per il continente
africano un futuro di prosperità economica grazie alla tecnologia, ma la realtà a
cui Celati assiste in Mauritania, nel Mali o in Senegal, dimostra che né la
decolonizzazione né la tecnologia hanno apportato il benessere auspicato.
Il libro di Celati sull‟Africa si inserisce in un contesto ideologico che per
alcuni versi è simile a quello di Moravia. Manca, anche nel suo caso, un discorso
univoco sull‟Africa, quindi il suo testo non può essere letto nell‟ottica di
adeguamento o allontanamento rispetto ad un‟ideologia egemone. Il contesto
storico in cui si inserisce Avventure in Africa fornisce però alcuni elementi
inderogabili in ogni discorso sull‟Africa: la situazione economica dei paesi del
“Terzo Mondo,” e la progressiva occidentalizzazione della cultura. A questi due
importanti temi lo scrittore farà spesso riferimento in modo anche polemico.
Celati non prende spunto dalla realtà africana per trarne considerazioni politiche o
generalizzazioni culturali; egli non si sofferma troppo sulla presenza di contrasti
economici i quali, a ben vedere, non aggiungono niente di veramente nuovo alla
sua esperienza di viaggio: “Che qui non esista più un regime coloniale forse è solo
un‟astrazione come tante altre, che comunque poco conta nella vicenda tra
visitatori bianchi e popolazione nera” (19). Nel suo caso, quindi, il prendere
coscienza delle particolari dinamiche economiche del paese visitato non
costituisce un momento significativo, soprattutto in questo caso, dove esse
ricalcano realtà ormai molto ben conosciute, che sono sia quella coloniale del
passato, ma anche quella occidentale che sta sempre più prendendo piede in
Africa. Gli sembrano molto più rilevanti, invece, le conseguenze di tali disparità e
contraddizioni sulla vita quotidiana delle popolazioni del luogo. La complessità
dell‟Africa contemporanea è ben riassunta in un breve colpo d‟occhio dalla
spiaggia:
132
un quadro della situazione da questa parti ci sta bene. Il turista rosso
come un gambero di sole africano va a vedere il museo degli schiavi
sull‟isola di Gorée, magari è anche contento che non esista più la tratta
degli schiavi, ma poi uscendo incontra uno come Zorro che lo
intontisce con la sua tiritera fissa finché non gli cava due palanche di
tasca, mentre qui sulla spiaggia i bianchi si comprano i neri, e vedi lo
sciancato con il negretto, l‟anziana europea col giovane africano, tutte
le promiscuità a pagamento in pronta offerta. Niente scappa al traffico
di carne umana tra bianchi e neri, ma io sono rimasto a corto di giudizi
morali. (139)
Di fronte ad un contesto che presenta questo tipo di complessità, lo scrittore non
può che limitarsi a descriverla. Celati restituisce un‟immagine dell‟Africa e degli
africani, che è multi sfaccettata e che di conseguenza rifiuta qualsiasi
semplificazione. L‟interesse del suo testo deriva proprio da questo, perché evita
banalizzazioni culturali, luoghi comuni e non nasconde le contraddizioni con cui
il viaggiatore contemporaneo si deve confrontare.
Ad esempio, dopo aver assistito al raggiro da parte di una guida africana ai
danni di un collega, costretto così a perdere l‟intero guadagno della giornata,
scrive:
Mi vengono pensieri così poco edificanti, che sgonfierebbero anche il
celebre scrittore che cercava l‟ispirazione politica nel terzo mondo. Il
bianco è un mammifero destinato all‟incessante assalto di piccole
menadi nere, ma spesso vuole credersi un uomo giusto e caritatevole,
proprio per mettersi al di sopra di questa nemesi della giustizia
distributiva. Inutili pensieri, li lascio allo scrittore di grande impegno
sociale, che spiega l‟Africa con infinito paternalismo a forza di
concetti generali. (160)
L‟allusione allo scrittore impegnato potrebbe riferirsi sia a Moravia che a
Pasolini, quest‟ultimo in particolare era stato un fautore del terzomondismo.51 Al
51
Secondo Klopp è probabile che il riferimento sia a Moravia. Non va tralasciato però che proprio
Pasolini, oltre ad essere stato un sostenitore del Terzomondismo, aveva scritto il celebre poemetto,
133
di là di chi possa essere il destinatario dell‟accenno polemico, però, va rilevato
che ritorna ancora una volta l‟idea di una giustizia distributiva. Si era incontrata
questa problematica anche in precedenza, quando, all‟inizio del viaggio, lo
scrittore aveva affermato che i turisti bianchi sono visti come uomini da sfruttare
economicamente “per un senso di giustizia naturale” (21). Dai comportamenti
messi in atto dagli africani nei confronti degli europei emerge, attraverso le parole
di Celati, un dato interessante: l‟acquisizione, da parte delle popolazioni del
luogo, di una mentalità che in ambito economico si rifà all‟occidente, e non è
forse esagerato indicare il modello capitalistico come il principale punto di
riferimento.
Per Casati e Moravia le condizioni ed i presupposti del rapporto con le
persone del luogo erano stati molto diversi, la loro esperienza non è così
direttamente e marcatamente segnata dal criterio economico. 52 Benché siano
presenti, soprattutto nei testi di Moravia, riflessioni sull‟economia, non è il
principio economico quello che guida i rapporti fra lo scrittore e gli indigeni,
come accade invece per Celati. I riflessi di un‟economia di tipo occidentale sulla
quotidianità degli africani sono molto interessanti, se non per lo scrittore, che è
spesso costretto, suo malgrado, a riconoscere piuttosto che a conoscere, per il
lettore che si confronta con Avventure in Africa. Quello che è straordinario,
infatti, è che il rapporto fra bianchi e neri è lo specchio di quanto il modello
economico occidentale abbia pervaso, se non la società africana, almeno i modelli
comportamentali che gli africani adottano nei confronti dei bianchi. Va precisato
che non sorprende che le popolazioni del luogo vogliano trarre guadagno dalla
presenza dei turisti, evidentemente si tratta di un settore economico in crescita che
viene giustamente sfruttato. Quello che si vuole sottolineare, è che il modo in cui i
rapporti economici, fra africani e bianchi, si sviluppano nella quotidianità, sembra
riproporre il modello occidentale piuttosto che uno autoctono. A scanso di
contenuto in La religione del mio tempo, intitolato “Africa mia ultima speranza” in cui il
continente sembra essere davvero l'ispiratore di una speranza di realizzazione politica.
52
È innegabile che una forma di interesse economico fosse all'origine del viaggio di Gaetano
Casati in Equatoria. Nel suo caso però, erano gli europei a cercare possibilità di guadagno in
Africa. Per Celati, invece la situazione si presenta come ribaltata, perché ora, nel contesto
dell‟industria turistica, sono gli africani a vedere negli europei una fonte di denaro.
134
equivoci si deve inoltre chiarire che si è consapevoli del pericolo di leggere il
comportamento degli africani attraverso strutture di pensiero che sono occidentali.
Quanto affermato, però, è sostenuto e giustificato dal fatto che questo tipo di
dinamica si realizza solo nei confronti dei bianchi, perché, da quanto si intuisce
dal testo, i criteri che guidano le relazioni economiche fra africani sono diversi. Il
fatto risulta ancora più straordinario perché sono gli indigeni stessi ad imporre
questo tipo di rapporto. Al turista, infatti, non viene lasciata molta libertà d‟azione
o di scelta, in quanto, indipendentemente da quali siano i suoi programmi, c‟è
sempre qualcuno disposto ad aiutarlo nella realizzazione di essi. Appena arrivati
in Africa, ad esempio, Celati e Jean Talon vengono avvicinati da Moussah, il
quale li prende sotto la sua ala protettiva e li conduce ad un albergo. Nei giorni
successivi Celati dovrà liquidare Moussah, nel vero senso del termine: “sono
riuscito a licenziarlo col pagamento di 200 CFA a titolo di liquidazione” (12). Ma
Moussah, che non demorde facilmente, gli manda al suo posto un‟altra banda di
ragazzini, capeggiati da Mohammed, ed estremamente ben preparati a svolgere il
loro compito: “sapendo già la nostra idea di andare nel paese dei Dogon si è
presentato subito come un autentico dogon” (12). Mohammed è estremamente
sollecito: “Di sicuro non è timido, ad ogni mia occhiata vagante coglie
l‟occasione per offrirmi un servizio, sicché camminando per strada devo cercare
di guardarmi in giro meno che posso” (12). Non è molto diversa la condizione in
cui si trovano quando vanno a visitare il centro di Medicina Tradizionale Dogon.
Amadou, il principale collaboratore del Dott. Coppo, il gestore del Centro, si
prende cura di loro in tutto e per tutto, tanto che, come visto precedentemente i
due viaggiatori si sentono prigionieri di un bunker: “Amadou ci tiene qui reclusi
con le sue arti da incantatore, perché ogni momento ne inventa una, e con lui non
ci si annoia mai, nel bene e nel male” (63). Quello che preme evidenziare è che
non solo gli africani sono organizzati per rispondere alla domanda dei turisti
bianchi che arrivano, ma in pieno stile occidentale, dato che hanno capito le
tipologie della domanda, sono pronti anche a creare l‟offerta adeguata.
Esempi in questo senso saranno offerti a Celati durante tutto il viaggio. Data
la brevità del suo soggiorno, egli non potrà creare rapporti duraturi; come si vedrà
135
nel prossimo paragrafo sono poche le persone con le quali riesce ad instaurare
relazioni significative. Come era accaduto anche per Moravia, i suoi contatti sono
spesso funzionali al viaggio stesso, in quanto incontra guide, personale d‟albergo
ecc. Da Avventure in Africa emerge però una categoria nuova, che nei capitoli
precedenti compariva solo sullo sfondo, e non era ancora organizzata e quasi
istituzionalizzata, come lo è invece alla fine del XX secolo: quella dei neri che
“lavorano con i bianchi.” Si tratta di una professione molto ambita ed importante,
oltre che varia e, ovviamente, rispondente al criterio fin qui descritto, quello di
trarre profitto dai turisti:
Questo è anche il senso della sua autopresentazione come uno che “ha
lavorato molto con i bianchi” (stesso vanto di Amadou), perché è
implicito per lui che cercare quel libro vuol dire entrare nell‟esercizio
d‟una specifica professione chiamata “lavorare con i bianchi.”
Professione che va dal servizio di interprete per gli antropologi e
quello di guida per i turisti ma di mezzo c‟è di tutto, compreso trovare
una bicicletta per Jean, portare il bianco al mercato, e forse trovargli
anche una donna, chissà. Comunque se qui dici: “voglio, vorrei, mi
piacerebbe,” dopo non puoi considerare la cosa che hai detto secondo i
tuoi estri di europeo distratto. (62)
Lo scrittore precisa che non si tratta di un semplice compito temporaneo, ma di
una vera e propria categoria lavorativa, benché essa non corrisponda ad un
compito definito ma piuttosto ad un insieme di attività che mirano a far diventare
il soggiorno dei bianchi il più piacevole possibile. “Lavorare con i bianchi”
significa aiutarli in tutti quei processi che potrebbero rivelarsi difficili se non
impossibili: andare a fare le spese, ottenere i documenti che sono stati
illegalmente sottratti, attraversare la brousse. Questa professione è la naturale
risposta ad una situazione di fatto, ovvero la crescente presenza di turisti che
necessitano di strutture e personale per i loro soggiorni. Non stupisce quindi che si
sviluppi il settore turistico, cosa in fondo più che normale. Lascia sorpresi,
piuttosto, che all‟ambito del “lavorare coi bianchi” sembrano appartenere quasi
tutte le persone da loro incontrate durante il viaggio. Sorprende anche che le
136
relazioni che gli africani instaurano, siano quasi tutte regolate dal regime
domanda-offerta, perché ognuno di loro cerca, in qualche modo, di cavare “due
palanche di tasca” (139) ai bianchi, dimostrando che i paradigmi dell‟economia
occidentale si sono imposti come principio guida dei rapporti fra autoctoni e
turisti. L‟unica ad essere palesemente fuori da questo schema, è Sarr Batouly, la
ragazza incontrata in treno e con la quale Celati e Talon svilupperanno un
rapporto d‟amicizia dal quale sono esclusi interessi di tipo economico.
4.
Il turista Gianni Celati ed il suo rapporto con l’alterità
La distinzione terminologica operata in relazione a „turista‟ o „viaggiatore‟
ha un riflesso importante in Avventure in Africa, perché Celati in questo libro
sembra voler raccontare proprio le sue avventure in quanto turista. Il protagonista
non si definisce immediatamente come turista, ma è la situazione in cui si trova a
definirlo tale. È importante notare fin da ora che la sua esperienza africana sarà
continuamente caratterizzata dalla tensione fra il voler fare un viaggio e l‟essere
un turista bianco che visita l‟Africa. Questa stessa tensione caratterizzerà molto
spesso anche i suoi rapporti con le persone del luogo, che in lui non vedranno solo
un uomo bianco, ma un bianco in vacanza e quindi una fonte di denaro.
L‟impressione di non poter essere un normale viaggiatore è immediata, poco dopo
essere arrivato in albergo infatti scrive:
Ma più di tutto ci prende alla sprovvista il fatto d‟essere bianchi.
Perché siamo qui a rappresentare non quello che siamo o crediamo
d‟essere, ma quello che dovremmo essere in quanto bianchi (ricchi,
potenti, moderni, compratori di tutto). E portiamo in giro questa
rappresentazione come uno scafandro, ognuno nel suo scafandro che lo
isola dal mondo esterno. A Jean è venuta quasi una fissazione, e
appena vede dei turisti comincia a ripetermi una parola che s‟è
inventata: “Guarda i „pingoni‟ bianchi, noi siamo così. (11)
La spiacevole sensazione di essere un pingone, ovvero un bianco che in quanto
tale è anche ricco e quindi disposto a comperare qualsiasi cosa, si accompagna
alla consapevolezza di essere costretto in una situazione che non ha scelto, e dalla
137
quale non sarebbe riuscito facilmente a liberarsi: “Comunque al ritiro dei bagagli
e poi quando il ragazzo Moussah ci spingeva sulla corriera del vecchio grigio, ho
capito che eravamo legati a lui quasi per la vita” (9). Alla fine del XX secolo, a
precedere i viaggiatori che vanno a visitare l‟Africa, è lo stereotipo che è stato
assegnato loro dalle popolazioni del luogo e che li vede semplicemente come
appartenenti ad un mondo più ricco e di conseguenza pronti a spendere. La
“recita” (45, 96, 132), come la definisce Celati stesso con eco quasi pirandelliana,
affidata loro dal meccanismo del turismo dei bianchi in vacanza in Africa, non
lascia molto spazio per interpretazioni personali. Sembra impossibile potersi
muovere al di fuori di predefinite strutture comportamentali imposte a priori, e
che derivano e rispondono in primo luogo ad esigenze di tipo economico: “Il
bianco viene offerto sul mercato interno come uno che compra automaticamente
statuette tribali, così come automaticamente ingurgita colossali colazioni al
mattino” (19). Allo stesso modo, la “recita” si svolge in luoghi appositamente
creati per adempiere a questa funzione: “Albergo coloniale che all‟interno sembra
una nave. Come in tutte le situazioni coloniali, si vive nel ghetto dei bianchi”
(149).
Il rapporto con l‟altro sembra essere impostato in negativo, ovvero in modo
da non lasciare grandi possibilità di incontrare il diverso da sé: per gli europei
l‟Africa non è più una meta sconosciuta da esplorare, perché il turista arriva a
destinazione con un considerevole bagaglio di informazioni sui luoghi che
visiterà. A questo si deve aggiungere inoltre che molto spesso i luoghi in cui i
turisti europei risiedono sono essi stessi occidentalizzati per meglio accogliere gli
ospiti. Gli africani, dal canto loro, conoscono ormai la tipologia del turista bianco
e si comportano di conseguenza. La relazione si svolge, almeno ad un primo
livello, secondo modelli comportamentali che si accordano con i ruoli che ognuno
svolge in Africa, ruoli che riflettono direttamente una situazione economica più
ampia. Riprendendo le parole di Celati, gli europei sono il simbolo del benessere
economico, e gli africani si comportano come coloro che, in quella situazione,
hanno la possibilità di beneficiarne. Si viene a creare uno strano paradosso:
l‟aumentata possibilità di spostamento e la frequenza degli scambi anziché
138
agevolare la conoscenza ha contribuito alla creazione ed al perpetuarsi di
tipologie e stereotipi. Più specificatamente la relazione è ostacolata perché
all‟esperienza reale si frappone il presupposto di conoscere già alcune
caratteristiche fondamentali dell‟altro.
Inoltre, in Avventure in Africa diviene palese un fenomeno le cui dimensioni
hanno acquisito, negli ultimi anni, una crescente importanza: gli europei
divengono oggetto di semplificazione culturale. Non si tratta di un fenomeno
nuovo, quanto invece del segno di un‟evoluzione nei rapporti fra culture diverse.
La strada aperta da Said con il suo Orientalism ha dato vita ad un vigoroso
confronto culturale; il riconoscimento di un vero e proprio „discorso‟ sull‟oriente
ha infatti innescato un meccanismo di ampia portata. Gli studi che ne sono
scaturiti, da un lato hanno consentito di individuare alcune categorie e
meccanismi culturali che appartengono specificatamente all‟occidente, dall‟altro
hanno dimostrato che anche presso le civiltà non europee sono diffusi stereotipi
nei confronti degli occidentali. Quest‟ultimo caso lo si incontra meno
frequentemente, anche in virtù della nostra stessa ubicazione, ma è ben
esemplificato in Avventure in Africa. Va precisato, che non è improbabile che
anche nel caso di Casati o Moravia, gli indigeni abbiano sovrapposto loro un
modello percepito come europeo; in entrambi i casi, però, il fenomeno non aveva
raggiunto le dimensioni che ha invece alla fine del XX secolo, per cui chi si reca
nel continente “nero” è manifestamente ricondotto alla tipologia specifica del
“turista bianco.”
La studiosa Elizabeth Hallam ha notato che, rispetto alla cultura africana, gli
occidentali hanno sempre effettuato delle semplificazioni, ma nel caso di
Avventure in Africa ci si trova di fronte al caso contrario, in quanto è l‟autore ad
essere oggetto dell‟immagine distorta che gli africani hanno della società di cui fa
parte.53 In Celati e compagno, così come in tutti gli altri bianchi, gli indigeni
vedono in primo luogo una possibilità di guadagno: “Noi turisti bianchi siamo
come delle vacche da mungere per un senso di giustizia naturale, e tutto il gioco
53
Vedi capitolo 1, pag. 46.
139
di mungitura del turista somiglia a quello delle colonie di parassiti che si
attaccano al corpo di qualche grande animale pieno di sangue” (21).
Il vocabolario usato, operando una scelta semantica molto cruda, descrive in
modo volutamente cinico il tipo di relazione che si instaura automaticamente fra
europei ed africani. L‟inusuale scelta di vocaboli è una costante di Avventure in
Africa, dove la descrizione degli europei in vacanza è resa attraverso espressioni
che rimandano quasi sempre ad una situazione bellica. L‟autore non sembra
disposto a fare nessuna concessione, né ai turisti, né agli indigeni, che egli vede
come fattivamente complici di una vera e propria guerra. Si aggiunge quindi un
ulteriore meccanismo a regolare il ruolo del turista in Africa, quello bellico.
Ancora una volta la comprensione di tale meccanismo da parte dell‟autore è
immediata. Appena giunto in albergo afferma di essere: “[…] temporaneamente
dislocato in un campo di concentramento per turisti” (10); poco dopo chiarisce
ulteriormente i termini del soggiorno di questi ultimi: “i turisti qui sequestrati”
(10), ammettendo però che nel loro caso: “all‟origine della nostra cattura c‟è la
mia maldestrezza” (14). È evidente che non si tratta di un vero e proprio
sequestro, e che i turisti sono tutti lì di loro spontanea volontà, questo però non
cambia la sensazione di trovarsi in una condizione che di fatto è percepita come
ostile. All‟interno della “trincea coloniale” (19) le prostitute non cercano di
sedurli, ma tendono loro un “assedio” (23), ed il solo spostarsi con un autobus può
diventare un‟avventura particolarmente insidiosa: “Il problema dei bianchi è che
stimolano l‟istinto della caccia, forse a causa del loro pallore, e tu diventi preda
come le gazzelle nel deserto” (49). Negli ultimi due esempi citati, lo scrittore
utilizza una metafora, quella della caccia cha ha una pregnanza particolare e che si
rifà ad uno dei topoi africani per eccellenza. L‟Africa ha avuto nel XX secolo un
ruolo di primo piano per quanto concerne la caccia, ed è significativo che Celati
abbia scelto questo ambito per descrivere la situazione in cui si trova. La caccia,
inoltre rimanda ad una situazione coloniale: basta pensare, ad esempio, al più
classico e noto fra i cacciatori bianchi in Africa – Ernest Hemingway – per capire
il contesto in cui si svolgevano le battute e le prerogative che venivano assegnate
ai loro protagonisti. Sia in Green Hills of Africa, che in The Snows of
140
Kilimanjaro, il cacciatore bianco, oltre ad appartenere ad una cultura più forte, si
trova in una posizione che è dominante rispetto alle guide del luogo, il cui ruolo è
solo funzionale ai bisogni dell‟uomo bianco. La situazione coloniale in Celati, è
però doppiamente ribaltata: in primo luogo i due turisti, come era stato nel passato
per i colonizzati, sono costretti a subire situazioni che non hanno scelto,
secondariamente benché siano bianchi, anzi proprio a causa del loro „pallore,‟
anziché essere predatori sono in balia di coloro che li circondano. Benché Celati e
Talon dopo qualche tempo escano dai percorsi tradizionali dei turisti, le
condizioni non cambiano in quanto la villa vicina al Centro di Medicina
Tradizionale Dogon, in cui sono ospitati viene ben presto definita un “bunker
isolato dal mondo” (54), oppure, con leggera variazione “comodo bunker
coloniale” (64). I turisti sono insomma poco più che prigionieri trattati con
particolare cura. I paragoni con la guerra e la prigionia ritornano costantemente
lungo il testo, sia che si tratti di una “prigionia” positiva, come accade al Centro
di Medicina Tradizionale, sia nel caso contrario, quando devono proteggersi degli
“assedi” tesi loro dai vari venditori, sia, infine, nella “prigionia” scelta degli hotel
in cui soggiornano. La sensazione di essere protagonisti di una strana guerra non
verrà mai meno, ma grazie alla maggior familiarità con luoghi e persone, subentra
l‟accettazione delle dinamiche che li coinvolgono: “All‟arrivo ci assaltano tutti
come al solito, tirandoci in diverse direzioni, finché prevale un gruppetto più forte
che si impossessa di noi” (140) (corsivo mio).
L‟incontro con l‟altro, nel caso di Celati è quasi uno scontro fisico, e si
combina alla perfezione con la sensazione di essere un “prodotto da offrire su
mercato interno” (19). Mentre si trova ancora all‟aeroporto di Bamako registra:
La confusione è cominciata appena siamo usciti dalle mani dei
doganieri. Un vecchio con lunga zimarra azzurra, berretto copto, corpo
secco, colore della pelle grigio perla, m‟ha agganciato al varco.
Parlava di una navetta, la corriera per andare a Bamako. Intorno
c‟erano ragazzi che mi tiravano per le braccia, altri che mi chiedevano
come mi chiamo. (9)
141
Il contatto fisico sarà la caratteristica dominante nelle relazioni con gli
africani, ma anche se ad un europeo questo tipo di approccio potrebbe sembrare
spiacevole, Celati si sentirà veramente aggredito solo in un‟occasione. La
prossimità fisica d‟altra parte, non è un sintomo significativo di una maggiore
vicinanza all‟alterità perché non indica nessuna particolare comunanza fra le
persone coinvolte. Il contatto fisico, in altre parole non è ancora quell‟intimità che
Celati riuscirà a creare solo con alcune delle persone incontrate durante il suo
viaggio. Lo stesso tipo di approccio, infatti, Celati lo ritroverà quasi ogniqualvolta
esce dall‟albergo, e alla fine si limiterà semplicemente a registrare queste
presenze alle quali pian piano si abitua.
I turisti sono trattati alla stregua di “vacche da mungere” (21) anche a causa
della transitorietà della loro presenza, che non consente di creare legami duraturi e
quindi più profondi. Si potrebbe supporre che le cose vadano diversamente per chi
invece decide di trasferirsi a vivere in Africa scegliendo la strada
dell‟integrazione. L‟incontro con Michel Grandet, un francese mussulmano che si
è trasferito in Africa dove è diventato un commerciante, mostra che benché la sua
situazione sia molto diversa, egli è lontano dal sentirsi completamente integrato
nella società africana. Quando gli chiedono per quale motivo abbia deciso di
trasferirsi in Mauritania: “Lui ha detto che possiamo scrivergli all‟Hôtel
Résidence, il suo punto di riferimento più sicuro perché è amico del padrone. S‟è
fatto mussulmano, ha sposato una wolof, studia il Corano, ma il suo punto di
riferimento più sicuro è ancora il ghetto dei bianchi, come per noi turisti” (169).
Se il francese è evasivo sulle motivazioni, non riesce però a nascondere un aspetto
molto importante della sua esperienza d‟immigrato. Il commento di Celati sembra
confermare che il sentimento di estraneità resta immutato e quasi insormontabile
anche nei confronti di un paese che, benché sia stato scelto, non è quello in cui si
è cresciuti e ci è si formati.
L‟esperienza vissuta da Celati e fin qui descritta, sembrerebbe essere
suscettibile di una lettura sartriana dei rapporti umani. Il filosofo francese in
L’être et le neant postulava il presupposto di ogni relazione come antagonistico.
Lo sguardo dell‟altro definisce e dà un ruolo, quindi definisce e circoscrive:
142
Il suffit qu‟autrui me regarde pour que je sois ce que je suis. Non pour
moi-même, certes: je ne parviendrai jamais à réaliser cet être-assis que
je saisis dans le regard d‟autrui, je demeurerai toujours conscience;
mais pour l‟autre. […] une fois de plus cette métamorphose s‟opère à
distance: pour l‟autre je suis assis comme cet encrier est sur la table
[…]. (320)
In questa particolare sezione, dedicata allo sguardo, Sartre esamina questo
sentimento come presa di coscienza di sé che avviene attraverso la
consapevolezza di essere osservati da altri. Al soggetto osservato viene conferita
una „oggettificazione‟ in quanto dato di fatto, che acquisisce concretezza
attraverso altri. L‟essere del soggetto è possibile perché esso è osservato, e questo
basta a dargli coscienza di sé. Senza necessariamente limitarne la libertà
fondamentale o trasformarlo in un oggetto, al soggetto perviene un‟identificazione
dall‟esterno. Questa stessa esteriorità, afferma Sartre, rappresenta però anche un
pericolo per il soggetto stesso perché ne limita le possibilità.
Lo stesso tipo di rapporto sembra applicarsi al caso di Celati giustificando i
termini in cui lo scrittore protagonista del viaggio descrive la situazione, se stesso,
gli altri turisti bianchi e le persone del luogo. Il bianco in vacanza viene
„oggettificato‟ nel suo atto di essere turista, gli viene imposta un‟identificazione
dall‟esterno, in questo caso dalla società africana che lo riceve. Ad un primo
livello, il libro sembra volto alla dimostrazione di come sia impossibile instaurare
un significativo rapporto con l‟altro in Africa a causa dei ruoli imposti a priori.
Con l‟aggettivo “significativo” si intende indicare una relazione i cui termini
siano in grado di relazionarsi con una modalità costruttiva, ovvero che consente di
instaurare un dialogo che riesca a superare i limiti delle idee generalizzanti; una
relazione, quindi, che tenda alla vera conoscenza e non alla riconferma di opinioni
preesistenti l‟incontro. In altre parole, sembra impossibile che si possa realizzare
la relazione postulata da Lévinas, il quale, invece, propone un approccio tutt‟altro
che antagonistico al diverso da sé.
Se la relazione con l‟alterità si sviluppasse esclusivamente nei termini fin
qui descritti, sarebbe lecito chiedersi perché si sia deciso di inserire Avventure in
143
Africa in questo studio il cui fine è invece dimostrare come il viaggio sia ancora
un momento nel quale, al contatto con civiltà diverse, consegue una ridefinizione
delle strutture culturali dell‟individuo, nella prospettiva però di un ampliamento e
non di una chiusura. L‟incontro con la diversità culturale non solo permette di
scoprire l‟altro, ma consente anche di scoprire sé stessi in rapporto ad esso. Su
questo punto è necessario fare una precisazione perché questa è una delle
maggiori problematiche discusse dalla critica post-colonial. Molto spesso
all‟incontro con il diverso da sé è data un‟interpretazione individualista,
considerandolo in chiave funzionale all‟autodefinizione. Questa componente, che
è senza dubbio presente, può rappresentare un limite se la si intende come
emblematica dell‟esperienza del viaggio. Essa, tuttavia, può fungere da stimolo se
la nuova percezione di sé che il viaggiatore acquisisce è considerata come uno
degli elementi costitutivi del rapporto che si può instaurare con la diversità.
Questa tesi propone di leggere l‟incontro con l‟altro come momento dialettico,
quindi dinamico, in cui non ci sono risposte pre-definite ed in cui i soggetti
protagonisti dell‟incontro vivono in modo tendenzialmente positivo la tensione
che si viene a creare nell‟incontro-scontro fra culture diverse.
Il libro di Celati è coerente all‟approccio teorico fin qui adottato perché
nonostante le premesse sembrino impedire qualsiasi impulso allo sviluppo di un
rapporto con le persone del luogo, l‟autore riesce comunque a creare relazioni che
vanno oltre i limiti del suo ruolo di turista in Africa. Rimane intatta, quindi, una
delle caratteristiche essenziali del viaggio, quella di essere un‟esperienza
cognitiva. Si vedrà, e questo è l‟aspetto più importante del libro di Celati, che essa
si realizza in primis come cognizione emozionale, relegando in secondo piano
l‟aspetto culturale. Bisogna fare attenzione su questo punto per non rischiare di
leggere il libro di Celati come se si trattasse di una narrazione introspettiva.
Rebecca West, in Gianni Celati: The Craft of Everyday Storytelling, asserisce che
Avventure in Africa non è semplicemente il racconto della propria visione
dell‟Africa da parte dello scrittore, né è un percorso teso ad indicare come la
144
scoperta di quella realtà lo abbia cambiato (249).54 Nel testo manca
quell‟approccio egocentrico ed europocentrico, che ha caratterizzato invece tanta
narrativa di viaggio ed in cui l‟altrove è solo uno spazio in cui proiettare le
vicende di un percorso personale. Avventure in Africa, racconta piuttosto di come,
nonostante nella contemporaneità tutto si assomigli, sia ancora possibile trovare
nell‟altrove la diversità e stabilire con essa una relazione significativa. Nel caso di
Celati, è proprio il fastidio per questa superficiale somiglianza a scatenare la
volontà di capire che cosa si possa imparare da un viaggio come quello che sta
compiendo. Fin qui si sono visti gli elementi esterni al soggetto che ostacolano
l‟incontro con una cultura diversa; si è ritenuto importante segnalarli perché essi
sono costitutivi di una situazione dalla quale Celati non potrà prescindere, ma che
anzi dovrà superare per poter stabilire un contatto con gli indigeni. Nel contesto
generale di questo studio, inoltre, le circostanze in cui si svolge il viaggio vanno
sottolineate perché costituiscono una importante novità rispetto alle esperienze
narrate dagli scrittori visti in precedenza, per i quali la differenza culturale era
ancora oggettivamente evidente.
5.
Percorsi di avvicinamento
Che gli incontri fatti non siano interpretabili solo in chiave antagonistica,
d‟altra parte, è reso manifesto fin dalle prime pagine, in cui l‟autore dedica il
libro: “agli amici che vogliono sapere dove siamo stati, e a quelli che abbiamo
incontrato” (5). È interessante che Celati definisca “amici” le persone che ha
incontrato durante il viaggio, utilizzando un sostantivo comune, ma solo
apparentemente facile. È infatti piuttosto complesso darne una definizione; si
considerano amici, in genere, persone che si sentono particolarmente vicine
perché si hanno in comune valori, esperienze, o più in generale una determinata
sensibilità. Le ragioni che portano a considerare una persona come amica, però
sono sempre molto soggettive e difficilmente definibili. Un elemento
54
Silvana Tamiozzo Goldmann, nella premessa ad un'intervista fatta allo scrittore nel 2000,
contenuta in Leggiadre donne: Novella e racconto breve in Italia, ribadisce questo importante
aspetto della scrittura di Celati affermando che “Ha sempre negato la validità del rispecchiamento
compiaciuto.”
145
ineliminabile nel sentimento dell‟amicizia, però, è la condivisione, di opinioni, di
situazioni, ecc. Condivisione, è proprio la chiave di lettura del rapporto che Celati
instaura con l‟altro in Africa. Il desiderio di essere partecipe, o di rendere
partecipi, è infatti la modalità secondo cui si sviluppa la relazione con alcune delle
persone incontrate in Africa; relazione che, seppur breve, è sentita come
significativa. Si comprende quindi perché lo scrittore abbia scelto il termine
“amici” anche per indicare coloro che ha conosciuto durante il viaggio.
Se, come si è fatto in precedenza, la relazione con l‟altro viene esaminata
nei termini in cui è stata teorizzata da Emmanuel Lévinas, la volontà di
condividere diventa importante anche ad un altro livello, perché è un momento di
avvicinamento all‟altro. L‟importanza del discorso di Lévinas consiste proprio nel
concepire la „relazione etica,‟ ovvero il rapporto con il diverso da sé, come il
momento stesso in cui si definiscono i criteri della relazione con l‟altro. Anziché
fornire conferme, l‟incontro/scontro porta ad una messa in discussione dei
parametri entro i quali ci si deve muovere nel relazionarsi all‟altro. Ciò significa
che i termini della relazione si elaborano solo nel momento dell‟incontro/scontro,
attraverso una dinamica in cui si deduce quale sia il rapporto che si può mettere in
atto. Quest‟ultimo, quindi, non si sviluppa sulla base di principi pre-esistenti, ma è
il frutto dell‟incontro.
Nell‟alterità il filosofo francese non identifica solo il diverso da sé, ma
l‟assolutamente altro, che viene indicato anche con la grafia Altro. Senza voler in
questa sede proporre una dettagliata esegesi di Lévinas, vale però la pena
riprendere brevemente quanto affermato da Davis, che in Lévinas: An
Introduction, fornisce alcuni importanti chiarimenti. Ciò che Lévinas definisce
Altro, è derivato dal concetto di “infinito” espresso nelle meditazioni di
Descartes. L‟idea dell‟infinito cartesiano contiene la possibilità della relazione
con qualche cosa che manterrà sempre la propria esteriorità rispetto all‟essere
umano, il quale, in quanto essere finito, lo può solo intuire. Allo stesso modo
l‟Altro di Lévinas rimane sempre esterno al soggetto, in una distanza che il
filosofo ha definito irriducibile. La difficoltà nel descriverla è dovuta
all‟impossibilità di ridurre tale distanza in quanto ciò comporterebbe
146
un‟eliminazione o una riduzione dell‟altro al Sé. L‟Altro è trascendente la fisicità,
non identificabile in ciò che circonda il Sé, né semplicemente opponibile ad esso.
Riassumendo brevemente, quella delineata dal filosofo è un‟alterità sentita in
modo viscerale, per la quale, pur nella consapevolezza della separazione, resta il
desiderio metafisico.55 È all‟interno di questa dinamica che si inserisce anche la
relazione con l‟altro, inteso come il diverso da sé. Come postulato in Totalità e
infinito: saggio sull’esteriorità (29), il desiderio si manifesta anche attraverso la
tensione all‟avvicinamento; la distanza assoluta separante il Sé e l‟Altro, infatti,
dà vita ad una relazione che si sviluppa anche come accostamento reciproco
all‟interno di una distanza che resta comunque incolmabile. In Entre nous: Essai
sur le penser-à-l’autre egli enfaticamente afferma: “La totalité, dans la mesure où
elle implique multiplicité, ne s‟institue pas entre raisons, mais entre êtres
substantiels, susceptibles d‟entretenir des rapports” (56). Si ribadisce la necessità
di un approccio fenomenologico, sono gli esseri umani che definiscono la
molteplicità e i rapporti che possono scaturire all‟interno di essa.
La diversità rispetto alla cultura africana, per Celati, non è più una scoperta
da fare, in parte per il processo di occidentalizzazione dell‟Africa, in parte perché
antropologi ed etnografi hanno descritto dettagliatamente quelle popolazioni.
Ciononostante anche Celati, come Moravia, percepisce una lontananza, difficile
da indicare e che lui stesso non definisce perché, nel suo caso, non c‟è un
elemento preciso ad individuarla.56 La distanza che Celati avverte fra sé e le
persone del luogo non è resa manifesta da particolari segni esteriori, abitudini
inconsuete o particolari atteggiamenti. Si tratta piuttosto di una sensazione,
rafforzata, ma solo in alcuni casi, da comportamenti che gli risultano indecifrabili,
e che anche se è percepita in modo altalenante, non è mai strutturata in base
all‟opposizione qui/lì ovvero Africa/occidente. È una lontananza che sente in
modo incostante e con qualche contraddizione perché in alcuni momenti sembra
55
Davis non paragona direttamente la cartesiana intuizione dell'infinito, al desiderio metafisico di
cui parla Lévinas; tuttavia, visto gli elementi in comune fra questi due concetti, in questa sede si
vuole suggerire una loro possibile vicinanza. La questione meriterebbe, comunque, uno studio a
sé.
56
Diversa è invece la condizione di Moravia che in „L'abisso dei secoli‟ prende spunto proprio
dall'abbigliamento e dalle decorazioni del corpo per rendere la vastità della lontananza.
147
non capire nulla, mentre in altri le situazioni gli sembrano fin troppo note. Perciò
se lungo tutto il testo si trovano considerazioni quali: “ho smesso di capire che
cosa stava succedendo” (9), “mi sono rassegnato a non capire molto di questi
posti” (86), “ho visto poco e ho capito ancora meno” (149), non va dimenticato
che esse sono intervallate da affermazioni di una comprensione che sembra essere
addirittura globale: “Più resto qui e più mi sembra di vedere dappertutto ruoli che
conosco, comportamenti che mi ricordano qualcosa. È come se tutti i segreti degli
uomini fossero esposti là fuori, nel funzionamento generale alla luce del giorno,
nelle recite che ognuno deve fare per essere quello che è” (70). Se, come in
quest‟ultimo caso, l‟altrove e l‟alterità forniscono lo spunto per una
considerazione dal sapore filosofico sulla condizione umana, lo si deve in parte al
fatto che la realtà africana è costituita anche da elementi che sono decifrabili e dai
quali ci si sente coinvolti. Senza necessariamente leggere le situazioni secondo gli
schemi culturali che gli sono propri, Celati riconosce una comunanza di fondo. La
distanza che egli percepisce è caratterizzata proprio da questo andirivieni fra
incomprensione e chiarezza, nell‟intuizione dell‟assoluta diversità che si alterna
alle riflessioni sulle affinità della condizione umana. In altre parole, l‟alterità degli
africani non è ascrivibile semplicemente alla sfera della diversità culturale, e di
conseguenza non può essere semplicisticamente risolta tramite il riconoscimento
di modi e situazioni comuni fra gli uomini, o, per contro, attraverso
l‟apprendimento degli elementi che li rendono diversi.
La percezione di questa lontananza fa sviluppare, come accade nel caso di
Celati, l‟interesse e la volontà di ridurre la distanza. Una delle modalità con cui
l‟avvicinamento si realizza, è la condivisione fisica di momenti che appartengono
alla vita dell‟altro. Il corpo diviene perciò centrale nel relazionarsi all‟altro. In
Avventure in Africa, è proprio questo il mezzo che consente allo scrittore di
avvicinarsi maggiormente all‟altro africano. L‟incontro con l‟alterità è vissuto, e
di conseguenza descritto, ad un livello che in passato era scarsamente preso in
considerazione perché veniva messa in risalto in primo luogo la sua dimensione
culturale. Il testo di Celati presenta perciò un importante cambiamento nella
concezione stessa dell‟incontro, perché quest‟ultimo è in primo luogo
148
un‟esperienza reale, fisica, che in quanto tale arricchisce l‟ambito emozionale. La
condivisione va dunque intesa come percorso di avvicinamento e non strumento
di appropriazione culturale che, vale la pena sottolinearlo, nel caso specifico
sarebbe reciproca.
Il corpo assume in questo contesto una dimensione centrale. Esso è il luogo
dell‟esperienza. La dimensione fisica non va considerata in contrapposizione ad
una concezione razionale della conoscenza, ma piuttosto come all‟origine di essa.
L‟incontro è un momento cognitivamente significativo, perché è esperito
fisicamente. Maurice
Merlau-Ponty dedica
a questo
principio il
suo
Phénoménologie de la perception. Il fenomenologo francese considera la
conoscenza come tale proprio perché nata dal corpo, definita da esso. La
percezione fisica è l‟esperienza essenziale da cui nasce la conoscenza:
La perception n‟est pas une science du monde, ce n‟est pas même un
acte, une prise de position déliberée, elle est le fond sur le quel tous les
actes se détachent et elle est présupposée par eux. Le monde n‟est pas
un objet dont je possède par-devers moi la loi de constitution, il est le
milieu naturel et le champ de toutes mes pensées et de toutes mes
perceptions explicites. […] l‟homme est au monde, c‟est dans le
monde qu‟il se connaît. (v)
È perciò attraverso il proprio muoversi nel mondo che il soggetto acquisisce
consapevolezza; ed è proprio perché esso è fisicamente attivo (nel mondo) che
l‟incontro è possibile. La relazione con l‟altro non è basata sulla lotta, come nella
filosofia di Sartre, ma sulla concreta partecipazione al mondo. Da quest‟ultima
scaturisce una condivisione, un‟implicazione con e verso l‟altro che è il punto di
partenza e non quello di arrivo nel rapporto. Quest‟ultimo è essenzialmente
ambiguo, l‟esito non può mai essere individuato a priori, perché l‟esperienza
concreta è il solo mezzo che può determinarne il significato. Si è detto nel
secondo capitolo che per Moravia era sufficiente prendere atto fisicamente della
presenza dell‟altro in quanto gli confermava la possibilità dell‟alterità. Lo
scrittore non voleva ridurre quella distanza per non intaccare la diversità, per non
corromperla con un contatto che per quanto ben intenzionato sarebbe comunque
149
risultato invasivo. La consapevolezza dello scrittore dei rapporti di potere fra
Africa ed occidente costituisce in definitiva un ostacolo alla relazione stessa. Il
corpo è il luogo dell‟incontro, il luogo in cui l‟altro si manifesta, ma con Moravia
tende a rimanere pura apparizione, senza cercare ulteriori sviluppi. Il corpo è un
luogo cognitivo, ma una conoscenza introiettata e vissuta come momento
personale e non di condivisione. Gianni Celati riesce invece ad aprirsi ad una
dinamica di scambio. La presa di coscienza fisica non è più un punto d‟arrivo, ma
il momento in cui si cominciano ad elaborare i criteri su cui si fonderà il rapporto
con l‟altro.
Anche in Celati, l‟esperienza fisica dell‟Africa e dell‟altro africano fanno
sorgere la consapevolezza della distanza che lo separa da essi. L‟altalenante
sensazione di comprendere tutto o nulla, si muta nella volontà di avvicinarsi per
capire meglio. Uno scambio, non troppo riuscito dal punto di vista comunicativo,
con una signora nera a proposito di fotografie e scrittura, ne fornisce un
autoironico esempio:
In momenti del genere uno intravede cosa avrebbe potuto essere, quali
belle figure avrebbe potuto fare nella vita, se non gli fosse toccato
d‟essere quello che è. Per un attimo barbaglia un lucore felice, esposto
al benevolo sguardo d‟un altro umano, così nascono fantasie ed il
viaggio diventa più vario. Poi naturalmente ti accorgi che sei nato da
un‟altra parte, la simpatia umana ha i suoi confini, e le parole sono i
panni al vento che perdono facilmente il loro colore. (37)
Il fatto che la loro comunicazione non abbia avuto esito positivo, perché la
signora “non aveva il tempo di ascoltare le mie elucubrazioni da scrittore in
vacanza” (37) non gli preclude la possibilità di immaginarsi in un contesto di vita
diverso, immaginazione che funziona solo per un attimo in cui la distanza si
riduce per poi ritornare, perché in fondo ognuno, scrive Celati, è quello che è, e la
lontananza ritorna ad essere irriducibile. I due protagonisti di questo breve
episodio, condividono per un attimo uno spazio ideale in cui “il benevolo sguardo
di un altro essere umano” fa intuire la possibilità di una comunanza che la
quotidianità impedisce.
La proiezione di
vite possibili ritorna anche
150
successivamente, dove la domanda: “E se mi fermassi ad abitare a Bandiagara?”
(68), prelude ad una immaginaria giornata vissuta in quella cittadina. La distanza
si riduce anche in questo caso, Bandiagara gli è nota tanto da potersi immaginare
immerso nei ritmi e nella vita del luogo; ma anche in questo caso si tratta di un
momento limitato nel tempo, di un gioco, ma un “gioco” che conta, un gioco
importante ad immaginarsi nell‟altrove.
Una maggiore concretezza riesce invece a raggiungerla con Boubacar
Ouoleghem, la guida che li deve accompagnare ai villaggi Dogon. Boubacar è una
celebrità del luogo, perché “è citato nella guida mondiale Lonely Planet” (71), ma
ad attirare la simpatia di Celati sono soprattutto la sua serietà ed il suo modo di
camminare. In particolare quest‟ultimo gli suscita una vera e propria ammirazione
quasi estetica “quel suo passo come un metronomo, mai un‟accelerazione o un
movimento brusco, uno spettacolo che mi prende ancora più del paesaggio” (79).
Boubacar, oltre all‟ammirazione, riesce a suscitare anche un profondo senso di
simpatia nello scrittore, che instaura con lui uno dei rapporti più interessanti fra
quelli vissuti in Africa. Prima che il viaggio finisca Celati gli parla della
possibilità di andare in Inghilterra “per portarlo a camminare nei miei posti” (84).
In questo caso, il desiderio di condivisione assume un risvolto molto più pratico
rispetto alle fantasie o alle intuizioni di cui si è parlato in precedenza. Dopo aver
camminato lungo i sentieri sui quali Boubacar si spostava in modo
particolarmente agevole “come se li conoscesse a uno a uno” (75), Celati
vorrebbe poter fare con lui la stessa cosa in un luogo che gli è familiare. In questo
caso il desiderio di condivisione non si attua attraverso il meccanismo della
proiezione di sé in un altrove o in una possibilità di vita con altre persone, ma, al
contrario, attraverso il desiderio di condividere ciò che è proprio. È da notare che,
anche in questo caso, la compartecipazione non riguarda tanto l‟ambito culturale,
ma quello esperienziale. A questo desiderio va attribuito un valore profondo, non
è circoscritto allo scambio di informazioni, ma mira a divenire parte attiva della
vita dell‟altro grazie ad una conoscenza reciproca che si sviluppa in primo luogo
attraverso un‟esperienza fisica, sensibile. Il desiderio di condivisione è un motivo
del rapporto con l‟altro che in precedenza non si era mai incontrato.
151
L‟interesse di Gaetano Casati per gli africani, anche in conseguenza del
periodo storico, si esprimeva più sul piano culturale o della civiltà, che in
relazione all‟esperienza. Alberto Moravia, pur essendo fortemente attratto
dall‟alterità, evitava volutamente le relazioni troppo contigue con le persone del
luogo per timore di risultare culturalmente invasivo. Per Celati, invece, tali
relazioni non rappresentano un pericolo per chi vi è coinvolto, ma, al contrario,
un‟opportunità. Vale la pena ribadire quindi che, nel caso di Celati, non si tratta di
una condivisione culturale, quasi fosse una sorta di scambio improntato
all‟acquisizione di informazioni su una civiltà diversa, ma di una vera e propria
partecipazione attiva. Ancora una volta si supera la posizione sartriana di
oggettificazione reciproca fra soggetti. Il corpo vive ed è partecipe della relazione
con l‟altro, non la subisce, piuttosto contribuisce crearla. Grazie a questa
interazione, quasi una positiva complicità con l‟altro vissuta sul proprio corpo, il
soggetto si apre alle diverse possibilità che da questa relazione possono scaturire.
Il rapporto con l‟altro resta essenzialmente un momento ambiguo, esso può
rivelarsi positivo o negativo. A prescindere dalla conclusione, il soggetto è pronto
a mettersi fisicamente in gioco, ad aprirsi all‟esperienza.
L‟incontro più proficuo in questo senso è quello con Sarr Batouly, donna
africana conosciuta nel treno che li portava da Bamako a Dakar. Sarr Batouly
incuriosisce Celati il quale, a sua volta, suscita l‟interesse della donna per il fatto
di essere uno scrittore. L‟incontro con Batouly è un po‟ atipico perché quando si
conoscono, anche lei è in viaggio per tornare a Dakar, la città in cui normalmente
vive. La transitoria condizione di viaggiatori, li accomuna in qualche modo e
Batouly parla volentieri con i due europei, arrivando anche ad affermare che con
loro “si sente in famiglia” (117). La donna si interessa in modo molto attivo alle
disavventure riguardanti i loro passaporti, e Celati riconosce: “ci ha preso sotto la
sua protezione fin dal treno, bisogna ascoltarla” (132). La ragazza diventa un
punto di riferimento al quale i due viaggiatori, Celati in particolare, si affidano
volentieri. Diversamente da quanto era accaduto fino a quel momento, una
persona del luogo cerca di aiutarli a risolvere un problema senza averne un ritorno
economico.
152
Qualche tempo dopo i tre si rivedono a Dakar, ma in questa occasione la
donna sembra loro molto diversa “Ma sul treno eravamo così amici! Certo, ma là
nessuno di noi era sul proprio territorio, qui tutto cambia” (129). La sensazione di
non poter comunicare con una persona del luogo, se non in condizioni eccezionali
verrà smentita poco dopo, perché si recheranno in visita a casa di Batouly. La
curiosità, e la voglia di capirsi un po‟ di più è probabilmente all‟origine
dell‟invito, arrivato dopo una serata poco riuscita: “Non so perché era così cupa al
Fouquest, forse perché noi stavamo lì a ciondolare con i nostri pensieri, Jean
cercando spiegazioni culturali, io con la testa da un‟altra parte. Forse lei non si
raccapezza: che tipi siamo? Qui c‟è da imparare…” (131). Il rapporto altalenate
con Batouly, rispecchia in fondo le difficoltà di comprensione che possono
sorgere nel relazionarsi con culture diverse, e dimostra come l‟avvicinamento
all‟altro non sia mai facile o immediato. L‟invito della donna consente loro di
avvicinarsi alla realtà africana con modalità diverse da quelle turistiche,
introducendoli nella dimensione familiare della vita della donna. Celati e Talon
hanno quindi, per la prima volta, la possibilità di stabilire con i locali, un contatto
che esuli dal loro ruolo di turisti bianchi.
La visita alla casa di Batouly non rientra, ovviamente, in un itinerario, e i
due viaggiatori la vivono come un‟esperienza sospesa fra la normale visita ad un
conoscente e un‟eccezionale occasione per vedere un‟Africa meno turistica e
perciò più reale, ma anche più lontana da quanto hanno visto fino a quel
momento. La sensazione di entrare in un mondo sconosciuto, è rafforzata dalle
difficoltà logistiche: “La casa di Batouly si trova in un dedalo di stradine senza
nome, nel quartiere Sicap, oltre la Medina, inaccessibile senza guida” (134).
L‟arrivo dei due viaggiatori, come forse accade in tutte le piccole comunità, attira
l‟attenzione del vicinato, e poco dopo i due europei sono già meta di visita da
parte dei vicini. Ma il via vai di gente fa parte dell‟inserimento nella vita del
cortile nel quartiere Sicap, è quasi un rituale che permette loro di vivere e quindi
condividere, anche se per un tempo limitato, la quotidianità di Batouly. In
quell‟occasione la ragazza sancisce una volta per tutte la loro amicizia: “Batouly
ci ha mostrato le fotografie – segno di accoglimento in famiglia” (138).
153
Nonostante questo, un ingiustificato scatto d‟ira da parte della ragazza fa dire a
Celati: “Davanti a simili casi il turista europeo si smarrisce, come in stato
d‟assedio dietro il suo vetro protettivo” (138). Nonostante tutto, la distanza da
colmare rimane ancora molta, e le incomprensioni riportano il turista nel suo
usuale stato di “assedio,” ma questo non impedisce che vi sia comunque fra loro
una relazione sorta grazie al reciproco interesse. Quello con Batouly è certamente
il legame più profondo fra quelli stabiliti in Africa, benché come si è visto, non
sia stato semplice gestirlo, né per i due viaggiatori, né, si può immaginare, per la
ragazza.
6.
La cultura mussulmana
Prima di concludere il discorso relativo all‟alterità, vale la pena soffermarsi
sugli accenni fatti anche da Celati sulla cultura mussulmana. Attraverso i due
autori trattati precedentemente, si era visto come, pur all‟interno di un generale
interesse per l‟Africa e per le sue forme di civiltà, la cultura mussulmana fosse
considerata come lontana, oscura, e, nel caso di Casati, addirittura ostile e
pericolosa. Per quest‟ultimo chi era di religione mussulmana era, di fatto, un
nemico. Anche Moravia, ovviamente con toni meno faziosi, segnala la difficoltà
di comprendere la cultura islamica. Celati su questo punto non fa eccezione, ma
sono necessarie delle precisazioni. Egli non pone molta attenzione alle questioni
religiose, come dimostra il fatto che non senta il bisogno di segnalarle. Nel suo
caso le differenze di fede non rappresentano certamente un problema nel rapporto
che egli instaura con alcuni di coloro che incontra. È probabile, infatti, che alcune
delle persone da lui frequentate siano state di religione mussulmana, ma questo
non ha rappresentato un ostacolo.
Tuttavia, in Avventure in Africa, ci sono alcuni veloci accenni alla presenza
della fede mussulmana, in due episodi molto simili. Nel primo caso, egli è
costretto a sentire un personaggio religioso:
Un altoparlante dalla vicina moschea ha trasmesso la voce d‟un
personaggio religioso, che non so chi fosse. Una voce furibonda,
rancorosa, sapeva di Guerra Santa, di richiami ad un Corano della
154
Vendetta, spandendosi nell‟aria per quattro ore. Non si riusciva
neanche a parlare, per quegli urli stizzosi in nome di Allah che
arrivavano dentro le orecchie. (106)
Ibrahima, la guida che in quel momento li accompagna, gli spiega che l‟uomo
parla di quello che è bene e quello che è male; Celati commenta: “In Europa non
c‟è bisogno di tutto questo baccano sul Bene e sul Male: da noi quella minaccia ti
arriva addosso silenziosamente, quando cominci a sentir la solitudine, con
l‟assenza di risposte fuori dal generale consenso” (106). Benché il tono sia
polemico, non si vuole in questa sede discutere se sia peggiore l‟adeguamento
morale dovuto al bisogno di appartenenza e riconoscimento, a dispetto anche delle
proprie personali convinzioni, o l‟adeguamento a ciò che viene imposto da un
capo religioso. Colpisce di più, invece, anche alla luce del fatto che verrà ribadito
in seguito, che Celati sottolinei la rabbia con cui il discorso viene pronunciato.
Poco tempo dopo lo scrittore si troverà a vivere una situazione simile ma in
questo caso non avrà bisogno di Ibrahima a fargli da traduttore. Alla radio stanno
trasmettendo: “l‟intervista a un uomo anziano con la voce rabbiosa, un capo
religioso furibondo” (142) il cui discorso sembra a favore della monogamia: “ma
lo dice con tanta rabbia che sembra gli dispiaccia” (142).
Negli unici due casi in cui la religione mussulmana è chiamata direttamente
in causa, essa viene associata alla rabbia. Come già chiarito, non si tratta di una
intolleranza generalizzata nei confronti della religione islamica; in questo caso a
rappresentare un disturbo sono specificatamente le modalità della predicazione, i
cui toni comunicano collera più che sentimenti religiosi. Questi due brevi accenni
riportano alla distanza percepita anche da Casati e Moravia rispetto all‟islam.
Ancora una vota per gli europei il mussulmano è l‟altro, non ostile o nemico in
questo caso, ma, come per Moravia, rappresentante di una cultura che riesce
ancora, per alcuni tratti, incomprensibile. Il codice culturale utilizzato nella
predicazione, infatti, indipendentemente da quale fosse il contenuto del discorso,
non viene riconosciuto dallo scrittore, al quale resta solo l‟impressione di aver
sentito parole piene di rabbia.
155
7.
Ma quale altro?
All‟interno della trattazione della problematica dell‟alterità, merita un
discorso a sé la figura del turista in Africa. Nel paragrafo in cui si operava la
distinzione fra turisti e viaggiatori, si è detto di quanto Celati, anche in altre
occasioni, abbia dimostrato un notevole interesse per il fenomeno del turismo.
Avventure in Africa non fa eccezione; trattandosi di un viaggio, inoltre, la
tematica è amplificata tanto da divenire uno dei più importanti temi del romanzo.
Rappresentare i turisti è interessante per diversi motivi. In primo luogo si descrive
un momento eccezionale, perché se da un lato essere turista è fatto normale, o
comunque diffuso, dall‟altro è un‟esperienza che pone l‟individuo in una
situazione al di fuori delle normali strutture di vita quotidiana. In secondo luogo,
in Avventure in Africa, il turismo diventa simbolico di alcuni particolari tic, o
manie, della cultura occidentale. Infine il turismo è anche una blanda forma di
colonizzazione, aspetto quest‟ultimo, che Celati ha individuato fin da subito: “Che
qui non esista più un regime coloniale forse è solo un‟astrazione come tante altre”
(19), ed ha evidenziato tutto lungo il testo: “Come in tutte le situazioni coloniali,
si vive nel ghetto dei bianchi” (149).
La principale motivazione del viaggio di Celati e Talon non è propriamente
turistica in quanto i due vanno in Mali, Mauritania e Senegal per fare dei
sopraluoghi per un documentario. Questo, però, offre loro anche l‟occasione di
fare una vacanza. La condizione di turista non è vissuta bene dai protagonisti che
fin dai primi giorni non esitano a definirsi dei “pingoni,” ovvero turisti bianchi e
quindi
persone
che,
come
già
ampiamente
visto,
è
lecito
sfruttare
economicamente. Nel momento in cui scoprono di essere due pingoni, Celati e
Talon scoprono anche “che la regola dei pingoni è far finta di non vedersi quando
si incrociano per strada, precisamente come fanno i clienti nell‟hôtel de l‟Amitié”
(11). L‟auto-isolamento volontario che ogni gruppo di turisti si impone, frena le
relazioni fra bianchi che, paradossalmente, pur trovandosi nella stessa condizione
rifiutano di riconoscerlo e, in parte, di riconoscersi per ciò che sono:
Guardo per strada i turisti come me: hanno una divisa comune, con la
borsetta porta-documenti in cintura […]. Ma soprattutto in comune
156
hanno questo che evitano di guardarsi l‟un con l‟altro, quasi si
vergognassero di riconoscersi. Ognuno di noi si muove in due metri
cubi di vuoto spinto, fuori dalla sostanza dei commerci quotidiani,
destinato a guardare tutto come da dietro un vetro. Ognuno è tra i muri
della sua privacy che si è portato dietro da casa, ha raggiunto il suo
fine, ma forse ha già perso per strada il resto. (22)
In questo paragrafo più che altrove Celati riesce a rendere l‟idea dell‟aridità che
può caratterizzare il turista, che si chiude quasi sottovuoto. La metafora del vetro,
è particolarmente bella perché trasmette molto chiaramente l‟idea del turista che
pur essendo fisicamente presente, è lontano e quasi intoccabile. Il vetro dietro cui
si schierano i bianchi in Africa, ha infatti la funzione di non lasciar passare nulla –
eccetto la luce, le immagini – né in una direzione né nell‟altra, per cui la vacanza
si trasforma in un semplice dislocamento fisico. Questo punto ricorda la
distinzione operata da Moravia fra spostarsi e viaggiare. I turisti dietro ai vetri si
sono semplicemente spostati, portandosi dietro addirittura la loro privacy, ma
soprattutto non aprendosi al nuovo che si può incontrare in viaggio. Pur
riconoscendolo e criticandolo, Celati, forse involontariamente, mette in atto lo
stesso comportamento, evitando i bianchi ed ironizzando sulla condizione dei
pingoni. L‟esperienza personale sembra contraddire in parte quanto Celati aveva
scritto nei suoi libri precedenti. Nella novella “Baratto” in particolare il turismo è
un importante momento di comunicazione, che nemmeno le incomprensioni
linguistiche avevano potuto limitare. Ma vedremo che anche in Africa, Celati
ritrova quello che in “Baratto” aveva definito “il popolo dei turisti” (Quattro
novelle 27), i cui connotati non sono sempre negativi, e a cui appartengono una
svariata moltitudine di individui.
A partire dal terzo taccuino lo scrittore comincia ad elencare i “casi
esemplari di turismo africano” (72), fra questi, sorprendentemente, inserisce
anche gli studiosi, gli psichiatri, i funzionari, insomma, tutti coloro che “arrivano
qui prendono su qualche cosa, fanno buoni guadagni e tornano a casa” (72). Fra i
casi esemplari rientra anche quello di un medico parigino che dopo aver studiato i
metodi di guarigione Dogon, è tornato a Parigi, dove li ha applicati per guarire le
157
malattie mentali, e ne ha avuto un tale successo che ne faranno anche un film:
“roba da vergognarsi per l‟eternità” (72), commenta Celati. Come si può notare,
l‟elenco dei casi esemplari è inizialmente caratterizzato da un certo cinismo da
parte dello scrittore, che sottolinea come per i bianchi l‟Africa sia ancora un luogo
da sfruttare in qualche modo. I suoi continui riferimenti alla condizione dei turisti
come ad una situazione coloniale, rafforzano la sensazione che il tipo di
sfruttamento in atto da parte dei bianchi, oggi abbia assunto modalità diverse, ma
non sia affatto venuto meno. Lungo il testo, però, questo atteggiamento si
ammorbidisce, ed il suo sguardo verso i turisti sarà meno mordace, ma resterà
sempre molto ironico. Non a caso, nonostante parli di “casi esemplari di turismo
africano,” quello che Celati compila è un vero e proprio elenco non delle tipologie
di turismo, ma di turisti, come se si trattasse di veri e propri tipi umani. Non
sorprende, che Celati scelga un taglio di questo tipo per raccontare i turisti, dato
che fin dalle prime pagine aveva presentato la vacanza come una rappresentazione
a cui si prende parte ed in cui ognuno ha un ruolo da interpretare. Fra i tipi di
turista che incontra ci sono “quattro canadesi cercatori d‟oro” (99). In effetti
lavorano per conto per una ditta canadese che sovvenziona lo sfruttamento delle
miniere del Mali. I quattro canadesi li invitano a bere, “primi bianchi in questo
albergo che non sfuggono altri bianchi, bisogna aggiungere” (99). La
conversazione non funziona, e quasi subito Celati e Talon si allontanano. Non
vanno meglio le cose con una coppia di italiani che ispirano un altro caso
esemplare “minimo, ma quasi toccante” (101). I due non guardano e non parlano
a nessuno, occupati a programmare il pomeriggio. Poco dopo, Celati annota:
Adesso non fanno niente e prendono il sole non lontano da me, sui
bordi della piscina. […] L‟unica cosa da dire è venuta in mente al
marito, poco fa, ed è questa: “Sai che Bucci è andato in vacanza con la
ditta, per merito delle vendite?” La moglie non ha risposto il marito ha
guardato da un‟altra parte, depresso, sospirando. (101)
Si riconosce, nella triste scenetta raccontata dallo scrittore, l‟atteggiamento che
Moravia aveva riassunto nell‟espressione “portarsi dietro il rapporto psicologico
della vita quotidiana” (Vita 212). Il vetro, metafora dell‟incomunicabilità, non
158
lascia infatti filtrare nulla, ed il viaggio è solo un momento di una normale
quotidianità vissuta, però, in un esotico altrove. Molto più originale è il caso
esemplare incontrato poco dopo: un francese di Bordeaux, che ha fatto amicizia
con Talon e che si muove come un turista d‟altri tempi: “questo è del genere più
avventuroso all‟antica” (113). Il francese si mescola volentieri ai senegalesi,
“poco fa mangiava con gli altri dallo stesso piatto, rideva e si leccava le dita di
gusto” (113), ma frequenta anche i due europei. Fra quelli enumerati questo è il
caso di turismo più interessante perché il francese è uno dei pochi a non
ingabbiarsi dietro il vetro; ed in questo si riconosce l‟atteggiamento mentale del
viaggiatore più che del turista. Infine, fra i casi esemplari, Celati inserisce anche
se stesso e Talon: “Ritorno a Bandiagara nel primo pomeriggio, da iscrivere
nell‟album dei casi esemplari di turismo africano” (91).
Si sono voluti citare alcuni dei casi esemplari, perché fra gli incontri
africani, questi rivestono un ruolo particolare, anche per l‟attenzione che l‟autore
dedica loro, arrivando a dichiarare di essere più interessato ai turisti che al
paesaggio. Il turista non rappresenta una figura completamente nuova in questo
studio, già Moravia lamentava la presenza del turismo di massa in Africa. Con
Celati tuttavia il fenomeno assume dimensioni molto più estese e il turista diviene
una figura rilevante nella relazione con il diverso da sé. In primo luogo si è visto
che gli africani incanalano Celati stesso nella tipologia del turista, senza lasciargli,
almeno inizialmente, la possibilità di essere un viaggiatore. Gli africani sono
molto ben disposti a relazionarsi con i turisti; i presupposti e i limiti di questo
rapporto, tuttavia, sono già stati ampiamente descritti. La figura del turista diventa
un ostacolo per coloro che cercano un‟esperienza che vada al di là della mera
vacanza perché frappone, fra il viaggiatore e l‟altro, una soggettività che suo
malgrado influenza l‟incontro/scontro fra l‟altro ed il viaggiatore. Il ruolo del
turista è determinante perché sono gli africani stessi, che in questo caso
rappresentano l‟altro, ad assumerlo come rappresentativo dell‟occidente, figura
inclusiva e omologante di tutti coloro che si recano in Africa. Celati viaggiatore
coglie gli aspetti contraddittori e anche conflittuali di questa tipologia, li
percepisce come uomini e donne che si muovono in una specie di limbo, isolati
159
rispetto all‟esterno, soprattutto rispetto agli altri turisti bianchi, ma anche rispetto
all‟Africa, dimostrando una sostanziale indifferenza nei confronti all‟alterità. Essi
diventano un vero e proprio spettacolo. Mentre sta andando a vedere i villaggi
Dogon, infatti, scrive: “Più che dalla marcia attraverso i villaggi, io sono
incuriosito dai turisti belgi” (71). Per lo scrittore, il turista diventa a sua volta
attrazione turistica, un fenomeno sociale che può essere guardato come fosse uno
spettacolo a sé. Se mi si passa l‟espressione, quello di Celati è un meta-turismo,
perché fa del turismo stesso la sua destinazione.57
Eric Leed in The Mind of the Traveler afferma che proprio perché il viaggio
è un momento in cui ci si estrania rispetto alla normalità: “Travel is a primary
source of the new in history. The displacement of the journey creates exotica
(“matter out of place”) and rarities as well as generating that peculiar species of
social being of unknown identities – the stranger” (15). Leed si richiama alla
funzione cognitiva soprattutto in prospettiva storica, guardando ad esso come ad
un momento più vasto, che agisce sulle strutture culturali degli individui. Benché
lo studioso non riferisca la sua analisi distintamente al turismo, all‟interno di
questo studio, è comunque interessante notare che anche una normale vacanza
può agire sulle strutture comportamentali. In genere, il viaggio viene visto come
momento positivo e la trasformazione costituisce un‟evoluzione; nel testo di
Celati, però, i termini di questo cambiamento sono diversi. Anche nei turisti di
Avventure in Africa, vi è una trasformazione rispetto alle abituali modalità di
comportamento, ma essa va in una direzione di isolamento e chiusura piuttosto
che di sviluppo del dialogo. La trasformazione di cui parla Leed, quindi, nel caso
dei turisti di Celati, è presente, almeno ad un primo livello, come elemento
negativo. I bianchi, infatti, si trovano in una condizione atipica, essendo tutti
accomunati dal fatto di essere lontani dal proprio paese e dai propri luoghi
abituali. Questa situazione, che in altre circostanze diventerebbe motivo di
aggregazione, nel momento turistico dà esito contrario; il riconoscere di far parte
della stessa temporanea comunità, basta a far sì che i turisti si evitino
57
Celati ricalca qui le orme del suo personaggio Baratto, per il quale, come visto in precedenza, i
turisti sono uno spettacolo addirittura itinerante.
160
volutamente. Viene ad essere messo in luce, in questo modo, un aspetto
paradossale dell‟essere un turista, perché se dà la possibilità di avvicinare il
diverso da sé, allontana al contempo da chi è sentito come culturalmente noto.
Dalla prospettiva con cui Celati guarda al suo viaggio, a divenire altro, per un
tempo limitato, è proprio chiunque stia vivendo l‟esperienza del turista che
allontana, e si allontana, da coloro che condividono la stessa condizione, rendendo
più semplice avvicinare un africano piuttosto che un bianco in vacanza. Celati non
è completamente esente dal vivere in prima persona questa contraddizione e solo
verso la fine del viaggio riesce a trovare una soluzione, appoggiandosi proprio sul
carattere eccezionale del momento turistico: “I due francesi, marito e moglie,
vengono da un paese vicino a Sète, viaggiano come noi con mezzi indigeni e
senza meta. Parlo con loro volentieri. Le mie prevenzioni contro gli altri turisti si
sono smontate, da quando penso che ogni turista va nei posti dove vanno gli altri
un po‟ simili a lui, e solo allora non si sente fuori posto” (159). Che sia accettato o
meno, perciò, è indubbio che ormai i vacanzieri formano una comunità a sé, tanto
che Celati arriva ironicamente ad auspicare una maggiore attenzione, da parte
degli antropologi, nei loro confronti:
Leggiamo molto, facciamo lunghe passeggiate e parliamo della
filosofia di Spinoza. Io sono riuscito ad applicarla anche alla questione
dei turisti, mentre camminavamo nella savana e abbiamo visto dei
babbuini. A Jean è venuta l‟idea di fare un documentario sulla vita dei
turisti. Rimuginiamo sul fatto che ormai gli antropologi non hanno più
molto da fare con la popolazioni primitive, ridotte a sbandati straccioni
o comparse esotiche. Qualche rara equipe insegue gli ultimi gruppi
nelle foreste dell‟Amazzonia, ma se li trovano ancora nudi con arco e
frecce, subito li contagiano col raffreddore o l‟influenza malattie per
loro letali. Dunque perché non farla finita e scegliersi un oggetto di
studio meno deperibile, come appunto sono i turisti? I turisti sono sani,
parlano quasi tutti l‟inglese, sono un popolo in crescita vertiginosa.
Inoltre hanno già elaborato un proprio sistema di credenze, una
mitologia molto complessa, dei propri modi di vestire, mangiare,
161
viaggiare. La cosa più importante, dice Jean, è che sono ormai un vero
popolo. Ed ecco improvvisamente un amore fraterno per tutti i turisti,
perché forse è l‟unico popolo a cui si può appartenere ormai, in quanto
viaggiatori o sbandati perpetui. (162-63)
L‟ironia di Celati serve anche a mettere in evidenza come noto ed ignoto siano, in
certi casi, strutture da ridefinire. Soprattutto mette in risalto come l‟ignoto sia
ormai una categoria difficile da individuare.
Una delle domande che guida questa discussione è come il viaggio possa
modificare la percezione della realtà da parte del viaggiatore che si relaziona con
culture diverse. L‟Africa contemporanea, per come è raccontata da Celati, non
permette una facile risposta a questa domanda, perché una delle problematiche
che emergono dal suo testo è che la differenza fra Africa ed occidente si
assottiglia sempre più. L‟esperienza di Celati, a questo livello, è tutt‟altro che
personale. Al contrario Curtis e Pajaczkowska in Getting There: Travel, Time and
Narrative affermano che fra i viaggiatori contemporanei, questo è probabilmente
il sentimento più diffuso: “Travelers and tourists seek places of „unspoilt‟ beauty.
Among spoilers of beauty are popularity and progress. The unravaged haunts of
beauty offer an experience of time before the vitiating effects of modernity and all
the losses of innocence that it entails” (199). Gli effetti di questo stato di cose
emergono anche nell‟ambito della relazione con l‟altro culturalmente diverso da
sé, che però si presenta sempre meno come tale. La globalizzazione, se da un lato
ha reso facili gli spostamenti e le comunicazioni, dall‟altro ha coperto tutto di un
velo uniformante, lasciando al viaggiatore, almeno in apparenza, poco di nuovo
da vedere ed imparare; e a questo punto è lecito chiedersi se l‟Africa possa ancora
presentare aspetti sconosciuti.
7.
Africa inconoscibile o troppo conosciuta?
Tradizionalmente, nel pensiero occidentale, l‟Africa, ricopre un ruolo
piuttosto ben definito. Già con Rousseau i luoghi “incontaminati” sono caricati di
valenza positiva, e considerati come posti in cui l‟uomo può vivere in un ideale
162
stato di purezza originaria ormai perduta per sempre nel vecchio continente.58 Nel
passato si è più volte guardato all‟Africa in questi termini, cercando in essa ciò
che l‟Europa civilizzata non poteva più offrire. Le oggettive condizioni di vita
delle popolazioni di quei luoghi, hanno spesso rafforzato tale ideale, suggerendo
la concreta possibilità di ritornare ad uno stato di natura, in cui la vita dell‟uomo
si svolge all‟interno di parametri dettati esclusivamente dalla natura. L‟esotismo
si rifà proprio a questa concezione dell‟altrove, luogo più ideale che reale, che
funge da correlativo oggettivo per la proiezione di una vita migliore. Nel
Novecento, invece l‟Africa è sulla strada per diventare quello che l‟Europa è già
da molto tempo. L‟analisi fin qui prodotta rispetto ad Avventure in Africa, ha
dimostrato che una delle maggiori difficoltà che il viaggiatore contemporaneo
incontra, è proprio la mancanza di diversità. Durante il viaggio, Celati è costretto
a relazionarsi con una realtà che è ovunque sempre più uguale a se stessa.
A ben vedere la consapevolezza che l‟Africa non sia più il continente
misterioso e sconosciuto oggetto di tanta letteratura di viaggio, è già presente in
uno degli inderogabili scrittori sull‟Africa, Joseph Conrad. Proprio quest‟ultimo,
che nel 1899, in Heart of Darkness poteva ancora scrivere: “We were cut off from
the comprehension of our surroundings. […] We could not understand because we
were too far and could not remember, because we were travelling in the night of
first ages” (110), solo qualche anno dopo sarà costretto a ritornare sulle proprie
posizioni. Come ha notato Chris Bongie in Exotic Memories, una delle
problematiche fondamentali in Conrad è quella di una “truly global modernity”
(149).59 Nel 1922, nell‟introduzione ad un volume di viaggi di Richard Curle,
Conrad in tono disilluso dà voce a questa inquietudine: “on this earth girt about
with cables, with an atmosphere made restless by the waves of ether, lighted by
that sun of the twentieth century under which there is nothing new left now, and
but very little of what may still be called obscure” (88).60 Già nella prima metà del
58
Jean Jacques Rousseau, Discorse on Inequality (Oxford: Oxford UP, 1994).
Più precisamente, la discussione di Bongie vuole dimostrare che in realtà fin dai primi testi lo
scrittore inglese deve confrontarsi con la mancanza di diversità, e le narrazioni di Conrad derivano
da “memorie esotiche” più che da un esotico veramente esperito.
60
La citazione è tratta dal volume Exotic Memories di Chris Bongie. Riporto la citazione
indirettamente, in quanto non mi è stato possibile reperire il testo originale.
59
163
XX secolo quindi, la possibilità di un “altrove” ed il conseguente concetto di
esotico, sembrano essere messi in discussione. Lo stesso Bongie, inserendosi nel
discorso post-coloniale, afferma che nel XX secolo, le descrizioni dell‟altrove in
letteratura sono frutto di idealizzate “memorie esotiche,” più che di una reale
spinta positiva tendente ad una realtà diversa da quella di appartenenza. La
tensione verso quest‟ultima, però, nella contemporaneità è divenuta sterile per la
mancanza di quella diversità che costituiva la sua causa scatenante. L‟aggettivo
esotico, quindi, è oggi svuotato perché è venuta meno la possibilità di una realtà
diversa. La globalizzazione ha portato con sé una progressiva omologazione; se
uno degli aspetti positivi è dato dalle diminuite semplificazioni culturali, che nel
passato avevano ostacolato l‟avvicinamento alla diversità, dall‟altro tutto sta
diventando più facilmente conoscibile perché è tutto già un po‟ conosciuto.
Si è visto che questo avviene anche nel caso di Avventure in Africa, dove è
difficile stabilire quale sia il significato ultimo dell‟esperienza africana di Celati.
Per Casati era stato un momento di scoperta a tutti i livelli: geografica, culturale,
personale; per Moravia, turista un po‟ di lusso, era stata la scoperta del preistorico
e del diverso, che gli facevano ritrovare il fascino di culture lontanissime dalla
sua. Per Celati il viaggio in Africa sembra essere inizialmente privo di possibilità
conoscitive, ed “esotico” è solo un sostantivo indicante il simulacro di una
differenza. Si è visto in precedenza che uno dei maggiori problemi con cui Celati
si deve confrontare, è la progressiva diminuzione della diversità culturale: “Vieni
fin qui e vedi che i ragazzi fanno le stesse cose dappertutto, se non possono
mettersi in bande tribali e società segrete, stanno in un bar ad ascoltare musica
americana a tutto volume” (51-52). Si deve ora aggiungere che, anche laddove la
diversità è più palese, essa è talmente nota, che l‟esperienza diretta ne risulta
svalutata. Ad esempio, alcuni degli aspetti più straordinari della cultura africana,
quelli legati alla magia, non sono più una novità, e parlando con Ibrahima dello
spostamento degli spiriti in diversi corpi, Celati annota: “Mi ha confermato tutto il
magazzino di chiacchiere sulla magia africana che avevo in testa” (25). Non solo
l‟Africa non è più misteriosa, ma si possiede già un repertorio di informazioni alle
quali si può attingere. Allo stesso modo, la visita ai villaggi Dogon, non è vissuta
164
come momento di scoperta, ma di conferma. I due viaggiatori sono in cerca di
materiale per il documentario, ma a Celati non “piace l‟idea di filmare i guaritori
Dogon mentre fanno i loro riti curativi, e anche ammesso che accettino di farsi
filmare, sarebbe una folkloristica svendita di segreti magici” (32). Lo stesso
atteggiamento lo si era incontrato con Moravia, che considerava le riprese
cinematografiche un‟intrusione in un mondo che doveva rimanere lontano. Ma,
diversamente da Moravia, il rispetto di Celati nei confronti dei Dogon, non è
manifestazione di un più profondo interesse per questa tribù che, al contrario, sarà
addirittura deludente per lo scrittore. Celati parte informato, portandosi dietro un
famosissimo libro di Marcel Griaule in cui viene spiegata la civiltà Dogon.61 Ad
esso Celati farà costantemente riferimento per descrivere il luogo: “ha forma
ovale e mi sembra coincida con la descrizione di Griaule, benché Boubacar dica
che ormai ben pochi villaggi Dogon sono disposti come un corpo umano, con
testa, gambe, braccia, sull‟asse nord-sud [descrizione di Griaule]” (76). Pur
trovandosi nel luogo in prima persona, e pur avendo con sé i taccuini, Celati
preferisce rifarsi alla descrizione topografica fornita dallo studioso francese. Lo
stesso, più o meno, accade quando va a Tombouctou, dove il posto gli pare
animato “di fantasmi” (163) perché tutta l‟esperienza è mediata dal testo di René
Caillé, Voyage à Tombouctou che Celati legge mentre si trova lì. Questi sono gli
esempi più manifesti di quanto i dettagli della lontananza culturale siano forniti in
modo talmente ampio e dettagliato che vederli in prima persona risulta quasi
inutile, perché si conoscono già i termini con cui la differenza si sviluppa, e
l‟esperienza viene svuotata del suo valore cognitivo. Non solo, la conoscenza che
precede influenza in questo caso l‟esperienza diretta dei luoghi. La delusione di
Celati di fronte ad un luogo che non gli presenta nulla di nuovo raggiunge forse il
suo culmine proprio mentre si trova nei villaggi Dogon: “Ma così poco esotico
questo posto” (78) (corsivo mio).
61
Marcel Griaule è stato uno degli etnografi più importanti della prima metà del Novecento, ed
uno dei maggiori fautori del field work. Benché oggi la metodologia antropologica ed etnografica
sia cambiata, i suoi studi sui Dogon sono tuttora considerati come fondamentali. Griaule era stato
un punto di riferimento anche per Moravia che, come si è visto nel secondo capitolo, cita più volte
il volume Maschere Dogon. Nel caso specifico, Celati non precisa quale libro di Griaule abbia
portato con sé, ma è probabile che il testo a cui fa riferimento sia proprio Maschere Dogon, o Le
renard pâle, i due volumi ritenuti i suoi due capolavori.
165
Il concetto di esotico, si è detto, presuppone un altrove, condizionato però,
dall‟esistenza di una realtà diversa. Altrove, infatti, non è semplicemente un
luogo, ma un luogo caratterizzato da una “radically different culture” (Bongie
146). La proiezione verso l‟altrove della possibilità di una vita migliore, non solo
non trova conferma nella realtà, ma viene delusa proprio dall‟altrove stesso: “da
quando siamo a Bandiagara mi si sono sgonfiate le visioni” (54). Se gli indigeni
sono ridotti a “comparse esotiche” (163), anche ciò che poteva essere autoctono
viene ora ricostruito secondo parametri che sono in fondo occidentali.
L‟architettura del centro di Medicina Tradizionale non è altro che “indiscriminato
esotismo africano, calato nella dura realtà del mattone industriale di massa.
Insomma una vera e propria USL della savana” (64-65); non stupisce allora che
Celati riporti che: “ „Son Centre ça fait un monument touristique, mail la
population ne bénéficie pas…‟ Sono scivolati nel borbottamento” (81). La
delusione di fronte a luoghi troppo poco esotici, fa prendere coscienza che, anche
rispetto all‟altrove, la diversità si sviluppa su di un livello diverso.
Benché molto di quello che Celati incontra sembri pervaso dal processo
uniformante che riporta tutto all‟occidente, il giorno prima della partenza, mentre
si trova in hotel, una scatola di fiammiferi con scritto sopra „un passo in più verso
occidente‟ (174) gli provoca la seguente riflessione:
Ma gli africani andranno verso l‟occidente? Diventeranno scomposti,
pedagogici, romantici, depressivi, maniaci del tutto sotto controllo?
Crederanno nella privacy, nelle vacanze, nei progetti, nella testa
proiettata nell‟avvenire e mai nel presente dov‟è? Si vergogneranno
della deperibilità dei corpi, del vecchiume, degli scarti, del rimediato,
dell‟aggiustato? Bandiranno il disordine naturale delle cose, il contatto
non legalizzato dei corpi le mescolanze del nuovo e del vecchio, del
fresco e del putrido? Meditazione notturna a Dakar… (174-75)
Il presumere che il futuro possa portare con sé alcuni degli aspetti meno
interessanti della civiltà occidentale, rende plausibile pensare che, attualmente,
alcune differenze fra Africa e occidente, siano ancora presenti. Queste
osservazioni ci riportano ancora una volta al problema centrale di Avventure in
166
Africa, quello di comprendere a che livello si sviluppi la diversità dato che essa
non riguarda più tanto l‟ambito culturale e non si risolve con l‟accumulo di
informazioni.
La conoscenza che precede l‟esperienza colma solo un aspetto del viaggio,
quello più cerebrale; ma anche in questo caso la risposta viene data
dall‟esperienza emozionale, dal sentire: “Ronzio nelle orecchie, stanchezza e
quieta esaltazione di essere qui” (90). Il viaggiatore Celati, preferisce muoversi
senza avere una meta fissa, ed è contento: “di andare in giro a vanvera” (126), per
avere la possibilità di sentire più che di capire: “La mia testa funziona a sbalzi, mi
fa vedere tutto meraviglioso oppure tutto malefico. […] Situazione da viaggio in
posti che disorientano. Si diventa turisti incantati anche senza volerlo” (46). È
inevitabile un ritorno all‟intuizione di Moravia sull‟abbandonarsi al viaggio; in
epoca contemporanea, questo diventa l‟unico modo per viverlo come esperienza
che può ancora essere considerata cognitiva. Abbandonarsi significa muoversi
senza avere percorsi troppo definiti, significa spostarsi senza aspettarsi nulla, ma
lasciare che il nuovo provenga dall‟esterno, dai luoghi visti e dalle persone
conosciute e soprattutto dalle esperienze fatte. Proprio a proposito dei villaggi
Dogon, che insieme alla “USL della savana” è forse il luogo che maggiormente ha
deluso Celati, emerge un elemento interessante. Benché non abbia imparato nulla,
scrive: “Ma ho un‟assurda nostalgia di quei posti, e Jean con me” (99). Non è un
caso che la nostalgia sia definita assurda. Quelli visitati non sono i suoi luoghi, e
il tempo limitato che vi hanno trascorso sembrerebbe non consentire un
sentimento quale, appunto, la nostalgia. Il viaggio non è servito a capire, ma a
sperimentare, e ciò che resta nella mente e nel corpo del viaggiatore non sono le
informazioni acquisite, ma il luogo stesso, che si è impresso a tal punto, da
divenire importante per la sua assenza. I frammenti di queste esperienze vissute
riemergono di tanto in tanto: “Mi torna in mente la bellezza dei campi di cipolle
che abbiamo visto, verdissimi, […] l‟uomo che mi ha fatto gli auguri, il maialino,
le galline, i bambini, la moglie sdentata sorridente, la birra di miglio bevuta con
Boubacar” (85). Quella sperimentata da Celati in Africa è una cognizione
emozionale che deriva dall‟esperienza fisica del viaggio. Riprendendo ancora una
167
volta quanto affermato da Merleau–Ponty, il corpo è il luogo della conoscenza,
muoversi fisicamente nel mondo diventa una modalità attraverso cui sviluppare
consapevolezza del sé e di quello che lo circonda. Se si dovesse ricapitolare che
cosa egli abbia imparato da questo viaggio, si sarebbe costretti ad usare la risposta
che lui stesso fornisce in chiusura di Avventure in Africa, e che ruota attorno ad un
paradossale “niente,” che diviene anche il fulcro della sua scoperta:
Andiamo in giro per Parigi e vediamo soltanto quest‟altro
documentario del nuovo totale, senza più niente di precario, di povero,
decaduto, rimediato, tarlato dal vento, scartato dal destino. È il
documentario della simulazione globale, senza luogo, senza campo,
che ci mostrano a titolo pubblicitario notte e giorno, dietro lo schermo
di vetro che abbiamo in dotazione per vivere da queste parti. Ma poi si
sa che quando uno è lasciato dietro un vetro, tende a sentire che gli
manca qualche cosa, anche se ha tutto e non gli manca niente, e questa
mancanza di niente forse conta qualcosa, perché uno potrebbe anche
accorgersi di non aver bisogno davvero di niente, tranne del niente che
gli manca davvero, del niente che non si può comprare, del niente che
non corrisponde a niente, il niente del cielo e dell‟universo, o il niente
che hanno gli altri che non hanno niente. (179)
La separatezza rispetto all‟esterno che Celati aveva avvertito appena arrivato in
Africa, non riguarda solo il rapporto con gli africani; lo stesso immaginario vetro
protettivo, se lo ritrova addosso anche quando è a Parigi. Questa separatezza è
diventata
una
condizione
costituente
dell‟uomo
contemporaneo,
indipendentemente dal luogo in cui trova. Il viaggio in Africa ha permesso a
Celati di realizzare che ognuno può essere l‟altro, e che luoghi, etnie e cultura
sono solo elementi che aiutano distinguere, ma non determinano l‟altro. Si
realizza allora che il vetro, mentre era in Africa, aveva a ben vedere lasciato
filtrare un importante niente.
168
Conclusioni
Concludendo, in questo capitolo, in cui è stato analizzato Avventure in
Africa, si è visto come alla fine del ventesimo secolo l‟incontro con l‟altro abbia
assunto caratteristiche paradossali. La facilità e la frequenza con cui oggi le
persone possono muoversi non garantiscono in realtà una maggiore facilità nella
relazione con culture estranee alla propria. Nel caso specifico del viaggio in
Africa di Gianni Celati, si è visto che di fatto proprio la numerosa affluenza di
turisti in Africa, ha favorito lo sviluppo e la creazione di stereotipi sui bianchi da
parte degli indigeni. Con questa tipificazione imposta a priori, si devono misurare
anche Gianni Celati e Jean Talon, che si trovano loro malgrado, nella condizione
di turisti. Questo aspetto è importante: i due europei si recano in Africa per girare
un documentario, ma appena arrivano saranno gli africani ad imporre loro
l‟identità del turista, e li tratteranno come tutti gli altri “bianchi in vacanza.” Al
problema di essere percepiti attraverso degli stereotipi, si aggiunge una questione
di tipo economico. I bianchi in Africa sono sfruttati economicamente, ma quello
che stupisce non è che gli africani cerchino di trarre profitto da un settore in
crescita, ma che lo facciano secondo i parametri dell‟economia occidentale. La
situazione in cui Celati viene a trovarsi è quindi estremamente complessa, e ad un
primo sguardo non presenta importanti elementi di novità, e di conseguenza
potrebbe sembrare sterile anche sul piano della relazione con l‟altro. Questo
aspetto è importante in questa sede, perché anche nel caso di Celati, il criterio
discriminante è dato dal rapporto che descrive con l‟alterità. Nel suo caso, però,
data la situazione oggettiva, il problema maggiore è capire a che livello si espleti
la diversità, e come agire per ridurre la distanza che separa il sé dall‟altro.
Avventure in Africa pone quindi un problema importante: l‟avvicinamento
all‟alterità, in epoca contemporanea, deve confrontarsi con le conseguenze di una
cultura, quella occidentale, così diffusa che sembra uniformare anche luoghi
lontani ed un tempo molto diversi fra loro.
L‟analisi sul testo di Celati ha evidenziato come l‟alterità africana oggi non
sia riducibile semplicemente a fatto culturale. Nel corso del suo viaggio lo
scrittore ha modo di incontrare numerose persone, e molte di queste gli danno
169
conferma di informazioni che egli aveva già acquisito prima di partire. Inoltre, se
in alcuni casi non capisce nulla di quello che gli sta intorno, in altri momenti
afferma che tutto gli sembra noto e riconducibile ad una situazione di tipo
coloniale, ora però ricreata a beneficio di turisti. In un primo momento la
relazione con gli africani sembra perciò svilupparsi in base a categorie negative
quali ad esempio lo sfruttamento economico e la banalizzazione culturale. La
diversità va quindi cercata altrove, e per Celati, il vero incontro si svilupperà più
sul piano emozionale che su quello culturale. Il rapporto con il diverso da sé, sarà
improntato proprio in questo senso, e la distanza che lo scrittore percepisce, e che
di fatto non attribuisce mai ad un unico ambito, verrà ridotta grazie alla
condivisione. Quest‟ultima diventa il motivo dominante della relazione che egli
riesce ad instaurare con alcune delle persone incontrate, relazione che è stata
definita significativa perché non si sviluppa come conferma di una presunta
conoscenza, ma come compartecipazione volta alla scoperta dell‟altro. La
condivisione temporanea di momenti e luoghi della vita di Batouly, ad esempio,
gli dà la possibilità di fare l‟esperienza diretta di un mondo che altrimenti gli
sarebbe rimasto estraneo. Questo avvicinamento alla diversità non gli permetterà
di comprenderla in ogni suo aspetto, ma basterà a ridurre la distanza che lo separa
da essa.
Con la conclusione di questo capitolo si apre idealmente il campo ad una
nuova problematica: se la funzione educativa del viaggio è messa in discussione,
se le linee di confine culturali del viaggiatore, sono già state rielaborate ed in
parte ridefinite prima della partenza, allora come deve essere vissuto il viaggio nel
XXI secolo? Diventa un momento di arricchimento solo a livello emozionale? Il
libro di Celati, quindi, pone un quesito ed una sfida, che è forse la sfida della
letteratura di viaggio nel terzo millennio, quello di capire se e come è ancora
possibile vivere il viaggio come un momento di sviluppo della conoscenza e
mezzo di avvicinamento al diverso da sé.
Conclusioni
Il percorso di ricerca proposto in questo studio mira all‟analisi e alla
comprensione delle modalità con cui è avvenuto l‟incontro con il diverso da sé in
Africa, ed il tipo di rapporto che ne è scaturito. Questo secondo aspetto è il fulcro
attorno al quale si è sviluppato il discorso, che mira ad indagare quali siano gli
sviluppi, in particolare sul piano etico, che sono conseguiti all‟incontro con
l‟altro. L‟analisi è stata svolta sulla base dei testi di viaggio di tre autori italiani,
Gaetano Casati, Alberto Moravia e Gianni Celati. A questi è stato aggiunto anche
Riccardo Bacchelli, che si è voluto trattare in ragione della sua riscrittura di Dieci
anni in Equatoria e ritorno con Emin Pascià di Gaetano Casati. La discussione si
è sviluppata principalmente su due piani: in primo luogo si è mirato a stabilire le
modalità con cui è avvenuto l‟incontro, occupandosi nello specifico delle
caratteristiche pratiche del viaggio. Sulla base di quanto emerso in relazione alle
circostanze dell‟incontro, è stato successivamente esaminato il rapporto che i tre
autori hanno stabilito con l‟alterità africana.
1.
Scelte di metodo
Casati, Moravia e Celati sono stati scelti per ragioni intrinseche, ovvero
determinate dal contenuto della loro produzione letteraria sull‟Africa; sia per
motivi estrinsechi, ovvero legati al momento storico in cui hanno vissuto e
viaggiato. Per questa ricerca, la dimensione storica è risultata rilevante perché
ognuno di questi autori è stato testimone di un importante momento della storia
africana: la colonizzazione, l‟inizio del processo di de-colonizzazione, ed infine,
in epoca contemporanea, il suo completamento e l‟inizio di una difficile
autonomia e, in qualche caso, di un periodo di neo-colonialismo. Le motivazioni
inerenti l‟aspetto prettamente letterario, e quelle che rimandano ad un prospettiva
a più largo raggio storico e sociale si intersecano nei testi perché questi ultimi, pur
trasmettendo il soggettivo punto di vista degli autori, sono anche lo specchio di
una cambiata situazione politica ed economica in Africa. La contestualizzazione
storica era inevitabile in questo studio in quanto le mutate condizioni politiche ed
171
economiche della realtà africana emergono dagli scritti stessi e benché
indirettamente, sono un elemento di peso nel rapporto con l‟altro. I testi, infatti,
mettono in evidenza quanto e come sia mutato, lungo il periodo esaminato, non
solo il rapporto, ma il modo con cui ci si avvicina all‟alterità.
Per quanto concerne le modalità dell‟incontro/scontro, le vicende di Casati,
Moravia e Celati, sono state inserite all‟interno di un paradigma teorico che
considera Marco Polo e Cristoforo Colombo quali modelli di due opposti modi di
viaggiare e di affrontare il diverso incontrato in viaggio. Marco Polo, si è visto,
rappresenta il viaggiatore curioso e aperto, che pur muovendosi per fini
commerciali, vive il viaggio soprattutto come un momento di arricchimento
culturale. Cristoforo Colombo, invece, è assorbito dai risvolti economici e dalle
possibilità di dominio territoriale conseguenti alla sua scoperta, e questi
divengono l‟unico parametro attraverso il quale egli legge ogni elemento di
novità.62
Si sono considerati questi due viaggiatori, oltre che per il diverso
atteggiamento con il quale si sono rapportati all‟altro, anche perché hanno definito
le due opposte modalità del viaggio, ovvero quella del viaggio attraverso, come
nel caso di Marco Polo, e quella del viaggio verso, come accade invece con
Colombo. Questa fondamentale distinzione si è continuamente ripresentata nel
corso della discussione anche se formulata attraverso i termini viaggiare o
spostarsi, e viaggiatore o turista. A prescindere da come la distinzione venga
enunciata, ad essere discriminante è l‟atteggiamento mentale di chi lascia il
proprio paese, e con esso anche la propria cultura, per visitare luoghi e
popolazioni che gli sono estranei. Si è detto che viaggiare, o essere un viaggiatore
piuttosto che un turista, significa vivere il viaggio come un‟esperienza molto
ampia, non limitata al luogo di destinazione e durante la quale si viene a creare
una tensione fra le proprie strutture culturali e quelle che si incontrano nel paese
in cui si viaggia. Il risultato di tale tensione, per essere interessante, deve avere
segno positivo, ovvero ne deve conseguire un arricchimento cognitivo ed emotivo
62
Il paradigma proposto, come chiarito nel primo capitolo, vale solo a livello teorico, nel senso
che si considerano i due viaggiatori solo come due figure modello, senza occuparsi delle questioni
più prettamente letterarie o filologiche sollevate dai loro testi.
172
in chi compie il viaggio. I testi odeporici più riusciti, soprattutto in epoca
contemporanea, sono quelli in cui il protagonista mette in gioco il proprio mondo
per adeguarlo a quello che incontra durante il viaggio. Quanto avviene a livello
emozionale, ovvero non intellettuale, è quindi altrettanto determinante, nella
narrativa di viaggio, di quanto avviene nel mondo oggettivo in cui si compie lo
spostamento fisico. Northrop Frye in Anatomy of Criticism, ha rilevato che il tema
principale delle narrazioni di viaggio riguarda i limiti della coscienza, mentre
passa da un mondo ad un‟altro, o mentre è contemporaneamente cosciente di
questi due mondi. La dimensione cognitiva nelle narrazioni odeporiche si rivela
essere una costante che si spiega solo se si considera il viaggio come momento
dialettico, e non solo in relazione all‟aumento di informazioni che può fornire su
un luogo. La presa di contatto con luoghi diversi non si risolve nell‟accumulo di
dati, ma in una modificata percezione della realtà che è il risultato di un lavoro di
mediazione fra il noto, la cultura a cui il viaggiatore sente di appartenere, e
l‟ignoto, ovvero quello che incontra durante lo spostamento. Questo aspetto
spiega perché il viaggio assuma facilmente un valore simbolico; non è un caso
quindi che in letteratura sia questa la dimensione con cui ci si confronta più
spesso.
Proprio in relazione all‟ambito letterario, Marco Polo e Cristoforo Colombo
si sono scelti oltre che per l‟eccezionalità della loro esperienza, anche perché sono
i due rappresentanti più significativi della tradizione odeporica italiana, alla quale
si ricollegano i testi degli autori qui trattati. Casati, Moravia e Celati hanno fatto
in prima persona l‟esperienza dell‟Africa e della diversità che vi si può incontrare.
I loro libri sono la resa testuale di un‟esperienza personale in cui la problematica
della rappresentazione dell‟altro viene affrontata con modalità differenti. Casati,
con la sua permanenza presso alcune tribù africane era stato involontariamente un
antesignano del fieldwork, ma già Moravia percepisce tutta l‟intrusività e la
soggettività delle metodologie degli antropologi contemporanei. Celati, infine,
con scetticismo ed ironia chiude questo percorso ideale affermando che oggi gli
antropologi dovrebbero farsi carico di studiare i turisti, in quanto sono divenuti
una vera e propria popolazione con tanto di lingua, l‟inglese, ma soprattutto con i
173
“propri modi di vestire, mangiare, viaggiare” (Avventure in Africa 163). La
sarcastica provocazione colpisce nel segno perché in effetti per gli antropologi è
venuto meno il campo di studi inteso in senso tradizionale: le zone più isolate del
pianeta, e con esse i loro abitanti, non sono più né sconosciute né irraggiungibili.63
Nel contesto di questa evoluzione, è stato quindi fondamentale riflettere su come
siano cambiate le modalità con cui ogni autore si è spostato in Africa e si è
rapportato alle popolazioni da lui incontrate.
2.
L’incontro/scontro con l’alterità
Gaetano Casati era andato in Africa nella seconda metà del 1800 per una
missione esplorativa ed era stato fra gli ultimi a poter fare l‟esperienza di
un‟Africa ancora sconosciuta. La morte di colui che doveva fargli da guida lo
costrinse a muoversi nel Sudan meridionale in una condizione di quasi totale
isolamento, obbligandolo a restare per lunghi periodi a diretto ed unico contatto
con le tribù africane che incontrava. Questa situazione anziché scoraggiarlo fece
scaturire in lui un vero e sincero interesse per il continente nero e i suoi abitanti.
La convivenza con loro, unita all‟apertura e alla disponibilità verso ciò che non
conosceva si tradussero presto in una progressiva comprensione delle culture
africane di cui poté fare l‟esperienza diretta. Dieci anni in Equatoria è stato scelto
anche perché l‟avventura di Casati è unica nel panorama italiano della letteratura
odeporica. Il suo viaggio in Africa, le sue modalità di approccio al diverso e la
relazione con l‟altro che riuscì a stabilire sono testimonianza di un interesse che
soverchia tutti i dogmi e i pregiudizi sull‟Africa e sugli africani che in quegli anni
animavano molti esploratori. Queste prerogative, si è detto nel primo capitolo,
hanno reso Gaetano Casati una voce fuori dal coro. Della peculiarità ed unicità
della sua testimonianza si accorse anche Riccardo Bacchelli che nella prima metà
del Novecento si ispirò ad esso per scrivere Mal d’Africa. Il romanzo di Bacchelli
63
Questa problematica è uno dei principali spunti di riflessione del volume Routes di Clifford. In
particolare egli considera come, con le società multietniche, stiano cambiando anche le
metodologie antropologiche. Ad esempio, vanno ridefiniti i confini della zona considerata come
fieldwork, perché in alcuni casi per svolgere l‟attività antropologica non serve cambiare
continente, ma basta spostarsi di quartiere. Questa nuova realtà apre evidentemente il campo ad
una vasta serie di problematiche, che non afferiscono unicamente all‟antropologia.
174
banalizza Dieci anni in Equatoria riducendolo a romanzo-stendardo di ideali
nazionali se non propriamente fascisti. Quello che aveva reso Casati una voce
singolare viene meno con Bacchelli che fa dell‟Africa solo uno specchio su cui
proiettare una fittizia identità italiana.
Alberto Moravia, di cui ci si occupa nel secondo capitolo è particolarmente
sensibile a quest‟ultima problematica, ovvero ai presupposti ideologici e ai
rapporti di potere fra Africa ed Europa. I suoi frequenti viaggi nel continente nero
sono animati da un profondo interesse per l‟Africa ma anche dalla consapevolezza
di quanto la cultura europea sia invasiva. Per questa ragione Moravia sceglie il
criterio della distanza per relazionarsi all‟altro. La sua scelta, però, non è priva di
contraddizioni in quanto viene da chiedersi in primo luogo se sia possibile una
relazione laddove ci sia la distanza. Nel caso di Moravia questo problema è
parzialmente risolto perché non si tratta tanto di mantenere una distanza fisica,
quanto piuttosto di conservare una separatezza culturale ed intellettuale. Egli si
abbandona al viaggio, ovvero sceglie di andare in Africa e di vivere sul proprio
corpo tutte le esperienze che l‟Africa gli consente di fare. Benché non lo cerchi,
non evita il contatto fisico con gli indigeni. Quello che Moravia sembra voler
eludere è il dialogo con essi, ovvero una relazione che vada oltre la sfera della
fisicità. Le problematiche che questo atteggiamento fa sorgere sono complesse, ed
è certo opinabile il tipo di relazione da lui instaurato. Il suo modo di relazionarsi
all‟altro si potrebbe certamente leggere in un‟ottica modernista: l‟uomo
civilizzato va nel continente primitivo per esperire quello che l‟Europa non è più.
In Moravia c‟è anche una componente di questo tipo, ma il principale motivo per
cui egli sceglie di non relazionarsi in modo più profondo all‟altro è proprio la
necessità di mantenere la distanza per non distruggere l‟alterità stessa. In altre
parole egli preferisce guardare l‟altro restandogli lontano per avere la certezza che
la diversità è ancora possibile, che l‟omologazione culturale e la massificazione
non hanno intaccato ogni luogo.
Con un‟Africa sempre più omologata si deve confrontare invece Gianni
Celati, il cui Avventure in Africa è l‟oggetto di discussione nel terzo capitolo. La
situazione che si trova a vivere Gianni Celati è completamente nuova e molto
175
diversa rispetto a quella degli scrittori trattati precedentemente. Egli non si deve
confrontare con gli stereotipi culturali che gli europei hanno nei confronti africani,
ma con la situazione inversa. Fin dal suo arrivo egli è catalogato in una tipologia
umana, quella del turista, che gli africani sono abituati a riconoscere e sfruttare.
Durante il suo viaggio nell‟Africa occidentale Celati si dovrà confrontare con un
paese che assomiglia sempre di più all‟occidente e sempre meno all‟Africa
idealizzata o primitiva tramandata da stereotipi e luoghi comuni. La relazione con
l‟altro sembra essere irrimediabilmente compromessa perché più che conoscere
l‟altro sembra resti solo la possibilità di ri-conoscerlo. Celati è il primo dei
viaggiatori esaminati che si rende conto che l‟alterità va cercata ad un diverso
livello. Il contatto è facilmente realizzabile, ma è difficile comprendere come si
possa sviluppare la relazione con l‟altro. Lo scrittore intuisce che vi sia una
distanza, che non è semplicemente culturale, benché non sappia individuare a
quale campo appartenga. Uno dei modi di colmarla, almeno parzialmente, è
quello della condivisione. Attraverso la partecipazione attiva, fisica, alla vita
dell‟altro, Celati trova il modo di porre in essere una relazione significativa
perché tesa a vivere direttamente momenti della vita dell‟altro. Senza cercare
conferme rispetto alle sue precedenti conoscenze sull‟Africa, lascia che sia
l‟esperienza diretta ad informare il suo rapporto con gli africani.
Casati era stato un esploratore, quindi uno dei pochi europei dell‟epoca che
aveva avuto la possibilità di vedere il continente nero. A prescindere dalle sue
insolite vicende personali, perciò, tutto, nel suo caso, era stato straordinario.
Prima con Moravia e poi con Celati, però, si è assistito ad una progressiva
attenuazione della componente di esclusività. Questo elemento non pertiene più
né alla destinazione, in quanto la geografia del continente africano è nota, né alle
modalità del viaggio, probabilmente riconducibili a qualche tipologia di turismo,
né, infine, al viaggiatore stesso, anch‟esso riconoscibile in qualche categoria
turistica. Quanto accade ad Alberto Moravia prima e a Gianni Celati poi si può
leggere proprio in questa ottica, ovvero come una progressiva definizione del
viaggio come situazione tipicamente consumistica. Si è visto nel capitolo su
Celati, infatti, che con il turismo di massa il viaggio non è più un momento in cui
176
il soggetto si apre alla conoscenza, rivolgendosi verso l‟esterno, ovvero verso
l‟altrove e l‟altro, ma vive lo spostamento come un evento esclusivamente
personale, trovando in esso la soddisfazione di un bisogno che spesso non ha
nessuna diretta relazione con il luogo visitato. Rispetto al viaggio raccontato da
Gaetano Casati, perciò i testi degli altri due autori testimoniano una progressiva
difficoltà nel realizzare una relazione con gli africani.
Moravia è consapevole che viaggiare è un‟arma a doppio taglio, perché la
voglia di conoscere e vedere non è esente da una componente invasiva della
quotidianità dell‟altro. Preferisce evitare ogni forma di comunicazione che non sia
assolutamente necessaria, e anche quando ha la possibilità di instaurare un dialogo
che vada oltre la mera funzionalità del momento, egli opta per il silenzio e la
distanza. Si limita a guardare l‟altro e ascoltare le proprie sensazioni senza cercare
di avvicinarsi per non corrompere la possibilità stessa della diversità.
Nel corso del secondo capitolo, tuttavia, si è evidenziato che lo scrittore si
recava in Africa almeno una volta all‟anno, frequenza che ipoteticamente avrebbe
dovuto consentirgli una maggiore familiarità con luoghi e persone. Questo non
avviene per esplicita volontà dello scrittore che vede nel distacco l‟unico mezzo
per poter preservare l‟identità culturale di ognuno. La quasi eccessiva discrezione
con cui Moravia si muove rispetto agli africani, è in parte anche frutto di
un‟atmosfera culturale che cominciava a risentire delle conseguenze della postcolonizzazione e della ridefinizione dei rapporti di potere. Nel corso degli anni
successivi si è venuta a creare una situazione paradossale, il cui apice è stato
descritto in modo esemplare in Avventure in Africa. Il turista raccontato da Gianni
Celati è suo malgrado costretto in un gioco delle parti che non gli permette di
avere con gli autoctoni, un rapporto che non sia pregiudicato. Si instaura una
dinamica di finto riconoscimento, sia da parte delle persone del luogo, che nei
bianchi vedono solo una fonte di guadagno, sia da parte dei turisti che spesso,
durante il viaggio, sono più interessati all‟esotismo che a un contatto diretto e
vero con la cultura del luogo. Il viaggiatore che vuole veramente avvicinarsi
all‟altro, deve perciò superare una barriera fatta di luoghi comuni e tipificazioni
che gli presentano una finta diversità modellata ad uso e consumo del turista.
177
Per Moravia e Celati questo stato di cose si traduce in indifferenza o
delusione. Moravia è palesemente disinteressato nei confronti della modernità
africana, perché la riconosce come fenomeno di matrice europea. Tuttavia lo
scrittore aveva incontrato in Africa ció che cercava: “Au fond de l‟inconnu
chercher le nouveau.” Dopo il primo viaggio, è possibile riconoscere
nell‟approccio di Moravia all‟Africa, una componente teleologica: la prima visita
gli aveva fatto fare l‟esperienza del primitivo in una dimensione percepita come
astorica, e i viaggi successivi sono intrapresi proprio nell‟ottica di ritrovare tali
sensazioni. Questo però avviene a scapito della complessità culturale dell‟Africa
stessa, argomento che, come si è visto, Moravia preferisce non affrontare. Negli
ultimi anni, forse anche in conseguenza delle dimensione che il fenomeno ha
assunto, il turismo è considerato come momento le cui possibilità vanno oltre le
sue ovvie componenti sociali ed economiche. La dimensione culturale che ogni
viaggio porta con sé è divenuta una variabile che, anche quando si tratti di turismo
di massa, va presa in considerazione perché è comunque un momento in cui si
crea un contatto con una cultura estranea.
Gianni Celati si trova involontariamente coinvolto in questo tipo di
dinamica. Va in Africa alla fine del secolo ed è costretto a confrontarsi con la
delusione del turista contemporaneo ai cui occhi non si presenta niente di
veramente nuovo. Al contrario la quotidianità africana gli sembra sempre più
plasmata sul modello occidentale. In Celati questa mancanza di diversità provoca
una frequente sensazione di delusione; al viaggiatore rimane solo la possibilità di
fare l‟esperienza in prima persona di cose e situazioni di cui era già a conoscenza
ancor prima di partire. L‟unica situazione ad essere davvero nuova e diversa, è
proprio la condizione di turista che l‟autore si trova a vivere, e che proprio per
queste caratteristiche di novità e diversità scatena l‟attenzione dello scrittore.
Come detto proprio in relazione a Gianni Celati, lo spostamento verso l‟Africa
non è più vissuto nella sua potenzialità di viaggio di scoperta, come invece era
accaduto per Casati, ma come momento di conferma, durante il quale si ha solo la
possibilità di riconoscere piuttosto che di conoscere. Il volume di Celati mette in
luce un fenomeno tipicamente contemporaneo mostrando come la diversità si
178
sposti su un diverso livello dell‟esperienza. L‟altro deve essere percepito e in un
certo senso “vissuto,” in quanto il semplice riconoscimento non basta a spiegare
come essa in realtà si sviluppi.
È utile, a questo punto, riprendere brevemente la precisazione che si è
operata, a questo proposito, nell‟introduzione: la delusione del viaggiatore non è
tanto dovuta al fatto di non trovare la diversità, ma piuttosto di non sapere come
rapportarsi ad essa. Più precisamente, il disappunto è dovuto alla consapevolezza
di essere di fronte ad una cultura diversa rispetto alla propria, alla quale però non
si riesce ad accedere perché la diversità stessa tende a mascherarsi dietro una
patina di occidentalizzazione o, peggio ancora, di spettacolarizzazione. Mancano i
criteri per costruire un rapporto che elimini l‟esotismo dalla rappresentazione
culturale e con esso annulli, o meglio, attenui, significativamente il ruolo di
un‟ideologia dominante. Il vero problema consiste quindi nel trovare nuove
modalità di approccio e nuovi criteri su cui basare la rappresentazione. Questa
problematica introduce il secondo livello su cui si è sviluppata l‟analisi: quello
relativo al tipo di rapporto che si è messo in atto con l‟alterità.
3.
La relazione con l’alterità
I libri di Casati, Moravia e Celati tracciano un percorso che ad un primo
livello potrebbe essere considerato come evolutivo: da una minima conoscenza
del territorio e dei suoi abitanti, ad un assiduo movimento di italiani che si recano
in Africa per svariate ragioni. La quotidianità degli scambi potrebbe far pensare
ad una maggiore conoscenza e quindi ad una migliorata relazione con l‟altro
africano. Il percorso che si è venuto delineando, inoltre, potrebbe essere
interpretato in senso evolutivo anche sul piano sociale. All‟ottica blandamente
civilizzatrice di Casati si sostituiscono prima un interesse per la diversità vissuto
attraverso il distacco, poi la volontà di divenire parte della vita dell‟altro e,
viceversa, desiderare che l‟altro entri a far parte della propria esperienza di vita.
Questo modo di guardare alla relazione con l‟altro, descritto nei testi considerati,
non è completamente falsato, ma in realtà il percorso si è rivelato molto più
complesso e ricco di sfumature di quanto non si potesse intuire ad una prima
179
considerazione; la qualità della relazione infatti non è direttamente proporzionale
alla frequenza dei contatti fra europei ed africani, o all‟interesse dei primi nei
confronti dei secondi. I testi, al contrario, hanno mostrato che le relazioni con gli
autoctoni sono rese più intricate proprio dagli stereotipi culturali che la modernità
ha contributo a diffondere.
Va precisato che questo studio ha contribuito a mettere in luce solo alcune
delle diverse possibilità di relazione che si possono creare durante il viaggio,
ovvero quando si ha l‟occasione di rapportarsi ad una cultura più o meno lontana
dalla propria. Gli esempi considerati non esauriscono le modalità con cui ci si può
avvicinare all‟altro, ma è stato interessante trattare questi autori in quanto il loro
atteggiamento nei confronti di ciò che hanno incontrato in Africa si è rivelato
analogo, benché al momento della realizzazione del viaggio, e soprattutto della
relazione con l‟altro, i risultati siano stati dissimili. Per quanto la discussione si
sia focalizzata sugli aspetti etici del rapporto con l‟altro, e quindi abbia posto
grande attenzione allo svolgersi pratico della relazione con gli africani descritta
dai tre autori, ad essere risultato determinante in funzione stessa del rapporto, non
è stato solamente il viaggio in sé, ma le modalità secondo cui si è svolto. In altre
parole, non è stato che cosa hanno visto che ha dato luogo ad un preciso tipo di
relazione, ma come lo hanno visto; Casati, Moravia e Celati sono accomunati
dall‟interesse nei confronti delle popolazioni incontrate in viaggio, interesse che
viene esplicitato chiaramente nei loro testi ma che è vissuto, sul piano pratico, in
modo molto diverso.
Ciononostante, all‟interno del quadro tracciato si riconoscono dei momenti
in comune fra i tre autori, quasi un filo rosso che ha costituito un po‟ la traccia
fondamentale della problematica posta alla base di questo studio, ovvero quale sia
il rapporto instaurato con gli africani e in base a quale approccio. Si è visto che il
loro avvicinamento all‟alterità, indipendentemente dalle modalità con cui si è
realizzato e dagli esiti che ne sono conseguiti, è stato inserito in un‟ottica di
arricchimento personale sul piano dell‟esperienza e su quello culturale. I tre autori
hanno viaggiato in modi e con tempi molto diversi fra loro, visitando luoghi più o
meno estesi, fermandosi per periodi di tempo diversi e acquisendo differenti
180
conoscenze dell‟Africa e dei suoi abitanti. Tutti e tre, però, si sono abbandonati al
viaggio, vivendolo come un‟esperienza che si sviluppa dal momento stesso in cui
si parte, che concerne ogni istante dello spostamento, non esaurendosi nella
località di destinazione o nella modalità della vacanza esotica. Tutti, inoltre, anche
se non sempre per scelta, si sono spostati attraverso l‟Africa con mezzi che hanno
permesso loro un contatto diretto con la realtà visitata, optando per una modalità
del viaggio che lasciasse spazio alle sensazioni e percezioni personali suscitate dai
luoghi visitati. Il loro abbandonarsi al viaggio si è realizzato in primo luogo
nell‟esperienza fisica dell‟Africa e dell‟altro africano. Il corpo diventa un luogo di
produzione di conoscenza, il luogo in cui l‟esperienza si compie e fa diventare il
viaggio un momento cognitivo. Un luogo attivo, quindi, non più ricettivo in senso
passivo, ma aperto e pronto ad accogliere la diversità. Questo modo di viaggiare è
quello che ha consentito, ad ognuno di loro in modo diverso, un approccio molto
personale all‟alterità.
Prima di concludere è doveroso accennare brevemente a quella che è
percepita come la civiltà assolutamente “altra” rispetto all‟occidente, ovvero
quella mussulmana. Non si tratta necessariamente di un‟impostazione preconcetta
della relazione, e non è nemmeno un pregiudizio a priori basato su un‟idea di
superiorità razziale o culturale. Nel caso di Gaetano Casati, a giustificare la
distanza contribuiva soprattutto la rivalità per ottenete il dominio territoriale ed
economico della zona attorno all‟Equatore. Per Moravia e Celati, invece, le
questioni economiche e territoriali non operano nessun tipo di influenza sul piano
della ricezione culturale. Come si è dimostrato nel corso della discussione, si
tratta in entrambi i casi di intellettuali aperti e curiosi di fronte a ciò che non
conoscono. Tuttavia, nel momento in cui si confrontano con la cultura e la
religione mussulmana entrambi confessano la propria incapacità a comprendere.
Quest‟ultima non viene motivata se non in forma tautologica, ovvero affermando
che la cultura islamica è sentita come troppo diversa per essere compresa.
181
4.
Il viaggio: crisi di un archetipo
Nell‟introduzione ci si è soffermati sull‟archetipo del viaggio, sottolineando
come la funzione di auto-definizione non sia meno importante di quella relativa
alla scoperta;64 si è visto come queste due componenti si sovrappongano e si
intersechino divenendo un elemento ineludibile dello spostamento, a prescindere
da quando viene effettuato. In epoca contemporanea, tuttavia, si assiste ad una
sostanziale e definitiva modifica in questo senso. Si è già detto che il viaggio non
può più essere finalizzato alla scoperta geografica; oltre a questo, però, sembra
venire meno anche qualsiasi possibilità legata al processo di ridefinizione di quelli
che si considerano i propri parametri culturali. Il viaggio è diventato
un‟esperienza comune, l‟altrove raramente è considerato un luogo sconosciuto e
l‟altro è il rappresentante di una cultura che è quasi sempre già parzialmente nota
prima di partire. Ciò avviene soprattutto in conseguenza della crescente
globalizzazione, sostantivo che, come chiarito nel terzo capitolo, viene usato nella
sua accezione più comune, ovvero intendendo la progressiva uniformazione
culturale, oltre che economica. Agli occhi del viaggiatore non si presenta nulla di
nuovo, perché ciò che non gli è direttamente familiare, gli è comunque noto
grazie ai diversi mezzi di comunicazione, che, combinati con gli aumentati
spostamenti, agevolano la diffusione di informazioni. Non è insolito, perciò, che
alcune specifiche caratteristiche relative alla meta di un viaggio, siano già
parzialmente note attraverso letture, la televisione o internet, e che quindi se ne
faccia l‟esperienza sensibile solo in un secondo momento. Inoltre se i luoghi
restano distinti da precise caratteristiche geografiche e territoriali, le peculiarità
culturali che in passato li avevano contraddistinti sono indebolite e sembra si
stiano progressivamente perdendo.
Il venire meno della componente di eccezionalità del fare un viaggio ha
conseguenze importanti soprattutto sul piano cognitivo, perché mette in
discussione quali siano, oggi, le potenzialità del viaggio stesso in questo senso.
64
Solo a titolo informativo, vale la pena ricordare che Toni Maraini, nella bandella del suo ultimo
libro Lettera da Benares, riporta l‟espressione usata da suo padre, Fosco Maraini, il quale diceva
che durante i viaggi si esplorano “esocosmi ed endocosmi,” ovvero mondi che sono dentro e
mondi che invece si trovano all‟esterno del viaggiatore. Purtroppo non sono riuscita a reperire
l‟originale collocazione della citazione.
182
Lungo tutta la discussione si sono enfatizzate le possibilità di crescita personale e
culturale, che da sempre sono associate allo spostamento. Si è sostenuto, in
particolare, che il valore cognitivo del viaggio dipende in buona parte dal tipo di
dinamica che il soggetto è disposto a mettere in atto con l‟altro che incontra. Nella
contemporaneità, però la tensione fra noto e ignoto si è affievolita e il rapporto
con il diverso da sé è caratterizzato da dinamiche dagli aspetti controversi.
Rispetto ai viaggi medioevali e rinascimentali, il problema dell‟alterità oggi ha
spostato il suo asse di interesse: non è più necessario conoscere o riconoscere la
diversità, ma capire che tipo di rapporto si può, o si vuole, instaurare con essa.
Per questo motivo, gli odierni studi che si occupano di letteratura di viaggio
si sviluppano in particolare attorno ai problemi della rappresentazione culturale e
delle conseguenze epistemologiche che derivano dagli spostamenti. Questo studio
si è mosso precisamente in questa direzione. Gli scritti qui trattati hanno
evidenziato un‟evoluzione nel concetto e nelle modalità del viaggio, soprattutto in
relazione all‟atteggiamento con cui ci si rivolge a chi si percepisce come diverso.
Si è detto della progressiva diminuzione dell‟eccezionalità dell‟esperienza del
viaggio e dalla correlativa perdita del suo valore etico.
Anthony Appiah evidenzia che comprendere non significa condividere il
presupposto culturale determinante l‟azione, ma solo giustificare secondo i propri
parametri culturali un comportamento che non si riconosce come proprio. Per non
banalizzare e appiattire tutto sotto il cappello della dicitura “relativismo
culturale,” quindi, va riconosciuto che si è oggi di fronte ad una situazione
estremamente articolata e certamente ancora in progress. Azzardando
un‟interpretazione di un passo di La persona di Paul Ricoeur, si può affermare
che la società contemporanea si trova a vivere un momento di crisi. Si tratta però
di un concetto, in questo caso, visto come momento positivo: “Percepire la mia
situazione come crisi significa non sapere più qual è il mio posto nell‟universo.
[…] Vedersi come persona desituata [déplacée] è il primo momento costitutivo
dell‟attitudine persona. Aggiungiamo anche questo: non so più quale gerarchia
stabile di valori può guidare le mie preferenze” (29).
183
L‟uomo contemporaneo si deve confrontare proprio con una realtà che sta
vivendo un processo di ridefinizione. I posti assegnati alle diverse realtà culturali
nei secoli scorsi, non corrispondono più esclusivamente a luoghi geografici,
vanno ridefinite le modalità dello scambio e vanno rivisti i criteri che regolano i
rapporti culturali. Inoltre, continuando sulla linea di Ricoeur, vanno cambiate le
gerarchie di valori che dovranno regolare i rapporti umani nella società che
nascerà da questa crisi. In questo senso, particolarmente interessanti sono i
taccuini di Celati, che aprono il campo ad un problema che si è presentato solo in
tempi molto recenti e che riguarda il luogo dell‟incontro; quest‟ultimo, infatti,
oggi non avviene più solamente nell‟altrove, ma anche nella quotidianità vissuta
nel proprio paese di appartenenza. La condivisione, allora, non richiede
necessariamente uno spostamento, al contrario può essere facilitata dai flussi
migratori verso l‟Italia. Al contempo, però, questa situazione molto fluida per
quanto concerne gli spostamenti, contribuisce a nutrire la sensazione di essere desituati rispetto al contesto; il senso di appartenenza ad una specifica comunità non
si identifica più, con il concetto di nazione, e la diversità non si riferisce solo
all‟altrove, ma anche alla realtà sociale e culturale di cui si è parte integrante.65
Questo studio ha messo in luce come siano cambiate le motivazioni e le
modalità del viaggio e come, in parte in conseguenza di questo, sia cambiato il
modo di vivere l‟incontro e la relazione con il diverso da sé. Più precisamente, si
è riflettuto su come sia cambiato il rapporto con l‟alterità fra la fine del XIX e la
fine del XX secolo. Si assiste, lungo questo esteso arco di tempo, ad una crescente
complessità nell‟approccio, nel rapporto e nella descrizione. Nella prima metà del
Novecento la trasmissione culturale era fondamentalmente monocorde, perché
affidata in modo univoco all‟Europa; in seguito alla decolonizzazione e alle
crescenti dimensioni della cultura di massa, le nazioni che in precedenza vivevano
una colonizzazione anche sul piano culturale, hanno acquisito voce e potere di
rappresentazione. In altre parole, i popoli che vivono nei territori un tempo
65
È opinabile del resto che comunità culturale e nazione si identifichino. In „What is a Nation‟
contenuto in Nation and Narration Ernest Renan prende in esame la complessità del concetto
stesso di nazione prendendo in esame diverse componenti che si ritengono formative di una
nazione.
184
colonizzati, che per anni erano stati raccontati solo in modo indiretto, ovvero da
un‟altra cultura, dalla seconda metà del Novecento hanno cominciato a far sentire
la loro voce, dando così inizio ad un processo culturale che ci vede tuttora
protagonisti. 66 Questa non è una tesi sulla de-colonizzazione dell‟Africa, ma si è
spesso fatto riferimento alla teoria post-colonial perché nel panorama culturale
contemporaneo è inevitabile l‟influenza di tale approccio quando si trattino
argomenti quali il viaggio e la relazione instaurata con chi appartiene ad una
cultura diversa dalla propria.
5.
Alcune domande ancora aperte
In chiusura, conviene riprendere la domanda che aveva concluso
l‟introduzione: il viaggio, nel XXI secolo, può essere ancora vissuto come un
momento cognitivo? Nella contemporaneità è ancora possibile “scoprire”
attraverso il viaggio, o si è piuttosto condannati ad andare verso un progressivo riconoscimento? Dato che la scoperta geografica non è più contemplabile di che
natura sarà il “nuovo” che il viaggiatore potrà incontrare? Nella prospettiva del
soggetto di questa ricerca, però, le domande poste servono solo a guidare la
riflessione verso la problematica che maggiormente mi interessa: il viaggio sarà
ancora il momento in cui si incontra l‟altro, ovvero chi è culturalmente diverso?
Non basterà invece recarsi in uno dei tanti quartieri-ghetto per immigrati, che
stanno diventando sempre più numerosi anche in Italia? La propria nazione può
essere considerata alla pari dell‟altrove in cui avveniva l‟incontro nel passato? E
in caso di risposta affermativa, quello che si incontrerà sarà davvero diverso, e
con quali modalità? Come si può vedere il numero dei quesiti è potenzialmente
infinito per le innumerevoli sfumature che caratterizzano la problematica qui
discussa. Una risposta sicura o univoca non è quindi possibile, ma si possono
proporre delle ipotesi.
Il viaggio resterà una delle ineliminabili attività dell‟uomo, che sembra
destinato a muoversi sempre di più e sempre più velocemente. Come cambierà la
66
Salman Rushdie in The Satanic Verses, significativamente uno dei libri più controversi del
nostro secolo, scrive: “They describe us […]. They have the power of description, and we
succumb to the pictures they construct” (168).
185
funzione del viaggio in questo contesto è difficile da anticipare, ma certamente si
assisterà sia ad una ridefinizione concettuale del viaggio, sia delle modalità in cui
esso viene vissuto. Resta augurabile, comunque, che una delle due funzioni
archetipiche del viaggio, quella relativa all‟auto-determinazione, non venga meno
e che esso mantenga tutte le sue potenzialità di definizione o ridefinizione della
soggettività. Se si dovesse arrivare infatti ad una specie di stasi in cui viaggiare
corrisponde semplicemente ad uno spostamento fisico che non ha nessuna
rilevanza cognitiva, allora si sarebbe giunti ad un punto morto anche della storia
dell‟uomo.
Sul piano dell‟alterità, credo sia indubitabile ormai che ogni nazione è
potenzialmente un luogo d‟incontro con la diversità culturale, ma lo sviluppo
relazionale che scaturisce da questo incontro, e quindi anche i risvolti etici che ne
conseguono, sono tutti da indagare. È auspicabile, riprendendo il cuore delle
teorie di Lévinas e Ricoeur, che la scoperta dell‟altro, del diverso, diventi uno dei
valori nuovi che emergono dallo stato di crisi in cui viviamo, e sui quali si fonderà
la nostra prossima contemporaneità.
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